
Torquato Tasso
La «polemica» che prese l’avvio (a proposito della Liberata e del Furioso) quando Tasso era ancora in vita e poi continuò anche in pieno Seicento fino ad arrivare alle aspre e negative Considerazioni al Tasso di Galilei (di cui lamenta la povertà concettuale, la ridondanza, l’eccessiva favolosità), ci dà l’esatta dimensione delle alterne e contrastate vicende cui fu sottoposta la «fortuna», critica e non, del Tasso. La sua opera e la sua vita hanno destato un interesse che, dal Manso al Solerti, fino all’agiografia romantica alle indagini positivistiche (Lombroso) e psicologiche (tra secondo Ottocento e prima metà del Novecento), è stato ininterrotto e via via sempre crescente: si va quindi dai limitativi giudizi di T. Campanella nella Poetica (in volgare), di cui lamenta l’evidente calco omerico, l’adulazione sfrenata verso i potenti, i fregi ornamentali di uno scrittore troppo incline al «sublime», al «lassismo» anti-ariostesco del primo Seicento al barocchismo enfatico del Marino (Adone) al controllato classicismo «eorico» del Chiabrera (Gotiade); dalle «imitazioni» tassesche di Gerolamo Oraziani e Francesco Bracciolini al melismo morbido e rarefatto del Metastasio, all’infelice e velleitario «intrigo» del Goldoni della commedia in versi T. Tasso, al tragico lassismo di Alfieri e, suo tramite, a quello, «omerico» di Foscolo; dal lassismo idillico-arcadico (Buccolica) ed «epico»-preromantico (La ragione) di G. Meli, al culto che ne fece il Leopardi (l’«amore» e il «nulla» dell’Angelo Mai, il poeta vittima della sua grandezza e disperazione nel Dialogo di T. Tasso e del suo Genio familiare; gli archetipi onomatologici di «Silvia» e «Nerina» desunti dall’Aminta); dalla «stroncatura» del Manzoni all’epos nazionalistico di T. Grossi (I Lombardi alla prima crociata) allo spirito drammatico del «giovane» De Sanctis autore della tragedia T. Tasso; dal classicismo mitico-cosmogonico del Monti della Bellezza dell’universo all’eroica sublimità del Carducci dell’ode Alla città di Ferrara; dai dialettali Porta e Belli a Andrea Maffei, col suo Tasso elegiaco-nostalgico della canzone Alla malinconia (posto accanto a Petrarca, Milton e Bellini), alle letture tassiane, vicino ad altri «classici» quali Dante, Petrarca, Ariosto, Monti e Manzoni, emergenti nella formazione letteraria di Verga (oltre che di R. Fucini); dal «dramma storico» di Paolo Giacometti al misterioso pathos simbolico-etico-religioso del Graf di «Morte regina» e «Lo specchio» (in Medusa). E in area novecentesca: dal rovesciamento antieroico e smitizzante del Gozzano della Signorina Felicita, al lirismo virgiliano e biblico-barocco dei tassiani «Cori di Didone» e «Recitativo di Palinuro» dell’Ungaretti della Terra Promessa; dal sostanziale «silenzio» di Montale (che gli preferisce il laico-immanentistico razionalismo naturalistico ariostesco), alla melica «arcadica» di certo Parronchi; dall’«epica» quotidianizzata del Caproni de «I lamenti» (in Passaggio d’Enea) alla riqualificazione «classicistica» della «maniera» operata dal Fortini di «Imitazione del Tasso» (in Poesia e errore), all’espansione citazionistica in funzione dissacratoria (Tasso è messo accanto a Rimbaud, Rilke, Mallarmé) attuata dallo «sperimentale» Gramigna (1)

Ludovico Ariosto
Per non parlare poi degli echi, delle influenze, delle riletture, delle riprese, delle suggestioni dell’opera di Tasso operanti nella letteratura europea dalla fine del Cinquecento in poi: basti citare il petrarchista e manierista Philippe Desportes, il marinista Georges de Scudéry, lo scrittore dalmata Giovanni Gondola (autore di drammi pastorali e del poema epico Osman); il «travestimento» del «Gottifredo» attuato da Carlo Assonica; il romanzesco-cavalleresco-pastorale Honoré d’Urfé (Astrée), e poi Montaigne, quindi Rousseau (col mito «pre-romantico» di un mondo «naturale» e «senza leggi»); il tentativo del poema epico-nazionale (Enriadé) di Voltaire; il «georgico» e immaginative-descrittivo Jacques Delille; Chateaubriand e Stendhal.
