Archivi del mese: luglio 2019

Due poesie di Francesco Paolo Intini, con Una Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

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Marie Laure Colasson, Abstract, Struttura dissipativa a Nord

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti”(Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di Storia di un impiegato di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Una raccolta dei suoi scritti: NATOMALEDUE è in preparazione. 

 Francesco Paolo Intini

Treno di mezza estate

I cercatori d’ombra conoscono l’ordito del giorno
Buttarsi a capofitto, imitazione del ranocchio.

Vennero arruolati i pini
I tronchi in un seme.

La civetta smobilitò le sue prede.
Non pensò ai figli.

La costruzione di un treno affidato ai binari
E in fondo il collasso di un istante.

L’attimo è rivoluzionario. Si riacquista il dolore
Sul tavolo dell’ anestesia. I muri respingono pallottole.

Colui che cade in un cortile
Ritorna dagli aguzzini.

Ciliegie invece di scoop.

L’odore acuto del cloroformio pervade una Russia al giorno.
La frequenza cardiaca prende il posto dell’invenzione della pistola.

Zenone, padrone d’ alberghi, introdusse il subaffitto
inventò lo sfruttamento senza limiti.

Guantanamo in un’isola dell’Egeo
sulla punta di una matita.

(….)

Rod Steiger non è più Benito
Ora è il bandito Miranda, Juan

Dinamite su un treno improbabile
Con traditori molto probabili sull’unico binario

Sonnecchiare mentre arrivano gli opliti.
Dov’è il fronte?

Truppe scelte, pezzenti campesinos
Abituè di jene e pulci nel ventre del pitone.

Il tempo è la pozzanghera di Brown
Sbattono qui e là Leonida irreversibili.

(…)

Il platino ha cuore puro e mani generose.
Perlasca-uno dei suoi atomi- .

La pioggia acida passava inerte.
Ebbe a dire gocce nere sulle labbra.

Alcune riempirono persino le ossa.
Tutti si era soggetto senza ascoltare pronuncia.

Pupi sulla fossa comune.
Anche l’autunno 69 tornò gennaio.

Un unico ritratto folgorò il vuoto tra le nuvole
E arrivò fino a noi.

La numerazione riavvolse la cima.
Mentre la divisione si interessava dello zero.

Alcune gru ricostruirono le strade ferrate.
Parole pure da un metallo nobile.

Dalla spuma di un concorso di bellezza
nacquero Levi e materiali inossidabili.

Affidargli un catasto
o lasciarli all’esterno dei sussidiari?

Il passo successivo fu di occupare il silenzio.
I pappagalli non potettero fare a meno del verde

Mentre la Luna si assentava per vizio
Non era mai presente alle rivoluzioni degli altri

E quando si trattava di farci caso
Faceva i nomi da fucilare.

Marie Laure Colasson Abstract_10

Marie Laure Colasson, Abstract

Giorgio Linguaglossa

Non c’è più un orizzonte di attesa per la poesia

caro Francesco Paolo Intini,

mi chiedo: ma tu da dove vieni?, davvero. Mi chiedo: ma tu prima del 2019 che poesia scrivevi? Davvero, la tua scrittura sembra quella di un marziano, a metà prodotto di improvvisazione e per l’altra metà prodotto di un ritrarsi dal linguaggio. È come se tu ti fossi lasciato alle spalle a un miliardo di chilometri di distanza la poesia dell’io, quella della toponomastica e quella della onomastica che è stata fritta e rifritta in questi ultimi decenni di poesia italiana a Milano e a Roma e poi un po’ a macchia d’olio un po’ dappertutto in provincia. Tu hai compiuto il più grande passo indietro dal linguaggio poetico italiano ed europeo che abbia mai letto, sì, hai inferto un colpo durissimo a Lega e 5Stelle e anche al PD della democrazia parlamentare della poesia italiana, e hai rottamato il linguaggio poetico benestante e bene e male educato dei nipotini della società della stagnazione e della recessione di questi ultimi due decenni.

Noi sappiamo, noi della nuova ontologia estetica, che parlare di senso e di non-senso è un parlare antiquato, un parlare di anticaglie dello spirito. La tua poesia ne ha preso atto e ha messo nel ripostiglio del dimenticatoio tutto quello che doveva essere dimenticato, ossia, la poesia italiana bene educata degli ultimi cinque decenni di democrazia parlamentare della oligarchia dello sciocchezzaio di massa.

Penso che la tua poesia sia rivoluzionaria perché è al di qua del bene e del male, non al di là, perché parla di cose serissime che sono andate a finire al mattatoio e al rottamatoio, che sono ruzzolate nel fumo delle discariche abusive. Il tuo modo di dis-connettere i polinomi frastici è il miglior modo per indicare ai PM che non c’è più niente da fare, che la dis-connessione è avvenuta ed è tuttora in corso d’opera, che sono saltate le particelle congiuntive del discorso e anche quelle avversative, che sono saltati i verbi e anche i pronomi personali… che è saltato un po’ tutto quanto come su una montagna di dinamite, come il ponte Morandi di Genova…

E tu hai capito una cosa importantissima, che non c’è più un orizzonte di attesa per la poesia. La poesia è rimasta senza orizzonte oltre che senza un pubblico. Ancora ai miei tempi, durante gli anni sessanta e primissimi settanta c’era ancora un pubblico della poesia, anche se in via di assottigliamento. Voglio dire un pubblico che si aspettava qualcosa dalla poesia, che cosa non lo sapeva, doveva essere la poesia a dirglielo. Oggi non c’è più un orizzonte di attesa, e quindi l’autore di poesia osserva il linguaggio come uno spettatore che osserva un paesaggio senza orizzonte. Voglio dire che quel guardare non è più un guardare, è un vedere, è un vedere le cose piatte. Così, la poesia è rimasta oltre che priva di un orizzonte anche del linguaggio, non ha più un linguaggio, e questo fa sì che la tua poesia abbia in sé qualcosa della improvvisazione e qualcosa di notevolmente superiore: la consapevolezza della futilità di tutte le questioni estetiche dell’estetica classica delle avanguardie e post-avanguardie del novecento, perché quelle lì volevano rottamare ancora qualcosa, quel qualcosa che oggi non c’è più da un bel pezzo.

Come abbiamo appreso da Marx, l’occultamento e il travestimento sono modalità che si presentano nella modernità delle società odierne. Direi che queste sono anche delle categorie che si offrono alla poetica e all’estetica. Nel tuo procedere poetico, occultamento e travestimento costituiscono un elemento fondante, nel senso che fondano delle maschere che fuoriescono dal nulla del fondale e che ritornano nel nulla del fondo, che si inabissano nello sfondo.

«La poésie doit etre faite par tous. Non par un. Questa frase del poeta franco-uruguaiano Isidore Lucien Ducasse, più conosciuto con lo pseudonimo di conte di Lautréamont, sintetizza molto bene la scomparsa dell’azione letteraria nell’età della comunicazione in cui tutti scrivono, ma nessuno legge, tutti parlano, ma nessuno ascolta».1

1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009 p. 59 Continua a leggere

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Francesco Paolo Intini, Dedalo, il Minotauro, Guantanamo, Giorgio Linguaglossa su una poesia di Giuseppe Talìa, Due poesie inedite di Giorgio Stella

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Marie Laure Colasson Abstract

 Francesco Paolo Intini

Dedalo, il Minotauro, Guantanamo

Percorrere la via della poesia ha senso solo se ci si mette in ascolto del nuovo che affiora dalla società di cui si è figli.
La bambina di fronte al quadro di Picasso crescerà col sospetto che qualcosa nel bel racconto di mamma e papà non funziona.

Gli occhi fuori posto evidentemente stravolgono le regole comuni e collocano l’autore tra i pazzi abitatori di questo pianeta.
La follia di gruppo però non è la stessa del singolo che pensa di essere Napoleone Bonaparte.

Come spiegare infatti, la pletora di artisti che fa squarci nella tela o allunga il collo oltre ogni misura o il ready made che annienta d’un colpo qualunque accomodamento al piacere retinico e punta invece alla mente.

La partecipazione ai fatti della mente dunque, il cui modus operandi assomiglia a quello di Dedalo. Da par suo il costruttore di labirinti non dà alcuna chance alla bestia ospite.

Che altra immagine per il linguaggio?
Quante porte apre una parola?

Tutto per intrappolare il Minotauro, figlio di una passione inconfessabile che rigetta i protagonisti nella bestialità della forza bruta.
Chernobyl e Minotauro soggiornano nel fondo dell’umanità ma le cautele della ragione sono anche le sue conquiste.

E questo poter distruggere ogni cosa non sa che farsene di Icaro che gli si oppone con un volo imprudente, troppo vicino al Sole, che rappresenta il livello altissimo delle forze in gioco.

Le stesse che bisognerà affrontare e comprendere non con le ali della fantasia ma con quelle dell’immaginazione, della misura e dell’ingegno.
Tutto ciò impone la creazione di modelli, le teorie da confermare o falsificare, il lavoro ostinato alla catena di montaggio degli specialisti del calcolo scientifico.

Lo sforzo è titanico ma probabilmente pone la mente al servizio della Natura per accelerarne il decorso e superare i limiti delle leggi del caso.
Quanto tempo è occorso per sintetizzare l’Uranio? Quanto invece per un atomo di Darmstadio?

Se la tavola periodica è il DNA dell’universo, l’ultima parte di essa rappresenta la differenza tra l’operare secondo le leggi del caso e quelle dell’immaginazione scientifica.

In questa ottica Dedalo continua a costruire i suoi labirinti.
Il poeta crea nuove possibilità, tirandole fuori dal fuoco dell’intuito, complica sempre di più il tracciato per essere all’altezza di una bestia che talvolta si fa tirannia e campi di sterminio, ma sempre più spesso utilizza le armi del mimetismo per starci addosso e persuaderci che questo è l’unico modello di società possibile.

Auschwitz e Guantanamo, campi libici e Pinochet stanno accanto alle ragioni del mercato.

Mentre Icaro vola con la sua fantasia inutilmente spiegando ali senza futuro se non per una malinconica impotenza contro il dolore o la dolcezza di un ricordo, di quando sembrava possibile commuovere le pietre scagliate per uccidere il suonatore di cetra.

