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Kikuo Takano (1927-2006) POESIE da Il senso del cielo (Passigli, 2017) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore,  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il Giappone degenerato in “piccola America”, con una intervista di Renato Minore a Kikuo Takano, traduzione di Yasuko Matsumoto

 

Gif Incrocio colored

Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.

Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

Foto femme vivant

Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».

Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.

La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.

Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:

Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.

Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.

La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.

Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?

Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore

  Takano, nella sua poesia ri­suona quella schiettezza luci­da e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo mae­stro?

«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ul­timi mi hanno dato una profon­da emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplo­rare/ e alla fine dell’intera esplo­razione/ arriveremo dove sia­mo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».

 Quanto ha influito la tradizio­ne Zen nel suo lavoro?

«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stes­si. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sem­pre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».

 E le letture di Heidegger e Montale?

 «Per quanto riguarda Heideg­ger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Cri­salide. Il poe­ta parla del tempo doloro­so della crisa­lide avvizzi­ta. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in que­sti versi come un’eco: conti­nuiamo a por­ci la doman­da sul nostro “dove anche se ci trovia­mo immersi nel dolore più profondo”».

 La musica è stata una componente im­portante del suo lavoro. Quan­to e in che misura ha influito sulla sua poesia?

«Per Valéry “la poesia dovreb­be aspirare allo stato della musi­ca”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica voca­le e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisi­bili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dol­cezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

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Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce

 Lei ha adottato il verso libe­ro, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, anti­tradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale que­sta sua scelta?

«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massi­ma naturalezza a scrivere poe­sie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così doloro­sa da affrontare dopo la secon­da guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantu­mi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poe­sie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furo­no tradotte in Giappone le poe­sie occidentali di ventinove po­eti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia euro­pea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».

 Takano ha lasciato il Giappo­ne di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.

 «La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Ita­lia, venendo in Italia. Sentia­mo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Ri­nascimento e continuano a far­lo vivere tuttora magnifica­mente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vatti­mo, il teorico del pensiero debo­le. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli consi­dera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa di­nanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppa­re il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».

 Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familia­re una realtà così lontana e così diversa dalla nostra co­me quella giapponese. Ma è davvero così distante?

«Quando il mio traduttore Pao­lo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nel­la superficialità. La bomba ato­mica non ha distrutto solo Hi­roshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappo­ne. Qui l’uomo comincia a di­struggere se stesso, addirittura rischia di sparire».

 Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vo­stro mondo nei confronti del­lo strapotere americano. Co­me considera questa tenden­za?

«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa po­tenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera cau­sa di rappacificazione. Per sve­gliare la nostra coesistenza vor­rei che questo secolo fosse chia­mato “il nuovo secolo rinasci­mentale”.»

 C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?

«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dob­biamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scri­vo poesia?”.

 E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comu­nicazione di massa?

«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la conse­gna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire co­scienzioso, dei mezzi di comu­nicazione di massa, quando però questi superano la barrie­ra dell’affarismo e dell’opportu­nismo».

Gif la Ruota della giostra

Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola

Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)

Girandola

Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo vertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?

 

Soliloquio

«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!

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Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura, Donatella Costantina Giancaspero, Una poesia inedita con Commenti di Giorgio Linguaglossa – La poesia italiana ai piani alti della poesia europea

Foto Walking

Dietro di te – ma forse anche intorno a me? – / qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.

 

Ormai siamo talmente abituati a considerare poesia i versi sul phon che funziona male, sull’oblò della lavatrice che non chiude, sul rubinetto del lavabo che perde acqua, sulla doccia con abbondante acqua calda scambiata per lo scrittoio, sul proprio figliolo che si fa la doccia e consuma tutta l’acqua dello scaldabagno, etc., dicevo, siamo così abituati a considerare «poesia» soltanto ciò che risponde ai canoni, non direi neanche più del minimalismo, ma al serbatoio di tutti quei truismi che sono patrimonio comune del gergo internazionale che oggi viene scambiato in tutti i paesi dell’Occidente come «poesia», che non siamo più in grado di apprezzare questi tre autentici capolavori della poesia  italiana contemporanea qui di seguito.

Foto volto con mani

È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.

Giorgio Linguaglossa
26 novembre 2017 alle 13:51

Una poesia di Lucio Mayoor Tosi:

Dietro di te – ma forse anche intorno a me? –
qualcuno sta fingendo di esserci. Si notano i passi.

È davvero strano, non esserci. Non lo sapevo,
non me n’ero accorto.

Mi sorprende sapere che non siamo veri.
Che siamo pensieri. Senza me e senza te ma insieme.
Forse al mondo un posto migliore di noi non si trova.
Un posto vero, voglio dire, che non sia soltanto un’immagine.
Un posto divino, che a toccarlo sia convincente.
Una corporea entità.

È davvero strano per me essere qui. Io e te.
Tu che non sei, io che non sono e il mondo che sembra.

*

Behind you – but maybe also around me? –
someone is feigning to be. I didn’t know it,
I wasn’t aware.

It is surprising to know we are not real.
That we are thoughts. With no me and with no you but together.
Maybe in the world a better place for us cannot be found.
A real place, I want to say, that is not only an image.
A divine place, when touching it is convincing.
A corporeal entity.

It is truly strange for me to be here. Me and you.
You who are not, I who am not and the world that seems.

© 2017 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem “Dietro di te…”
by Lucio Mayoor Tosi. All Rights Reserved.

Appunto di Lucio Mayoor Tosi:

In questi giorni sto scrivendo davvero male, con fatica e tanti ripensamenti. È come disegnare svogliatamente, senza convinzione. Probabilmente qualcosa sta bollendo in pentola, qualcosa di cui ancora non so nulla.
Intanto mi aggiusto l’idea, che sarebbe bello poter unire due modi di scrivere poesia: quello di Tomas Tranströmer con quello di Czeslaw Milosz. La resa in parole di Tomas con la volontà di dire che ha Czeslaw.
Ai poeti squinternati come me, conviene, e fa senz’altro bene, guardare in alto.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Caro Lucio,
questa prosa poetica o prosa in poesia o poesia in prosa, come dice Alfredo de Palchi, è una delle tue più riuscite. Tu riesci a comporre in un unico stile il periodare argomentativo con assiomi e lacerti aforistici e il periodare per immagini e per traslati. Questa è una tua caratteristica peculiare, non conosco nessuno, nella poesia italiana, che ti può stare dietro. E capisco anche il tuo tentativo di riunire in un solo stile polimorfo il periodare argomentativo di Milosz con le immagini di Tranströmer, quanto di più difficile si possa immaginare, ma sei sulla buona strada. Del resto sono proprio i parti difficili quelli che danno i migliori risultati. Complimenti. Continua a leggere

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Carlo Livia, L’Amore ai tempi del Mistero – Breve excursus sulla poesia europea del Surrealismo. Testi di Gerardo Diego, Paul Celan, Federico Garcia Lorca,Vitezval Nezval, 

 

foto ombre sfuggenti

Ma femme à la chevelure de feu de bois/ Aux pensées d’éclairs de chaleur

Se l’essenza, l’archè e il telos dell’essere sfuggono ad ogni esaustiva rappresentazione e predicazione d’ordine concettuale, la sua dimensione trascendente resta inviolabile e inesperibile, ogni operazione semantica di tipo tradizionale che, negandone il mistero insondabile, la costringe abusivamente entro codici simbolici eteronomi e falsificanti, diventa una violenta mistificazione ideologica, che inevitabilmente si traduce in paradigmi normativi, etici e assiologici proditoriamente strumentali ad asservire e sfruttare a beneficio del potere culturale, economico e politico al potere.

Questo spiega perché tutte le rivoluzioni artistiche di maggiore portata etica ed estetica siano state tenacemente osteggiate dai regimi totalitari e liberticidi, come è avvenuto con il surrealismo, anarchico e marxista, da parte dell’Italia fascista, in cui l’avanguardia fu rappresentata solo dal futurismo, schierato col fascismo, entusiasta del potere tecnico-militarista, e rappresentato, almeno in poesia, da autori decisamente mediocri.

Le personalità più ricche e autonome, come Montale, Quasimodo, Luzi, Gatto, Bigongiari, ecc. non ebbero altra scelta che l’estrema introspezione e involuzione semantica dell’ermetismo, diversamente articolata a ripercorrere solitarie e scoscese traiettorie per riappropriarsi della dimensione della libertà e integrità morale ed espressiva.

All’origine della rivoluzione surrealista, auspicata da giovani reduci dalla carneficina della grande guerra, c’è un capovolgimento della gerarchia di valori e istanze che configurano e strutturano le dinamiche della psiche: aderendo all’indagine di Freud, in seguito radicalizzata da Lacan che, a differenza del primo, fu loro sodale e fiancheggiatore, viene drasticamente ridimensionata la funzione normativa dell’istanza morale e razionale, a favore dell’energia emozionale ed affettiva, che costituisce l’insostituibile linfa vitale della realtà psichica, la sua essenza più autentica, insostituibile. Arginarla, inibirla e modellarla secondo dogmi e codici alienanti produce patologie, sofferenza e disfunzioni, individuali e sociali, ma è in ultima istanza illusorio, perché l’io cosciente, razionale e morale, è prodotto di procedure e paradigmi culturali relativi e contingenti, è un mosaico instabile e aleatorio di atti linguistici eteronomi e sovente contradditori e paralizzanti. La natura autentica, profonda e vitale del soggetto psichico è libido, eros, desir, tensione verso l’altro da sé, che nei surrealisti, eredi dell’ignita ansia dissolutrice di Rimbaud e Lautreamont, si manifesta come ebbrezza estatica, dionisiaca, ribelle e dissolutrice di norme e valori etici ed estetici falsi, abusivi, obsoleti e fossilizzati.

Rivoluzionario e anarchico, antidogmatico e anticlericale, Andrè Breton, fondatore e capofila del movimento, individua nell’eros – inteso in forma antimetafisica e nicciana, come desiderio fisico, corporeo, privo di sublimazioni mistiche e agapiche, l’elemento di relazione essenziale di ogni realtà fisica e psichica, capace di ricucire le lacerazioni inflitte all’ego, alle classi sociali e alle pratiche estetiche dalle norme alienanti e criminali della morale borghese; il desiderio, l’immaginazione, l’amore, la bellezza femminile, la libertà, la poesia sono gli strumenti per creare una nuova dialettica anti-idealistica, per riunire sogno e realtà, nella surrealtà, e in alleanza alla rivoluzione marxista, creare una nuova umanità, finalmente libera da ogni schiavitù morale ed economica.

L’Union libre, una delle sue poesie più celebri, è quasi un manifesto poetico della sua visione dell’eros come dimensione liberatoria e salvifica, del suo rivoluzionario dispositivo linguistico, fondato su una metafora composta di elementi volutamente e violentemente incongrui e semanticamente incompatibili, che forzatamente accostati producono una deflagrazione emotiva ed espressiva capace di rigenerare la visione della realtà: “Le parole non comunicano più, fanno l’amore“. In particolare in questa straordinaria celebrazione delle diverse parti del corpo femminile, ispirata dalla sua seconda moglie, Jacqueline Lamba, una splendida spogliarellista, famosa per un numero in cui si immergeva nuda in una vasca d’acqua dalle pareti trasparenti, la corrispondenza tra il corpo della donna e l’emozione che suscita nel poeta è affidata ad un codice sommerso, dinamico, inafferrabile, le immagini proliferano in significati incontrollabili e tracimanti l’uno sull’altro.

Foto uomo tigre

Aux yeux de niveau d’eau de niveau d’air de terre et de feu.

Ma femme à la chevelure de feu de bois
Aux pensées d’éclairs de chaleur
A la taille de sablier
Ma femme à la taille de loutre entre les dents du tigre
Ma femme à la bouche de cocarde et de bouquet d’étoiles de dernière grandeur
Aux dents d’empreintes de souris blanche sur la terre blanche
A la langue d’ambre et de verre frottés
Ma femme à la langue d’hostie poignardée
A la langue de poupée qui ouvre et ferme les yeux
A la langue de pierre incroyable
Ma femme aux cils de bâtons d’écriture d’enfant
Aux sourcils de bord de nid d’hirondelle
Ma femme aux tempes d’ardoise de toit de serre
Et de buée aux vitres
Ma femme aux épaules de champagne
Et de fontaine à têtes de dauphins sous la glace
Ma femme aux poignets d’allumettes
Ma femme aux doigts de hasard et d’as de coeur
Aux doigts de foin coupé
Ma femme aux aisselles de martre et de fênes
De nuit de la Saint-Jean
De troène et de nid de scalares
Aux bras d’écume de mer et d’écluse
Et de mélange du blé et du moulin
Ma femme aux jambes de fusée
Aux mouvements d’horlogerie et de désespoir
Ma femme aux mollets de moelle de sureau
Ma femme aux pieds d’initiales
Aux pieds de trousseaux de clés aux pieds de calfats qui boivent
Ma femme au cou d’orge imperlé
Ma femme à la gorge de Val d’or
De rendez-vous dans le lit même du torrent
Aux seins de nuit
Ma femme aux seins de taupinière marine
Ma femme aux seins de creuset du rubis
Aux seins de spectre de la rose sous la rosée
Ma femme au ventre de dépliement d’éventail des jours
Au ventre de griffe géante
Ma femme au dos d’oiseau qui fuit vertical
Au dos de vif-argent
Au dos de lumière
A la nuque de pierre roulée et de craie mouillée
Et de chute d’un verre dans lequel on vient de boire
Ma femme aux hanches de nacelle
Aux hanches de lustre et de pennes de flèche
Et de tiges de plumes de paon blanc
De balance insensible
Ma femme aux fesses de grès et d’amiante
Ma femme aux fesses de dos de cygne
Ma femme aux fesses de printemps
Au sexe de glaïeul
Ma femme au sexe de placer et d’ornithorynque
Ma femme au sexe d’algue et de bonbons anciens
Ma femme au sexe de miroir
Ma femme aux yeux pleins de larmes
Aux yeux de panoplie violette et d’aiguille aimantée
Ma femme aux yeux de savane
Ma femme aux yeux d’eau pour boire en prison
Ma femme aux yeux de bois toujours sous la hache
Aux yeux de niveau d’eau de niveau d’air de terre et de feu. Continua a leggere

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Alfredo de Palchi, Testi scelti da Estetica dell’equilibrio, Milano, Mimesis Hebenon, 2017 pp. 80, € 10, con una Interpretazione di Donatella Costantina Giancaspero

foto ipermoderno La classica Neverfull Louis Vuitton

né rispetto né nobile rigore dalle azioni dell’antropoide…

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York. Ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a far tradurre e pubblicare in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 pubblica Nihil (Milano, Stampa9) e nel 2017 Estetica dell’equilibrio (Mimesis Hebenon).

Foto 4 femme blanche

7 aprile 1945… quattro energumeni antropoidi armati di pistole e parabellum mi si piazzano a pochi passi davanti… io adolescente antropoide in disfatta guardo i quattro musi incerti se fucilarmi in piazza addosso una vetrina di tessuti..

Nota dell’autore

Ogni mia raccolta di poesie, inclusa questa di Estetica dell’equilibrio, si formò con lo stile scelto dal soggetto in prima stesura. Anche quest’ultima raccolta, accantonata precisamente per sei mesi, l’ho revisionata.

Ciascuna delle quattro sezioni ha il titolo adatto al proprio soggetto che fa immaginare straordinari concetti abbigliati di poesia in prosa. Naturalmente per me autore sono verità rivelate dalla realtà repellente dell’uomo dai suoi primordi al presente. Ovviamente, io sono autore, soggetto, e repellente  protagonista uomo.

È poesia in prosa, stile direi ignorato dai poeti italiani, i quali, se il materiale non è in versi, è semplice prosa. Allora penso che dubitino della grandezza di poeti francesi dell’Ottocento, notevoli anche di poesia in prosa, e quelli del Novecento. Ce ne sono pure in una Italia della prima metà del Novecento, però nessuno ci crede o ci pensa.
È sconcertante che una Italia medievale sforni annualmente centinaia di illusi addetti alla vana missione di voler superare il loro maestro Petrarca. Non lo ammettono, eppure ci insistono…

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoInterpretazione di Donatella Costantina Giancaspero

Credo che questi testi del nuovo libro di Alfredo de Palchi, Estetica dell’equilibrio, appaiano quantomeno singolari ed abnormi ad un lettore italiano di oggi, disabituato dal linguaggio letterario corrente dal leggere testi scritti nell’antichissimo genere dell’invettiva. Oggi in Italia non si scrivono più da decenni invettive, quasi che questa forma fosse divenuta indicibile; ma l’indicibilità è la condizione assoluta affinché vi sia linguaggio e linguaggio poetico in particolare, per l’ovvia ragione che, se tutto fosse dicibile, cesserebbe di esistere anche il linguaggio. Lacan ci informa che il linguaggio poetico è la lacerazione, lo «strappo» del linguaggio ordinario, il «trauma» del linguaggio; là dove non può giungere il linguaggio ordinario può giungere il linguaggio poetico. Ma, per far questo, per rendere possibile questo obiettivo, il linguaggio poetico deve darsi una Estetica dell’equilibrio, un luogo in cui le lacerazioni e le avulsioni della lingua di relazione trovino finalmente una giustificazione e una composizione estetica. Di solito, un poeta arriva a questo luogo in tarda età, quando le revulsioni, le avulsioni, le intemperanze e le belligeranze della giovinezza si sono acquietate: allora è qui che è possibile per il poeta tracciare una propria estetica dell’equilibrio. Ma si tratta di un equilibrio instabile, incerto, frammentato, scheggiato, momentaneo, contingente. Paradossalmente, questo «equilibrio» è il sigillo di autenticità anche dell’arte moderna, perché afferma la sua contiguità con la morte, il suo parteggiare per la stasi avverso l’entropia di tutte le cose. Ecco perché io intendo questo libro di Alfredo de Palchi, non solo come una «estetica dell’equilibrio», ma anche come una «estetica della morte», una «estetica del male», una invettiva, la più possente che sia mai stata scritta da un poeta italiano contro la sua patria, i suoi abitanti e gli abitanti del pianeta Terra. La dizione poetica di de Palchi è la più asciutta immaginabile, è il pensiero urticante e rabbioso che pensa l’«infondatezza» dell’io e della specie homo sapiens, la sua mancanza costitutiva, il suo essere male, inautenticità, menzogna; de Palchi impiega un linguaggio di «cose», usa la parola come un oggetto contundente scagliato contro il lettore interlocutore, usa un linguaggio irriconoscibile nella sua forma: né poesia né prosa; un linguaggio piegato alle esigenze della comunicazione diretta, diretta come può essere un pugno dato in pieno viso. Alfredo de Palchi non avvisa il lettore, non impiega giri di parole, non lo prepara, lo colpisce con quanta più urticante violenza può, in pieno volto.

Il poeta, al contrario del filosofo, non si chiede mai «cosa è pensare? », «cosa è l’essere?», ma si limita alle domande rivolte al lettore: «cosa sei diventato?», «cosa significa parlare?», «perché io parlo?», «chi è che parla?», «a chi parlo?». Qui è l’inconscio significante di de Palchi che parla, parla perché l’inconscio è agito da pulsioni cieche (prive di parola) che cercano una via di uscita, una scarica nel linguistico. L’inconscio pensa, ma pensa-cose. Sotto il dominio del Lustprinzip, l’inconscio non può non muovere alla scarica linguistica, ed è in questo movimento che lo spinge alla deriva, che esso trova le sue parole, incontrando il Realitätprinzip, cioè la sua dimensione propriamente linguistica. Infatti, la scrittura depalchiana assume qui la forma del poemetto in prosa, o della prosa in poesia, una struttura che garantisce una consistenza icastica e didascalica, da referto medico legale, quasi scientifica e la forma del bilanciamento tra l’istanza dell’irruzione dell’impulso «cieco» e quella della sua formalizzazione linguistica.