E vogliamo ricordare ancora: il languido e sognante Edmund Spenser della Regina delle fate; lo Shakespeare «lirico» e del Sogno di una notte di mezza estate; il poema cosmologico-religioso di John Milton (Paradiso perduto), John Dryden, William Collins, fino a Byron (il poeta-genio-martire-eroe-vittima); Lope de Vega (Gerusalemme conquistata, 1608), Cervantes e Calderón, Góngora, fino ad arrivare ad Espronceda; Cristobal de Mesa e Duarte Diaz; l’olandese Joost Van den Vendei (traduttore della Liberata); Klopstock (col poema religioso Messìade), Ch. M. Wieland (col poema cavalieresco in ottave Oberon), sino a giungere al passionale dramma del «dolore» del Goethe «weimariano»: T. Tasso, con il contrasto tra idealismo (l’arte e l’umanità stravolta del Tasso uomo-poeta) e realismo (la grettezza, l’invidia, l’ipocrisia, l’iniquità della vita di corte che impedisce la passione d’amore), e il cui finale (il Tasso solo e «bandito e scacciato come un mendicante», col suo «grido di dolore», la sua «parola nel lutto», la sua «pena», il suo «tormento», il senso di un totale «naufragare») fa da tramite alla «lettura» ideologico-esistenziale e insieme lirica di Tasso, compiuta dal diciottenne Kafka all’ultima classe (1900-1901) di Liceo. (2)
Il Seicento fu un secolo per eccellenza «tassesco»: il suo pre-barocchismo fece considerare Tasso un poeta «moderno»: Paolo Beni (1607, 1612, 1616), in nome di una totale libertà e autonomia dal classicismo mimetico-imitativo, lo giudica non solo superiore ad Ariosto, ma addirittura a Omero e Virgilio, allo stesso modo di Udeno Nisiely (1695) (Benedetto Fioretti); mentre Traiano Boccalini (in Ragguagli di Parnaso, 1612-13) e Alessandro Tassoni (in Pensieri diversi, 1647) ne evidenziano la modernità in contrapposizione alla « pedanteria » rinascimentale.
Nella seconda metà del secolo Nicolas Boileau (L’arte poétique, 1674) già prelude, con la sua estetica del «buon gusto», dell’ordine razionale e evidente, del «buon senso» (il rifiuto degli eccessi, del preziosismo «ornato», dell’«orpello»: il similoro, il falso brillante – clinquant – tipico del ricercato stile tassesco), mediatore il padre gesuita Dominique Bouhours (Maniera di ben pensare nelle opere dello spirito, 1689, con l’accusa di formalismo e concettismo), al problema critico del Tasso nel Settecento, con la sua polemica nei confronti della cultura letteraria francese, concernente il valore delle due civiltà letterarie. Di qui l’orgoglio nazionalistico che spinge il Muratori (e l’Orsi) a «difendere» Tasso, il suo «mirabile artifizio», le sue metafore, la sua «poeticità» fantastica di fronte anche all’ariostismo omerico e grecizzante di un Gravina: basti pensare, inoltre, alla predilezione per la Gerusalemme (rispetto all’Orlando) da parte di Metastasio, per la sua tensione all’«ordine», al «sistema», all’«esattezza» e alla precisione; all’abate A. Conti (1756), sull’episodicità «frammentaria» della Liberata rispetto alla perfetta architettura dell’Aminta; o, di contro, a S. Maffei (1723), sull’«eroicità» drammatica, lo stile alto e tragico del Torrismondo; o anche a S. Bettinelli, sulla «prosasticità» e la «cantabilità» delle ottave tassesche (sulla scia del Rousseau tassofilo della Lettre sur la musique).