Il riemergere costante della bestialità, la sua onnipresenza invasiva mette invece all’ordine del giorno il bisogno non di cera che impasta le ali ma di nuovi materiali a base di ciò che nel frattempo è entrato nell’universo.

E dunque è il livello di scontro ad imporre la ricerca dell’indicibile che nasce dagli oggetti stessi, come qualcosa che si può ascoltare a condizione che il proprio Io si faccia da parte in quanto già compromesso, già solleticato in mille modi dai processi di reificazione e dunque non pìù credibile.

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Giorgio Linguaglossa

Su una poesia di Giuseppe Talìa

 Vorrei dire qualcosa sulla indubbia genialità della poesia di Giuseppe Talìa, anzi, sulla lettera che il personaggio Talìa invia a tale «Germanico». Per informazione del lettore diremo che questa fa parte di un gruppo di poesie inviate da tale Talìa al generale Germanico Comandante delle legioni del Nord.

 Ma qual è il punto? Di che cosa qui è questione? Si tratta di una poesia di carattere storico? Si tratta di una allegoria? Di un pastiche? O che altro diavolo non so, non saprei, ma so per certo che qui Talìa ha messo in atto in modo brillantissimo l’idea della de-soggettivazione del soggetto e dello spostamento-collisione dei piani di elocuzione. Il soggetto non c’è, o meglio, il soggetto che legifera sulla poesia e nella poesia c’è e non c’è, è, in verità si tratta di una finzione. Quel soggetto che scrive a Germanico è una finzione, un falso, ecco il punto. E preso atto di questo assunto, la composizione prosegue senza offrire al lettore alcun appiglio di sicurezza intorno a ciò di cui si dice. O meglio: ciò di cui si dice lo si dice in modo tale da smentire ciò di cui si dice, e smentire anche il modo con cui si dice. Doppio effetto di straniamento, quindi, ma trattato in modo nuovissimo, da farlo sembrare un gioco o uno scherzo.

 È che tutta la composizione ha l’aria di prendere in giro il lettore, e invece si tratta di una cosa serissima, la vera questione è che ciò di cui si dice non corrisponde affatto al modo con cui si dice, si verifica qui uno scollamento, una distanza tra i due fattori del discorso poetico, e la poesia contiene in sé i due piani del discorso facendoli friggere e collidere l’uno contro l’altro, il fattore serioso e il fattore derisorio.

La composizione assume la forma di una lettera ad un destinatario. Facciamo un passo indietro. È accaduto questo, che nel corso di questi ultimi decenni le «forme» sono scomparse, inabissate, frantumate, e chi voglia scrivere una poesia deve fare i conti con questo semplice problema: quale «forma» adottare con la mia poesia se tutte le «forme» sono inutilizzabili e sono state fatte affondare? È ovvio che per dire qualcosa di nuovo in poesia si deve individuare una «forma» con la quale dirla, una «forma» superstite, una sopravvissuta, magari un fantasma di «forma» o una finzione di «forma». Avviene così che Talìa, in mancanza di meglio, è costretto a rivolgersi alla forma più antica da quando esiste la scrittura: le forma-missiva. In tal modo risolve il problema della «forma».

Ma c’è anche un secondo problema che Talìa deve affrontare, e non piccolo: in quale stile si deve scrivere? Ecco. Un poeta meno dotato adotterebbe la forma-non-forma narrativa del raccontino con gli a-capo, e farebbe quello che tutti hanno fatto e fanno in queste ultime decadi, cioè scriverebbe una prosetta con degli a-capo. Talìa no, adotta il distico, che gli impone però una gabbia abbastanza stretta. Alla fine di ogni distico ha solo due possibilità: mettere il punto o rinviare al distico successivo la prosecuzione del discorso poetico. Non è affatto un elemento secondario, anzi, si tratta di una costrizione che il distico impone all’autore. E allora chiediamoci: come fa Talìa a risolvere il rebus? Leggiamo la poesia:

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare

assomigliare a San Carpoforo.

Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.

Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.

Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

Talìa adotta il tropo dell’iperbole, cioè rilancia ad ogni distico il discorso su un piano sempre più assurdo ed estremo, seppur mantenendo inalterato il tono serioso di un discorso verosimile o para razionale. L’apparenza di voler mantenere un discorso razionale e verosimile cozza e si scontra con l’assurdità di tutta una serie di nuove condizioni nelle quali il discorso serioso e razionale va ad impantanarsi. È qui il salto di fantasy decisivo. Talìa mostra che il senso e il non-senso del nostro mondo e anche della poesia sono entrambi destituiti di contenuto veritativo, il senso equivale al non-senso del tutto, poiché il Tutto è un Totem e il Totem è falso, posticcio. Non c’è alcun senso (così come non c’è alcun Totem) che la poesia possa mostrare perché il senso non c’è. La mondità del mondo non contiene alcun senso e che anche la parola «senso» è sbagliata, un inganno, una parola truffaldina che è stata foriera di conseguenze nefaste.

Giorgio Stella

 […]

L’altra parte dell’alveare è a schema la riga è fatta per gli aspiranti
dello scudo universale – problema da dilettanti -, burle da sommarsi ai [capitelli della capitaneria di porto, l’orto [non urto]

[…]

d’attrito splendente le capsule in fiore il coccio del loto ma chi ha frodato
la banchina con la conchiglia della fondazione? chi per primo ha richiesto [doppia razione di campi di cotone?

[…]

‘d’altra parte Signor […] non si riprese mai del tutto dalle percosse subite, sanguinava pure quando era curata la ferita…’ -.

– “Egregio Lei […] le solennità delle belle parate non portano santi nei calendari tantomeno quei faretti accesi quando si risale dagl’abissi con termometri di scorta contando le uova di riserva…” – […].

[…]

Per arrivare alla spiaggia ci vogliono cinque minuti a piedi dall’Hotel, senza macchina! Certo per chi cammina di meno ce ne vorranno dieci.

I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna; li hanno fotografati Dolce & Gabbana, sul Duomo di Milano una [volta ci salirono i Beatles. Continua a leggere

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Qualche considerazione sul soggetto-polittico e sull’io, La Mega Crisi quale causa efficiente della nuova ontologia estetica, Poesie di Giuseppe Talìa, Gino Rago, Giorgio Stella, Commenti di Adorno, Mario Perniola, Giorgio Linguaglossa, Paolo Carnevali,

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Digital art

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare
assomigliare a San Carpoforo.

Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.

Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.

Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

Giorgio Linguaglossa

Qualche considerazione sul «soggetto-polittico»

Quando penso all’io, mi chiedo: «io sono io»? – È questa l’interrogazione principiale. È da qui che può prendere le mosse tutto il resto. Ma la domanda permette anche una risposta: «io non sono io». E questo cambia tutto. Adesso sappiamo che io e non-io sono equivalenti, che l’uno è la negazione dell’altro, che l’uno è l’affermazione dell’altro. E impariamo che la negazione e l’affermazione si equivalgono, sono sovrapponibili, e che l’io è forse Altro.

 La nuova poesia, la nuova ontologia estetica, non prende per pacifica la questione dell’io così com’è, come faceva la poesia che designiamo solitamente come novecentesca, che procede di lì con una colonna sonora unidirezionale e unispaziale, ma sa che ciò che designiamo con la parola io è una convenzione. Questa consapevolezza, questa problematizzazione cambia tutto, cambia il rapporto dell’io con il linguaggio. Cambia il linguaggio. Cambia il linguaggio poetico.

 Ciò che mi costituisce come soggetto, ecco la questione centrale. Non è dal soggetto che dobbiamo partire, ma dall’esterno, da ciò che ci rende soggetto, che sono gli Altri e l’Altro. È da qui che dobbiamo ripartire per una perlustrazione del cosa è il soggetto.

 Questo esercizio di porre da parte il soggetto è una vera e propria «iniziazione» come dice Rovatti. Il soggetto è veramente soggetto soltanto quando si sdoppia, si triplica, si quadruplica; quando il soggetto abbandona se stesso, prende le distanze dal se stesso, quando è impegnato a costruire una nuova soggettività, quando lateralizza se stesso, si decentra, quando subentra un altro soggetto che prende il posto del primo e lo mette tra parentesi, lo spiazza, lo decentralizza.

 Quando tutto ciò accade, allora il soggetto diventa pienamente se stesso in quanto è Altro e di Altri.

 Allora, da questa molteplicità di soggetti, da questo indebolimento del soggetto, proprio da qui può nascere un soggetto fortificato, un soggetto invincibile. Un soggetto nuovo. Un «soggetto-polittico».

 Il soggetto che si riappropria del soggetto non finisce mai di essere soggetto ma lo diventa sempre di nuovo. E qui il problema della «identità» sa di calcolo combinatorio, calcolo stocastico. Gli enunciati analitici non li si può ridurre alla formula A è B. Ogni volta il soggetto ricomincia daccapo, riapre lo scarto con il proprio mondo pulsionale e rappresentativo.

 Con le parole di Giorgio Agamben, diremo che il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, cioè dal punto di vista musicale è eminentemente cacofonico, la cacofonia è la legge segreta che muove il «soggetto-polittico».

Paolo Carnevali

Un interessante articolo che ho condiviso, Giorgio Linguaglossa. C’è una verità profonda in quello che hai scritto e mi auguro di cuore che venga letto da molti in rete. Aggiungo una mia modesta interpretazione sociologica, forse non condivisa: credo che la nostra sospensione nel tempo trovi attraverso il narcisismo, l’espressione esasperata dell«io», la certezza di esserci, di non essere dimenticati. Dunque l’interminabile ossessione di non essere dimenticati. Ecco che molti si rifugiano nella poesia o almeno quello che credono essere per loro “poesia”. Speriamo veramente che cambi il linguaggio dell’«io»…..

Aforismi da Minima moralia, Einaudi, 1954

L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.

L’intelligenza è una categoria morale.

L’umano è nell’imitazione; un uomo diventa uomo solo imitando altri uomini.

La decadenza del dono si esprime nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo.

La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.

La vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario.

Non c’è correzione per quanto marginale o insignificante che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni ognuna può sembrare meschina o pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo.

Ogni satira è cieca verso le forze che si liberano nello sfacelo.

Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.

Giorgio Stella

Portato via in una clinica più idonea al suo caso.
La cuccia per criceti fatta a mano non ha il criceto quello è a parte ma è
[scontato.