In conclusione, cito quanto scrive Giorgio Linguaglossa nella sua monografia su de Palchi (Quando la biografia diventa mito, Edizioni Progetto Cultura, 2016):

«C’è in de Palchi il tentativo di operare con una scrittura altamente sismica e tellurizzata e, al contempo, di erigere una sorta di sistema anti sismico. Di operare al contempo una frattura e una sutura. Si tratta di una scrittura che procede e promana da una rimozione originaria, da cui deriva la frantumazione di un universo simbolico e metaforico altamente instabile ed entropico. Del resto, de Palchi non fa alcuno sforzo per tentare di dare una costruzione stabile alle sue costruzioni poematiche, anzi, le tracce e i frammenti sono lì a dimostrarlo: cacofonici e indisciplinati, tendono all’entropia. Si entropizzano e si disperdono.

La penultima sezione de L’Estetica dell’equilibrio è titolata Genesi della mia morte. È una gigantomachia e una perorazione ultimativa, è il soliloquio in prosa poetica più diretto e frontale che sia mai stato scritto nella poesia italiana del Novecento e dei giorni nostri. Una sentenza di condanna inappellabile irrogata al genere umano. Si parte dall’ominide antropoide, si passa attraverso l’homo erectus e si arriva all’homo sapiens, l’animale sanguinario più distruttivo che madre natura abbia mai generato perché dotato di coscienza la quale moltiplica all’ennesima potenza il suo bisogno incommensurabile di carne e di distruzione. Il poemetto termina con una gigantesca esplosione «Io Antropoide simbolo del male peggiore dalla finestra guardo il “globo” scendere a Times Square di Manhattan 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1… come fa un sasso lanciato nell’acqua il fondale del pianeta esplode allargando a cerchi l’irradiazione della massiva potenza nucleare.»

de Palchi chiude così per sempre la heideggeriana questione dell’autenticità, la «dimensione pubblica» è diventata ormai un falso; la «dimensione privata» è diventata un falso; la scelta tra due opposti è un falso. La speculazione a proposito dell’«autenticità» è una cosa fasulla da gettare alle ortiche. Non ci sarà un altro Principio. E non ci sarà altra fine che questa. Con la fine del genere umano nulla cambierà, l’universo continuerà la sua folle corsa verso il raffreddamento universale e l’entropia. Davvero, un testamento spirituale di condanna del genere umano senza appello questo di de Palchi».

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quando arrivo all’epoca Homo Erectus 1.8–1.3m suo ospite per 500mila anni mi trovo a camminare e correre in pena a schiena dritta dietro la vittima…

Testi tratti da Estetica dell’equilibrio

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Dalla estinzione dell’epoca giurassica il pianeta riemerge in epoca seguente dal magma e dalle acque… ora rigoglioso di flora con foreste e giungle ricresciute su quelle pietrificate nel sottosuolo… diversità vigorosa di fauna in perpetua evoluzione anche nei suoi linguaggi si occupa a suddividersi in erbivora e carnivora e sopravvivere dentro le fitte foreste… l’erbivora–carnivora non rispetta la differenza, ne approfitta delle due possibilità di scelta…

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curiosamente l’antropoide esce dalla giungla e si avventura in spazi liberi dove in mezzo a colline e montagne semidesertiche… è attratto da pietre schegge scaglie e ne raccoglie per qualche necessità… sì, intuisce che scalpellandole con sassi da una sola parte diventano oggetti taglienti… per colpire ferire e sgozzare… da una possibilità arriva a un’altra intuita immagine… con liane legare scaglie a dei rami robusti trasformati in lance… l’occasione è prossima perché mi cerca nella chiarità della savana… appena m’intravvede si avvicina colpendomi più volte con una lancia e scappa su un albero dove non lo posso raggiungere…mi lecco le ferite sapendo che può assassinarmi… Continua a leggere

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Questionario a cura di Giancarlo Stoccoro Otto Domande da Poeti e prosatori alla corte dell’Es, AnimaMundi edizioni, 2017 pp. 320 € 18 – con una Risposta alle Domande di Giorgio Linguaglossa con Due poesie di Mario M. Gabriele da In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017) – Una poesia di Lucio Mayoor Tosi e Steven Grieco Rathgeb

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Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile»

Giancarlo Stoccoro, nato a Milano nel 1963, è psichiatra e psicoterapeuta. Studioso di Georg Groddeck, ne ha curato e introdotto l’edizione italiana della biografia   Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz (IL Saggiatore, Milano, 2005). Da parecchi anni, oltre all’attività clinica,  si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha  pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Ha frequentato intorno ai vent’anni il circolo letterario comasco Acarya e sue poesie sono presenti nell’antologia Voci e immagini poetiche 3. Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge di poesie Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo. Nel 2015 esce Benché non si sappia entrambi che vivere. Nel 2015 il saggio I registi della mente (Falsopiano), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev.

 

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Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

Otto Domande

1| Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’ “analista selvaggio”, la cui celebre frase «non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti» ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava: «noi non scriviamo, siamo scritti»; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): «si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere»; Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: «ho scritto un solo libro ed era già scritto».

Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?

2| Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità «si spalanca un abisso che può travolgere» (Andrea Zanzotto).

Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan? Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?

3| «Nei sogni siamo veri poeti» (Ralph Waldo Emerson) ovvero «il poeta lavora» quando dorme (Saint-Pol-Roux). Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza), per il regista russo Andrej Tarkovskij la poesia è «una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà». Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?

4| Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in Un regno di matite, ha scritto: «Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena» e ha ammonito: «Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono».

Lei è d’accordo o ritiene che l’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca “Umdichtung” (che significa una poesia elaborata a partire da un’altra)?

5| Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: «poesia fossile». «Un tempo ogni parola era una poesia», «un simbolo felice» (Emerson). «Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo» (Paul Valéry).

Oppure: «Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente» (John Keats).

Come nasce la sua poesia e come si sviluppa?

Quali condizioni la favoriscono?

6| «Ogni pensiero inizia con una poesia» dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa.

La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli «eterni figli» (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: La mente orientale) è più legata alla presenza di pensieri-madre, «strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino» con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione.

Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?

7| Il momento della scrittura o “l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: L’invenzione della poesia), «la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo». E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?

8| C’è un altro aspetto del rapporto tra scrittura e Es che vorrebbe affrontare?

Hanno risposto alle domande: Franco Loi, Milo De Angelis, Maria Grazia Calandrone, Donatella Bisutti, Franca Mancinelli, Fabio Pusterla, Franco Buffoni, Umberto Piersanti, Laura Liberale, Giovanna Rosadini, Francesca Serragnoli, Miro Silvera, Giovanni Tesio, Alessandro Defilippi.

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Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile

Risposta a tutte le Domande di Giorgio Linguaglossa

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione.

Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso. Citando Lacan possiamo affermare che «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Appunto, si ricade sempre di nuovo nel problema del linguaggio. Ma, per rispondere alla domanda di Giancarlo Stoccoro, dirò che il rapporto che lega l’essere al linguaggio è il medesimo che collega l’inconscio (che comprende anche l’Es) al linguaggio.* L’inconscio è l’indeterminato, il «campo incontraddittorio» dove tutti i relitti e i residui dei linguaggi accumulati e sedimentati oscillano e vibrano in uno stato di permanente agitazione molecolare. Non ci può essere contraddizione in quel «campo incontraddittorio» se non come collisione di molecole, di atomi, di spezzoni, di frammenti, di rappresentazioni cieche. La «nuova ontologia estetica» attribuisce grandissima importanza a quel «campo incontraddittorio» che è l’inconscio (una sorta di campo gravitazionale biologico), perché lì si trovano, nel profondo, quelle cose che Tranströmer chiama, con una splendida metafora,  «le posate d’argento»:

le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

(Tomas Tranströmer)

Ad esempio, nel libro di Mario Gabriele, In viaggio con Godot (Roma Progetto Cultura, 2017), è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio» (non è più il «soggetto» che è in viaggio), in una traslocazione locomozione senza tregua… È il linguaggio che si sottrae a se stesso in una traslocazione continua… Il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere in costante e continuo rinvio… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, meccanismo che crea e decrea il senso per via della stessa logica differenziale che vede nel meccanismo del rinvio la sua ragion d’essere, si serializza in una molteplicità di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… E il sogno che cos’è se non una fantasmagoria di sintagmi, di frammenti, di reperti, di calchi, di fonemi… Qui è il linguaggio dell’Es o dell’inconscio che parla.

[Ora i miei morti sono quelli che non ricordo (Mario Gabriele)]

giorgio linguaglossa

19 novembre 2017 alle 10:00

Lucio Mayoor Tosi mi chiama in causa, che devo dire? Dire della mia ammirazione e sorpresa per la poesia di Mario Gabriele? Lui ha fatto propria l’affermazione di Adorno secondo il quale «già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione». La poesia di Mario parte tutta da lì. E poi dalla constatazione che la poesia è altamente tossica e nociva. Direi che è il poeta italiano che sta tutto intero dalla parte della rappresentazione della «falsa coscienza» della società mediatica nella quale siamo immersi a bagnomaria ogni giorno. La sua è una poesia immersa totalmente nella «ontologia della falsa coscienza». Continua a leggere

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Ian Seed,  Poesie scelte – dalla raccolta Sognatore di sogni vuoti  / Makers of empty dreams (2014) – a cura di Iris Hajdari

 

Foto sei busti femminili

Lo inseguo da anni per le vie bagnate dalla pioggia. Una mattina abbandono la caccia e prendo la strada che porta fuori città

Ian Seed è professore associato presso il Dipartimento di Letteratura Inglese  dell’Università di Chester in Inghilterra, con un dottorato anche in Letteratura Italiana. Per un po’ di anni ha vissuto anche in Italia (Ivrea, Torino e Milano), dapprima come insegnante di Inglese per stranieri, e in seguito come traduttore e scrittore tecnico. Ora vive nel Regno Unito, ma conserva sempre una grande nostalgia per l’Italia. Le raccolte di Seed includono Identity Papers (Shearsman, 2016), The thief of Talant (Wakefiel, 2016) è la prima traduzione in Inglese del lungo poema poco conosciuto di Pierre Reverdy, Makers of Empty Dreams (Shearsman, 2014), e The straw which comes apart (Oystercatcher, 2010) dalle poesie Italiane di Ivano Fermini. Sia Identity Papers che Makers of Empty Dreams sono apparse in BBC Radio 3 The Verb nel 2016. Il suo lavoro è incluso in diverse antologie come The Best Small Fictions 2017 (Braddock Avenue Books), The Forward Book of Poetry 2017  (Faber&Faber), e Poets in Solidarity with Refugees (Five Leaves Press), e The Best British Poetry 2014 (Salt).” Le raccolte di Seed in poemi in prosa e di brevi racconti, New York Hotel, sarà pubblicato da Shearsman nel 2018.

*

«Il mistero e la tristezza delle stanze vuote, gli incontri casuali per strada, i treni che viaggiano in un paesaggio di neve diventano magici nelle poesie di Ian Seed.»

John Ashbery

«Ian Seed è il nostro più brillante esponente di quel genere per nulla britannico di poesia in prosa. Divertente e sconvolgente, i suoi brevi racconti magistralmente controllati ci conducono in un mondo che presto si rivela essere tanto pericoloso quanto magico. Il suo lavoro dovrebbe essere seriamente accompagnato da qualche avvertimento, per quei poemi che non sono solo eccitanti, ma che possono creare addirittura dipendenza.»

Mark Ford

 «Questi sono degli stralci eccezionali che ci danno un’idea di un’entroterra europeo tradotto in controluce piene di note musicali di pericolo e desiderio. Li ho letti nella mia veranda a Barnsley e istantaneamente sono stato catapultato in una città che conoscevo poco, piena di persone che volevo incontrare o evitare. La migliore espressione della prosa poetica».

Ian Mcmillan

Foto eyeslashes with makeup

La mia fidanzata ed io avevamo sete dopo aver camminato per ore a Parigi.

Rispetto alla poesia contemporanea francese, che continua ad essere prigioniera delle avanguardie del Novecento, diventando sempre più intellettualistica, un po’ per colpa dei poeti stessi, un po’ per colpa degli editori, quella inglese, nonostante tutto, si può dire per alcuni versi che è rimasta ancora legata alla memoria, al racconto e alla quotidianità. Questo accade forse perché gli inglesi sono più attaccati alle radici, alle loro saghe, alla terra e al mistero della vita.

La poesia di Ian Seed è la poesia della memoria, è una prosa poetica che racconta destini, amori e storie di uomini e donne che il poeta stesso ha incontrato e conosciuto nel corso degli anni viaggiando per i mondi. Infatti i suoi libri assomigliano a un  album diaristico che attraversano luoghi, lingue, voci e volti. Una leggera ironia e nostalgia insieme percorre i suoi versi che spesso fanno riflettere sul senso dell’esistenza e del vivere. La poesia dell’autore inglese evita il Decadentismo malato che ormai e purtroppo ha invaso quasi tutta la panorama poetica contemporanea europea. Tutto questo fa del nostro poeta una voce particolare e fuori da coro nella tradizione poetica britannica di oggi, merito questo riconosciuto dalla critica. Ian Seed è la voce della quotidianità, testimone del nostro tempo: «Ho afferrato la mano della mia fidanzata e l’ho portata via./  Abbiamo passeggiato, mordendo la mela a turno.» 

(Iris Hajdari)

Testi tratti dalla raccolta Sognatore di sogni vuoti  / Makers of empty dreams del poeta inglese Ian Seed – Traduzione di Iris Hajdari

(MAKERS OF EMPTY DREAMS)

First published in the United Kingdom in 2014 by Shearsman Books 50, Westons Hill Drive Bristol.

Appunto di Giorgio Linguaglossa

 Una prosaica autobiografia in prosa, questa di Ian Seed, un diario di avvenimenti insignificanti, piccole cose, eventi tristi perché dimenticati, il poeta inglese con il suo minimalismo misurato e flessibile ci dice molto di più sul mondo di oggi di quanto lo possano fare i minimalisti inconsapevoli, coloro i quali usano il «commento» a fatti del quotidiano e a fatti di cronaca tanto per rimpolpare la propria poesia in crisi di identità. Il poeta inglese ci narra di porte girevoli, di porte di vetro, di un tubo bianco luminoso, di tre bellissime gemelle italiane, delle giacche nel negozio di vestiti usati, di una passeggiata a Parigi, di una sosta a Milano, di un incontro fortuito con una sua vecchia fidanzata finita nel soppalco dell’oblio, di una mendicante all’entrata della metro che rivela essere stata un agente segreto, di sogni trattenuti nei rami degli alberi, di strade battute dalla pioggia, di mendicanti che bussano ai vetri delle macchine ferme nel traffico, di autisti inferociti dalle soste insopportabilmente lunghe e pronti a inseguire gli stessi molesti mendicanti, salvo poi, con una virata straordinariamente efficace di scrittura, ritrovarli comodamente seduti ai tavolini d’un ristorante italiano, coperti da monete tintinnanti frutto della questua quotidiana; eventi  del nostro microcosmo, gli atti e i fatti del quotidiano degli uomini e delle donne del XXI secolo che disegnano una realtà ultronea, incomprensibile, o forse troppo comprensibile; la narrazione è la tranquilla esposizione dei fatti nudi e crudi, lo stile è dichiarativo, privo di orpellismi. Un diario di un sognatore di sogni vuoti.

Exile

    There’s the path if you chuse it

                    – John Clare

I pursue him for years through spattered streets. One morning I abandon the chase and take the road out of town. Puffs of cloud keep pace with me. I am nothing, and alone, and everything is possible. I walk until the air grows brown, weaving dreams around trees. Their branches brush my face like fingers, or tear as if their stories would draw blood.

 Esilio

 Il percorso c’è se lo scegli

– John Clare

Lo inseguo da anni per le vie bagnate dalla pioggia. Una mattina abbandono la caccia e prendo la strada che porta fuori città. Nuvole di nube mi seguivano. Sono nulla, e solo, e tutto è possibile. Cammino fino a quando l’aria non inizia a diventare scura, sventolando i sogni negli alberi. I loro rami mi sfiorano il volto come delle dita, o lacrime come se dalle loro storie scorresse il sangue. Continua a leggere

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Mario Gabriele, Poesie scelte da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017), con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Ci sono state calunnie su Donovan,/ ma il vento ha pulito le piazze

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Gaetano Salveti, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Francesco D’Episcopo, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it

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la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Astorialità per eccesso di storia definirei questo ultimo lavoro di Mario Gabriele, al quale corrisponde un pluritematismo e un pluristilismo, in linea con i fondamenti della «nuova ontologia estetica». Ma la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo, e parole monouso gettate nella discarica abusiva dell’epitelio semantico dove questa poesia soggiorna gratis con tanto di permesso di soggiorno e di tramonto.

Dire che nella poesia di Mario Gabriele c’è solo metalinguaggio equivale a dire che tutto è metalinguaggio, il nostro ordo idearum è fondato sul metalinguaggio, che lo stesso ordine significante è un metalinguaggio in azione, che non c’è una significazione «ultima» del linguaggio e non c’è mai stata neanche una significazione «prima», che non v’è parola né ultima né prima, la parola, e quella poetica in particolare, semmai si pone come «mancante», come non-presente. Così, genialmente, la poesia di Gabriele mostra come tutta la tradizione poetica è finita nel buco dell’ozono della propria disparizione. Al posto della parola che cercavamo troviamo altre parole, quelle usa e getta, e così via, l’una tira l’altra in un saliscendi senza fine, come al luna park. Non c’è alcun linguaggio perché tutto l’armamentario linguistico della poesia moderna è diventato metalinguaggio, cartapesta linguistica e iconica.

È il linguaggio in quanto metalinguaggio che apre nell’esistenza il vuoto entro cui la parola si dà come rifrazione di presenza-assenza, specchio duale che autoriflette il «vuoto» di cui essa è presenza. La poesia di Mario Gabriele può essere intesa alla stregua di una immensa e variegata superficie specchiante che riflette altri specchi, che vive in un gioco di rifrazioni e di rimandi semantici ed iconici. Ma si tratta di rimandi svuotati di qualsiasi simbolismo, sono specchi vuoti che riflettono il vuoto, come in una famosa poesia di Kikuo Takano. Il «viaggio», che l’autore richiama finanche nel titolo, nel nostro mondo telematico e globale è ormai diventato un viaggio turistico con tanto di accessori e di monitor, non è più possibile alcuna autenticità se non nel similoro e nel kitsch. Le poesie di oggidì che trattano con seriosità il tema del viaggio, fanno sorridere per la loro bontà perché periclitano agevolmente nel kitsch e nel piacevole, si adattano al piacevole e all’intrattenimento, sono un diversivo al gioco della canasta e della macumba.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaMario Gabriele  intende il «viaggio», appunto, «con Godot», con questo misterioso ospite che è la nostra Ombra, il nostro irraggiungibile sosia. Siamo noi stessi Godot, per questo non potremo mai raggiungere la nostra interiorità perché essa è stata ampiamente colonizzata dall’Altro dell’Altro, non c’è più nemmeno un angolino, un ricettacolo di autenticità nel mondo disilluso e amministrato da un ordo rerum onnivoro e globale.

Non v’è più alcuna economia monetaria della dicibilità perché tutto è diventato dicibile, tutto è scambiabile in base al valore di scambio, e la parola non fa eccezione, anch’essa è finita nell’imbuto del valore di scambio, perché non può esservi una esteriorità che non sia inclusa anche nel linguaggio, ed il linguaggio è il luogo per eccellenza dell’ambiguità e del gioco semantico della significazione, di ciò che non rientra nel linguaggio: quel misterioso «di-fuori» che si chiama «mondo». È per questo che la nuova poesia di Mario Gabriele, così sofisticata da apparire ingenuamente fuori-moda, si presenta come un manufatto ultroneo, ammicca ossessivamente a questo nuovo ordine post-simbolico fitto di simulacri nel quale oggi siamo tutti immersi, dove non c’è dialogo che possa durare qualche minuto, «Il Dialogo fu di breve durata» scrive ironicamente Gabriele in una poesia della raccolta, perché non c’è più nulla di cui dialogare, le cose si capiscono benissimo nell’ambito di un’altra economia monetaria, quella dei titoli di borsa e del mondo ridotto a intrattenimento futile, un ottimo fertilizzante per le menti decorticate della società mediatica.