Concilio Di Trento
Modello per il poema epico-nazionale dell’Henriade, il Tasso di Voltaire (nell’Essai sur la poesie épique, 1728) esprime un esempio di «gusto» poetico tipicamente «italiano» (e quindi difficilmente imitabile, sopra tutto nella «cartesiana» Francia, per il suo «spirito geometrico»), vario, sfumato, e insieme sostenuto, ma anche concettoso, sillogistico, soprattutto nelle parti dedicate, nella Liberata, alle rappresentazioni, scenografie e pratiche religiose.
La «sistemazione» critica (con la distinzione, già presente nel Crescimbeni e poi ripresa dal Tiraboschi, tra «genere» epico e romanzesco, con un Tasso «virgiliano» e insieme lirico-elegiaco rispetto all’Ariosto «poeta ovidiano»), attuata nelle interpretazioni settecentesche, in realtà, tramite il pre-romantico» Cesarotti (che, per la sua «convenienza» e la sua poesia colta e decorosa e non-primitiva, pone il Tasso vicino a Virgilio, Petrarca e Racine, di fronte invece ad un Ariosto posto accanto a Omero, Dante, Milton e Corneille), ci porta direttamente nell’area più specifica del Romanticismo, europeo e italiano.
La critica romantica, da Schlegel a Quinet, da Hegel al Sismondi, oltre a inquadrare storicamente il problema del rapporto di Tasso con i suoi tempi e lo sviluppo della letteratura nazionale, ne evidenzia la liricità e l’individualità del «sentimento» (Schlegel); se Hegel ne sottolinea l’epicità non-originaria né «ingenua» né «primitiva» (Omero), ma culturale, riflessa e artefatta, imitativa, e quindi l’incapacità di esprimere gli alti ideali etico-religiosi dello «spirito» nazionale italiano; Quinet mette in luce lo scarto tra mondo intenzionale e resa espressiva diretta, tra volontà e sentimento, mentre Sismondi ne fa l’emblema della grave «crisi» politica e ideologica, morale del Rinascimento. Il Tasso perseguitato e infelice, martire vittima ereditato da Goethe, influenzò la cultura letteraria romantica: si pensi al Tasso-genio sofferente e incompreso ma eroico e titanico di Byron; all’«eloquenza» patetica e non-contemplativa, «malinconica» e «sentimentale», all’eccessiva sensibilità che rende privo di «interesse», disarmonico (anche sul piano stilistico-formale) il poema nazionale e cristiano tentato dal Tasso, che caratterizza la posizione del Leopardi dello Zibaldone; al Tasso poeta dell’«immaginazione» e delle «consonanze troppo eclatanti» e mollemente addolcite, della Staèl; al pateticismo melodrammatico tassesco non congeniale alla sottile ironia del Manzoni teorico e critico del Romanticismo e del romanzo storico.
Ma è con Foscolo e De Sanctis che il problema critico del Tasso «romantico» evidenzia i suoi caratteri più originali e innovativi: mentre il poeta dei Sepolcri dipinge un Tasso epico, eroico, «tragico» e insieme «lirico», religiosamente teso al «sublime», all’unità del pensiero poetante, tra impeto passionale-patetico e melodia dello stile (vario, chiaroscurale e nel contempo «armonico»); il De Sanctis della Storia della letteratura italiana approfondisce l’opera di Tasso come riflesso della «decadenza» morale e civile (e del gusto) dell’Italia tra Rinascimento e Controriforma, paganesimo sensualistico e sofferta religiosità (evidenziata anche dal Gioberti del Primato, che alla Liberata preferisce l‘Aminta), che il poeta tenta di riscattare in un’autonoma ispirazione fantastica, idillico-elegiaco-musicale, ma che rivela totalmente la sua natura «malata».