[…]

Zagor Tex Mister.NO poi Dylan Dog rovinò tutto.

La clinica è fuori città per evitare i rumori… vanta una piscina ma gli ospiti [non ne vogliono sapere.

 […]

Se ha bussato qualcuno avrebbe prima citofonato; la cassetta della posta è vuota quindi non si aspetta nessuno.

[…]

ci sono distributori automatici al primo piano della clinica ma la caffetteria è decaffeinata per ovvi motivi e le merendine dietetiche perché chi è pazzo

[in genere ha pure il diabete.

[…]

Le trote pescate al laghetto pesate valgono più dell’ingresso ma le mangeranno colleghi o amici facendo finta che il dono sia per loro.

Bussano prima di citofonare sono Zagor Tex Mister.No Dylan Dog li vede dallo spioncino.

[…]

La caposala della clinica ha una piccola gabbietta con dentro un criceto.

Dice che il paziente ripete in continuazione che il paese della morte ha [l’ampiezza del cuore. Continua a leggere

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Samuel Beckett e Morton Feldman: Neither, Nè l’uno né l’altro, 1977, Soprano Sarah Leonard, a cura di Donatella Giancaspero, L’assenza di un soggetto grammaticale

A cura di Donatella Giancaspero

L’assenza di un soggetto grammaticale

Tutti sanno chi è Samuel Beckett (1906 – 1989), il drammaturgo e scrittore irlandese, autore del cosiddetto “teatro dell’assurdo”, noto al vasto pubblico per l’opera teatrale Waiting for Godot (Aspettando Godot, 1952). Però, è assai probabile che non tutti conoscano Morton Feldman (1926 – 1986), il compositore statunitense pioniere, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, di una estetica musicale che, muovendo da John Cage (suo fraterno amico), introduce molte interessanti innovazioni in merito al suono, al ritmo e alla loro rappresentazione grafica, fino all’acquisizione di una scrittura totalmente indeterminata.

Morton Feldman e Samuel Beckett si incontrarono per la prima volta nel settembre del 1976, allo Schiller Theater di Berlino, durante una prova di The Lost Ones. Feldman stesso racconta il loro particolarissimo incontro. Non fu certo una partenza troppo buona; ebbe perfino qualche risvolto buffo.

Il compositore americano, notoriamente molto miope, dotato di lenti piuttosto spesse, passando dalla luce piena del giorno all’oscurità del teatro, ebbe qualche difficoltà a orientarsi. Venne presentato a “un Beckett invisibile”, come lui racconta; nell’oscurità, stringendogli la mano, Feldman colse soltanto il suo pollice, perse l’equilibrio e inciampò nel sipario. Il ragazzo che lo accompagnava ridacchiò. Ci furono dei mormorii… Insomma, una situazione imbarazzante, a dir poco.

All’uscita dal teatro, Feldman invitò Beckett in un ristorante lì vicino; oltre che per fare un gesto di cortesia, voleva parlare del motivo della sua visita: proporgli di scrivere un testo, un libretto, per un lavoro su commissione ricevuto dal Teatro dell’Opera di Roma. Come ci riferisce il biografo di Beckett, James Knowlson, alla richiesta di Feldman, la risposta dello scrittore fu disarmante: «Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace! E non mi piace che le mie parole vengano messe in musica». La replica del musicista fu, se possibile, altrettanto disarmante: «Sono perfettamente d’accordo con lei. Infatti, è raro che io utilizzi un testo. Ho scritto molti pezzi per voce, ma sono senza parole». A questo punto, Beckett lo guardò e gli pose una domanda alquanto ovvia: «Allora, cosa vuole?». Feldman non ne aveva idea. O forse l’aveva ben chiara, poiché, in realtà, lui cercava un testo in cui fosse concentrata “la quintessenza, qualcosa che si librasse appena nell’aria”, come ci informano le biografie.

Alla fine di settembre, Feldman ricevette a Buffalo una cartolina da Beckett: “Dear Morton Feldman. Verso the piece I promised. I was good meeting you. Best. Samuel Beckett”. Sul retro un breve testo scritto a mano, intitolato Neither: ottantasette parole, senza uso di maiuscole, la punteggiatura ridotta a due o tre virgole, gli a capo come se fosse una poesia; in realtà, si tratta di una “short prose”, come Beckett  preferiva definirla.

Il testo esprime la problematica dello stare al mondo; dello stare al mondo dell’uomo, in generale: dunque, dell’esserci. E ricordiamo che lo stare al mondo, in Beckett, consiste sempre in una condizione ambigua, oscillante tra l’essere e il non essere, tra l’essere percepito e il suo contrario.

In Neither, il senso di questa condizione è espressa dall’assenza di un soggetto grammaticale preciso, un “io”, un “tu”, e le azioni vengono indicate non mediante verbi di modo finito, ma indirettamente, avvalendosi, ad esempio, del participio e del gerundio. Parla una voce, impersonale, astratta: esprime l’andirivieni tra due ombre, quella interna e quella esterna, “dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé“; in ultimo, si arresta, disinteressata “all’uno e all’altro“, raggiungendo così qualcosa di indicibile: “l’inesprimibile meta“.

Samuel Beckett neither

 

Neither

 

to and fro in shadow from inner to outer shadow

from impenetrable self to impenetrable unself

by way of neither

as between two lit refuges whose doors once

neared gently close, once away turned from

gently part again

 

beckoned back and forth and turned away

 

heedless of the way, intent on the one gleam

or the other

 

unheard footfalls only sound

 

till at last halt for good, absent for good

from self and other

 

then no sound

 

then gently light unfading on that unheeded

neither

 

unspeakable home

*

Nè l’uno né l’altro 

su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna

dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé

di modo che né l’uno né l’altro

come due rifugi illuminati le cui porte
non appena raggiunte impercettibilmente si chiudano,
non appena volte le spalle impercettibilmente
di nuovo si schiudano

si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle

noncuranti della strada, compresi dell’uno o
dell’altro barlume

unico suono passi inascoltati

finché finalmente arrestarsi una volta per tutte,
disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro

allora nessun suono

allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro

l’inesprimibile meta

(traduzione di Gabriele Frasca)

Poiché nessuno dei due autori (e qui è proprio il caso di dire “neither”), né Beckett, né Feldman, come abbiamo visto, nutrivano simpatia per l’opera lirica, Neither resterà un caso unico nella produzione musicale del compositore newyorkese. Sebbene, poi, anche questa non possa definirsi “opera”, ma “anti-opera”, a tutti gli effetti: senza trama, senza cambiamenti di scena, senza altri personaggi oltre una cantante priva di nome. Continua a leggere

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L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua, La poesia oggi non può essere che fondazione del nulla, Poesie e riflessioni di Michel Meyer, Giorgio Agamben, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Giorgio Stella, Marina Petrillo, Alfonso Cataldi

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Marie Laure Colasson, Astratto, Struttura dissipativa

Giorgio Linguaglossa

L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua, La poesia oggi non può essere che fondazione del nulla

Il poeta è quell’ente che sta a metà tra il linguaggio e mondo. Linguaggio e mondo stanno uno di fronte all’altro ma sarebbero muti se non ci fosse l’esserci che assicura la dicibilità. L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua.

La poesia oggi non può essere che fondazionale, magari fonda il nulla, come avviene nella nuova ontologia estetica, ma è inevitabile che fondi il nulla, perché appena parteggia per una parte diventa discorso positivo e così si scava la fossa. Per sopravvivere la nuova poesia deve sfidare il nulla a farsi dappresso, a farsi avanti. E questo penso sia chiaro leggendo le poesie sopra postate, tutte hanno cessato di cercare un terreno stabile come poteva essere la poesia neoverista di Pagliarani con La ragazza Carla (1960) o sperimentale con Laborintus (1956) di Sanguineti o impegnata come Le ceneri di Gramsci di Pasolini (1957) o Composita solvantur (1995) di Franco Fortini. Quella è stata una gloriosa tradizione fondata su un discorso positivo assertorio, adesso, mutate le condizioni del mondo, l’unica positività che spetta di mettere in atto in una poesia è la «positività» del nulla.

La poesia italiana che è seguita all’ultima opera di Fortini non mi sembra che abbia mutato la direzione del percorso di un discorso positivo e positivizzante che oggi non ha più senso proseguire…
Da questo punto di vista la nuova ontologia estetica prende le distanze da tutta la poesia della tradizione del novecento.

Scrive Giorgio Agamben:

«L’essere è una pura esigenza fra il linguaggio e il mondo. La cosa esige la propria dicibilità, e questa dicibilità è l’inteso della parola».1

1 G. Agamben L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014, p. 220

 

Gif Monna lisa

La poesia oggi non può essere che fondazionale, magari fonda il nulla…

Francesco Paolo Intini

Passo su sgabello

Servono ventose e becco di polpo. Capacità predatoria.
Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde.

La Luna schiaccia una clinica a notte.
Kubrick in una civetta.

C’è un retaggio platonico. La Scolastica intera.
Una serpe aspetta il topo.

Colline e lagune del mimetismo.
Si odono lumache. Il petto lacrima dolcemente.

Il venditore elenca i vantaggi della discesa.
Si berrà Mc Carthy al Colosseo.

Dopotutto il centro della galassia divora Dei.
Aggancio di vipera su topo.

Se non pensa, che pensa la Scienza?
Il Tempo muore, l’Energia è zero Kelvin

Stravrogin fa un passo da gigante.
Matrëša su uno sgabello.

La V tace e non c’è mai stata.

Gino Rago

Una e-mail di A. C. (lungo le onde hertziane della eternità)

Gentile Signor G.
Ricordo la Sua domanda

fatta a nome di Zbigniew Herbert:
«Dove passerà l’eternità?»

Avevo in me la risposta nel magma,
ma ero ancora di terra sulla terra.

Ora possiedo la risposta:
passo già l’eternità con Tiresia,

cieco lui, non vedente io.
Mi creda Signor G.

Tiresia e io qui non siamo mai soli.
Seneca, Omero e Sofocle

Appena dopo il mio arrivo erano con noi.
Subito dopo Dante, Virginia Woolf e Borges.

Da poco sono andati vita
T.S. Eliot, Apollinaire, Primo Levi e Pound.