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione. Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens, il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso.

In In viaggio con Godot, è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio», in una traslocazione locomozione senza tregua… è il linguaggio che si sottrae a se stesso… il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere un rinvio continuo… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vede nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si serializza in una molteplicità di sintagmi.

Nel volgere di pochi anni si è avverata la previsione di Marcuse: «è probabile che il secondo periodo di barbarie seguirà  ad un lungo periodo di civiltà». Il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza sen­za precedenti è la più imparziale delle accuse contro lo stesso processo della civilizzazione capitalistica, l’arte e la cultura sono state ammorbidite e derubricate a sottoprodotto del prodotto, della merce. L’ideologia dello sviluppo è profondamente irrazionale, non c’è più nulla da sviluppare se non la nostra barbarie ininterrotta. In un mondo in cui dieci famiglie detengono la ricchezza di circa quattro miliardi di persone, non è più possibile fare poesia, almeno la poesia che abbiamo conosciuto. E Mario Gabriele si è regolato di conseguenza. Per questo la sua poesia spinge oggettivamente verso il «nuovo». Pur all’interno di un mare di ciarpame e di belletristica mediatica essa diventa, oggettivamente, «irriconoscibile», in quanto non-merce che assume l’apparenza di merce che Gabriele derubrica a sub-merce.

Mario Gabriele è un poeta troppo dotato per non aver tirato le conseguenze in sede estetica di questa situazione macro storica, la sua è una poesia che assume la presunta «ricchezza» delle merci e delle citazioni della cultura mondiale come specchi per le allodole, è una poesia che si assume l’onere di essere il garante e il guardasigilli della non-verità del mondo amministrato.

Strilli Gabriele2

Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.
(Th.W. Adorno)

[…]
«già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione- e la società borghese non glielo perdonerà mai del tutto – e allora deve rendersi utile mediante una specie di valore d’uso, modellato sul piacere dei sensi. Così si falsifica, allo stesso modo di come si falsifica l’arte (…) il piacere sensoriale conserva qualcosa di infantile quando si presenta nell’arte in maniera letterale, intatta. Solo nel ricordo e nella nostalgia, non come copiato e come effetto immediato, esso viene assorbito dall’arte (…)»
[…]
«All’ontologia della falsa coscienza appartengono anche quegli aspetti nei quali la borghesia, che tanto liberò lo spirito quanto lo prese alla cavezza, accetta e gode, dello spirito, proprio ciò in cui non riesce completamente a credere – maligna anche contro se stessa. Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con la sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta».

«L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata»1].

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».2]

1] T.W. Adorno Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, trad. it di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, 1975 pp. 21 e segg.

28

La sera ci sorprese
facendo del giorno un rapido declino.
Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue
della signora Polonskij.
Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:
rondine di altri cieli e di altri nidi!
-Qui dura ancora il turnover.
Vado all’estero, mi rifaccio una vita,
troverò un lavoro,
avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.
Una stagione infausta si ferma
stretta dalle corde dell’autunno.
Nei vecchi bungalow si contano le ore.
La casa lungo il fiume
non ci appartiene più,
è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.
Max sta finendo Psicostasia politica.
Ti rivedo nel Bacio di Klimt.
Non c’é tavolozza senza il nero.
Quando Marisa tornerà da Dortmund
sarà come un lampo a ciel sereno,
chiederà le catenine di Istanbul,
prima di dire:-oh mamma, mamma,
perché sei rimasta così sola nel silenzio?

Strilli Gabriele

33

Da quale rovo sei venuta?
La stagione porta trappole.
Temi le Centurie, i mesi bisestili.
Un testamento è nel Caveau.
Aspettami quando il leone e l’agnello
si saranno fermati all’ombra delle oasi.
Noè ha attaversato il Topanga Canyon.
Il frutto dell’albero è maturo.
E’ diventata cieca la tua memoria.
Una tettoia d’anni è finita sul selciato.
L’anfora è rotta, Ubaldo!
L’anfora più bella è rotta.
Sono venuti giù acqua e neve.
A tratti si è fermato l’anticiclone.
Il vecchio Osborne non se ne è accorto.
Sta a guardare il sole che nasce e muore.
Preghiamo per i nostri gelsomini.
Il Signore solleva dalla polvere il misero,
innalza il povero dalle immondizie.
Scendiamo in una valle silente
nel giorno di tristezza di Makeda.
Il gran sacerdote,
lasciò messaggi nelle crepe del Muro,
senza piccioni viaggiatori
e pagaie, azzurro-mare.
Il pony express aspetta.Tace.
Augura: Feliz Navidad.
Il cammino si accorcia,
senza il miracolo da ponente.
A Daisy non diremo nulla
che possa scuotere i rami del suo bosco,
nulla di come è fatto il lazzaretto.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli Gabriele Ci sono anni che sembrano boschi

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Un confronto tra lo spazio espressivo integrale di Sandro Penna, tipico del realismo lirico novecentesco e una strofa di Tomas Tranströmer del 1954 Poesie di Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, J. Haddad, Francesca Dono, – Commenti

Gif metro

La vita… è ricordarsi di un risveglio/ triste in un treno all’alba

 

Sandro Penna «chiude» la tradizione lirica del primo novecento, quella facente capo a Saba e al primo D’Annunzio di Primo vere (1880). Il suo spazio espressivo è fondato sulla tradizione melodica e sulla sintassi lineare, sfruttando di queste componenti le qualità melodiche ed eufoniche. È il tipico poeta che viene dopo una grande tradizione melodica, che vive e prospera sulla immediatezza melodica ed eufonica di questa tradizione portandola al suo livello più compiuto.
Lo Schema metrico è fondato sugli endecasillabi, due strofe di cinque versi, con assonanze dissonanti (veduto-sentito) e opposizioni concordate (l’azzurro e il bianco).

Una poesia Sandro Penna

La vita… è ricordarsi di un risveglio

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.

(da Poesie, a cura di C. Garboli, Garzanti, Milano, 1989)

Più che parlare di «spazio espressivo integrale» io qui parlerei di una omogeneizzazione stilistica che proviene da una lunga e felice tradizione melodica.

Foto uomo tigre

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno

Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer

Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Traströmer:

Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.

Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.

Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.

Leggiamo quest’altra strofa:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

Mario Gabriele In viaggio con Godot cover 1

Carlo Livia

13 novembre 2017 alle 12.59

Caro Giorgio, condivido metodo e fine della tua analisi comparata, e anche aver scelto Penna come esemplare di maggior risultanza icastica di un atteggiamento espressivo ancora fatalmente imbrigliato nei vincoli della vecchia onto-logia, cioè di un rapporto pensiero-essere che non può svincolarsi dalle tradizionali codificazioni mimetiche, che presuppongono non solo isomorfismo, ma subordinazione del pensiero- linguaggio ai (presunti) immutabili caratteri e confini del reale. Che tra logica e ontologia regni totale eteronomia è inconfutabilmente acquisito dalla riflessione dell’analitica del linguaggio (Frege, Wittgenstein, ecc.); ciò ha avuto importanti riflessi anche nella riformulazione estetica, etica, assiologica, di strumenti e destini creativi, culturali e antropologici.

In passato abbiamo spesso polemizzato, come ricorderai, soprattutto perché non condividevo la tua faziosità e le tue furiose stroncature, per me eccessive, ma devo riconoscere che mi sbagliavo: si tratta effettivamente di farsi protagonisti di una svolta epocale, che passa anche per l’arte e la letteratura, la sua funzione, la sua analisi critica, il suo contributo all’evoluzione di configurazioni psichiche e prassi culturali e sociali.
Il pensiero poetico (dove l’essere, attraverso il linguaggio, accade, sorge alla luce) ha da sempre un funzione insostituibile nel rinnovare e liberare da codici, norme e ideologie fossilizzate e violente; non è casuale l’ossessiva volontà, da parte di tutti i totalitarismi (compreso quello consumistico-tecnologico in cui sopravviviamo emarginati, nascosti nell’…ombra!) di perseguitare e sterminare i poeti.

C’è un solo particolare da cui dissento, che la svolta sia stata compiuta dall’opera di Tranströmer, che è certamente, anche perché psicologo del profondo, uno dei più consapevoli esegeti delle nuove dinamiche intrapsichiche e delle mutazioni linguistiche che le determinano e descrivono: Ma Rimbaud ha fatto qualcosa di simile un secolo prima:

Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante
e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque
e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono,
nel loro silenzio atrocemente agitato…

(Da Illuminazioni)
Per non parlare dei paesaggi onirici e deliranti dei surrealisti, specialmente francesi e spagnoli:

”A Vienna ci sono dieci ragazze,
una spalla dove piange la morte
e un bosco di colombe disseccate.
C’è un frammento del mattino
nel museo della brina.
C’è un salone con mille vetrate…

(F. G. Lorca da Piccolo valzer viennese, L. Cohen ne ha fatto una versione inglese in musica)

Foto in Subway 50 years

Entrammo. Un’unica enorme sala,/ silenziosa e vuota

Giorgio Linguaglossa Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA – LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Poesie e Commenti di Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Tadeusz Rozewicz, Alfonso Cataldi, Serenella Menichetti, Adeodato Piazza Nicolai

Foto Bauhaus 1

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità»

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:10

Dice bene Luigi Celi quando scrive che Eliot, Pound, Mandel’stam (ma io ci aggiungerei anche Pessoa, i polacchi: Milosz, Herbert, Krinicki, Rozewicz, Szymborska… i cechi Petr Kral, Ajvaz, Topol, Reznicek… gli svedesi Tranströmer, Frostenson, Aspenstrom… il finnico Rolf Jacobsen, la bulgara Josifova, la rumena Crasnaru, gli italiani Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino, le italiane Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna etc.) sono i basamenti sui quali è fondata la nuova ontologia estetica. Il basamento degli autori modernisti è quello che ha fatto la grande poesia europea del primo e secondo novecento, questo è indubbio. Penso che è da qui che bisogna ripartire. Tracciare le coordinate della migliore poesia europea è utile, anzi, indispensabile; fare critica del presente e del passato è il miglior veicolo per allestire la poesia del presente e del futuro.

Certo, all’interno di questo ampio ventaglio della poesia europea ci può stare chi, come Antonio Sagredo, privilegia un autore piuttosto che un altro, o che voglia spostare il baricentro della NOE un po’ più ad est… questo è ammissibile, e anzi anche auspicabile, ciascuno può e deve forzare l’elastico della NOE dove e quando e nella misura che ritiene più opportuno…

Sul problema dell’Essere e del Nulla, io ho la mia posizione, ma ciò non significa nulla di costrittivo, ciascuno può nutrire le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Presento qui alcuni miei «appunti» sulle questioni più propriamente filosofiche toccate dal saggio di Luigi Celi.

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.

Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Strilli Rago1Sul Frammento

Il frammento reca incisa in sé la traccia dell’essere-per-la-morte,apre un varco dal quale si può sbirciare nella dimensione dell’iscrizione della mancanza, nel vuoto che si apre nella mitica pienezza ontologica dell’essere.

Ma c’è mai stato un’epoca della mitica pienezza dell’essere? O è un nostro abbaglio? Un miserabile infortunio del pensiero?

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Sta tra il dado e la clessidra.

Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento». L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Si può anche dire così: il frammento è la dimora stabile dell’Estraneo.

Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.

Strilli LeoneSul Nichilismo

L’atto originario è un venire in presenza, ma può venire in presenza solo in quanto esso è un atto a partire dalla indistinzione e indifferenza del nulla che l’origina. Così, l’atto originario che viene in presenza è lo stesso atto originario che si auto annulla e recede nella indistinzione e nell’indifferenza del nulla. L’atto originario, proprio in quanto crea il tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio in quanto si-fa-presenza si fa anche assenza, ossia abolizione di essere e di presenza.

Il nichilismo è un immenso campo di possibilità, significa che il nulla è prolifico. Il nichilismo è il luogo della possibilizzazione di infinite possibilità espressive, indica che tutte le questioni sono aperte, che tutte le questioni sono possibilizzazioni del pensare, tutte le questioni sono possibili. In questa ottica si ha una grande estensione delle possibilità estetiche come forse mai si è avuto nel passato.

Presso i minimalisti inconsapevoli di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia e dell’arte alla moda di oggi.

Tra l’altro, agli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc. sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Král A tratti un libro ripostoGiorgio Linguaglossa

10 novembre 2017 alle 10:32

Ricevo e pubblico due poesie di Adeodato Piazza Nicolai alla maniera della nuova ontologia estetica:

Adeodato Piazza Nicolai

Alice nel paese del post-reale

Senza alcuna meraviglia. Manca soltanto un minuto
allo scoccare del vero
che non c’è. Poiché semplicemente non esiste…
[…]
scoccano le sei del pomeriggio serale. Ancora non nasce
la prima-vera. Il matto cappellaio non sa confezionare
il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie.
S’è appisolata sulla sponda dell’invisibile naviglio
dove il mago cinese sembra alquanto impaziente: ha quasi
perso la sua memoria e la regina lo incalza con inclemenza.
[…]
Quel mago fuori di testa è l’assassino che vuole far fuori
Il cappellaio nascosto dietro il pollaio
dove sospetta la differenza fra uovo e gallina.
O Alice, povera fanciulla caduta nel buco che non esiste.
Da lì fuoriesce l’amico coniglietto incapace di darle alcun consiglio.
Scappa, Alice, fuggi velocemente. Attenta al terrificante riflesso
dell’incantevole specchio dorato ma frntumato alla base …
[…]
Accipicchia a quel maledetto riflesso che illude ogni cosa
e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro
per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà.
[…]
Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza
per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.
Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.
La fuga per sempre sarà fugata/frugata e mai consumata dal fuoco
che non può bruciare e neanche bucare…
Bussa alla porta del Mad Hatter e/o Capellaio Matto
però nella casa non c’è più nessuno.
Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza
finale.
Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca
di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.
Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello
che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.
L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance
scivolano lacrime di gioia…
Postscriptum: domani verrà la nuova puntata quando
la Rossa Regina, nascosta in cantina, ordinerà le guardie
regali d’imprigionare il Mago cinese. Good-bye fino
alla prossima cinepresa…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 8 novembre, ore 21:45

I venetoi trasumananti
[—]
Un fosco mattino come pochi a Venezia. Un timido Ashenbach
chiuderà gli occhi per sempre sulle sabbie del Lido.
Pallido, certamente ammalato era sceso da qualche cittadina
austro-ungarica per l’ultima vacanza sulle strade immorali…
Passeggia sulle rive dell’Adriatico, una rosa nell’occhiello,
in cerca dell’ultimo bordello.
[…]
Cavalcati dai Venetoi, splendidi cavalli corrono sui colli.
… Arrivano i romani imperiali a soggiogarli;
dopo il millenio e alcuni centenni, anche
2 guerre mondiali attraverseranno il loro fertile territorio
e nel dopoguerra (anni 50-60-70) tanti di loro scopriranno
il dolce boom statunitense …
tutto cambierà: contadini-impresari, nobili e certi operai
faranno enormi fortune alle spese della Madre Gea — sono
esportatori di vini in tutto il mondo, di scarpe eleganti, di macchinari
e pure armamenti, tecnologie avanzate, ecc. ecc.
ingrasseranno le pance di banche e ricchi padri-padroni.
[…]
Più tardi spunterà la Lega nordista colma di sogni-promesse-
fandonie
per mandibolare i poveri superstiti nelle venete pianure
insieme alle montagne… Il loro slogan: “Far-Fuori-Roma-Ladrona”.
Alla fine anche loro diventeranno ladri e truffatori,
rispettabilmente marci ciarlatani.
[…]
Mediocri città, piccoli paesi e magre cittadine del Veneto,
insieme ai villaggi delle Dolomiti, si spappoleranno:
emigranti in ogni angolo del mondo in cerca di lavoro
e la tragedia cresce tuttora!
Appena concluso il referendum per ottenere poteri speciali
Ploden/Sappada diventerà terra friulana, abbandonando
(per agevolazioni economico-politiche?)
la Provincia di Belluno e passando al Friuli.
Quanti altri paesi confinanti seguiranno l’esempio?
Forse Cortina, Regina delle Dolomiti, sarà la prossima.
[…]
Due giorni fa un cadorino ventunenne
morì drogato …
con vari amici al funerale; fu sepolto in questo modo
un altro membro
del clan post-moderno venetoiano e non vetruviano …

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 9 novembre, ore 6:22

LD07

«la metafisica trapassa in micrologia» (Adorno)

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:51

‎Serenella Menichetti‎ da La scialuppa di Pegaso (FB)

MOLTI MA MOLTI SECOLI FA
C’ERA UN PAPA

C’era una volta un papa.
-Quale papa?-
-Un papa tutto d’oro
che spesso mangiava.-
-Che mangiava?-
-La pappa al pomodoro.
E poi si addormentava.-
-Dove si addormentava?-
-Sopra un trono.
Un trono tutto d’oro
e poi si risvegliava.-
-E che faceva?-
-Faceva colazione
mangiava un bel calzone,
con dentro un gran ripieno.-
-Che ripieno?
Addirittura un treno.-
-Un treno?-
-Si, un treno.
Un treno di prosciutto
se lo pappava tutto.-
-E poi?-
– Faceva un gran bel ratto-
-Ratto?-
-No, un gran bel retto-
-Retto?-
-No, un gran bel ritto-
-Ritto?-
-No, un gran bel rotto-
-Rotto?-
-Si, lui rompeva tutto.-
-Perchè tutto?-
-A causa di quel rutto-
Serenella Menichetti
“Filastroccare Fantasia in rete”

Strilli Tranströmer 1Gino Rago

10 novembre 2017 alle 10:58

Nel poema “LORO”, da me letto, riletto, metabolizzato e perfino AMATO, per il carico di novità di linguaggio non già specificatamente per i motivi e/o i temi che l’autrice affronta, Edith Dzieduszycka che atteggiamento assume verso il tempo? Che rapporto instaura con lo spazio? In quale conto tiene il ‘nominalismo’ (non necessariamente lirico): più precisamente, Edith Dzieduszycka parla di ‘alberi’, ‘animali’, ‘piante’ ,in generale, o gli alberi diventano pioppi, platani, cilieigi… E le piante vengono nominate come robinie, tigli, glicini… E lo stesso per gli animali e gli ‘uccelli’?

Nel caso di “LORO” Edith Dzieduszycka quale ruolo affida all’IO? Che uso fa l’autrice della punteggiatura? Il poema di Edith Dzieduszycka è o no riconducibile e interpretabile all’interno del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale (formidabile strumento ermeneutico concepito e adottato per la prima volta da Giorgio Linguaglossa)?

Edith Dzieduszycka in “LORO” è nello spirito premoderno, moderno, tardomoderno, postmoderno o addirittura si muove nella dimensione del transumanesimo…? E altro e altro ancora…

Credo che oggi l’esercizio d’un tentativo non dico di ‘critica’ ma più semplicemente di ‘tentativo d’interpretazione’ di un testo poetico non possa più sottrarsi agl’interrogativi prima rivelati e/o sommessamente elencati, per evitare che non soltanto in poesia ma anche nella critica letteraria la desertificazione si spinga anche nell’Amazzonia.

Ciò detto, ammiro la vastità di dottrina di Luigi Celi. Ma da quando Giorgio Linguaglossa mi ha accostato allo Spazio Espressivo Integrale, come strumento d’interpretazione dell’altrui poesia, non me ne distacco quando cerco d’analizzare l’altrui poesia verso per verso, così come ho tentato di fare con LORO di Edith Dzieduszycka, con Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa, con l’ALLEGORIA recente di Mary Colonna, con ‘il gondoliere turbato‘ di Francesca Dono di appena ieri.