Poeta moderno e della « discordia » è il Tasso di Carducci, spirito eroico e sensuale, inquieto e nostalgico, poetico e mistico, cavalieresco e religioso, erede di Dante e del Medioevo scolastico e insieme teso (come nel Mondo creato) verso la «trasfigurazione». E l’interpretazione carducciana («Tasso gentile e sofferente cavaliere», come nota il Varese) (3), non ha mancato di influenzare quello che rappresentò il primo grande tentativo di esaminare l’«universo » tassiano: E. Donadoni vede nel Tasso l’uomo-poeta di sogno, di sentimento e di tragedia, vittima del suo genio: l’indagine di Donadoni, di carattere e matrice romantico-moralistica, mette in rilievo la religiosità solo esteriore e formale, cerimoniale, del Tasso, il suo egocentrismo, la brama eroica di gloria, il titanismo, il sensualismo, il lirismo espresso in particolare nei personaggi protagonisti (soprattutto Annida e Solimano) della Liberata. Un ritratto psicologico e umano, oltre che artistico, quello del Donadoni, che fa di Tasso il «poeta puro preso fra sincerità e retorica, fra poetica del grandioso e fondo idillico-elegiaco, fra storia e rifugio poetico » (W. Binni), tensione all’unità e al «parlar disgiunto», nervosità dell’eloquio.
L’individualità e l’organicità dell’opera tassesca, al di là di qualsiasi tentativo di incasellarla in angusti àmbiti storico-politici (il rapporto con la Controriforma), è d’altra parte rilevata dal Croce che vede in Tasso il simbolo di una liricità non frammentaria ma cosmica, totalizzante, e insieme soggettiva, tragica, che si esprime nella Liberata, più che nella letterarietà ingegnosa e ricercata della maggior parte delle Rime, e che sa armonizzare in unità una sincera religiosità, epicità e voluttà. Sulla scia crociana (e desanctisiana) è da collocare il ritratto di Tasso «lirico» fornitoci dal Momigliano: l’attenzione per l’indefinito, lo sfumato, l’elegia e la sensuosa e pomposa scenografia, la «serietà» della sua religiosità; dal Flora; Finitima coesione tra eroicità e musicalità, la «serena sensualità», il pathos religioso; il mito della parola, l’unità sentimentale presente anche nei madrigali e nelle liriche, la nostalgica elegia musicale, la fusione tra senso dell’amore e della morte; e dal Russo (il sentimento del «patetico»), dal Sapegno (unità strutturale e drammatica del poema epico-religioso tassesco).
La critica del Novecento, insomma, si può condensare, in un triplice ordine di interventi: superare l’immagine tradizionale del Tasso perseguitato dal Potere e dall’Inquisizione, del poeta-martire-eroe-vittima, del poeta schizofrenico e «malato» d’origine positivistica; rivalutare la produzione poetica di più accentuata ispirazione religiosa dell’ultimo Tasso (da F. Orestano a G. Petrocchi a U. Bosco) e il suo «esistenzialismo» (Ulrich Leo); e infine stabilire più esatte lezioni testuali ed analisi filologicamente strutturate: dal Battaglia (sulla dissoluzione della forma rinascimentale e l’innovativa poesia tassiana nel clima del tardo Cinquecento); a R.M. Ruggieri e M. Vitale (entrambi sulla «polemica» linguistica sorta intorno alla Liberata, per le sue forme etimologiche, i latinismi e lombardismi); da M. Fubini (studio estetico e non semplicemente tecnicistico, della metrica e del lessico tassesco) a F. Chiappelli e W. Moretti (sul linguaggio e la tecnica del Tasso epico) ad A. Jenni (sullo «sfumato» tassesco); da A. Di Benedetto (sulla elaborazione stilistico-formale della Conquistata) a G. Devoto (esame storico-diacronico della «lingua» del Tasso); da G. Aquilecchia a E. Raimondi e R. Barilli (sul Tasso prosatore e teorico-critico).