Per domani hanno annunciato la presenza
Woody Allen, i Genesis e Pasolini.

Ma senza vista, compiutamente donna
compiutamente uomo

Tiresia non è interessato ai loro films…

Giorgio Linguaglossa

«Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde.» (Francesco Paolo Intini)

Chiedersi che cosa significhi una verso siffatto è come quella bambina che nel museo di Picasso a Barcellona, di fronte a un quadro di una signora con un occhio sopra e uno sotto il mento e il naso al posto delle orecchie etc. di Picasso, si chiedeva: «mamma ma l’autore del quadro è diventato pazzo?».

È esattamente così. Porsi davanti ad una poesia della nuova ontologia estetica ricercandone un senso e un significato già noto e consolidato, equivale a porsi davanti ad un quadro di Picasso ricercando in esso la sintassi pittorica di Tiziano o di Rembrandt o di Vermeer. Nei versi di Francesco Paolo Intini, o in quelli di Marina Petrillo e degli altri poeti nuovi non c’è nulla che possa rimandare alla poesia di un Pasolini, di un Fortini e neanche di un Sanguineti, è cambiato il «modo», oltre che il mondo, cioè il linguaggio, e questo nuovo linguaggio richiede nuove categorie di pensiero, richiede un nuovo «modus».

Recentemente, un autore mi ha scritto in una email che io elogio ed esalto poeti mediocri mentre denigro e devaluto poeti veri. Dal suo punto di vista è comprensibile, capisco la sua obiezione. Ma il mio sforzo di ricerca ermeneutica è proprio quello di cercare nuove categorie di interpretazione di un fenomeno nuovo qual è la nuova poesia italiana, la poesia della nobile tradizione che arriva fino a Composita solvantur (1995) di Fortini non mi interessa più di tanto, il mio interesse si concentra sulla nuova poesia. Penso che ciò sia legittimo. Quella è ormai la tradizione del novecento e il miglior modo per rivitalizzarla e farla rivivere è fare della archeologia, recuperare e riposizionare all’interno della nuova poesia quella tradizione, non avrebbe senso continuare a versificare come hanno versificato i poeti della tradizione recente e meno recente.

Quanto alla questione della «ontologia» qualcuno mi ha rivolto la critica secondo cui noi continuiamo a pensare l’ontologia come discorso sulla «sostanza». Ebbene, mi permetto di ribaltare questa critica nel suo contrario: sono proprio i conservatori a pensare e a scrivere secondo il concetto di una ontologia come «sostanza», io infatti ho parlato a più riprese di «ontologia meta stabile», proprio per segnalare che l’ontologia di cui trattiamo non è quella «sostanza» stabile che costituisce il mondo, quanto una «esigenza», un modus…

Scrive Giorgio Agamben:

«Nella formula che esprime il tema dell’ontologia: on he on, ens qua ens “l’essere come essere” il pensiero si è soffermato sul primo ens (l’esistenza, che qualcosa sia) e sul secondo (l’essenza, che cos’è qualcosa) e ha lasciato impensato il termine medio, il qua, il “come”. Il luogo proprio del modo è in questo “come”. L’essere, che è qui in questione, non è né il quod est né il quid est, né un “che è” né un “che cosa”, ma un come. Questo come originario è la fonte delle modificazioni (“come” deriva etimologicamente da quo-modo) Restituire l’essere al suo come significa restituirlo alla sua com-moditas, cioè alla sua giusta misura, al suo ritmo e al suo agio (commodus, che in latino è tanto un aggettivo che un nome proprio, ha precisamente questi significati, e commoditas membrorum designa l’armonica proporzione delle membra). Uno dei significati fondamentali di “modo”, è infatti, quello, musicale, di ritmo, giusta modulazione (modificare significa, in latino, modulare armonicamente: è in questo senso che abbiamo detto che il “come” dell’essere è la fonte delle modificazioni).

Benveniste ha mostrato che “ritmo” (rytmos) è un termine tecnico della filosofia presocratica che designa la forma non nella sua fissità (per questa, il greco usa di preferenza il termine schema), ma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile e fluido.»1

1 G, Agamben L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014 pp. 223,4

Marina Petrillo

Esiste un paradigma della mente che apre il suo vanto ai “mediocri”. Così straluna il tempo, assottigliato nel suo vestito migliore.
Non affonda l’egoico sarcasmo nell’inchiostro, l’anchilosare dei perduti giorni. Chi scrisse il non scritto in nuovo Logos… a quale ultima Poesia appartenere se il giudizio “priva del vaso senza perdere alcun fiore” .

“Nell’aria un uccello infelice. Cadendo diventa un piccolo peccato. O un flauto celeste, troppo sottile”. Non ascoltabile da tutti.

Scrive Paul Celan:
“La poesia, in virtù della sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera.
Insegna a comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità;
invita alla fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro,
anche là dove questi si manifesta come deforme e con il naso adunco…”

Ringrazio Giorgio , il sensibile Gino Rago per la sua citazione, la complessità e meraviglia resa da ogni poeta. Continua a leggere

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La Nuova Poesia di Marina Petrillo, Giorgio Stella, Carlo Livia, Francesco Paolo Intini, La rappresentazione dell’irrealtà, Ogni figura è un precipitato di mondo, Ogni figura è l’evento del mondo nei segni di un corpo, Riflessioni di Iosif Brodskij, stralcio di Carlo Sini, Giorgio Linguaglossa

Gif Antonioni film

Antonioni, fotogramma di film La notte, 1961

Marina Petrillo

Esiste un’attitudine al Vuoto… Inebriato istante cancellato in spazio a-dimensionale, geometria sacra. Parrebbe avanzare ciò che indistintamente non lascia traccia. Ma, l’addensarsi plastica di un tempo consapevole, abita forse quel Vuoto. Ne è dinamica costante, come fosse non variabile l’umano approcciarsi al cammino evolutivo se non per quella esperienza unica, imprescindibile che è il vivere. Sottratti ad essa, vaghiamo in una interlinea assente, posta in ombra da incombente abisso. In un ‘nulla’ divagato a metamorfosi continua, incessante. Battito del cuore, metronomo in universo dilatato pur se indicibile. Per quale profilo avanzi il Tutto in assenza di sé, non è dato comprendere se non per brevi intuizioni. Sprazzi celesti in accordo all’ottava superiore. Scesi agli inferi, procediamo a tentoni, ciechi vati, Tiresia nell’ambiguità del sesso.

Appartiene al passaggio, l’Essere, in quel vuoto relativo poiché l’Assoluto richiede altra forma e il limite posto è contagio di infinito.

 *

Indefinita verso altra sponda radiosa
la caligine sovrana della fiera estate.

Attratta dal ferroso magnete a polo inverso
detiene prigionieri gli stantii ospiti

del cui vero monito non conosce tregua
l’ondulare vago delle ignote sere.

Stridio invoca il cicalare nel moto lento
di un richiamo colto a convesso lato.

In epifanico strascico, orienti stelle
tacciono a paradigma il buco nero imploso.

Esodo di lamine argentee in turbine improvviso
come fosse vacuo pianto la fatuità graffiata a sorte.

Giorgio Stella

privato del vaso non si perde nessun fiore.
le federe del letto sono state cambiate da poco e ricambiate.

[…]

oggi fa caldo domani farà freddo, il calendario vanta il marchio della
[farmacia.
è inoltrato un sollecito di pagamento già saldato.

chissà se il nuovo supermercato rispetterà i turni del precedente se nei
[nuovi reparti si riconosceranno i vecchi ambienti […], se lo sconto sul tonno
verrà praticato.
[…]

sotto casa un signore si chiede a quale indirizzo è rimandato … si risponde quasi scusandosi, che è tutta la vita che abita in quella zona,

ma davvero non sa come aiutarsi… forse dovrebbe chiedere al macellaio
ma si morde la lingua, non si ricorda neppure dove si trovi il macellaio.

Carlo Livia

From Nowhere to Nothing

Attraverso la notte sacramentale, nuda, trascinando l’anima del bambino morto. Un vecchio mi vede da lontano e grida. Vuole uccidermi, ma diventa di marmo.

Cado nel groviglio francese. E’ piacevole. Divento Auschwitz. Con le cosce dell’uragano Gloria, e un sesso vermiglio con precipizi in fiore. Ritorno nel parco giochi. Un cipresso cieco, furioso, mi sbarra la strada. Ha tutti i morti in mano.

La rugiada delle fanciulle è spesso viola. Segue le croci verso il buco nero, senza domande.

La veste vergine si affaccia dall’incesto, spargendo protoni mortali. Sul davanzale intermedio decompongono la vertigine in minuscoli istanti ciechi.

Dall’Amplesso centrale cade un si minore. Biondissimo. Inestricabile dai lunghi serpenti del profondo. Si staglia nel cielo lastricato di Dei. Sul viale ormonale appena risorto.

Nell’aria un uccello infelice. Cadendo diventa un peccato. O un flauto celeste, troppo sottile. Mi trafigge il cuore. Per fortuna mi addormento. In sogno attraverso le cascate.

Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata.

Francesco Paolo Intini

“Boîte-en-valise” con neutroni

Cubi solcati dagli ascensori. Accessoriati
Non consoni a una sosta di riflessione.

Uno squarcio è sempre possibile, un addotto planetario,
toro all’equatore.

Ci passa la Forza, si arrotonda gli occhi.
“Boîte-en-Valise” con Neutroni.

Il viaggio verso Marte fu delirante
Doveva dormire per un altro secolo ma le Baccanti fermarono Roma.

L’aeroporto volò nel vasto panorama con i suoi programmi
un secolo negava l’ altro perchè suonava la cetra con la bocca.

Transitano orologi, il ritardo è punibile con la morte.
Nel cambio merci si gioisce per il netto di acquasantiere.

Se si è capito troppo vuol dire
Che bisogna accelerare la rotazione terrestre.

Il radiologo non scova Marx tra le sinapsi.
Asciutta anche la zona santa dell’ipotalamo.

Il dopo ammette solo cenere.
Pura estasi refrattaria alle domande.

Californio, Organesson alcune ragioni per trattare con Galassie.
Strategia a martello contro

un valzer intorno al buco nero.