Strilli GriecoGiorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 12:14

Un esempio di interrogazione poetica del nichilismo.

Donatella Costantina Giancaspero

Ripieghiamo in direzione del bar


Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,

in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.

Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…

Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)

traduzione in francese di Edith Dzieduszycka

Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.

D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous jusqu’à le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.

Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…

Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. 
Tout au fond, reste le doute.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoCommento di Giorgio Linguaglossa

La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».

I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.

Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario: adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento, un completamento musicale della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.

La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…

«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. La nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]

1] M. Heidegger Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976 p. 370

Strilli Gabriele2Alfonso Cataldi

10 novembre 2017 alle 13:42

Per mia sensibilità (per mio gusto?) la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quella che sento più attinente alle richieste della NOE nel momento in cui si appresta a rappresentare “il buco nero entro il quale tutto precipita”. Nei suoi versi non si esplicitano case senza tetti, alberi senza radici, automobili senza motori. Non nomina mai “senza”, “vuoto”, “mancanza”, sono le immagini potenti a restituirci la sua idea di nichilismo.

 Anna Ventura

10 novembre 2017 alle 17:02

Mi piace,molto, la poesia di Donatella Giancaspero,capace di evocare tutti i fantasmi che si nascondono dietro un’espressione banale (“Quanto zucchero?”).Forse, anche, per un mio ricordo personale. Perchè le storie si assomigliano tutte,e solo la pialla del tempo può restituirci la serenità dell’indifferenza; il che,purtroppo, non è una grande conquista. Ma,col tempo, impareremo ad amare i nostri fantasmi:quando saranno (cito ancora Didimo Chierico)”come calore di fiamma lontana”.

Strilli RagoMariella Colonna

10 novembre 2017 alle 18:31

Donatella Costantina,

hai fatto qualcosa di assolutamente inedito, non soltanto (inedito) da parte tua, ma dei poeti in genere: hai acceso un cristallo di luce autunnale sulla banalità del quotidiano. Non voglio rovinale la persuasa linearità delle parole

disegnate o meglio scolpite nella grigia presenza della stagione che avanza, preferisco citarti:

«…Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?…».

Forte l’idea dei passanti che aiutano il crepuscolo a spegnersi nell’inverno avaro di sole, compagni di un breve viaggio… che poi vanno scomparendo e noi ” li lasciamo andare” .come assecondando un’onda che va a morire sulla sabbia. Che la domanda senza risposta sia proprio la più facile…è un notevole invenzione poetica. In fondo è proprio vero, è alle domande più semplici che non sappiamo dare risposta!

Poesia Nuova, intensa.

 Gino Rago

 10 novembre 2017 alle 19:25

Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…

” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”

Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…

In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è

mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…

Foto Emma Watson minimalist

«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano» (E. D.)

Strilli TosiMariella Colonna

11 novembre 2017 alle 0:42

Carissimo Adeodato,

la tua favola di Alice è ASSOLUTAMENTE STRAORDINARIA. secondo me il segreto si nasconde nel doppio livello di realtà-favola su cui fai scorrere i tuoi versi, doppio livello in cui favola e realtà si intrecciano si confrontano, si negano, e infine si abbracciano drammaticamente, senza mai rivelare dove dobbiamo orientarci per assaporarne il messaggio:

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.

Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello

che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.

L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance

scivolano lacrime di gioia…”

“…Il cappello / che tu volevi ferito a morte per troppo dolore…” è il testimone concreto dei fatti: ma non sappiamo quali fatti e perché proprio un cappello faccia da testimone

“…L’aurora lo vede sbiadire: forse è un sogno di Alice, CHE VOLEVA QUEL DELIZIOSO CAPPELLO TUTTO PER SE’, o forse è un incubo di Alice, che lo VEDE SVANIRE CON LACRME DI GIOIA. O forse è tutt’e due le cose…un SOGNO che diventa un INCUBO.

Per capire è necessario risalire indietro.

“…scoccano le sei del pomeriggio serale…”

“… il matto cappellaio non sa confezionare / il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie…” qui il riferimento molto realistico dovrebbe essere alla realtà. Luigina ha l’influenza ma non vuole stare a letto ed è… dispersa in quello strano Paese dove, “nascosto dietro il pollaio, un mago assassino “fuori di testa” vuol uccidere il cappellaio… perché (soggetto è il mago) sospetta che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina… oppure che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina (in tal caso il soggetto, colui che sospetta è il cappellaio); certo il dubbio sulla primogenitura tra uovo e gallina è storico e forse qui ha come effetto uno sconcertamento del lettore che certo non pensa più a Luigina che non vuole stare a letto con l’influenza, ma all’ipotesi della Creazione del mondo a cui si contrappone ormai da un paio di secoli e più la teoria dell’Universo in evoluzione che nessuno (il signor Nemo?)avrebbe creato dal nulla, tantomeno Dio in Persona. OGNUNA DELLE DUE TESI è COMUNQUE INDIMOSTRABILE, ma sembra che comunque la Scienza contemporanea abbia preso una strada diversa con la teoria dei Quanti e il Principio di Indeterminazione di Eisenberg.

Ad Alice, adesso, conviene fuggire via, troppi misteri e pericoli la minacciano. C’è anche quel maledetto riflesso dello specchio dorato che va in frantumi alla base e , quindi, riflette male nella parte bassa, proprio quella dove potrebbe specchiarsi Alice! Adeodato la esorta a stare attenta “Al terrificante riflesso… che illude ogni cosa e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà…”.

[…] l’allusione alla mancanza del Padre di Alice introduce discretamente un motivo familiare intimo che fa ruotare di nuovo il cerchio magico in una direzione diversa, con Adeodato al posto di Lewis Carroll.

“…Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza

per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.

Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.”

Si ritorna al mistero del cappello, sottolineato però dal mistero più estraniante e coinvolgente ad un tempo:

“…Nella casa non c’è più nessuno…”

“…Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza

finale…” Il poeta allora chiede aiuto e salvezza alla favola poetica…e riapre il cerchio magico

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare…”

Caro Adeodato, questa è una gran bella poesia e Alice-Luigina sarà fiera di te! Hai fatto un bel regalo anche alla NOE! GRAZIE!

Strilli Dono Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 8:43

Sono d’accordo con Alfonso Cataldi: “Ripieghiamo in direzione del bar” è una poesia NOE, per le ragioni che ha detto e perché vi è accadimento – tutto cinematografico, con pochi dialoghi, silenzi e rumore di passi –. A ogni verso corrisponde un istante, e come passa il tempo così fanno i versi. Cessati gli uragani delle fantasie di questi giorni, fa piacere potersi rifugiare nel bar di una poesia. Tutto è visivo, anche il fondo della tazzina del caffè:

“Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone. 

E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.

Nel fondo, resta il dubbio”.

Il verso “Nel fondo, resta il dubbio” pare un’espressione del viso.

Complimenti a Donatella Giancaspero.

Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 9:35

Io non amo tanto le poesie di Eliot. L’arrivo degli americani ha sempre creato in Europa degli scompensi. E poi allora andava molto il giornalismo; che in poesia significa fluenza discorsiva, ritmo e musicalità: tutte cose che con le poesie che si fanno qui, c’entrano davvero poco.

Sulla poesia “Loro” di Edith Dzieduszycka, mi pare dissi a suo tempo che è un testo catartico, che sembra uscito da qualche incontro di psicoterapia. Mi è piaciuto ma non capisco perché se ne parli tanto. Però Edith sembra avere un forte temperamento o, quanto meno, la forza sembra essere tra i suoi obiettivi. Ma ho letto quasi niente di suo.

Antonio Sagredo: con la poesia NOE c’entra poco o nulla, perché è poeta a modo suo; se ha qualche similare bisogna guardare a Carlo Livia. Però ultimamente ho letto cose di Sagredo che ho trovato più vicine allo stile NOE; ho il sospetto che ci stia lavorando, come pure sta facendo Calo Livia.

Non sono tanto d’accordo con questa affermazione di Giorgio Linguaglossa: “Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia”, più che altro non vorrei passasse l’dea, del tutto irreale, che il pensiero possa essere chiassoso e che si voglia portare il lettore sulle montagne russe; piuttosto, sì, su qualche cima innevata… Sono invece pienamente d’accordo con Luigi Celi quando annota che ” Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano”. Del risveglio, non del sogno !

Foto profil Marilyn bianco e nero

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile. (E.D.)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 12:19

Edith Dzieduszycka Tre poesie inedite da Grovigli

«Le previsioni del tempo sono buone».

Il respiro di prima si trasformò in sospiro.
E allora diventava quello lì.
«Una settimana.
A volte di meno, a volte di più».

Dipendeva dalla densità della nuvola.
«È solo un tentativo – dissi – vediamo cosa succede».

Lui aveva insistito, incomprensibilmente.
Ma intuiva la finta.

«Sarebbe solo tempo perso – ribadii – corriamo
sul filo del rasoio. Aspettiamo un po’
e forse sapremo qualcosa di più».

L’appartamento era polveroso, grigio,
per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre.

«Io avrei scelto il mare insieme a due coppie di amici
che a lei, chi sa perché, non piacciono affatto».
*
Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano.
Un sentore un po’ acido alla gola, appena passato l’uscio.
L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè.

Provava un disagio indefinibile.
Forse per l’autunno in arrivo?
In quell’incertezza stava ogni volta il lato antipatico della faccenda.
Come cambiano i punti di vista secondo l’umore!
Ogni casa ha la sua impronta, la sua emanazione specifica.
Far capire. Non dire.
Questo era il suo vizio.

«Perché non potrebbe andare sempre così?»
Dovrò fare la spesa domani.

Il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi.
Cosa avrebbero dovuto dirsi?, domandarsi?, confessarsi?
Ma, ripartire?
– Che parola vuota, per andare dove? –
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
«Il tempo che si calmino gli animi».
Però aveva insistito, incomprensibilmente.
Anche se non era nelle sue abitudini.

Ma questa volta era diverso.
Ormai non avrebbe saputo più niente.
Doveva farsene una ragione.

*

Due settimane fa, esattamente.
Aveva tutte le ragioni del mondo per essere scocciato.
Ma che ci faccio qui?
Sto diventando masochista?
Il dentista consigliava un antibiotico.
quella città nella stagione incerta,
un po’ malinconica, avvolta nelle prime nebbie leggere dell’autunno.
Solo per agitare un po’ le acque.
Per una volta potrebbe fare questo sforzo.

– Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette –

Cinque anni dopo si era ripresentato lo stesso problema.
Una persona gentile, discreta, un po’ eterea e distratta.

La loro vita era diventata più complicata.
Non se ne capacitava.

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile.

Mario Gabriele In viaggio con Godot Cover gialla

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

«Le previsioni del tempo sono buone»

«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

«Due settimane fa, esattamente»

Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

Strilli Busacca Vedo la vampaDonatella Costantina  Giancaspero

11 novembre 2017 alle 14:05

Cari amici,

Edith Dzieduszycka, Alfonso Cataldi, Anna Ventura, Mariella Colonna, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, vi sono grata per l’interesse che ha suscitato in voi questa mia poesia. L’ho conclusa proprio pochi giorni fa e non pensavo che Giorgio me l’avrebbe pubblicata sulla rivista. È stata un’autentica sorpresa! Anche il suo commento lo è stato e la traduzione di Edith, che ringrazio doppiamente. Ormai, quando scrivo, mi sento sempre più convintamente attratta dalla nuova prospettiva poetica indicata dalla NOE. Ho compreso che questo orientamento mi si addice alla perfezione. Probabilmente, lo cercavo da sempre, ma senza saperlo e soprattutto senza che nessuno me ne potesse dare indicazione precisa. Perciò, non potrò mai ringraziare abbastanza Giorgio Linguaglossa, mia imprescindibile bussola, per aver corretto la mia navigazione poetica, che se ne andava un po’ a naso, diciamo, seguendo l’intuito… Con l’ago puntato sulla NOE, invece, sento di poter raggiungere nuovi (e non effimeri) territori espressivi.

Ecco, cari amici, questo mi sento di dire in risposta ai vostri commenti tanto positivi.

Anche il poemetto di Edith Dzieduszycka, “Loro”, si inserisce nella ricerca operata dalla e nella Nuova poesia; e questo già prima che si parlasse di NOE. Un dato significativo del fatto che certi esiti espressivi si affermano necessariamente, perché imposti dalle direttive del Tempo storico.

L’originalità del poema “Loro”, a mio avviso, sta nell’insieme compatto di forma e contenuto: l’una necessaria all’altro, in quanto la crisi profonda dell’Io (“il suo scacco ontologico”, come ebbe a dire Giorgio, in un precedente commento), la crisi esistenziale, emergente da questi versi, non può altro che avvalersi di frasi brevi, chiuse in se stesse dalla punteggiatura. E di un tono perentorio, che trova nel parlato la sua manifestazione più forte. Molto è stato detto riguardo a questo poemetto e tutto davvero illuminante rispetto al suo significato. In ultimo, il saggio di Luigi Celi mi pare esemplare.

Concludo così, rinnovando il mio grazie, unito all’augurio… Buona poesia a tutti voi!

Foto New York traffic

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta». (Marcuse)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 16:29

Per tornare al caro amico e interlocutore Luigi Celi,

sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla nuova ontologia estetica, dopo la valanga di commenti, poesie, rilievi che sono piovuti in coda al suo articolo. Ormai questo nuovo modo di intendere il testo poetico è una realtà, la poesia italiana si è rimessa in moto (con quali risultati lo vedremo, ma già alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti).

La Nuova Poesia della nuova ontologia estetica è già di per sé un fatto nuovo, direi travolgente, travolgente (lasciatemelo dire) per la stagnante poesia italiana di questi ultimi decenni. Un fatto epocale, storico, in fin dei conti. Come scritto da molti poeti qui intervenuti, già da tanti anni i singoli poeti cercavano nuove vie, nuovi mezzi di espressione, certe novità erano nell’aria da molti anni, basti pensare a poeti diversissimi che non si conoscevano tra di loro prima di incontrarsi qui su questa piattaforma: Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Talia, Anna Ventura, Alfonso Cataldi, Carlo Livia, Mariella Colonna, Chiara Catapano, Vincenzo Petronelli, Adeodato Piazza Nicolai, Luigina Bigon, Mauro Pierno, Laura Canciani… più altri autori che si situano nelle vicinanze di questo nuovo Grande Progetto e che ci seguono da tempo con interesse…

Io dico sempre che il nostro punto di riferimento deve essere l’Acmeismo degli anni dieci del novecento, il movimento che ha cambiato il volto della poesia del novecento (non solo russo)…

ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata», e che di conseguenza, si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari, che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece, in realtà, nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa, non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una cosa nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, raccolta di rottami dalle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms… non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di frammenti.

Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi che quel grande circuito che è il CERN di Ginevra identifica un giorno sì e un altro pure, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando.

La poesia si è prosaicizzata, prosasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

 Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 18:09

con le parole di Marcuse:

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

*

Nel 2010 così rispondevo ad una domanda postami da Luciano Troisio:

Domanda: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Risposta: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta.

Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di

una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti: Mario M. Gabriele, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Costantina Donatella Giancaspero; né bisogna dimenticare la riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein: i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche », o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto

di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

 

foto Le biglie

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno (A. Sagredo)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:20

Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica» – Spostare? – Se mai rovesciarla perché sia più efficace e incisiva e capace di conservare in un museo la vecchia poesia del ‘900 – poi a proposito di T. S. Eliot (così amato da Luigi Celi, e lo capisco) l’ho così rivoltato come un guanto di vecchio ermellino che non si riconosce più il suo specchio e la sua finzione in BISTROT:

*
Bistrot

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate ,
l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti
ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora,
ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche,
s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria,
è volata dal tetto decollando d’un tratto,
e mirando una tempestosa sera primaverile
ha sciolto i suoi anelli e s’è destata.

E davvero non ci sarà da aspettare
per l’aria pura che risale dai vicoli,
che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti;
e davvero non ci sarà da aspettare
per improvvisare una maschera, non incrociare i volti.
E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere,
e per oziare e per le notti dei piedi ……….
che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia.
Non c’è tempo per noi due,
e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe
e per mille realtà e reazioni
dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

E davvero non ci sarà più tempo
di rispondersi: sarò vile e non sarò vile?
Andare avanti diritto e salire sulle scalinate
con la chierica ben in vista…
e saranno muti per la folta capigliatura.
Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero
e intorno nemmeno una fibbia allentata,
e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia!
Non avrò timore di armonizzare gli universi?
Nell’eternità non c’è tempo
per indecisioni e reazioni che riempirà.

Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate.
Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi,
Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio,
ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti
sopra la musica che se ne va da un domestico spazio.
Così, come stare al sicuro?

E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati,
gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa
e quando non enunciato mi blocco su un pianoro,
quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete,
come potrei allora finire
a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini?
Perché non dovrei tutelarmi?

E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati,
questi piedi senza armille, imbrunite e coperte,
ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!.
È l’afrore che s’allontana da un vestito
che mi fa annoiare così?
Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa.
E che dovrei tutelarmi, allora?
E come finire?

Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali?
E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe
di tanti uomini in camicia insieme sui balconi?

Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati
inchiodati sulle onde di mari tempestosi.

E il premeriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così!
Irruvidito da corte dita,
sveglio… attivo… o sanissimo realmente,
in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me.
Non dovrei, dopo le leccornie,
aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità?
Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo,
malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta
mancante su un vassoio…
io sono un profeta – e questo mi interessa.
Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi.
Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver contegno,
e alla lunga, ne ero confortato.

E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio,
prima delle porcellane e delle leccornie,
fra maioliche bianche e qualche mutismo
tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio
di rinascere con un pianto,
di dilatare l’universo all’infinito
e di fissarlo in una risposta liberatoria,
di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò!
Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
non vi dirò nulla!”.
Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo,
rispondesse: “È quello che intendevo.
Si, è così”.

Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto,
ci sarebbe stato un vantaggio,
prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze;
prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta.
E non è quello, o poco di più?
È possibile non dire esattamente quello che non intendo!
Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete:
ci sarebbe stato un vantaggio
se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo
ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse
“Si, è così.
Non è questo ciò che intendevo”.

Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole;
non sono uno del suo seguito, uno che non servirà
a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno,
dissuadere il principe, incerto indocile strumento
irriverente, infelice d’essere inutile.
Non politico, imprudente e disordinato,
privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente;
quasi austero,
o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso.

Divento giovane, divento giovane.
Indosserò calzoni srotolati per intero.

Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca?
Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli.
Traducevano le sirene il silenzio una all’altra.
Non credo che erano mute per me.

Se ne venivano verso la riva per la sessa,
scompigliando la nera peluria di onde avvilite
quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.

Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato
accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte.

Fino a quando suoni disumani ci assopiscono,
e ci leviamo – su, dalle acque!

(antonio sagredo, Roma, 21/22 maggio 2015)

Foto uomo tigre

gli uomini ribelli/ gli angeli dannati/ cadevano a testa in giù/ l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione (T. Rozewicz)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:25

Per Edith i miei personali apprezzamenti che si ripetono identici a quel che scrissi a proposito dei suoi versi: asciuttezza e profondità coincidono… che è qualità rara.

Mario M. Gabriele

11 novembre 2017 alle 18:09

Basta questa poesia, Sagredo, per stare un po’ in allegria compagnia, come sarebbe bastato, per esempio a Leopardi aver scritto soltanto l’Infinito. Ma per un vecchio enologo come me che custodisce il vino delle migliori poesie, trovo questi tuoi versi, a parte le risonanze eliotiane e il timbro ironico, un vero colpo d’ala a cielo aperto.