Si è quindi evidenziato il rapporto profondo esistentetra il particolare «manierismo» (R. Scrivano, F. Ulivi, M. Praz, C. Ossola, fino a risalire a G. Hocke e A. Hauser) di Tasso, le arti figurative (G.C. Argan) e la musica di Monteverdi e Gesualdo (L. Ronga, F. Abbiati), nonché i legami della sua poesia e poetica con la cultura letteraria e la storia del tardo Rinascimento (E. Bonora, E. Mazzali). D’altra parte si è voluto rilevare il suo «melismo» (C. Calcaterra), l‘epos teatrale e scenografico (C. Varese, B.T. Sozzi, G. lorio, M, Pieri, R. Scrivano, G. Da Pozzo), la «sapienzialità» (Paolo Luparia), la tipologia demoniaco-infernale e «celestiale» (G. Baldassarri) del «meraviglioso» e «magico» tasseschi (B.T. Sozzi), la geografia fisica e morale (S. Zatti), spazio-temporale e topologico-funzionale (G. Genot) del «mondo» di Tasso; il suo «goticismo» romanzesco (G. Resta), la sua epopea trionfalistica e vittimistica (Ch. Baudoin).
Ma è con le analisi di L. Garetti e sopra tutto di G. Getto che l’opera tassiana, infine, viene finalmente interpretata e indagata nella sua originale e nel contempo filologicamente organizzata unità di ispirazione e nei suoi rapporti con le tensioni ideologico-letterarie, estetiche ed etico-religiose del suo tempo. Se, infatti, il Garetti, attraverso lo studio delle varianti e un’analisi di tipo filologico-storico riconosce e ricostruisce lo svolgimento artistico-espressivo del Tasso alla luce del legame con la sua epoca e dello sviluppo interno alla sua ispirazione, in relazione con la sua reale «situazione» storico-morale (il suo «bifrontismo» spirituale ed espressivo); il Getto, attraverso una rigorosa analisi testuale dell’intera opera di Tasso (dalle Lettere al Mondo creato), segue la diacronia operativa e creativa oltre che biografica ed esistenziale del poeta, offrendo, in una prospettiva di carattere storico-culturale, le «condizioni» (psicologiche, ambientali, letterarie, stilistiche, umane, inferiori) in cui venne alla luce la vis espressiva del poeta della Liberata, del « filosofo » dei Dialoghi, del teorico dei Discorsi, del poeta lirico ed epico-religioso, encomiastico e idillico e controriformista, tragico, platonico e aristotelico, accademico e devozionale, lucreziano e dantesco, il cui momento fondamentale di unità dialettica, e non-sincretica, va ricercato nel contrasto ossimorico vita-illusioni, realtà-sogno, Corte-viaggi, Accademia-pazzia (4).
(1) Sugli echi tasseschi in Leopardi e Ungaretti, Caproni e Parronchi, ci sia permesso rinviare, rispettivamente, agli interventi di F. Di Carlo, Ungaretti e Leopardi, Roma, Bulzoni, 1979, passim; Letteratura e ideologia dell’ermetismo, Foggia, Ed. Bastogi, 1981, passim.
(2) Cfr. Klaus Wagenbach, Kafka. Biografia della giovinezza (1958), Torino, Einaudi, 1972, pp. 52-53 e p. 60. Sulla « fortuna » di Tasso, cfr. G. Getto, Malinconia di T. Tasso, cit., passim e la voce Tasso nel Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Torino, UTET, 1973, pp. 462-63, con ulteriori suggerimenti bibliografici a p. 465 (n.e., 1987); M. Guglielminetti, in Introduzione a T. Tasso, Gerusalemme liberata, cit., pp. XXX1V-XLI; il volume collettaneo *T. Tasso, Milano, Marzorati, 1957 (in particolare gli interventi di E. Siciliano, G.M. Bestini, B. Tecchi, R. Pollak, e sopra tutto M. PRAZ); U. Bosco, L’uomo-poeta dei romantici, in Aspetti del Romanticismo, Roma, Cremonese, 1942 e la voce Tasso, in Enciclopedia Italiana, cit. (con indicazioni bibliografiche, p. 317) e B.T. Sozzi, La fortuna letteraria del Tasso, in « Studi tassiani », IV, 1954. Si rimanda, inoltre, per ulteriori approfondimenti, alla Bibliografia curata da L. Caretti, in T. Tasso, Gerusalemme liberata, Milano, Mondadori, 1983, p. LXXXVII, e a W. Moretti, T. Tasso, cit., pp. 678-80. Si pensi, infine, alle riprese dal Mondo creato da parte di A. Acevedo (Creación del mundo), Gaspare Murtola (Delia Creazione del Mondò), Felice Passero (Essamerone) e Giuseppe Girolamo Sememi (Mondo creato).