Giorgio Linguaglossa

Il linguaggio di Livia si muove lungo una dorsale di tracce visuali, gestuali, grafiche e sonore di antiche metafore che sono state dimenticate e rimosse dalla coscienza dell’uomo civilizzato, conserva ancora qualcosa del linguaggio animistico e auratico che collegava le cose più disparate tra di loro in un fluido, in un mana. Più che un erede del surrealismo, Livia vuole fondare un nuovo linguaggio, e lo fonda davvero, un linguaggio che vuole essere una presenza vivente, attuale di ciò che è trascendentale; un linguaggio-aura, un linguaggio auratico del quale sarebbe ozioso ricercarne dei significati, la poesia liviana non insegue dei significati ma li crea attraverso simbiosi e collegamenti quasi telepatici, erede del trasferimento di voci che sono andate perdute lungo il processo di incivilimento dell’umanità; conserva qualcosa di ingenuo e di infantile, qualcosa di quella commistione e confusione di quell’alba della coscienza tipica dell’età della prima infanzia quando ancora il linguaggio degli adulti non ha attecchito alla coscienza linguistica, qualcosa di quei frammenti che sono andati dispersi lungo il processo di incivilimento dell’umanità occidentale. Carlo Livia ha trovato una propria singolarissima vocabologia che non assomiglia a nessun’altra della poesia europea del novecento. Trovo anzi che in queste ultime prove il suo tessuto metaforico e metamorfico si sia arricchito, prova evidente della bontà della ricerca portata avanti dal poeta romano in questi ultimi anni. Continua a leggere

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L’orizzonte degli eventi è abitato da Figure, Le Figure sono propriamente l’orizzonte degli eventi, e gli Enti transitano in quest’orizzonte, L’Essere è ciò che si dice, Poesie di Donatella Giancaspero, Marie Laure Colasson, Giorgio Stella, Lucio Mayoor Tosi, Francesco Paolo Intini

Gif semaforo

Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre

Giorgio Linguaglossa

Io penso che si può accedere ad una «nuova poesia» come la Nuova Ontologia Estetica soltanto se si comprende fino in fondo la portata della ontologia positiva, con tutte le conseguenze che si possono tirare in sede di scelta delle parole da infilare nel filo del discorso.

Se l’Essere è ciò che si dice, noi affibbiamo alla Parola la massima responsabilità e il massimo peso specifico, perché una volta detta, la Parola coincide con l’Essere.

Tuttavia, proprio pronunciando quella Parola, noi le scaviamo la bara. Il poeta NOE è consapevole che quella Parola è un Nulla, vuole dire Nulla. E questa consapevolezza è talmente disarmante da gettare nello sconforto e nello sgomento chi pronuncia la Parola. Scoprire che la Parola è un Nulla è un colpo durissimo da digerire.

Scrive Merleau Ponty: «in ogni caso, noi troviamo nelle parole degli altri solo ciò che noi stessi vi mettiamo; la comunicazione è un’apparenza, essa non ci insegna nulla di veramente nuovo».1

La comunicazione è comunicazione di nulla, il predicato del nulla è la comunicazione. La poesia non può essere comunicazione perché essa è un nulla. Discettare di «comunicazione» della poesia è un parlare a vanvera di persone digiune di ragione filosofica.

La differenza che passa tra una poesia normale e una poesia della nuova ontologia estetica è che la seconda ha vivissima la percezione del Nulla che dimora all’interno di ogni singola parola, mentre la prima si consola con l’illusione che la Parola indichi un referente che sta lì… Una convinzione senza dubbio consolatoria…

Ma a stare lì è soltanto il Nulla.

Ecco perché il significato dei segni che compongono una poesia è sempre e soltanto un Enigma. Se la poesia ha un significato esso è un Enigma. E in quanto tale, insolubile. O meglio, la soluzione dell’Enigma è la sua dissoluzione. L’Enigma vive della dissoluzione della poesia nel Nulla. Dunque, l’Enigma è un Nulla.

1 M. Ponty, citato da Massimo Donà in L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008 p. 508

 Donatella Giancaspero

Da qualche giorno

Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.

Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.

Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro
[i muri –.
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.

Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.

Commento di Rossana Levati

Vorrei dedicare qualche riflessione alla poesia “Da qualche giorno” di Donatella Giancaspero.
Per accostarmi ad essa è una frase di Garcìa Marquez, da Cent’anni di solitudine, a fornire la strada migliore al mio personale gusto di lettrice: “Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”, frase che conclude la pagina dedicata alla perdita di memoria da cui sono afflitti, solo temporaneamente, gli abitanti di Macondo.
Una realtà sdrucciolosa e inafferrabile quella che magicamente affiora, tra i versi della poetessa, senza poter fornire punti di riferimento che ancorino questa realtà nel tempo e nello spazio.

Pochi dettagli, come quelle case che devono tenersi tra loro ai fianchi, “come sostegno”, per non rischiare di franare nel Nulla, nel Vuoto. Una scala che sale dal cortile al terrazzo e che conserva forse quel misterioso ruolo delle scale che, come afferma René Guenon , ancorano il mondo inferiore a quello superiore lungo l’asse dell’ “essere” e si protendono dall’abisso verso un remoto spaziale irraggiungibile; e ancora, i gabbiani che appaiono come messaggeri invisibili “dentro i muri” o sul terrazzo, emblema di una inconoscibilità ma anche dell’unica possibile perfezione che è concesso intravedere nella nostra comune dimensione spazio-temporale, quasi essi fossero sorveglianti gelosi di un altrove irraggiungibile per l’uomo. La fotografia scampata alla frana dei ricordi è l’unico provvisorio modo di ancorare la fluidità del tempo e di assicurare certezza ontologica allo scorrere delle cose e degli oggetti, come ad assicurarci che quel luogo veramente esiste nella realtà tangibile.

Forse essa è l’emblema di questa precaria esplorazione del mondo, in cui davvero, come dice Borges, le parole hanno funzione di argine al fluire del tempo e alla nostra sospensione tra un passato che permane nei nostri sensi, un presente in cui siamo immersi e un futuro che è appena a portata delle nostre dita e di cui possiamo avere lampi, fugaci rivelazioni.
Significativamente, la poesia è priva di avverbi temporali ed immersa in un presente assoluto, quello in cui vive la coscienza del personaggio narrante che assume la prospettiva dell’indagine, dell’esplorazione, della ricerca ma può solo raggiungere un sospettare dubitoso.
Proprio questo verso d’apertura mi pare racchiudere una cifra tipica della Giancaspero, che ho già osservato in altre sue poesie, come “E’ domani”, ossia la tecnica del rinvio che sostiene di strofa in strofa la poesia: ogni verso rimanda infatti al successivo, in una tensione chiarificatoria che aggiunge particolari alla prima dichiarazione, ma non sposta di molto le informazioni di base, solo le connota, le precisa, senza tuttavia assicurare mai il raggiungimento della certezza tanto attesa e senza che si possa mai superare del tutto quel “sospetto” iniziale raggiungendo una conoscenza definitiva e più stabile o più completa dell’esistere. Con le parole della poetessa continuiamo il nostro sforzo, la nostra ricerca si sposta col proseguimento della lettura. Mi sembra in questo caso che la poesia stessa, di verso in verso, assuma l’andamento di una scala a chiocciola in cui la visuale assicurata dal salire un nuovo scalino si rifrange sempre sullo stesso angolo: così non si potrà raggiungere una conoscenza totale del mondo, bensì sempre solo parziale nella tensione a quell’ “oltre” depositario di una perfezione che in sé e per sé non si può dare, nella interdizione del nostro vedere confermata dal volo in picchiata dei gabbiani.

Per tornare al confronto accennato, in “E’ domani” la tecnica del rinvio era costruita in una dimensione orizzontale, connessa col movimento delle rotaie della metro di superficie protese nel vuoto della loro corsa cittadina, mentre in questo caso il rinvio si sposta a una dimensione verticale che, di scalino in scalino, fa affiorare lo sguardo sulla terrazza condominiale. Ma ancora, è proprio il Tempo, “tempo muto” del domani, “zona franca” dove si compiono i destini, a costituire con estrema coerenza il luogo d’indagine della poetessa, non tanto alla ricerca di un tempo perduto consegnatoci dalle fotografie quanto alla ricerca di un tempo assoluto, quasi fuori dal tempo, in cui si possa attingere e sondare il fondo delle cose.

Gif Supercolored

Se la poesia ha un significato esso è un Enigma. E in quanto tale, insolubile. O meglio, la soluzione dell’Enigma è la sua dissoluzione

Marie Laure Colasson
(trad. di Edith Dzieduszycka)

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres

“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour

Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………

L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane

Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d ‘ enfants “

Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet

Miss Vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable

*

Rullo di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte scavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss Vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

Gif pioggia in città

migrano le cose oscure del morire, una stazione per volta

Lucio Mayoor Tosi

Questa mia non c’entra con il nulla, ma è per riconoscenza.

L’amore è un legame.

L’amore è un legame. Lo sanno bene le tortorelle
di Padre Pio, che il gerundio si è perso da tempi immemorabili
tutto il piacere della vita.

Amore è il mio linguaggio, parola amata. L’anestesia
e quel che ne consegue, come ti cade un dente… e non lo puoi
rimettere. Amore che combina ( sì, baciamoci. E dunque l’Ariosto).

Amore si può dire, ma devi essere poeta in carne ed ossa.
Sul principio non ti avrei delusa. Le quattro parti mi piacevano.
E dunque. Dunque. Bisognerebbe chiudere la porta. Il cancello.

(May – lug 2019)

Giorgio Stella

migrano le cose oscure del morire, una stazione per volta –
l’ammorbidente è il programma della lavatrice –

alcune case sono monolocali
i lotti a schiera di Renzo Piano bilocali –

‘mi incarta i cornetti per favore?’ – “si, ma i caffè sono a portar via?” –
la mensa aveva finito i fagiolini ma restava il pane: rosetta o in cassetta –

ho fatto il test sono negativo –
la cerniera della lampo è divisa dall’orlo nella camicia di forza –

forse pioverà, l’ombrello Carpisa costa parecchio –
forse la stagione delle piogge ammette l’ultimo gelato di stagione –

Mignon è partita… l’Archibugi pensò fosse la Transiberiana –
Mignon è partita, ho scordato di rinnovare l’abbonamento Atac-mensile –

 

Francesco Paolo Intini

Il Bianco ed il Nero. Gatti entrambi dello stesso quartiere

Il Bianco aveva un regno. Un giorno lo sorpresi tra le radici bruciate di un pino. Sonnecchiava tranquillo pensando alle sue cose, per niente invece alla chioma secca sulla sua testa.