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 18:00

E aggiungerei – anzi aggiungo e dichiaro – che è ormai maturo, se non già marcio (“La terra desolata” come titolo è errato, la traduzione precisa è “La terra marcia”! ) il tempo di ri-iniziare un NUOVO TEMPO per la Poesia, così come sempre è stato all’inizio di un nuovo secolo… la NOE sta dando un piccolo contributo, che è gigantesco vista la piattezza assoluta dello stato in cui versa la POESIA Italiana e non solo… i tempi sono già maturi (mi ripeto) poiché saremo fra un tempo non molto lontano davanti a sconvolgimenti che dire epocali è un eufemismo banale e spicciolo.

Avevo già dato un esempio con i versi delle mie 10 “LEGIONI” nel 1989… inascoltati poiché pioneristici : e questo è cosa ovvia per chi non ha orecchie. Sarebbe il caso che mi si desse l’opportunità di postarli…uno alla volta e per l’ultima volta… lo stile è quanto ci sia stato di meglio negli ultimi 60 anni: presunzione? No, consapevolezza.

Giorgio Linguaglossa

novembre 2017 alle 19:25

Scriveva il poeta polacco Tadeusz Rozewicz nel 1963:

[…]
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.

43 commenti

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Luigi Celi: Appunti sul racconto/poesia LORO di Edith Dzieduszycka, sulla interpretazione psicofilosofica del poemetto di Giorgio Linguaglossa e sulla Nuova Ontologia Estetica

foto cry me a river

devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi – Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE

 Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avermi invitato più volte ad intervenire sulla rivista, ma motivi personali mi hanno impedito finora di pronunziarmi sul racconto poetico Loro di Edith Dzieduszycka. Scrivo adesso, senza piaggeria, riconoscendo molti meriti all’autrice. Il testo scritto da Edith mi piace; soprattutto mi piace come racconto. È un sogno ad occhi aperti, un po’ kafkiano, incalzante quanto basta, coinvolgente e distaccato quanto basta! Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE. Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido. l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla. Una caratteristica della prosa e della poesia di Edith è l’ironia.

L’io dice a se stesso:

“Ma devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi e dirmi; ‘Sei stato il più bravo. Il più coraggioso. Il Più’ ”. Si tratta in fin dei conti, e Linguaglossa in ciò ha ragione, di un attacco dissolutivo alla pletoricità dell’ “Io”; una messa in mora del suo presunto cartesiano primato, in nome, in questo caso, forse, delle conquiste psicoanalitiche. Linguaglossa non fa riferimento al Super io, che è una sorta di alter ego, spesso in dissidio con le altre strutture della psiche; egli tuttavia dà un’interpretazione psicoanalitica molto suggestiva, oscillando tra Freud e Lacan. Sulla scia delle sua scelta ermeneutica vorrei dire la mia.

L’“Io”, il suo presunto primato,

nel racconto della Dzieduszycka, esplode nello scheggiarsi della sua immagine in uno sciame di maschere e demoni persecutori. È ironica, la Dzieduszycka, di una ironia raggelata. L’ironia è un modo per relativizzare, velare e depistare. Poteva essere, Edith, più coinvolta e coinvolgente? Non lo so. Ma a volte occorre anestetizzare i propri ricordi, soprattutto se dolorosi; è necessario dare veste letteraria o teatrale, trasformare in personae, in maschere, le proprie memorie infantili, i timori, le angosce sopite. Mentre scrivo, penso all’amico Salvatore Martino, che non si è sentito coinvolto leggendo LORO, e mi viene da ribadire che si tratta di un testo in prosa, non di una poesia tout court, di una messa in scena attuata con brechtiano distacco. Salvatore Martino lo sa: fa bene alla scrittura e anche al teatro espressionista, che pure mirano al coinvolgimento, tenere un certo distacco, perché sia possibile capire non soltanto patire.

Le considerazioni di Giorgio, nel suo commento “psicofilosofico”, mi sono sembrate quanto mai stimolanti. Aggiungerei che l’“IO può essere assunto in tanti modi, come “IO” generico, io sociale, io borghese, aristocratico, proletario  oppure come l’“IO” struttura della Psiche, e certo forse, dietro quest’“IO”, si nasconde l’io individuale, il piccolo io che ha a che fare con il corpo, con la sofferenza e il piacere, con il desiderio e con il senso di colpa…. Ma quanti “io” esistono nella fenomenologia del soggetto? L’io è un camaleonte, è mercuriale, sguscia quando lo si vuole afferrare, definire. A me pare, però che noi complichiamo le cose, al fondo di tutto il racconto, ad essere assediato dai lemuri o dai demoni del “Super io persecutorio” (Freud) e l’io reale o anch’esso fantasmatico di chi scrive, di Edith. Non vedrei tanto nei fantasmi che ossessionano l’io, il segno della ritorsione del desiderio generico dell’io-corpo che, non conseguendo l’“oggetto”, scaricherebbe la propria energia su se stesso, come un boomerang. Certo ciò che è rappresentato in scena è il conflitto tra Es, io e super io, ma la battaglia vera si compie non nella sfera strutturale, ma nel regno dell’individuale, del corpo e delle relazioni concrete.

foto volto con mano

l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla…

Si può dunque proseguire sul doppio binario dell’analisi strutturale e dell’analitica esistenziale. Mi permetto adesso di fare una digressione un po’ scolastica. Il Super io è, secondo Freud, una struttura psichica, che si costituisce nell’infanzia, come introiettato divieto dell’incesto. Esso può divenire persecutorio perché si è formato nei conflitti familiari, quando il bambino che desidera la madre, arriva ad allucinare la soppressione fisica del padre; per questa fantasia di amore e morte si genera il senso di colpa o si costituisce la coscienza etica, come introiezione super egoica del divieto dell’incesto. La bambina, ovviamente – secondo questa lettura mitico-simbolica (l’Edipo è un mito) – desidera il padre e vorrebbe sopprimere la madre. È invalso, a questo proposito, parlare di Complesso di Elettra, come variante al femminile del Complesso di Edipo. Se ritorniamo allo schema psicoanalitico freudiano, accade che il Super io, introiettando il divieto, può divenire via via più rigido, e quanto più si irrigidisce tanto più continua l’azione repressiva dei desideri e delle pulsioni, amplificando le suggestioni e le distruttività mnesiche della colpevolezza (delle colpe reali o immaginarie) producendo fobie, sintomi d’ansia, disturbi della personalità e frantumate maschere persecutorie. L’io è per altro, in questo schema, una “struttura di mediazione” tra le pulsioni dell’inconscio e le istanze etico- sociali del Super io subcosciente. La funzione sociale del Super io non è del tutto negativa: essa è funzionale a “sublimare” l’istinto, a rendere disponibile l’ “energia psichica”, la libido, per fini culturali, civili, sociali. Piuttosto quando l’io non è più in grado di mediare tra gli istinti e le superiori istanze superegoiche dell’etica e del sociale allora si può entrare nella patologia. Non bisognerebbe demonizzare né l’inconscio, né il super io, né l’io psicologici, occorre solo considerarli nelle loro interattive funzioni, nella fisiologia e nella patologia del loro agire.

Questa chiave interpretativa del testo di Edith Dzieduszycka, può essere utile ad entrare in dialogo con quella sempre molto interessante di Giorgio.

Ci sono diverse possibilità ermeneutiche. Nietzsche sosteneva che “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.

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Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido

Forse la prendo alla lontana, ma si può interpretare anche il racconto di Edith

non guardando più solo al super io quanto piuttosto alla svolta subita dalla psicoanalisi freudiana dopo il 1920, con Al di là del principio del piacere. Freud studiando le “nevrosi traumatiche”, scopre che gli ammalati di questa sindrome – generalmente persone rimaste sotto le macerie di un bombardamento durante la prima guerra mondiale – tornavano continuamente e coscientemente sui propri traumi, non riuscivano a staccarsene. La sua scoperta rischiava di mandare in aria la sua teoria del rimosso e della necessità dell’anamnesi. Non erano esperienze inconsce, dimenticate, da riportare alla coscienza, a tormentare le persone affette da questo tipo di nevrosi. Il trauma può essere più o meno grave, ma se ha provocato la nevrosi traumatica – quale autocostrizione psichica tesa a rivisitare ossessivamente gli eventi dolorosi, traumatici, in una condotta che egli definisce “coazione a ripetere” – allora il soggetto, pur ricordando i motivi del suo trauma, non riesce a liberarsi; egli è come dominato da thanatos, una forza, una spinta interiore distruttiva, che Freud chiama anche “principio di morte” per opporlo al “principio del piacere”.

Thanatos è la seconda istanza pulsionale/funzionale, dopo Eros,

ad informare la psiche nelle interpretazioni freudiane dopo il 1920. Il caso rilevatore è stato quello di Hans, il nipotino di Freud, il cui papà è andato in guerra. Nel gioco del rocchetto, Freud individua la “coazione a ripetere”: il bambino lancia un gomitolo urlando “Fort”, cioè “via”, così agendo sembra rispondere a una necessità interna coattiva, mentre è più sereno nel riattirarlo a sé, quando dice “Da”, che vuol dire “qui”. Hans, rende attivo ciò che ha passivamente subito e che lo ha fatto soffrire. Freud dirà che il rocchetto sta per il padre di Hans, e che l’atto di scagliarlo lontano riproduce attivamente il trauma subito. Hans mette in scena nel suo gioco il momento doloroso, riattiva il distacco, mentre il momento libidico, gratificante, atto a compensare la sofferenza, passa in secondo piano. Ora Edith Dzieduszycka ha anche lei subito un doppio trauma: ci ha più volte raccontato di  aver perduto il padre, per colpa dei collaborazionisti di Vichy e dei nazisti e, per un certo tempo, di aver perso anche la madre, che fu incarcerata. La messa in scena teatralizzata del racconto LORO, è solo un modo di configurare, velare e sublimare una storia di persecuzione realmente subita. L’abilità di chi scrive è nel rendere meno drammatica la elaborazione dei ricordi per nulla rimossi, i pensieri dolorosi di cui è rimasta prigioniera, non del tutto  metabolizzati. Nella mia disamina critica di Cellule – un altro libro di Edith, pubblicata sull’Ombra  – ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione.

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ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione

II

La svolta modernista della poesia del novecento

 Il racconto LORO di Edith Dzieduszycka è stato riscritto, su suggerimento di Giorgio Linguaglossa, in forma-poesia, con gli accapo opportuni. Egli ha avuto anche il merito di rendere con ciò visibilmente attuale l’ironica frase, che la poesia moderna non sia altro che “l’arte di andare accapo”. Ed è dunque abilissimo, il critico, con questo coup de théâtre, nel voler dimostrare a suo modo che non c’è alcuna differenza tra prosa e poesia. L’assunto, con molte limitazioni, ha un suo fondamento storico nella svolta modernista della poesia del novecento. Il modernismo ebbe tra i suoi esponenti personalità di grande livello Ezra Pound, T. S. Eliot, Virginia Woolf, J. Joyce, Ernest Hemingway, F. Fitzgerald, Henry Roth, e tra i suoi affini Kafka, Céline, Emilio Gadda, Luigi Pirandello. Nel modernismo il razionalismo coesiste con l’empirismo, la sensibilità reclama nei versi concretezza, prossimità alle cose.

 Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica»

Nei commenti a LORO della Dzieduszycka c’è un intervento di Antonio Sagredo che, con mio grande stupore, critica uno dei maestri del modernismo, un poeta la cui importanza è universalmente riconosciuta, T. S. Eliot. Sembrerebbe aver poco a che fare, quest’intervento, con il testo di Edith, ma nella sua eccentricità, non so quanto intenzionalmente, Sagredo solleva alcune questioni che hanno attinenza con la NOE. A questo punto abbandono il discorso su LORO della Dzieduszycka per affrontare proprio alcune questioni estetiche e filosofiche che vengono sollevate, anche nei commenti sull’Ombra delle parole. L’attacco a Eliot di Sagredo forse tende, come fa spesso lui, a spostare il baricentro ermeneutico della NOE, da una linea più filo-occidentale, ad una che faccia propria i territori più misteriosi della poesia slava. Egli cita, però, anche, oltre a Chlebnikov e Majakovskj,  poeti occidentali  di grandissimo livello come Paul Valéry e Hart Crane, ma lo fa sempre per sminuire Eliot, per ridurlo a un poeta “che rappresenterebbe il marcio e il malato della poesia europea”. Nella storia della letteratura mondiale, ci sono autori di altissima rilevanza e in genere non si dovrebbero fare graduatorie; nella poesia russa, come non apprezzare poeti del livello di Puskin, Osip Mandel’stam, Bella Achmadulina, Anna Achmatova, V. Majakovskj…, esaltare gli uni non ci deve portare a disprezzare gli altri.

eliot 1

Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico

Vorrei spendere alcune parole su Eliot,

su come la sua poesia possa interessarci ancora. Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico. Egli sapeva gestire in maniera intensa il linguaggio alto con cadenze e ritmi di grande musicalità. Nei Four Quartets assume la tecnica del contrappunto, mutuandola da Beethoven e da Berlioz. Eliot comprese che occorreva fondere il linguaggio alto con il linguaggio basso, più prosastico, ricorrendo, tra l’altro, ai celebri “correlativi oggettivi”, che fanno palpitare di vita poetica le cose. Non dimentichiamo che in giovinezza era stato attratto dal simbolismo e più tardi dall’imagismo poundiano. Nei versi delle sue opere maggiori, la ragione ottiene il pieno riconoscimento dei suoi diritti; l’“io” è decentrato ed è un “io”plurale… cioè vengono convocati altri “io” nei suoi versi come ad un magnifico simposio, i pensatori del passato e del presente – Eraclito, Platone, Agostino, Tommaso, Bergson, F. H. Bradly, B. Russel, E. Husserl, J. Maritain e molti altri – e poi i grandi poeti. Eliot assume, mutandoli di segno, i versi dei suoi maestri e compagni di viaggio: Omero, Virgilio, gli stilnovisti, Dante, Shakespeare, i metafisici inglesi del XVII secolo; ha familiarità con i moderni e i contemporanei, J. Laforgue, Milton, Yeats, Valery, Auden, Joyce, Poe, Pound; sa attingere, senza darlo a vedere, dai Vangeli, soprattutto da Giovanni, dalle Epistole paoline e dai Profeti dell’Antico Testamento; da Ezechiele ricava tra l’altro il titolo del suo poema, La terra desolata (che non c’entra nulla con “terra marcia”); prende spunti, da Geremia, da Isaia e dai testi biblici sapienziali; utilizza i mistici come San Giovanni della Croce… Aleggia nella sua poesia il linguaggio mitico, le leggende nordiche, il Graal, parla di Adone, di Attis, di Osiride, innesta la storia antica nell’attualità, per cui un prototipo dell’uomo d’affari e della finanza del suo tempo, Stetson, può combattere a Milazzo durante la prima guerra punica! Aperto alle culture orientali, al buddhismo e all’induismo, esprime drammatica consapevolezza della deriva dell’Occidente, della desolazione della guerra. I suoi versi sono come una fiamma che si alimenta di una materia poetica sempre viva, con citazioni e prestiti, anche nascosti… Se non basta la vastità degli interessi e l’ampiezza della sua prospettiva a darmi ragione, non serve ovviamente neppure il premio Nobel a confermarne l’eccezionale livello, né il numero enorme di critici che su scala mondiale si sono occupati di lui. Direi, in ultimo, che l’importanza e la grandezza di un poeta dipendono non solo dal gusto di questa o quella persona che  li legge, ma dall’influenza che la sua poesia ha esercitato e continua ad esercitare sul piano  planetario.

Onto T. S. Eliot

La NOE deve molto ad Eliot e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea

    La NOE deve molto ad Eliot

e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea.  Linguaglossa lo ha compreso, si vede dalla sua citazione di Eliot, negli interventi critici a LORO di Edith, però, egli è subito contraddetto e con virulenza dall’amico Antonio Sagredo, troppo aggressivo, ingeneroso verso il poeta anglo americano.

La rivoluzione modernista non è ancora compiuta che già incalza la tendenza dissolutiva, di cui pur sempre essa era latrice per il doppio movimento verso la profondità e verso la superficie, verso la poesia e verso la prosa. L’unica possibilità di salvezza è l’equilibrio del doppio registro poetico prosastico. Non si può negare la deriva prosastica attuale, basata sull’imitazione delle traduzioni in prosa di poeti stranieri che spesso hanno scritto in rima; l’assunzione dei linguaggi dei traduttori, che non possono rendere la qualità originaria dei poeti stranieri, non è un’acquisizione positiva. Suono e senso dovrebbero concorrere; anche il nonsense vale per il suono, non in sé. Il linguaggio di certa poesia minimalista, sciatto, meramente enumerativo, vicino agli elenchi telefonici, l’eccessiva ricerca della spigolosità del verso, le cacofonie più o meno intenzionali, la rinuncia programmatica alla metrica, o anche solo al ritmo o all’unità formale del testo, pur nell’uso congruo del frammento, sono elementi di un nuova estetica che è come un tavolo che si regge solo su una gamba. Una differenza tra prosa e poesia bisogna conservarla, lo dice chi ha pubblicato come sua prima opera un prosimetro – L’Uno e il suo doppio (Bulzoni, Roma, 1997) – che quindi non ha rifiutato mai per partito preso la commistione dei “generi letterari”, evidentemente tramontati nella loro rigida separatezza…

  Una tesi da cui dissento, è che la poesia si generi ex nihilo.

Secondo il mio modesto parere, ciò non avviene, se non per metafora. Ogni opera poetica nasce indubbiamente dalla creatività del poeta ma è risultato di un lungo percorso personale e storico collettivo. Spesso i rimandi, i prestiti, le influenze sono determinanti per comprendere e valutare un testo di poesia.

In ultimo – ma forse ho capito male e vorrei che il mio dubbio mi fosse chiarito – non sono convinto che la battaglia per una Nuova Ontologia Estetica debba passare per l’accettazione, piuttosto che per la critica del nihilismo. Amerei trovare il senso “ontologico” della poesia piuttosto che il suo “niente” nei dibattiti dell’Ombra. “Ontos” sta per essere, logos sta per discorso, mentre mi pare che si intenda bypassare la differenza tra Essere e Nulla, tra Nulla e niente, tra pieno e vuoto, tra ontologia e nihilismo… La cosa è pericolosa, già lo ha visto Nietzsche – “Il nihilismo è il più inquietante dei visitatori, sta fermo davanti alle porte”… Figuriamoci se gliele apriamo! Può accaderci di essere invasi irrimediabilmente dai lemuri del racconto poetico di Edith Dzieduszycka. Faccio notare umilmente che certi démoni non si possono evocare, senza pagarne nel tempo le conseguenze e su più piani. Quali? Per esempio, se non si accetta la differenza tra essere e nulla è impossibile fondare un’etica. Vi pare poco? Due guerre mondiali, i Campi di Sterminio, i Gulag, i morti per fame a causa del neoimperialismo economico, il terrorismo internazionale e le emigrazioni planetarie sono esempi che non c’è stata né ci sarà mai alcuna nietzschiana “Trasmutazione dei valori”; che la vera “Etica del risentimento” è quello degli ignavi che non fanno niente per gli altri, e svalutano chi si impegna, quella di chi, dopo aver affamato e sfruttato interi continenti, si permette di condannarne la rabbia, di non aprirsi agli ultimi della terra, agli espropriati di ogni umana dignità. Questo è nihilismo. Il nihilismo è insito nelle ideologie laiche assolutizzate del nazismo, del fascismo. Il nihilismo è la porta della guerra e di ogni abuso, di ogni discriminazione e violenza perché elimina ogni differenza assiologica, oltre che ontologica.