(3) Cfr. C. Varese, T. Tasso, in *IClassici italiani nella storia della critica, diretta da W. BINNI, Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 575.
(4) Cfr. F. Di Carlo, Filosofia e Teologia nell’opera di T. Tasso, in “Nuovi orientamenti”, n. 14, nov. 1989 e Id. T. Tasso, Milano, Mursia, 1990.
Franco Di Carlo
Franco Di Carlo con G. Linguaglossa, 2017
Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria(1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013)
Boris Pasternàk dedica una poesia ad Anna Achmatova e replica della Achmatova a Pasternak – a cura di Antonio Sagredo, traduzioni e Commento inedito di Angelo Maria Ripellino e Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa
Boris Pasternak
a Anna Achmatova
Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.
Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.
Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.
Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.
Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.
Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.
Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.
Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.
(1928)
(trad. di Angelo Maria Ripellino, 1954)
Boris Pasternak
“Una poesia della Achmatova dice:
E il giusto andava dietro il messo di Dio
enorme e luminoso, per la montagna nera,
ma l’ansia parlava a voce alta alla sposa
e pur non era tardi. Tu puoi ancora guardare
le belle torri della natia Sodomia,
la piazza dove cantavi, il cortile in cui filavi,
le finestre vuote dell’alta casa dove hai generato
figli al caro marito. Ella guardò e,
inchiodati da un dolore mortale,
i suoi occhi non potevano più guardare e,
il corpo divenne diafano sale e le rapide
gambe crebbero dentro la terra.
Chi piangerà una donna come questa?
Non è questa la più grande delle perdite?
Il cuore mio, però, non dimenticherà mai
colei che ha dato la vita per un solo sguardo
(trad. di Angelo Maria Ripellino, 1954)
[commento di Angelo Maria Ripellino]
“Questa poesia aveva fatto molta impressione a Pasternàk.
La Achmatova rispose a sua volta a questa poesia di Pasternàk con una poesia che è un po’ più semplice e che è un compendio di motivi pasternàkiani:
Lui che si è paragonato ad un occhio equino
guarda di sghembo, osserva, vede, riconosce
ed ecco già, come diamante fuso,
brillano le pozzanghere, languisce il ghiaccio.
In una nebbia lilla riposano i cortili,
banchina, travi, foglie, nuvole.
Il fischio della locomotiva, lo scricchio della buccia del cocomero
È una mano timida in una pelle di daino profumata.
Tintinna, tuona, scricchiola, batte e risacca
E d’improvviso si tace. Significa che lui
Si sta facendo strada, paurosamente, tra le conifere
Per non spaventare il leggero sogno dello spazio.
E ciò significa che gli sta contando i granelli delle spighe vuote,
significa che lui alla lapide di Darjàl’, maledetta e nera,
è giunto di nuovo da non so quali funerali.
E di nuovo brucia il languore di Mosca,
tintinna lontano il sonaglio mortale
chi si è perduto a due passi da casa,
dove la neve arriva alla cintola ed è la fine di tutto?
Per il fatto che egli si è paragonato a Lacoonte
Chi ha cantato i cardi del cimitero,
per il fatto che ha riempito il mondo di nuovi suoni
in un nuovo spazio di strofe riflesse,
di quella generosità, di quella perspicacia degli astri
tutta la terra è stata suo retaggio,
ed egli con tutti l’ha divisa.
Anna Achmatova
[Commento di Angelo Maria Ripellino] Continua a leggere →
18 commenti
Archiviato in poesia russa del Novecento, Senza categoria
Con tag Alfredo Giuliani, anna achmatova, Antonio Sagredo, boris pasternak, Commento di Angelo Maria Ripellino, I Novissimi, il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, Pasolini, Sanguineti