La sostanza e gli accidenti della vita di un re passano per una continuità di lotte che talvolta possono sembrare cessate. Una tribù da difendere. Copioni che si ripetono uguali, maschere che recitano lo stesso obiettivo di conservare il seme nel tempo. La ventura di essere il capofila, l’interfaccia con il quartiere.

Interagire con esso porta a compiere delitti. Uccidere o quanto meno spaventare colombi e perché no? i gabbiani.

Un solido Nulla si portò via il pino e le altre forme di vita campestre, piantandoci cemento armato con i balconi fioriti e le vetrate, i box auto, i passeggini.

Direi che l’impotenza sul passato è pari a questa volontà di costruzione urbana. In qualche modo la riempie come si trattasse delle fondamenta di un palazzo.

D’altra parte il Nero è scomparso anzitempo. Ad un passo da qui separato da un fossato di asfalto e muro sorvegliato notte e giorno da gendarmi che assomigliano ad Alichino e Graffiacane.

Un prato sempre curato. Il suo regno, il suo harem profumato.

I ragazzi del Campus gli scivolavano accanto. Ma lui rimaneva indifferente alla superstizione e all’orrore che destava in taluni la sua pancia enorme, la sovranità di pantera, il fascino della materia oscura negli occhi.

In realtà pensava alle sue numerose amanti ma senza riflettere su come converga tutto in un uno stesso senso sia che si parta dalla luce e sia dal buio.

Non essendo previsto un salto da un settore all’altro, il confine rappresenta uno iato insormontabile. Anche gli uomini sono diversi perché non c’è ragione per supporre che l’ora dell’uno sia sincronizzata a quella dell’altra. E chissà dunque quale tra l’uomo di Scienza e l’Operaio sia l’orologio avanti e quello indietro.

Eppure qualcosa sfugge al controllo.
Il regno del Bianco ha figli neri. Quello del Nero ne ha bianchi.

Una divisione netta, abissale grida dunque la sua impotenza nei confronti della casualità. Nel suo gioco nessuna bottiglia è mai completamente piena e nessuna cantina è mai completamente asciutta.

Quel muro che doveva garantire la divisione tra bianco e nero è così soltanto perché manca il suo obiettivo ma nello stesso tempo non lo è perché tutto avviene sulla base di un suo “essere” qualcosa.

Neanche il Bianco ed il Nero hanno ragione di essere qualcosa in questo qui e ora ma sono soltanto punti con una certa probabilità di manifestarsi a cui si associa una probabilità di Nero e Bianco rispettivamente.

Giorgio Linguaglossa

Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole

Le poesie sopra postate offrono al lettore una pinacoteca di Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole. Sbaglierebbe chi giudicasse queste poesie come un «gioco» alla maniera novecentesca, qui non c’è nessun «gioco», e, se c’è, è un gioco serissimo che ha a che fare con le Figure che si presentano sull’orizzonte dell’apparire per poi, subito dopo, scomparire, e magari ricomparire in altre guise, sotto altre vestizioni. L’orizzonte degli eventi è abitato da Figure. Anzi, le Figure sono propriamente l’orizzonte degli eventi e gli enti abitano quest’orizzonte. Miss Vitamine, Charlotte, Sœur Candida sono propriamente delle Figure in transito, appena nominate, sfuggono via, hanno un barlume fuggevole di esistenza, e poi più nulla, appena nominate sono già nel passato. Lo sfondo di questa poesia è il nulla, il senza-fondo. Ed è sullo sfondo di questo senza-fondo che possono transitare le fuggevoli Figure che popolano questa poesia. In tal senso, le Figure sono eterne, perché eternamente si rinnovano ed eternamente transitano nel nulla.

Scrive Carlo Sini:

«…i viventi, le loro figure e le loro relazioni vanno a fondo. Ma sulla soglia transitante della figura, che si dà al mondo interpretandolo, il vivente attinge nelle sue figure una sorta di immortalità puntuale, in relazione alla sua aura. Relatività che allude ed è metafora dell’immortalità senza declinazioni del supporto ultimo di tutte le figure: quell’aura della presenza eterna della vita che è l’unità neppur una sottesa a ogni polifonia.

Per il vivente “che sa” si tratta allora di imparare a essere quel che (si) è: immortale. Eterna non è la figura nell’errore tenace del suo “qualcosa”, ma il precipizio del vuoto e del nulla che vibra ora e qui nella figura e che coincide con il comporsi e lo scomporsi, il dileguare e comparire che affetta le figure: Le figure sono così contemporaneamente eterne e transeunti. Eterne nel loro perenne transitare, non stare: esse modulano, irripetibilmente ripetendola, la polifonia della vita eterna. Effimere nel loro dileguare, nel loro sfumare al limite del loro confine, dove si fanno ponte della trasmissione verso altre figure».1

1 Carlo Sini, Il sapere dei segni, Jaca Book, 2012, p. 68

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La Grande Narrazione, La voce è la presenza del linguaggio nel linguaggio, è Figura del presente, Figura dell’assente, Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie, Il Distico, La Nuova Poesia, Poesie di Giuseppe Gallo, Giorgio Stella, Gino Rago, Maria Borio

Gif La porta si apre

il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo

Giorgio Linguaglossa

Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta, in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, de-coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio nel linguaggio, è Figura del presente, Figura dell’assente. La impossibilità del linguaggio e del linguaggio poetico in particolare ad ospitare tutto il dolore del mondo de-coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

Si può scrivere in distici soltanto se si avverte il distico come una presenza subito seguita da una assenza, come una voce subito seguita da una non-voce.

Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.

L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.

Il distico istituisce visivamente il nulla.

Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.

1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

Giuseppe Gallo

Giorgio Linguaglossa, riportando una riflessione di Carlo Sini:

«L’aura sta al limite della figura, segnandone la relazione al profondo, cioè alla sua provenienza, innanzi tutto, ma anche alla sua destinazione futura.» ben definisce le atmosfere caratteristiche della poesia di Maria Borio. Sulla stessa linea le puntualizzazioni di Gino Rago. Quello che a me colpisce è la consequenzialità logica e formale dei concetti che si allineano nella versificazione… riporto come esempio l’ultima Trasparenza:

Il mare è davanti. La luce della mattina si sgrana,
ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.

i frutti cadono, ci attraversano i pensieri,
si depositano sopra le ossa e i pensieri si gonfiano

in alto resistenti nell’aria di fine estate, sfere dove
le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi

fissandosi dentro la luce mentre mare e terra
raffreddano. Inaspettatamente possiamo diventare

freddi appoggiati su onde e nuvole fredde.
Intorno il posto adesso è trasparente.

Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.
in mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:

si accoppiano e i frutti cadono, dicono
cosa siamo, come ci siamo immaginati.

È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro
– essere la prospettiva fragile e forte

per chi ci ha abitato, chi ci abita.

A me appare sempre più difficile accettare un periodare in cui l’ordine del materiale linguistico è coordinato dall’io. Non so a voi. E non vale per questi distici nemmeno quanto afferma Giorgio Linguaglossa nell’ultimo intervento:

“Lo spazio che segue e precede il distico è il nulla del bianco della pagina che de-istituisce la presenza del distico.
L’antitesi della scrittura (il distico) e il bianco della non-scrittura, ripropone figurativamente e semanticamente l’antitesi e l’antinomia tra l’essere e il nulla.
Il distico istituisce visivamente il nulla.
Si tratta di una percezione singolarissima. Può scrivere in distici soltanto chi ha questa percezione singolarissima.”

Il perché è presto detto: “Lo spazio bianco” in cui si “istituisce visivamente il nulla” io non riesco a coglierlo. Per il resto la poesia di Maria Borio mi sembra un ritorno, robusto ed intenso, all’indagine, inesauribile, di chi abita ancora dentro di noi e di chi è stato sfollato.

Zona gaming 11

Vado a vivere nel nulla
dove chi parla non ha ospiti da esibire.

Il cielo s’apre. Entrano alberi. E nubi.
Escono rondini, sciamano aeroplani.

-Devo sapere, Joe! Devo sapere!
-Lo faccia, Ben! Lo faccia! C’è un segno!

O un sogno. A qualche chilometro di parvenza.
A qualche ora posteriore alla disfania.

Zona gaming
Anche i fiori spazzatura.

Vado a vivere nel nulla
Dove Dio bacia se stesso.

Nella Camera Oscura delle congiunzioni elettriche.
E delle sconnessioni magnetiche.

Eccoci. Siete impazienti. Ansiosi del rimosso.
Dentro le ragnatele delle pagine.

Zona gaming
Spazzatura anche il filo spinato.

-Devo sapere sapere, Ben! Devo sapere!
-Lo faccia, Joe! Lo faccia! C’è un sogno!

Segno della polvere spianata
dopo il timore della vertigine.

I metalinguaggi delle trasgressioni.
I riflessi del pubblico e del privato.

I codici della nostra sublimazione,
la semantica della follia…

Zona gaming
…segni del tempo e viceversa

Gif porta girevole

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Giorgio Linguaglossa

Sono d’accordo con te caro Giuseppe Gallo,

la poesia di Maria Borio appare situarsi nella zona di trapasso dall’io al noi e dall’io alla terza persona singolare. È vero, è ancora l’io il governatore di questa «zona optica», ma è un «io» che si indebolisce, che sbiadisce… tra poco di quell’io non rimarrà più niente, nient’altro che nuvole e polvere, il mondo reale sfumerà nell’indistinto. A quel punto, la crisi della poesia della Borio avrà raggiunto il punto di non ritorno, infatti l’autrice non pensa ancora il bianco della pagina che circonda il distico come ad uno spazio vuoto, uno spazio del nulla, ma come un complemento della scrittura e sua prosecuzione. La mia riflessione sul distico voleva essere una riflessione generale, sugli esiti cui conduce la ricerca approfondita sul distico. E qui il problema emerge in tutta la sua complessità: «Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?». Dinanzi alla abissalità di questa domanda, faccio un modesto passo indietro: io non so «quale poesia scrivere», la sto cercando, certo che non potrà riepilogare le orme del recente passato, quella è ancora una poesia della «colonna sonora», una poesia del «pieno», una poesia che evoca il «pieno» dal «non-pieno», che evoca il «pieno» dal «vuoto», una poesia della «ontologia negativa» che vuole evocare il «pieno» dal «non pieno». Io penso invece che occorra dimorare stabilmente in una ontologia positiva, una poesia che abiti stabilmente il «nulla» e che nomini il «nulla» mediante le sue «Figure», le sue «Maschere».