  L’identificazione tra essere e nulla

è stata fatta, su  altri piani dai mistici, anche sotto l’influsso della teologia apofantica neoplatonica, perché si voleva dire che di Dio (dell’Essere assoluto) non è possibile alcuna conoscenza essenziale. Egli è al di sopra di ogni nostra possibilità di definirlo e conoscerlo, tranne che per analogie, per cui il suo Essere è oltre l’essere, ed è per noi come Nulla. Di fronte a Dio i mistici si ponevano con interrogante umiltà, in meditante silenzio, in attesa fiduciosa per un ascolto interiore e profondo, accompagnato dall’impegno alla conversione e all’amore. Il nihilismo è tutt’altra cosa. Aggiungo che si potrebbe scrivere una storia del concetto di Nulla e si vedrebbe come la questione del nihilismo è solo marginale, rispetto ad essa. Parlando delle stesse cose e con le stesse parole, può succedere di trovarsi in ambiti epistemici o ermeneutici totalmente lontani; tuttavia, dell’Essere e dell’ente, di ciò che permane o che diviene è sempre il caso di dibattere, non solo in relazione alla poesia. Per i poeti, certo, è più importante scrivere versi, ma chissà se saranno in grado, meglio dei filosofi, che hanno interrotto i loro sentieri per carenza di linguaggio, di interrogare la parola sulla grandezza e la miseria dell’ente.   

  Perché l’ente e non il nulla?

Ciò che si spalanca, nella contingenza e finitezza, è la costitutiva mancanza di “ragion d’essere” degli esistenti (Leibniz). Perché l’ente e non il nulla? Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?  L’ontica costitutiva indigenza degli enti – si nasce e si muore, e qui sorge la questione del fondo vuoto dell’esserci, richiede logicamente ed esistenzialmente una risposta. L’indigenza ontica è come una domanda inscritta nella carne della natura e nella storia. Il vuoto dell’ente si fa cosciente a volte nell’uomo, ma anche se non è consapevole di sé, si esprime tuttavia come angoscia, disperazione o speranza e ci sospinge verso il Nulla o verso il Pleroma. Noi viviamo proprio in questo “vuoto” – sunyata , in questa infinita apertura del finito (dicono i buddhisti), e potremmo non occasionalmente come Leopardi, ma sempre ritrovarci dietro la siepe dell’infinito. Il desiderio, il tendere, la dynamis segnano costitutivamente ogni ontica ed essenziale indigenza dell’ente, perché l’ente è e non-è, l’Essere invece è, non ha origine e fine, in tal senso è metafisicamente Infinito. Non è l’Essere che sta oltre l’ente, è l’ente che abita nell’Essere ed è l’Essere che abita nell’ente, che lo origina, lo sostiene e lo trascende. Quale sia il Fondo misterioso di questa compenetrazione, che uccide e risuscita, non credo che possa essere raggiunto con la sola ragione; solo un Dio può rivelarcelo. L’ente viaggia nell’Essere come nel tempo interno; nel tempo esterno l’ente è divenire: miscuglio di vita e morte. 

Chi non si appaga del finito, parla del nulla, perché ha  bisogno di Infinito.

Di queste suggestioni e possibilità voglio ringraziare tutti gli amici dell’Ombra, che non nomino solo per non dilungarmi.

Dopo aver seminato di perplessità e interrogativi il mio intervento, vorrei  esprimere una certezza. Merito di Giorgio Linguaglossa è aver inteso che la grande poesia non è mero sfogo di stati d’animo o superficiale levigatura impressionista di schermi, di fogli di carta e di specchi, ma ha profondamente a che fare proprio con l’Essere e con il Nulla, cioè con le dimensioni più profonde, evocate con il Linguaggio. Non qualsiasi linguaggio, ma quello che sveglia se stesso risvegliando le cose. Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano. La poesia guardando al futuro e alle cose, con lo sguardo dell’ente sull’assolutamente Aperto, forse può ritornare nella sua antica Casa ancora oggi disabitata.

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

  Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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LA NUOVA POESIA, OVVERO, LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – POESIE E COMMENTI di Mauro Pierno, Antonio Sagredo, Francesca Dono, Carlo Livia, Giorgio Linguaglossa

[gif  di Marilyn e Zbigniew Herbert]

Lettera di Giorgio Linguaglossa ad Antonio Sagredo

caro Antonio Sagredo,

Una interlocutrice ha scritto che ogni giorno «diventiamo sempre più sagrediani». Ben detto!, ho sempre pensato che gli «ultraplatonici ai quali sfugge sempre l’ingenuità» (Nietzsche), finiscono sempre per andare a braccetto con l’Euro e il Potere, con il conformismo dei nuovi clerici. Sia detto con la massima chiarezza: non interessano alla «nuova ontologia estetica» le capriole della poesia bene educata, quella fatta negli epicentri di Milano e nel circoletto romano di largo Argentina, noi siamo per una poesia sempre più sagrediana, sempre più mariogabrielana e sempre meno chiesastica (intesa nel senso: fatta da chierici).

Mi piace la bella poesia di Mauro Pierno fatta con gli scampoli del parlato di una mia poesia, mi piace questa ibridazione anche perché anch’io nelle mie poesie faccio frequentemente delle citazioni e dei richiami impliciti od espliciti a versi di altri poeti, così tanti che poi ne perdo finanche la memoria. Questo tessuto di scampoli, di stracci, di frasari perduti sono le nostre tombe, le nostre pietre tombali… ci stiamo bene nelle tombe… viviamo in una civiltà che ha fatto del passato un «immenso camposanto di lapidi» (cito me stesso), va quindi benissimo fare interagire «Evelyn» (personaggio inventato da Mario Gabriele) con le mie «Maschere», con il «tedio» di Pessoa, con il turlupinare sgomento di Antonio Sagredo e che il tutto finisca nella «Commedia» di Mariella Colonna. Tutto ciò è motivo di autenticità, molto vivo, effervescente come una poesia sagrediana! – La poesia deve vivere e prosperare sulla «crisi del senso», che è concetto complesso che i poetini della domenica mattina che poetano sull’io non possono minimamente neanche immaginare.

[Donatella Costantina Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb]

Mauro Pierno

L’intruso

dell’ombra
scalfisco la luce, quest’ultimo tratto indistinto
la stasi.
queste tregue di lenti fruscii, dopo,
dopo le parole in tempesta. dopo,
dopo l’acqua alta a Venezia
migliaia di volti in cornici dorate.
I volti dipinti parlavano tra di loro.
Dicevano: «Non fate entrare le ombre maledette!
Sbarrate loro l’ingresso!».
[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti.
Dicono: «Buongiorno» e «Addio».
l’intruso solo interruppe.

Una poesia di Edith Dzieduszycka si intitola «Groviglio». Ebbene, che cos’è il «groviglio»? Lascio la parola ad Adorno (filosofo troppo spesso oscurato dagli ignorantini poetini di oggi): «Il groviglio di fili, l’intreccio organicistico viene tagliato e distrutta la credenza che un elemento si combini vitalmente con l’altro, a meno che l’intreccio non diventi così fitto e arruffato da oscurarsi sul serio al senso»; «ma la soglia fra l’arte autentica, che prende su di sé la crisi del senso, ed un’arte rinunciataria, consistente in frasi protocollari in senso letterale e traslato, è che in opere significative la negazione del senso si configura come cosa negativa, nelle altre si riproduce in maniera cocciutamente positiva».1]

Facciamo dunque una poesia aggrovigliata, ibridata, sovrareale, che si fa beffe del senso, che si fa beffe del paludamento dell’anima bella e del pretesco poetese.

pittura Bauhaus

Facciamo dunque una poesia aggrovigliata, ibridata, sovra reale, che si fa beffe del senso

Alcuni pensieri sulla poesia della «nuova ontologia estetica»

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento.

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico come se nulla fosse.

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo.

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo.
Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda. Continua a leggere

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Fernando Pessoa (1888-1935), Poesie scelte di Álvaro de Campos,  Tre estratti dalle Odi di Ricardo Reis

 

Onto Fernando Pessoa

Nulla mi lega a nulla – Pessoa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Fernando Pessoa (1888 – 1935) Per tutta la vita, trascorsa per la maggior parte in una stanza ammobiliata in affitto a Lisbona, dove sarebbe morto in solitudine, Fernando Antonio Nogueira Pessoa rimase pressoché sconosciuto al mondo editoriale ed al grande pubblico. Oggi egli viene comunemente riconosciuto come il più importante poeta portoghese moderno, membro più rappresentativo del Gruppo Modernista conosciuto anche come Orpheu.
Era nato a Lisbona, il padre Joaquim de Seabra Pessoa morì di tubercolosi quando Fernando era poco più che un bambino, la madre si risposò con il console portoghese per il Sud Africa dove la famiglia si trasferì nel 1896. Qui restò per tre anni, imparando perfettamente la lingua inglese ed interessandosi alla lettura delle opere di Shakespeare e Milton. Tornò a Lisbona nel 1905 per iscriversi all’Università, avrebbe tuttavia abbandonato gli studi molto presto per iniziare a lavorare come traduttore per conto di aziende commerciali. Nel frattempo Fernando Pessoa iniziò a scrivere lettere ed articoli per riviste letterarie quali l’Orpheus, suscitando spesso vivaci polemiche per le idee ed i termini anticonformisti. La sua prima collezione di poesie Antinous fu scritta in lingua inglese ed apparve nel 1918. Pure in inglese furono redatte le successive due raccolte e soltanto nel 1933 pubblicò il primo libro, Mensagem, in portoghese che, come i precedenti, passò completamente inosservato.
La maggior parte delle sue poesie apparvero su riviste letterarie quali Athena da lui stessa diretta e sotto gli pseudonimi di Álvaro de Campos, Riccardo Reis e Alberto Caeiro, veri e propri alter ego, ciascuno dotato di una differente personalità e di un proprio background (Campos un ingegnere affascinato da Walt Whitman, Reis un dottore epicureo dalla solida cultura classica) che spesso animavano le pagine di Athena dandosi battaglia, ora lodando ed ora criticando le “reciproche” opere.
Fernando Pessoa morì il 30 Novembre 1935, la sua fama iniziò a diffondersi, in Portogallo e poi in Brasile, a partire dal 1940 e tutte le sue opere furono pubblicate postume. Ricordiamo Poesias de Fernando Pessoa (1942) ed Odes de Ricardo Reis (1946). La sua autobiografia scritta sotto lo pseudonimo di Bernardo Soares, apparve solo nel 1982.

 (Marco Roberto Capelli Fonte: http://www.progettobabele.it)

fernando pessoa 1

Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Ci tenevo a postare, prima o poi, un articolo con le poesie di Fernando Pessoa. Personaggio di poeta così complesso e sfaccettato che non è possibile racchiudere in una formula. Uno dei principali poeti del novecento europeo, uno dei massimi poeti del modernismo europeo. Oggi mi chiedo chi siano in Italia gli eredi del modernismo europeo, se c’è stato in Italia un modernismo europeo. E qui chiedo aiuto a Carlo Livia, lui so che ha meditato su questo problema. Che cosa significa oggi essere in Italia un poeta della nuova ontologia estetica è una cosa che è in rapporto, in qualche modo, con il modernismo portoghese ed europeo, è questo il senso profondo di riproporre la lettura di un poeta come Pessoa e dei suoi eteronimi. Pessoa il poeta che impersona la grande crisi della cultura europea degli anni venti e trenta.

Forse nessuno in Europa come Pessoa ha avvertito i segnali, i campanelli di allarme che tintinnavano dovunque. In Italia noi, in piena autarchia, avevamo un Cardarelli e il ritorno all’ordine de “La Ronda”… Così anche oggi quando leggo la poesia che va di moda. Un poeta, la grandezza di un poeta la si misura dalla sua capacità di andare in profondità del proprio tempo, di sondare la crisi del proprio tempo. Non si capisce niente di Pessoa e della grande poesia europea di quegli anni se non teniamo presente la crisi dell’Europa: la poesia di Mandel’stam, Eliot, Pessoa sta lì a dimostrare che alcuni poeti avevano intravisto, molto in anticipo sui propri contemporanei, la crisi di civiltà e di valori della cultura del loro tempo. Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa di allora. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi. La poesia è tra le arti forse quella più idonea a rappresentare la crisi di un mondo, del nostro mondo…

da Il libro dell’inquietudine:

Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere [147]

La generazione cui appartengo, quando è nata, ha trovato un mondo sprovvisto di fondamenta per chi abbia cervello e un cuore. Il lavoro di distruzione delle generazioni anteriori aveva fatto in modo che il mondo, sul quale siamo nati, non ci potesse dare nessuna sicurezza sul piano religioso, nessun aiuto sul piano morale, nessuna tranquillità sul piano politico. Siamo nati ormai in piena ansia metafisica, in piena ansia morale, in piena agitazione politica. Ebbre delle formule esteriori, dei meri procedimenti della ragione e della scienza, le generazioni che ci hanno preceduto hanno abbattuto i fondamenti della fede cristiana… [173]

Strilli Tranströmer 1Fernando Pessoa

Trippa alla maniera di Oporto

Un giorno in un ristorante fuori del tempo e dello spazio,
mi servirono l’amore come trippa fredda.
Dissi delicatamente al missionario della cucina
che la preferivo calda,
che la trippa (ed era alla maniera di Oporto) non si mangia fredda.

Si irritarono con me.
Non si può mai avere ragione, nemmeno al ristorante.
Non mangiai, non chiesi altro, pagai il conto,
e me ne andai a passeggio per l’intera strada.

Chi lo sa cosa vuol dire questo?
Io non lo so, ed è capitato a me…

(So benissimo che nell’infanzia di ognuno c’è stato un giardino,
privato o pubblico, o del vicino.
So benissimo che il fatto di giocarci era il padrone del giardino.
E che la tristezza è di oggi).

So questo molte volte,
ma, se io chiesi amore, perché mi portano
trippa alla maniera di Oporto fredda?
Non è un piatto che si possa mangiare freddo,
ma me lo portarono freddo,
non si può mai mangiare freddo, ma arrivò freddo.

Tabaccheria

Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me? No, nè in niente.

Strilli Rago Siamo uomini del dopo HiroshimaStrilli Rago1

Ode sensazionista Continua a leggere

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Mariella Colonna ALLEGORIA DELLA CONDIZIONE INFERNALE DELL’UOMO SULLA TERRA – Commedia, Il Carnevale di Venezia – Parte II Scena I – Traduzione in inglese di Adeodato Piazza Nicolai e una poesia di Giorgio Linguaglossa

 

Carnevale Masquerade

Premessa di Mariella Colonna

Sperimentare è il segreto di qualunque processo innovativo nei più vari settori della scienza e della cultura.
Scrive Mary Lou Cook, scrittrice americana artista e autrice di saggi: “Creatività è inventare, sperimentare, crescere, assumersi dei rischi, rompere regole, fare errori e divertirsi.” E io sono in piena sinergia con questa lineare interpretazione della creatività che è incentivo continuo a tentare il nuovo.
Tra le varie forme di sperimentazione quella che ha come oggetto il linguaggio è, per me, di grande interesse per la continua scoperta a cui conduce l’inesauribile potenzialità della parola a rinnovarsi e autogenerarsi… annullandosi.
E qui devo rivelare un particolare importante della “storia”.
Le poesie di Giorgio Linguaglossa sono molto vicine al teatro nella struttura stessa in cui trovano forma e per la presenza di personaggi inventati o da lui inseriti per “sim-patia” da opere di altri poeti: da qui è nata l’idea di “sperimentare” (repetita iuvant) quel mix tra poesia e teatro da cui ha preso anima e vita l’ “Allegoria”.

Che cosa è dunque l’“Allegoria”? Un controllato delirio in versi e prosa? Un curioso poemetto animato da note presenze di poeti della NOE e delle loro creature poetiche? E’ questo e forse altro ancora, ma non si propone come “POESIA” o Scrittura poetica. L’”Allegoria” è un testo aperto, su cui è possibile indurre l’evento della parola che si distrugge e si ricrea, scivolare o rimbalzare di battuta in battuta per dare corpo ad una nuova soluzione espressiva, ad un personaggio che vuole nascere o risorgere a tutti i costi e…forse nascerà, forse no.
All’“Allegoria” mancano tante immagini, situazioni, personaggi, tanti scultorei versi di Giorgio Linguaglossa, molte icone poetiche di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb, i versi solari di Chiara Catapano, lo scavo quasi archeologico di parole nelle ultime poesie di Donatella Costantina Giancaspero, i neologismi poetico-materici di Lucio Mayoor Tosi, i languori essoterici delle Novissime idee-avanguardia di Gino Rago e Antonio Sagredo, i raffinati sprofondamenti di Letizia Leone… e magari altri versi imprevedibili di Luigina Bigon e di Adeodato Piazza Nicolai e tanto altro ancora…
Chi avrà la pazienza di leggere questa mia premessa-testimonianza forse potrà aggiungere qualcosa di bello e di nuovo all’“Allegoria” e alle follie del Carnevale di Venezia gestito dal simpatico diavolaccio innamorato: il Signor Kappa.

Personaggi:

Le Maschere e le Ombre;
GiorgioLinguaglossa (alias Gi.Elle., alias Fantasma 2);
Giulio Cesare (alias Gi.Elle, alias Fantasma di Giorgio) ;
Signor Kappa (alias Kappa) ;
Prima ombra (alias K2);
Il Fantasma di Lacan;
Il Fantasma di Emme.Gi. (alias Mario Gabriel, alias Antonio);
Antonio (alias Emme. Gi.);
2° cittadino;
Evelyn (personaggio di Mario Gabriele);
Una mascherina mascherata (Odette di Emme.C.);
Fantasma coronato di alloro (alias Poeta, alias Gino Rago);
Giovane bionda bellissima (alias Elena moglie di Menelao);
Anziana signora giovanile (alias Ecuba Regina di Troia);
Costantina-Costanza (figlia di Costantino, alias Donatella-Costantina Giancaspero);
Cenerentola-Luigina (alias Luigina Bigon);
Il Clown (alias Adeodatto Piazza Nicolai, alias Principe, alias Poeta);
Coro delle maschere;
Gino Rago (alias Il Poeta coronato di alloro);
Ecuba Regina di Troia;
Elena, moglie di Menelao rapita da Paride;
Gi.Esse. (alias Giovane Sconosciuto).

Carnevale ballo del Doge

IL CARNEVALE DI VENEZIA

PARTE II

Scena I

Commedia di Mariella Colonna liberamente tratto e ispirato da alcune poesie inedite di Giorgio Linguaglossa: La notte è la tomba di Dio

Regia di Mariella Colonna

Giorgio Linguaglossa

Carnevale delle Ombre

Notte stellata. Carnevale. Venezia.
«Benvenuti al Carnevale delle Ombre!», disse una voce.
L’angelo Achamoth dai dodici occhi
che non guardano che i propri occhi, gridò:
«Toglietevi la maschera!».
Ed entrammo, con altri prigionieri, nel corridoio delle ombre eterne.
C’era una ressa del diavolo.
Statue bianche si avviavano sotto un giogo di ferro e calcestruzzo
eretto, a destra e a sinistra, tra le finestre cieche lungo
un ambulacro alle cui pareti pendevano
migliaia di volti in cornici dorate.
I volti dipinti parlavano tra di loro.
Dicevano: «Non fate entrare le ombre maledette!
Sbarrate loro l’ingresso!».
[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti.
Dicono: «Buongiorno» e «Addio».
E ritornano nel buio da dove sono venuti.
C‘è ressa; dei figuri vogliono entrare dalle finestre.
Bussano ai vetri delle persiane sbarrate,
lottano anch’essi con le ombre.
“Vogliono diventare ombre”, pensai con raccapriccio
e mi meravigliai di quel pensiero.
[…]
Una triplice voce piovve dall’alto, dai microfoni
degli altoparlanti nascosti nel buio:
«Benvenuti nella galleria dei quadri morti».
«Lasciate i vestiti su questa spiaggia».
Noi lasciamo i vestiti sulla spiaggia ed entriamo nel mare,
fino alla cintola.
Entrano in noi lentamente le ombre bianche
come inchiostro nella carta assorbente.
E scompaiono.
[…]
La voce ritorna nel microfono.
Gare de Lion.
Il microfono cammina nella sala d’aspetto.
Il quadro si attacca alla parete. Il mare si ritrae dalla spiaggia.
Le ombre lasciano i corpi
e camminano nel volo dei gabbiani bianchi.

Carnevale Il Corvo e il Signor K

personaggi presenti nelle poesie di Giorgio Linguaglossa e di Mario Gabriele

 

Mariella Colonna Continua a leggere

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Vito Taverna,Tre poesie da Le poesie di novembre, Commenti di Gino Rago e di Giorgio Linguaglossa

Gif pioggia sul finestrino

Lo so che rideresti di gusto, / solo a dirtelo, ma, imperterrito, / aggiungerò il tuo nome

Vito Taverna, toscano, da tempo si dedica con passione alla poesia ed organizza importanti eventi ad essa dedicati. Nella città di Monterchi, dove vive, ha fondato vent’anni or sono l’Archivio Nazionale della Poesia inedita di Monterchi e ogni anno organizza la giornata della Poesia nel Cassetto, alla quale partecipano poeti di ogni parte d’Italia. Poeta sensibile, amico di artisti ed intellettuali, Vito dedica la giornata del 29 gennaio a Villa Bardini a Venturino Venturi, di cui è stato grande amico sin dagli anni della giovinezza trascorsi nella Firenze dei poeti dell’ermetismo.
È stato vicino a Mario Luzi, ad Alessandro Parronchi, a Mario Bergomi e a coloro che riconobbero nell’espressione artistica dello scultore profonde consonanze con la propria sensibilità poetica. Con Venere e Narciso Taverna ha dato alle stampe, e l’ha voluto fare in occasione della mostra dedicata a Venturino, una raccolta di ampio respiro, che  ha trovato occasione di espressione nel ritratto che Venturino aveva modellato per lui nel lontano 1953, e sul quale egli non ha mai cessato di meditare, riconoscendo in quei sembianti la parte più intima di se medesimo.

Gif snow

simboli della livida disumanità, della “malvagità arcana” del tristo iddio Arimane

Commento di Gino Rago

Vito Taverna mostra d’essere consapevole di stare nelle macerie del linguaggio. Macerie, frammenti, schegge che gli fanno correre il rischio di mandare in frantumi anche l’anima.

Che fare quando crolla il ponte del linguaggio fra l’io e gli altri, fra l’io e il mondo, per non tornare inermi allo sfarinamento della nostra carne elementare?

Occorre costruirsi come Noè un’Arca di salvezza. Questa “arca nascosta” (“Zavorra”) Vito Taverna la possiede: è la lingua della sua poesia. E’ la sua parola poetica contro un nuovo “diluvio travolgente bestie e cose”.

Con una Parola, personalissima e inimitabile, il poeta, a onta “della zavorra degli anni” e dei fatti accaduti, può approdare al monte di Ararat, ma affidando all’impeto dell’acqua del diluvio tutto ciò che – pur salvato – il poeta scopre non esser necessario: l’approdo all’Ararat è alla sua portata soltanto salvando la parola, la parola necessaria alla sua poesia. Una poesia, questa di Vito Taverna, che aspira a farsi “poesia totale” nella sua tridimensionalità metaforica e nella sua abilità a generare immagini di luce quasi a volere in ogni verso ri-fecondare la materia per farne un “suo” giardino di fiori-simboli, un eden di “crochi e crochi a mazzi” su cui aliti, incontaminato, il maggio nel candore del “sussurro di rose e di lavande”:

Le ricordassi almeno una per una
e come, a poco a poco, m’immergevo
in quel rigoglio che mi ancorava alla terra e al suo fulgore.
Placide sere d’ombre trasparenti
e d’aria tanto fina
da parere una trina di profumi,
quasi parlasse tutto il mondo agreste:
un sussurro di rose e di lavande,
così, di primo maggio, appena deste,

e crochi e crochi a mazzi.

Alle spalle, la casa, che m’incombe

con il suo silenzio.

Una materia inerte fecondata da un’aura elegiaco-crepuscolare cui poter attingere il prodigio di “un verso eterno” da fare alitare sulle perdite, sui distacchi, sulle lotte, sui viaggi senza ritorni di tanti cuori amati.

E’ una poesia questa di Vito Taverna, com’è nel Canzoniere di Saba, che va interpretata, per coglierne tutto il profumo e il misterioso respiro interno, penetrando le parole nella loro dinamica implicazione tra esiti formali e sviluppi dell’anima poetica, tra implicazioni etiche legate alla natura contemplata e temi di ispirazione vitale. Una poesia tridimensionale per il fitto intreccio che Vito Taverna riesce a compiere saldando intimamente le tre componenti fondamentali della sua ars poetica: la biografia, la psicologia e l’estetica; ovvero, la tridimensionalità storica, psicologica ed estetica. Altri aspetti importanti della poesia taverniana sono stati colti e svelati da Giorgio Linguaglossa, con vastità di dottrina e severa competenza.

Ne derivano le colonne perìptere del tempio poetico di Vito Taverna. Un tempio di poesia nel quale, secondo i canoni della grecità, fluttuano di bellezza e armonia di forme, la carne viva e il cuore incorrotto del poeta, in una intatta “rugiada che vibra di gocce arcobaleno”. Ove la rugiada nei versi taverniani è correlativo oggettivo di purezza e levità originarie, come le sue parole, icastiche, dirette, necessarie, che il poeta pronuncia senza balbettìi, quasi a riaffermare la forza ri-generatrice della autentica parola di poesia quando cadendo nella zolla la feconda: qui, nella sua grecità contemporanea, Vito Taverna ci riporta agli sfarzi della lirica greca, come quella del Ritsos che scrive: “Scrivo un verso. Scrivo il mondo./ Esisto, esiste il mondo…”. Sicché anche in Parole, come già successe nelle sue Poesie di novembre, dalla estremità del mignolo di Vito Taverna sembra che d’un tratto da ogni verso scorra un fiume gonfio d’acqua, d’una verde acqua profonda.

Le poesie di novembre, di cui queste tre poesie fanno parte, vogliono essere questo: un canto elegiaco sulla fine dell’autunno della vita, una meditazione sul tramonto delle «cose».

Il mistero dell’esistenza si cela e si svela nel dettaglio di quell’oggetto che credevamo di conoscere e che davamo per scontato… Il mistero si presenta nella forma del frammento; anche il frammento si dà nella veste del dettaglio. Quello che ci si presenta all’improvviso è un mistero che fa ingresso nel nostro quotidiano, che so, un ricordo che non volevamo ricordare, un lapsus, un errore di dizione, un refuso di una parola che non volevamo scrivere, in una parola, il mistero delle cose semplici che si rivelano in un attimo è l’Altro per l’altro, uno scambio di «persone», di «cose», una metonimia, una sineddoche, «maschere» di un «teatro degli Artigianelli» dove si recita sempre la solita «scena», il solito canovaccio dello stupore e della meraviglia di fronte al mistero dell’esistenza.

Gif pioggia nel parco

A volte ho pena/ dei nomi scritti nei libri di storia/ della loro esecrabile memoria,

da uno scritto di Giorgio Linguaglossa

Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera effusione del dettato poetico della poesia di Vito Taverna, «un poeta lirico sopravvissuto alla crisi della lirica» come è stato felicemente definito da Donatella Costantina Giancaspero, sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e meditazione. Nella poesia di Taverna assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» le protagoniste che ci parlano tramite la loro distanza; è all’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge […]
La parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melancholia. La voce che parla, anch’essa è mormorata sotto voce, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La musa di Vito Taverna è povera, dimessa, predilige le «cose» dimenticate, usuali, consunte: «le bollette» da pagare, un «gallo», il «mare», la «chiave», l’«agenda», «il muro bianco», delle «sfere di vetro», il «Bar Giamaica»; oppure le città intraviste: Milano, Firenze, Roma, Venezia; i luoghi magici: «Il dio Arimane», il «teatro degli Artigianelli»; addirittura le semplici «parole»; infatti, «muoiono le parole» scrive il poeta con tono dimesso, ciò che resta è un «castello di carte» che un alito di vento può scompigliare e cancellare per sempre. Poesia intima e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse «Padri e figli», o dei semplici «nascondigli» dove andavano i fanciulli a giocare.
Leggiamo l’incipit di questa poesia titolata «Vecchia canonica»:

Questo vecchio soffitto di quadrelle,
che tanti occhi guardarono prima di me
di preti poveri che confidavano
in Dio e nelle sue stelle,
mi sovrasta leggero, arioso e bianco
d’intonaco rifatto… Continua a leggere

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Biagio Cipolletta Autoantologia poetica, con una dichiarazione di intenti: La Poesia nelle cose, con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Foto tre bicchieri bicolore

Stazione della metropolitana. / Una scala mobile fuori servizio

Biagio Cipolletta, già ordinario di Italiano e Latino nel  Liceo Linguistico e di Scienze Umane a Roma, scrive per riviste letterarie ed è presente in diverse antologie.  Dirige la collana di poesia “I versi del gabbiano” per le Edizioni libreria Croce. Ha pubblicato cinque libri di poesie: Brividi di sole (F. Croce Editore, 2004), Destination Norway (Edizioni Libreria Croce, 2009),  Di città in città  ( Edizioni Libreria Croce 2011), La traversina e il Melograno, Alter Ego Edizione, dicembre 2014, riprodotto in prima ristampa nel marzo 2015 e Il gol del portiere, Augh Edizione, ottobre 2016, riprodotto in prima ristampa nel gennaio 2017.   È tra gli autori-curatori dell’antologia Poesie d’amore, Edizioni Libreria Croce, Roma 2011.

Biagio CipollettaBiagio Cipolletta

 La Poesia nelle cose

 La Poesia, rigorosamente con la maiuscola, non solo non è morta ma oggi più che mai ha tante occasioni in più per manifestarsi. Ovviamente non sempre riesce a far sentire la sua voce nell’assordante vita odierna nella quale tutti più o meno siamo immersi ma se in alcune occasioni siamo capaci di guardare a fondo e oltre le cose intorno a noi e di ascoltare il loro respiro,  il loro battito, ecco allora che la Sua voce prorompe via via più forte ed è subito Poesia.

Cosa c’è di più impoetico, all’apparenza, di alcuni pezzi di ferro? Di fili elettrici serrati in piccole scatole incassate nel muro? Di congegni di silicio presenti in tante apparecchiature elettroniche?

In realtà questi ed altri oggetti inanimati e freddi ci mettono in comunicazione, spesso anche visiva, con il mondo intero e la cosa ha certamente un risvolto poetico in quanto permette, a ben vedere, un’interazione di sentimenti e di anime al di là di taluni  aspetti negativi pur  presenti nei media odierni.

La realtà esiste solo se l’Uomo la coglie, la vive, la analizza o addirittura la crea e di per sé non è né poetica né impoetica ma si colora di Poesia quando un individuo un po’ più sensibile di altri, per alcuni un po’ matto, chiamato Poeta, le dà una vita nuova, la accende, la colora, ne ascolta le voci e in definitiva la anima e la trasforma.

Ecco allora che una banale traversina di legno, logorata e consunta dal tempo, parla e racconta di tante storie di viaggiatori pendolari ascoltate negli anni e con i quali ha instaurato un rapporto strettissimo che la porta a soffrire quando  intuisce che qualcuno sparisce dalla vita.

Poesia, dunque, come capovolgimento del reale, spesso come dilatazione del reale, come aumento del poetabile all’infinito in cui il Poeta va a cogliere e a creare immagini, suoni, musica e parole.

Certo la Poesia ha anche tante altre strade per manifestarsi, per uscire allo scoperto ma mi piace pensare che essa prorompa spesso dagli oggetti più banali e li colori con colei che è oggi la grande assente, vale a dire la Bellezza.

La Poesia, in definitiva, può arrestare il degrado culturale odierno e la caduta verso il regno della Bruttezza creando, di contro, un’oasi di libertà, di sperimentazione, di utopia, e talora di saggia follia per sfuggire al conformismo e all’arido schematismo nei quali la società vorrebbe ingabbiare ogni individuo annullandone le peculiarità per pervenire ad un mondo senza idee e soprattutto senza il Pensiero.

Attraverso la Poesia il Poeta dimostra che una realtà nuova è possibile, che un nuovo mondo si può costruire e allora fa balenare questo mondo prossimo venturo anche davanti al lettore che immaginerà scenari diversi e metterà in azione il senso critico   destinato altrimenti a sparire sotto le pressioni dei tanti messaggi odierni tendenti alla omologazione delle idee.

La Poesia salverà il mondo!

Foto Bicchiere a strisce

Poesia, dunque, come capovolgimento del reale, spesso come dilatazione del reale

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Si dice spesso che l’evento principiale è il silenzio. Ma il silenzio è cosa diversa dal rumore (inteso come ciò che precede il linguaggio) ed è privo di significato. Il fare silenzio è una forzatura, è una imprecisione terminologica. A rigore, l’uomo non potrebbe sopravvivere nel silenzio, il silenzio lo dissolverebbe. Il silenzio (da non confondere con il vuoto), ovvero, l’assenza di suoni, non esiste. In realtà, le cose parlano, parlano sempre, e non possono che parlare in continuazione. L’uomo parla in continuazione anche quando si trova nella più aspra delle solitudini. Così, il vento parla quando passa attraverso le foglie di un bosco, quando incontra degli ostacoli; la pioggia ci parla quando trascorre attraverso l’atmosfera e incontra degli oggetti, e così via… il mare «fragoroso» ci parla attraverso il suo incontro scontro con la terraferma e gli scogli… è l’incontro con le cose, con gli ostacoli, che fa parlare le cose, senza incontro scontro non ci può essere né linguaggio né la parola. Linguaggio e parola possono prendere vita soltanto attraverso l’incontro scontro tra gli uomini e le cose, tra silenzio e linguaggio.

Sono le cose collegate in un insieme che fanno sì che siano esse a parlare. Il poeta deve soltanto porsi in posizione di ascolto. L’ascolto recepisce i suoni, le parole (il silenzio è un altro modo di essere del linguaggio, quando il linguaggio diventa silenzioso), l’ascolto predispone il linguaggio a formarsi, e il formarsi del linguaggio significa predisporre il silenzio all’interno del linguaggio. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio del linguaggio quale sua custodia segreta. Il poeta abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini abitano questa custodia segreta. Non è una prerogativa del poeta quella di abitare il silenzio delle parole, chiunque può attingere il silenzio delle parole attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Un poeta con la sua poesia deve far parlare il silenzio, far parlare le cose. Tutto il resto è assolutamente secondario. Il dire in poesia è questo dire che sta dentro le cose, non quello che è fuori.

Scrivere poesia nella età contingenza e dell’incertezza con uno stile dell’incertezza e della interrogazione, sospesi tra la pesantezza della «cosa» e la leggerezza della «canto del muezzin», tra il quotidiano inodore e incolore e il non-luogo anch’esso incolore e inodore. Una condizione esistenziale legata alla stazione dell’io; affatto drammatica, direi, qualcosa che sta all’esterno del soggetto e dentro il soggetto, quella «Cosa» (Das Ding) che sta contemporaneamente dentro e fuori, che consiste nella sua estimità, nel suo essere, per Lacan «entfremdet – alienato – di estraneo a me pur stando al centro di me», qualcosa tra il familiare e l’estraneo, che sta in bilico tra il detto e il non detto, tra il dentro e il fuori. Una continua interrogazione intorno all’io, nei dintorni dell’io con una interpretazione curvilinea del testo poetico e del testo narrativo. Perché le «cose», a ben guardare, sono curve, il mondo è curvo, l’intero universo è curvo, e forse anche il super universo dentro il quale noi ci troviamo è anch’esso curvo.

Foto Bicchiere con strisce

Una traversina di legno / una sola traversina di legno

Biagio Cipolletta

il canto del muezzin

Ho ascoltato il canto del muezzin
e mi ha affascinato.
Non so il senso delle parole
che vagano nell’aria
ma quella melodia mi prende l’anima.
Voglio pensare che sia
un canto d’amore struggente
di un uomo che ha perduto la donna
e la chiama per ogni via
dall’alba al tramonto
per placare la sua nostalgia.
Voglio pensare che la donna lo senta
e decida di tornare da lui
per dargli ogni bene d’amore
cancellando il passato sbagliato.
Voglio pensare una storia d’amore
che nasce nell’alba di nuovo
e al tramonto mai non muore.
Ma il canto dolente ritorna
e capisco che la donna non vuole
o non sente la voce
di un uomo ormai folle di dolore.
E il canto si ripete all’infinito
nella speranza che ci sia un prodigio
che la donna infine senta le note
ritrovi chi canta per lei in ogni dove
e riempia d’amore le sue notti vuote… Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA Alfonso Berardinelli Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci – Dialogo Giorgio Linguaglossa, Antonio Sagredo – Poesie di Boris Pasternak, Osip Mandel’stam e di Mariella Colonna con Commenti inediti di Angelo Maria Ripellino

il-gruppo-63-a-palermo

Gruppo 63 a Palermo

 

Alfonso Berardinelli

Fonte (MicroMega online)

Le avanguardie culturali sono quasi tutte stupide. Non cascateci

Ecco un vecchio tema che non invecchia come meriterebbe: le gloriose avanguardie culturali (nonché politiche) novecentesche, sia quelle 1910-1930 che quelle 1950-1960. Parlando di narrativa e di pensiero politico dell’Ottocento con un’amica assai colta e poco sensibile alle mode, a un certo punto, non so se prima lei o prima io, siamo arrivati a dire che in arte, in letteratura e in filosofia il Novecento è stato un secolo piuttosto stupido.

Il primo sintomo di questa stupidità è stato l’immaginario “rivoluzionario”, la mania della tabula rasa, del ricominciare da zero, di rifare tutto da capo, di mettere sotto accusa non solo l’Ottocento ma tutto il passato, l’intera tradizione culturale, come cosa vecchia, opprimente, noiosa, di cui liberarsi in nome di un’assoluta, soggettiva libertà senza limiti né remore: una libertà, cioè, stupida.

Primo motore e prima fabbrica di stupidità sono state le avanguardie, con i loro manifesti e i loro gruppi, la loro gestualità, i loro happening, il loro esibizionismo, il loro credere di andare sempre più avanti e in fondo, coerentemente, cancellando e devastando le forme, eliminando i contenuti, scandalizzando il pubblico, rifiutando infine il mercato con lo scopo di conquistarlo: in letteratura, nel teatro, nelle arti visive, nella musica, in architettura, in politica è avvenuto questo.

Rivoluzione a sinistra e a destra, “opere aperte” e non-opere sperimentali. Marinetti (futuristicamente) inventò che la guerra è la sola igiene del mondo. Breton (surrealisticamente) proclamò che il più esemplare atto surrealista era scendere in strada e sparare sulla folla. Sanguineti, più modestamente, disse a metà anni settanta che bisognava mettere una bomba sotto l’edificio della tradizione letteraria. Tra anni cinquanta e sessanta i francesi, non sapendo più che scrivere, inventarono “l’écriture” e “la scuola dello sguardo”: cioè lo scrivere e basta senza chiedersi che cosa e il romanzo in cui si può parlare solo di ciò che gli occhi vedono, senza un perché. Proibito pensare e interpretare.

La beat generation americana riprese mezzo secolo dopo le avanguardie europee di primo Novecento e a forza di droghe e di malinteso buddismo zen teorizzò che meno si pensa e più si è geniali: tutti siamo geni e non lo sappiamo, per diventarlo basta liberare se stessi “fino in fondo”, anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi. Nel corso di un party in America Allen Ginsberg si spogliò nudo (nudità uguale verità!) lasciando perplesso perfino il lì presente John Lennon. Molto peggio Stockhausen, il campione della musica seriale astratta, il quale disse che l’attacco alle Torri Gemelle era una grande opera d’arte.