Le «Maschere» sono nient’altro che dei simulacri che attendono i personaggi della nostra alterità.

Corre l’obbligo, dopo la fine del novecento e della poesia modernista europea, porsi due domande terribili:

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Quale è il compito della poesia dinanzi a questo evento epocale?

Allora, apparirà chiaro che quella simbiosi chimica delle parole che avviene attraverso il tempo e le temporalità può eventuarsi mediante un processo di metaforizzazioni: dalla cosa all’immagine mentale e da questa alla parola. La metaforizzazione ci porta «fuori» dal discorso ordinario, quello dell’epoca e dei suoi linguaggi di settore. Questo esser «fuori» è un attributo fondamentale dell’esser «altro» del linguaggio della poesia, altrimenti sarebbe «dentro», e precipiterebbe nei linguaggi di nicchia e di settore dell’evo mediatico.

L’epoca della metafisica compiuta è quella che richiede una filosofia ermeneutica e un’arte ermeneutica, che è un altro modo di porre la questione dell’«ermeneutica [come] forma della dissoluzione dell’essere».1]

L’esercizio della memoria si dà soltanto sul presupposto della perdita della memoria. L’esercizio della memoria è l’esercizio della nostra mortalità.

1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985 p. 164 Continua a leggere

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Maria Borio, Poesie da Trasparenza, Interlinea, 2018 pp. 134 € 12 con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici, Interpretare una poesia implica disvelarne l’aura

Gif Finestra con veneziane

Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici

Maria Borio, nata nel 1985, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (XII Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2015) e L’altro limite (Lieticolle, Pordenone-Faloppio 2017). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, Pisa 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, Venezia 2018). Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. Trasparenza è il suo primo libro di poesia.

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

«Le ferite dello Spirito guariscono senza lasciare cicatrici», lo ha scritto Hegel, sono le parole finali della Fenomenologia dello spirito, che io però interpreto à rebours: Le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici… E questo libro di Maria Borio lo lascia intendere con molta chiarezza al di là delle intenzioni dell’autrice, è la natura delle contraddizioni stilistiche che qui emerge in modo palese. La «Trasparenza» di cui si narra nel libro è la invisibilità delle cicatrici che riposano sul corpo martoriato dello Spirito, invisibilità appena impercettibile che alligna sotto il pelo d’acqua di una scrittura nitida e sottile e avvolgente, metà poesia metà prosa breve alla maniera della scrittura poetica materiatasi nel post-novecento di questi ultimi lustri; la «voce» contiene in sé una voce «trasparente», quasi che la trasparenza la si voglia ostendere e nascondere nell’elemento dialogico, nella forma narrante della terza persona, dell’estraneo che ci abita e che sembra governare tutte le cose ma che invece ne è succube, prigioniero dell’esterno e dell’esteriorità e della chiacchiera del «si».

«Trasparenza» della terza persona e delle cose e invisibilità dei «confini» tra le cose e gli umani sono il segnale di qualcosa di impronunciabile che la poesia vorrebbe, ad un tempo, ostendere e nascondere, elidere, implica e allude ad una colpa dell’io per non aver osato oltrepassare quei «confini», per non aver saputo o potuto oltrepassare la «soglia» che ci divide dalle cose e dai loro significati e dagli altri esseri umani. «Trasparenza» è anche questa disumanizzazione cui siamo costretti, questa problematica impossibilità ad inoltrarci nella dimensione attigua, che noi sentiamo prossima, ma che ci è sbarrata, insondabilmente ostile, slontanante e lontana, impercettibilmente aliena, mentre la nostra «voce» è irrimediabilmente reclusa in un circondario di «voci senza suono», in un reclusorio di «volti scavati».

Maria Borio trasparenza

Voci senza suono, volti scavati
passano in fondo al video come i tronchi maceri
di una leggenda: anche le persone con i desideri

infossati come solchi nel catrame possono portare
una leggenda. Le grida sono legni, acqua vecchia
diventano gusci, forse nodi bianchi.

La leggenda che porto ora in questa città
racconta della nascita di certi uccelli
dai gusci dalla schiuma dai legni morti

poi crescono le piume – dice – e volano sul mare
come tutti gli uccelli, tutti gli uccelli anche qui
– credo – qualcosa si sta alzando o si rompe.

La leggenda fa trasparenza, i solchi sul catrame
sono le cicatrici che ogni persona in qualche parte
nasconde. Invecchiando si mimetizzano.

Anche le leggende fanno sfere mimetiche.
Adesso volano a me’’aria, senza misura
lacera o intatta.

*

Anche la voce può dimagrire
ed è sentirlo come il corpo dimagrisce

trasforma i muscoli in altra massa
li fa sbiancare e ascolta i toni che cadono

fra le corde vocali, perdono l’equilibrio.
il corpo dimagrisce come la mente quando sogna:

questo che era noi è noi, passato, futuro
in una voce pura il corpo sottile

fino a quando non restano dentro un’immagine lontana
corpo e voce intrecciati, scie dopo la pioggia.

Chi ci guarda può annullarci, farci dimagrire, portarci via.

Forse l’hanno guardata come li ha guardati
ed è dimagrita entrando negli altri:

la voce cade in uno spazio fra le corde vocali

di tutti, vuota e bianca, fino a stringerci.

gif-volto-bianco-con-macchia-rossa

Nella sua essenza profonda la poesia resiste come può allo sguardo indagatore

Interpretare una poesia implica disvelarne l’aura.

Ogni poesia ha un’aura, contiene delle parole chiave che consentono l’ingresso in un enigma di significati che resistono ostilmente alla interpretazione. Nella sua essenza profonda la poesia resiste come può allo sguardo indagatore che vorrebbe scandagliarne gli abissi, nella sua essenza profonda la forma poetica è un dispositivo di resistenza ostile alla penetrazione, è una sottrazione, un passo indietro rispetto alla significazione; l’aura è qualcosa che risiede sul limite esterno delle figurazioni, potremmo forse ragguagliarla alla stratosfera che protegge il pianeta dalle radiazioni cosmiche e solari, l’estremo lembo di difesa contro gli agenti nocivi extra solari… ma è vero anche che l’aura si configura come il limite di ciò che delimita la figurazione e le impedisce di palesarsi nella figurazione, di far sortire significati nascosti o dimenticati o rimossi.

La poesia di Maria Borio gira instancabilmente intorno a se stessa, parla preferibilmente in terza persona, adotta la meta poesia per sortire fuori dalla forma-poesia della tradizione italiana di questi ultimi lustri; ci parla della crisi della poesia a diventare poesia, a diventare adulta; ci narra la difficoltà della «voce» a raggiungerci, di farsi scrittura, grafema, segno lessicale, significato, quasi che il supporto della carta non sia più idoneo a recepire la scrittura poetica, «la voce cade in uno spazio fra le corde vocali», scrive l’autrice, «la voce cade» in uno spazio vuoto. È la problematica della poesia a diventare «nuova poesia» attorno a cui ruota tutta la poesia italiana di queste ultime decadi quella che sta a cuore a Maria Borio, quella problematica che la «nuova ontologia estetica» ha affrontato elaborando un nuovo modo di impostare e pensare il discorso poetico. Ma questa è la cronaca dei giorni nostri. Un ultimo appunto: nella scelta delle composizioni ho privilegiato quelle in distici, che rivelano una singolare rassomiglianza con il distico adottato dalla «nuova ontologia estetica». Ma si tratta di due distici lontanissimi nella pensabilità  di esso distico come struttura epistemologica nella NOE e come versione rispettabilmente stilistica nel distico della Borio. Si tratta di una de-coincidenza, che forse non è senza significato.

maria-borio-ip

Maria Borio

Dorso duro

I

Le case sull’acqua avranno solidità
ma gli occhi intorno non sono umani.

tra atmosfera e atmosfera tutto si trasforma.

Un suono umano è disumano. Continua a leggere

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La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci, Il paradosso della forma-poesia del polittico, Il capovolgimento, la peritropè, il salto sono le categorie dominanti del polittico, Poesie di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Mauro Pierno, Riflessioni di Maurizio Ferraris, Giorgio Linguaglossa

Gif Un corazon para ti

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci

Gino Rago

Giorgio Linguaglossa porta Stige. Tutte le poesie a Maria Rosaria Madonna

Museum Theautrum. Dimensione atemporale della Estetica.
Eusebio:«L’elegia mai si farà inno …»

Nebbie sulla laguna. In Venedig in un sotoportego
Milaure Colasson pensa di essere al Bolshoi.

Sulle punte danza Il-lago-dei-cigni sull’alluminio di un tavolino.
Giorgio Linguaglossa e un marxista-leninista bevono un’ombra.

Una voce o un fiato: «Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi..». Tchaikovsky su una gondola

Piante. Carriaggi. Alberi senza rami. Frammenti di città.
Fumi dai fiumi. Persone. Immagini di piogge nella pioggia.

Materia redenta. Marina Petrillo. Lo choc di Baudelaire.
Nell’onda d’urto del tempo fra il vecchio e il nuovo

« Involve lo Spazio in azzurrità». Autoannientamento
Dell’ Arte. Il nulla che annienta sé stesso.
[…]
Cabaret Voltaire. 2016. Zurigo.
La signora Hennings e la signora Leconte

Cantano in francese e in danese.
Un’orchestra di balalaiche. Danze russe.

Tristan Tzara legge il manifesto dadaista.
[…]
La stampa di una foto di Degas
Vicino a un grande specchio.

Nella foto di Degas si vede Mallarmé.
E’ in piedi contro il muro. Renoir è sul sofà.

Nello specchio Lo stesso Degas
E la moglie di Mallarmé con sua figlia.