Tutte le arti furono colonizzate e travolte dalla spettacolarità inconsulta e gratuita, se possibile distruttiva. Arte come gesto e nonopera. Spontaneità psichica senza perizia tecnica. La filosofia dell’“atto puro” di Giovanni Gentile, il passo di marcia dei totalitarismi, il leader ebbro o isterico che dall’alto ipnotizza e fanatizza le folle e le masse. Più tardi fu l’azione e il gesto rivoluzionario memorabili in sé. La pittura tautologicamente pubblicitaria di Andy Warhol, che consacra il già noto e consacrato e lo reimmette di nuovo nel mercato, con la sua firma e incassando i proventi. La furbizia degli stupidi e degli inetti ha fatto epoca. Il Novecento ha inventato la figura del genio cretino, che proliferò e prolifera.

Su Repubblica di domenica scorsa, si annuncia e commenta, in un articolo a due pagine di Chiara Gatti, una mostra di Bologna con centottanta opere in arrivo dall’Israel Museum di Gerusalemme, le quali “raccontano una stagione unica che cambiò la storia dell’arte” (ci si chiede: in meglio o in peggio?).

Titolo dell’articolo: “I rivoluzionari del ’900”, cioè Duchamp, Magritte, Dalì. In apertura la Gatti cita il famoso passo nel quale Tristan Tzara insegna a scrivere una poesia dadaista, ritagliando le singole parole di un qualunque articolo di giornale, mescolandole in un sacchetto e poi mettendole in fila come viene viene: “Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, sebbene incompreso dal volgo”.

Strilli Král A tratti un libro ripostoStrilli Kral Lungo i marciapiedi truppe d'assenti

Tzara fu un genio nel dire in poche righe tutta la verità sulle avanguardie: andare scrupolosamente a caso, non farsi capire, fare stupidaggini con metodo, ecco la nuova arte.

Fu un’epidemia. Non si salvò quasi nessuno, perché nessuno voleva passare per “passatista”, ottocentesco, tradizionale. Solo Giorgio De Chirico prendeva in giro i surrealisti e le loro riunioni, mentre loro pretendevano di considerarlo uno dei loro.

Tutti democraticamente riconosciuti artisti di un’arte di tutti. Ma come è noto, i più esemplari, rivelatori, o se volete “rivoluzionari”, gesti artistici estremi di denuncia e autodenuncia dell’arte-non-arte, li ha compiuti Piero Manzoni all’inizio degli anni Sessanta, con i suoi quadri completamente bianchi, i suoi palloncini gonfiati con “fiato d’artista” e infine con il barattolo contenente la famosa “merda d’artista”. Provate voi ad andare oltre, se ci riuscite. Eppure, dopo mezzo secolo, molti critici d’arte credono ancora nella Provocazione. E’ il loro mestiere, ci campano.

Gli artisti veri, nati nelle avanguardie e nei loro dintorni, non sono mancati: da Boccioni a Carrà e Palazzeschi, a Picasso, Schönberg, Stravinskij, Majakovskij, Bunuel… Si fa presto a riconoscerli: non rinunciano alla tecnica, anzi la sviluppano, la pensano di nuovo per afferrare più significati, non per abolirli.

La loro era una fuga dalla stupidità, proprio quando la mettevano in scena. Solo che la critica e il pubblico sono stupidamente caduti nell’equivoco.

*Alfonso Berardinelli (Roma, 1943), è saggista e critico letterario. Collabora con i quotidiani nazionali Avvenire, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Einaudi, 1997), Nel paese dei balocchi. La politica vista da chi non la fa (Donzelli, 2001). Con Casi critici (Quotlibet, 2007) è stato vincitore del Premio Napoli nel 2008, anno in cui ha ricevuto anche il Premio Tarquinia Cardarelli per la Critica letteraria italiana. Con La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario (Marsilio, 2002) ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci nella sezione Saggistica. Vive a Tuscania.

[L’articolo è stato pubblicato da Il Foglio, il 20 ottobre 2017]

 

Giorgio Linguaglossa e Alfredo rienzi Accettura, 13 agosto 2017

Accettura, agosto 2017, da sx Maria Grazia Trivigno, Alfredo Rienzi e Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

31 ottobre 2017

Vorrei fare un distinguo,
accetto volentieri la «provocazione» di Berardinelli, critico troppo intelligente per la poesia italiana e, direi, anche sprecato visto la pochezza della poesia italiana maggioritaria di questi ultimi decenni. Di fatto, la poesia è rimasta senza critica (per critica intendo una critica intelligente e libera).

La nuova ontologia estetica, almeno questo è il mio pensiero, non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana.

È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: abbiamo introdotto la «rottura». Anche se sappiamo bene che il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio. Tuttavia, in certi momenti storici, dobbiamo mettere da parte un concetto estatico e normalizzato del tempo e ricominciare da principio, il che non equivale alla parola d’ordine di porsi in posizione di avanguardia; sia l’avanguardia che la retroguardia sono concetti della domenica delle Palme; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nello Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…

Occorre una nuova poesia, una poesia che abbia alle spalle una serrata critica dell’economia estetica…

“Vorrei rispondere a Berardinelli che l’acmeismo ha battezzato poeti come Mandel’stam, Pasternak, Achmatova, Chodasevich, Gumilev e altri… e che la sua importanza va molto oltre il valore dei singoli poeti protagonisti di quella stagione letteraria, quindi anche qui non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato un Milosz, un Celan, un Ripellino… il modernismo europeo senza i poeti russi dell’acmeismo perderebbe il 50 per cento della sua influenza.

  Strilli Rago1Strilli Rago Siamo uomini del dopo Hiroshima

[Antonio Sagredo in compagnia di Vladimir Majakovskij]

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 7:52

Giorgio Linguaglossa scrive:

è vero Pasternak non ha fatto parte dell’acmeismo, questo lo sanno tutti, ma è indubbio che, per contraccolpo, la sua poesia abbia scelto una direzione propria e originale in risposta a quella presa dai poeti acmeisti. Molto spesso gli artisti e i poeti prendono una strada come replica alle strade intraprese dai loro contemporanei. Dall’angolo visuale della innovazione della forma-poesia, Pasternak è un poeta di formazione tradizionale, attento a cogliere e valorizzare il lato fono simbolico della poesia. Invece Mandel’stam dichiarava che bisogna mettere al primo posto la morfologia, «la fonetica verrà da sola», scriveva (cito a memoria). Non c’è dubbio che la poesia del novecento, la migliore, intendo, quella di Milosz, Herbert, Brodskij, Celan, Derek Walcott ha citato Mandel’stam quale capostipite della poesia modernista europea. Il fatto che la poesia di Mandel’stam in Italia non abbia avuto influenza malgrado le ottime traduzioni di Ripellino, Serena Vitale e altri, dimostra semmai il provincialismo della poesia italiana. Se si toglie dall’angolo visuale della poesia del novecento europeo un poeta come Mandel’stam, ci si limita ad una concezione di una poesia dell’orecchio, poesia della «orchestrazione sonora» (dizione di Mandel’stam), propria del «laboratorio di impagliatura» del simbolismo (dizione di Mandel’stam). Senza il concetto di metafora tridimensionale di Mandel’stam, si resta nell’orbita di un concetto di poesia come espressione della linearità sintattica, unilineare e unitemporale.

Quanto al modernismo europeo, l’influenza di Mandel’stam è stata sotterranea ma bisogna avere degli occhiali di qualità per individuarla. Certo, per la poesia italiana del novecento, Mandel’stam è un perfetto sconosciuto, lo si conosce come prodotto esotico, perché è morto in un lager staliniano…

Quanto a Berardinelli, io non lo definirei «furbastro», anzi è stato l’unico intellettuale italiano che ha preso posizione contro tutta la poesia italiana post anni settanta bollandola come prodotto di «poeti di fede», di «poeti di professione». Conseguentemente a questo assunto, si è disinteressato della poesia italiana degli ultimi decenni. Come dargli torto?

È chiaro quindi, almeno nelle mie intenzioni, che la lezione della poesia e della teoresi di Mandel’stam, sia stata ed è fondamentale per lo sviluppo della poesia della nuova ontologia estetica.

Onto Pasternak

B. Pasternàk, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Risposta di Antonio Sagredo :

dall’elenco togliere il nome di Pasternàk che non fece parte dell’acmeismo.

“Senza Mandel’stam non ci sarebbe stato… Ripellino…”: affermazione azzardata; nelle poesie di Ripellino non si trova traccia alcuna di Mandel’stam, se non come citazione, e come citazione decine di poeti russi e non russi.

“il 50 per cento della sua influenza” : anche questa quantificazione è azzardata, e non trova riscontri qualitativi e quantitativi: Mandel’stam ha di certo influenzato, ma non più di tanti grandi poeti del secolo scorso. Dire 50 o 20 o 70 non ha senso.

Ma il poeta-critico ecc. Berardinelli di abbagli ne ha presi molti: questo è indubbio; ma secondo noi è meglio metterlo in disparte: non è certo un termine di paragone né poetico e né critico: è stato soltanto un furbastro intellettuale che ha colto il momento giusto per mettersi in vista.

Antonio Sagredo      

1 novembre 2017 alle 8:16

Pasolini al Rosati Roma

Roma, caffè Rosati, fine anni sessanta

Pasternak e l’Acmeismo

Unico punto di contatto con l’acmeismo è una certa influenza della poesia achmatoviana su quella di Pasternàk ed è detto nel commento di Ripellino

che riporto più sotto, e subito dopo una mia nota. Intanto questa poesia di Boris Pasternàk dedicata alla poetessa… :

Boris Pasternàk

a Anna Achmatova

Mi sembra che io sceglierò le parole,
simili alla vostra eternità.
E se sbaglierò, – m’importa un poco,
comunque, io non mi separerò dallo sbaglio.

Io sento il chiacchierio di umidi tetti,
le ecloghe smorzate delle piastrelle di legna.
Una certa città, chiara sin dalle prime righe,
cresce e risuona in ogni sillaba.

Intorno è primavera, ma non si può uscir fuori città.
Ancora severa la cliente taccagna.
Facendo lacrimare gli occhi mentre cuce accanto alla lampada,
brilla l’aurora, senza raddrizzare la schiena.

Aspirando la superficie da Ladoga della lontananza
si affretta verso l’acqua, vincendo la stanchezza.
Da tali passatempi non si può prendere nulla.
I canali odorano di tanfo di imballaggi.

Lungo di essi si tuffa, come una noce vuota,
il vento ardente, e culla le palpebre
dei rami e delle stelle, dei lampioni e delle biffe,
e della cucitrice di bianco che guarda lontano dal ponte.

Suole essere l’occhio in vario modo acuto,
in modo diverso suole esser precisa l’immagine.
Ma l’apertura della più terribile fortezza –
è la lontananza notturna sotto lo sguardo di una bianca notte.

Tale io vedo il vostro aspetto e sguardo.
Esso mi è ispirato non da quella statua di sole,
con cui voi cinque anni addietro
avete attaccato alla rima la paura di voltarsi indietro.

Ma, muovendo dai vostri primi libri,
dove si sono rafforzati i granelli di una prosa attenta,
esso in tutti i libri, come conduttore di scintilla,
costringe gli avvenimenti a pulsare come una storia vera.

(1928, trad. di A. M. Ripellino)

Strilli Tranströmer 1Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

(commento di A. M. Ripellino – Corso su Pasternàk del 1972-73)

[È un compendio (questa poesia) dei motivi di Anna Achmatova poetessa dell’Acmeismo; ed è anche il tentativo di dare un’immagine di lei. L’impostazione della poesia vuole riflettere quella colloquialità, quel senso di dialogo prosastico e raziocinato che la Achmatova inserì nel tessuto della poesia russa. Alla solennità, alla aulicità del simbolismo, la Achmatova, come molti acmeisti, sostituì un linguaggio più piano, più ragionato e più colloquiale e quindi lievemente prosastico, e con questo linguaggio, influì su molti poeti tra cui Pasternàk. ]

Dal Corso su Pasternàk del 1972, traggo questa una mia nota 274, pag. 112.

 ( “…l’Achmatova mostra una lettera ricevuta da Pasternàk a Lidija Čukovskaja. dove il poeta cita alcune sue poesie del passato; la Čukovskaja è perplessa, ma la poetessa dice: ”Ora vi spiego tutto. Semplicemente. Ha letto [Pasternàk] per la prima volta le mie poesie. Ve lo assicuro. Quando io ho cominciato a scrivere, lui faceva parte di Centrifuga [gruppo futurista di cui fecero parte oltre che a Pasternàk, Aseev e Sergej Bobrov]: era naturalmente ostile nei mie confronti, e i miei versi non li leggeva, punto e basta. Ora li ha letti per la prima volta e, vedete, ha fatto una scoperta: gli è piaciuta molto >La piuma sfiorò il tetto della vettura…< Caro, ingenuo, adorabile Boris Leonidovic!”; p. 208.

Sui futuristi: “Prendete Majakovskij. Adesso [1940] dicono e scrivono che amava le mie poesie. Ma in pubblico mi copriva sempre di insulti”… [Majakovskij insultò aspramente anche la Cvetaeva] …”

Lottavano contro tutte le persone allora famose per farsi largo loro. Chlebnikov se la prende anche con Kornej Čukovskij… guerra alle celebrità. Avevano un bosco da abbattere, e tagliavano le cime più alte”; p. 259. L’Achmatova conosce Pasternàk nel

Strilli Transtromer Prendi la tua tombaStrilli Transtromer le posate d'argentoGiorgio Linguaglossa

È sempre da un punto preciso che bisogna partire, nel romanzo come anche in poesia. In queste ultime decadi romanzo e poesia si sono avvicinati, e non del tutto a scapito della poesia, la poesia di livello elevato ha fatto tesoro di questo principio. E del resto non è stato Mandel’stam che con la sua lotta contro i simbolisti russi i quali amavano e prediligevano il sognante, l’astrazione, la musica sublime… ha aperto la strada alla poesia del novecento?
Leggiamo ad esempio il padre della nuova poesia europea, Tomas Tranströmer:

Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria era grigia.

Qui abbiamo una esemplificazione di come il lessico e la sintassi della poesia sia stato ridotto alle sue componenti minime ed essenziali. Qui non è possibile togliere nulla, neanche una parola, una sillaba senza compromettere tutto l’insieme. Si tratta di un «interno», là ci sono degli oggetti precisi e concreti: non c’è nulla, infatti il poeta ci dice che la sala era «silenziosa e vuota». Nella poesia non c’è nient’altro. Un’altra annotazione annota: «Tutte le porte erano chiuse».
Magnifico esempio di essenzialità.

(1922).

osip mandel'stam
 
Antonio Sagredo
1 novembre, 2017
Osip Mandel’stam

Solòminka II

Io vi ho insegnato parole beate –
Leonora, Solòminka, Ligeia, Serafita.
Nell’enorme stanza la pesante Nevà,
e sangue azzurro scorre dal granito.

Dicembre solenne splende sopra la Nevà.
Dodici mesi cantano di un’ora mortale.
No, non Solòminka in un raso trionfale
assapora la lenta, e stremante pace.

Nel mio sangue vive la dicembrina Ligeia,
il cui beato amore dorme nel sarcofago,
ma quella solòminka, forse Salomè,
è uccisa dalla compassione e non potrà più tornare.

1916
—————————
(trad. di AMR)

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mia nota 132, pag 46. (sulla metafora di Mandel’stam – Corso di AMR del 1974-75)

“Scrive Ripellino:”Mandel’štam, il maggiore degli acmeisti, poeta d’ispirazione classica, nelle sue liriche nitide e cesellate si avvicinò alla maniera ellittica e immaginosa dei cubo-futuristi. Lo si vede, ad esempio, dal breve componimento Solòminka del 1916, in cui allucinate e sconnesse metafore si vanno accumulando in una lenta progressione, come tasselli in un intarsio. E i calembours, la passione per le parole beate (blažennye slovà) scelte per il puro suono, l’assenza di nessi logici: tutto ciò pone l’arte di Mandel’štam in un’area contigua a quella del futurismo. Né va dimenticato che Mandel’štam scrisse righe di calda ammirazione per l’opera di Chlebnikov”, in A.M. Ripellino, “Letteratura come itinerario del meraviglioso”, Einaudi 1957 (1968), pgg.219-220. Lo slavista nelle stesse pagine si sofferma sugli accostamenti di Esenin, Cvetaeva, Zabolockij, Pasternàk al futurismo, compresi, è ovvio, Majakovskij ed Aseev… ma tutti questi poeti derivarono da Chlebnikov. Pagine di ammiratissima stima di Mandel’štam per Chlebnikov sono nel saggio Della natura della parola (del 1922, op. cit.), specie quando paragona il suo lavoro di scavo nella lingua russa a quello d’una talpa! (di Blok dirà che è stato un tasso! – vedi nota 40. p. 15). “.
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dalla mia prefazione a questo Corso 1974-75 :

“Ho ritenuto opportuno non dover indicare nelle note tutte le fonti citate da A.M.R., visto il tono colloquiale – gli affastellamenti continui e la spontaneità del suo discorrere colmo di associazioni e metafore fulminanti. Ho citato solo le fonti nei casi di alcune citazioni più importanti, e non tutte, e quelle di più o meno facile reperibilità. Ho curato tutte le annotazioni poco dopo l’epoca del Corso in oggetto; poi una lunghissima pausa; ho ripreso all’inizio del 2010 secondo i tempi e le modalità di cui disponevo, e l’umore e l’ipocondria a cui ero assoggettato. L’urgenza del commentare era per me più importante della stessa ricerca di varie fonti: alcune ho soddisfatto, altre no; d’altra parte il cercare e trovare le fonti per me sono eventi relativi che non devono mettere a repentaglio quel commentare, che ha come scopo il sentire la mente dei poeti e chiarire i loro intendimenti. Questo vale per me come metodo, per qualsiasi poeta o scrittore; nello specifico vale particolarmente per i tre poeti su menzionati, cioè dei rispettivi Corsi di A.M. Ripellino. C’è sempre tempo per trovare le fonti (non è difficile!), e rimando ad altri studiosi il cercarle e il trovarle, se lo desiderano, altrimenti si accontentino.

Onto Colonna_1

Mariella Colonna, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mariella Colonna

Un’altra volta

l’ ho incontrato au Mond des chimères
a l’Ile St. Louis sur la Seine
ma “lui” non ricorda. “Lui”, il mio mondo a parte
(ma non tra parentesi); da quando ho scoperto,
da bambina, che il tempo non è dentro l’orologio,
non fa muovere le lancette, ho deciso che il tempo non esiste,
che è un’illusione dei sensi, come lo spazio.
“Lui” sa che ho ragione, che mi conosce da sempre,
perché, se non c’è il tempo, l’eternità esiste
anche senza di noi, ma con noi acquista significato.

Adesso gli dico una cosa che finalmente lo farà sorridere:
“L’ombra delle parole” trova conferma scientifica nella
“Materia – ombra”.
La materia per il novantaquattropercento è invisibile
quindi inconoscibile perché non esaminabile
in laboratorio, neppure al MIT Media Lab di Boston.

Per inevitabile analogia, l’Ombra delle parole ha in sé
ogni significato: immagine grido suono gioia, i colori della speranza
e quelli dell’oblio, lo splendore delle tenebre e, infine,
l’onnipotenza della parola di Dio.
Dio: l’Innominabile.
Dio che esiste nell’ombra
e non vuole farsi scoprire prima del “Tempo”
perché questo è il solo tempo che certamente verrà.
Tutto ciò non si vede ma esiste ontologica-mente.

Je vais jouer avec toi, mon poète,
je vais te donner mes paroles,
mais tu ne joues pas bien avec moi
Parce que tu es un enfant terrible.

Mon chèr ami, je suis toi, tu es moi.

Que ce miracle se réalize en tout le monde
c’est la grande espoir de la paix universelle.

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La poesia non ha rimandi . La consapevolezza d'essere poeta è la stessa spontanea parola che Erode. Stermino io stesso il verso.

L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

Mario M. Gabriele

L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.

LA PRESENZA DI ÈRATO

La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.

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