Paul Valery entra dopo lo scatto.
Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:

«Il prezzo di questa opera d’arte?»
Nove lampade a gas

E un istante di completa immobilità.
Donatella Giancaspero fotagrafa

La foto di Degas.
Pone sulla stessa linea di mira mente, occhi e cuore.

Trattiene il fiato e scatta.
Nella stampa della foto di Degas

Donatella ha messo tutto.
I libri. I viaggi. Gli amori.

Gli appuntamenti mancati. Le promesse mantenute.
Un lampo al magnesio. Una vita in frantumi.
[…]
Nell’entanglement quantistico
L’azione su un atomo entangled si riverbera sugli altri…

In un polittico poetico in distici entanglati
L’atto su un verso si propaga su altri versi.

Uno sciame di protoni di rubidio.
[…]
«Amleto è morto …»
Ne dà l’annuncio Lorenzo Pompeo dall’Ungheria.

Ma da Cracovia Lorenzo invia a Giorgio Linguaglossa
versi di Ewa Lipska tradotti in italiano.

Virna Lisi e Marlene Dietrich entrano con Kafka
nello studio di Sabino Caronia,

Tre ombre nella consolazione della sera.
Faber Nostrum canta Il Bombarolo…
[…]
Pino Gallo arringa da Roma la Fata Morgana,
Sotto gli affacci di Scilla il mare si fa di olive acerbe.

Pino Talìa porta un Mattia Preti
Da Taverna a Firenze. Botticelli si inchina.

Francesca Dono da Biffi regala bergamotti,
Davanti alla Scala tutti si mettono in fila…

Una poesia di Mauro Pierno sul Corriere della Sera.
[…]
Visioni mistiche a san Francesco a Ripa.
Marina Petrillo davanti a Ludovica Albertoni.

Marmo. Drappeggio. Diaspro. La beata in estasi.
Verso l’altare della cappella

Marina abita parole d’amore.
Un raggio di sole sul marmo.

Le visioni. La tela di Gaulli. La finestra.
Bansky-street-artist: « How the Troian War Ended

I don’t Remember…
Edited by Giorgio Linguaglossa»

Letizia Leone a Mario Gabriele:
«Chelsae Editions. Miracolo.

Bellissima la cover di copertina»
[…]
Toscanini posa la bacchetta:
«A questo punto muore Liù.

Turandot finisce qui. Pekino è a lutto.
Il cancro alla gola ha ucciso il Maestro».

Creatura che crea nella luce sul mare
Marina Petrillo va incontro a Puccini.

Giorgio Linguaglossa commenta
La lettera scarlatta a Mario Gabriele

e a Lucio Mayoor Tosi. Giorgio Agamben:
«L’uomo di gusto nella dialettica della lacerazione..»

Ready-made. La compagna di Duchamp usa un Rembrandt
come tavolo da stiro.
[…]
Edith Dzieduszycka parla di Michele. Traduce in italiano
Le lacerazioni di Marie Laure Colasson.

Maria Rosaria Madonna scrive lettere a Kavafis,
Non sosta mai dove i treni si fermano.

Al centro della Marketplatz
Giorgio Linguaglossa le porta tutte le poesie

In un trolley che sulla ghiaia d’un prato fa scintille.
Roland Barthes parla da solo nella chambre claire:

«Operator. Spectrum. Spectator. Studium. Punctum.
Cerco mia madre nel portacipria d’avorio»

Edith Dzieduszycka cerca la sua
In una boccetta di cristallo intagliato.

(9 luglio 2019)

Giorgio Linguaglossa

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci, Il capovolgimento, la peritropè e il salto sono le categorie dominanti del polittico

Il luogo dei personaggi e delle situazioni indicate dalla poesia di Gino Rago è un particolare mix di «questità», di ciò che è qui ed ora, di ciò che figura nel presente (Edith Dzieduszycka, Marie Laure Colasson, Marketplatz, Giorgio Linguaglossa, Roland Barthes, Stige. Tutte le poesie, chambre claire, Maria Rosaria Madonna, Kavafis etc.). Tutto ciò configura il possibile come pensabile vero. E all’inverso, ciò che può essere pensato e detto è anche possibile, perché l’ontologia positiva è ciò che si dice, e il possibile, anch’esso può esser detto e, in quanto detto è quindi possibile, è una figura dell’esistente sub specie del possibile. Come dire che è tutto vero nel suo attuale esser-presente, in quanto l’attualità è tutto quel che si fa avanti nel presente, e anche quel che si fa indietro dal presente, come «altro» rispetto a quel che è dato nel presente. L’attualmente esistente è il presente, l’esistere qui ed ora come indicazione di qualcosa che sarebbe potuto essere presente in altra guisa in luogo di quel che ora si dà.

Nel polittico la predicazione della possibilità allarga il campo d’azione dell’esser-questo in quanto coincidente con il non-essere-questo in quanto ricadente nella possibilità che ciò accada. La più radicale delle contraddizioni equivale perciò alla possibilità che le cose stiano in altro modo e in altra guisa da come si offrono alla apparenza del senso comune, per cui il possibile sarebbe questo esser-così e il questo non-essere-così, in quanto quello che decide è l’essere presente nel presente come figura del presente, nell’attualmente presente, e l’essere del passato nel presente come figura del presente, nell’attualmente presente.

Il venire alla manifestatività dell’esserci di un questo equivale alla predicazione di una infinità di possibili «questi» di mondi «altri» rispetto a cui l’attualmente esistente è soltanto una delle possibili modalità del manifestarsi. In ciò risiede il paradosso della forma-poesia del polittico la cui pensabilità stessa ci conduce da subito alla forma paradossale secondo cui tutto il pensabile è esistente al pari di ciò che è esistente nel presente come figura del presente.
L’esserci delle cose è il loro non-esserci se non nella manifestatività del presente, onde ne deriva che il non-esserci gode dello stesso accredito dell’esserci (equivalenza dell’esserci con un «altro da se stesso»).

La forma polittico narra la manifestatività dell’esserci in ciò che è detto e per come è detto, non c’è nessun mistero che non sia solubile nella manifestatività dell’esserci nel presente; la forma polittico implica il negare e l’affermare la questità delle cose, la forma della presenza di ciò che è presente e la forma della possibilità della presenza, implica la incondizionatezza del condizionato, la inclusione dell’escluso nell’orizzonte destinale della manifestatività in ossequio al principio del: ciò che c’è è ciò che si dice, e ciò che si dice è ciò che c’è. Nel polittico ciò che si manifesta nella forma del possibile equivale a dire ciò che si manifesta nella forma non contraddittoria di ciò che esiste nel presente. Il capovolgimento, la peritropè e il salto saranno le categorie dominanti questa forma d’esistenza che perviene al presente come figura del presente, in quanto gli accadimenti accadono in quanto predicabili e, quindi, immaginabili, possibili.

Lucio Mayoor Tosi
Nessun nome.

«Ora non posso. Mi viene a prendere l’autobus parlante. Ho già
il Crocifisso alle pareti. Barbara non c’é. Lo ripeterò sempre».

Nessun nome da ricordare. Nessuno abbastanza famoso, o sono io
senza memoria? Angelino dice. Marta. Mi fa una pugnetta.

E’ l’orizzonte. Le marmotte ne sono ammirate. L’opaco viandante
e le carrozzelle; prima, quando mancavano. Babele di stracci

e mascolina. Maschile di “Patria”. Prime gazzose. Ah, bianco
spinami il cuore! Abbiamo ancora da cominciare. Continua a leggere

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Si va verso la costruzione della forma poesia a polittico: Poesie di Marie Laure Colasson, Carlo Livia, Giorgio Stella, Francesco Paolo Intini, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Anche il multiverso è ragguagliabile a una costruzione a polittico, La questione del finito e dell’infinito nella nuova poesia

Gif Donna di cuori

«Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito»

Intorno alla costruzione della forma-poesia a «polittico»

La costruzione a «polittico» è un assemblaggio di «finiti». Ogni immagine, ogni personaggio, ogni icona è un «finito». «Nel finito c’è l’infinito» affermava Wittgenstein, e aggiungeva anche: «il finito non è in concorrenza con l’infinito». Parlare e pensare quindi la poesia come «colonna sonora» di significati e di significanti, di «composizione chiusa» o «aperta» è, dal punto di vista del «polittico», un non senso; quella è stata la poesia del novecento, che si è chiuso in un brusio generalizzato e insignificante, un rumore di fondo postruista. Sembrerà ovvio dire che per afferrare la «nuova poesia» occorrono nuove categorie, ed è quello che sta cercando di fare la nuova ontologia estetica. Andiamo alla ricerca delle nuove categorie del pensare ermeneutico.

Il problema è: parlare e pensare la forma poesia come collezione e collazione di «finiti». Considerare una parola, un nome, una immagine come figurazione di un «finito». Finora invece la poesia ha considerato il «nome» (cioè il «finito») all’interno di una colonna sonora che lo portava con sé, lo faceva viaggiare dentro la carlinga del discorso sintattico semantico unidirezionale. Ma, è ovvio che questa è una convenzione, un patto di solidarietà tra il lettore e un emittente, secondo il quale il ricevente accoglie il «nome» come facente parte di un discorso tenuto da un io plenipotenziario che sta sul podio e stabilisce le gerarchie dei significati e dei significanti. Questo, detto in breve.

Ebbene, la nuova ontologia estetica infrange questa convenzione pattizia, ci dice che quella convenzione non è più in vigore e che la nuova poesia ne farà a meno. Penso che sia legittimo. Nessuno ci potrà negare la facoltà di pensare e operare in costanza di caducazione di questa convenzione.

Se non si comprende questo assunto di base, non si comprende nulla della «nuova poesia» NOE, e si continua ad operare secondo quel rispettabilissimo patto che è stato in vigore nell’era copernicana dell’io governatore che arriva dall’inizio del Novecento con il deflagrare delle avanguardie fino ai giorni nostri postremi ed epigonici.

Adesso, con l’ontologia positiva, ne siamo fuori. La poesia dell’ontologia negativa di Heidegger ha dato risultati brillanti ma, quella ontologia fa parte ormai del passato, un passato glorioso, ma passato.

Il «finito», ogni volta che lo nominiamo, è già nell’«in-finito». E già qui siamo fuori della ontologia negativa, siamo entrati in un altro demanio concettuale. Il discorso poetico richiede la predicazione del «finito», una predicazione che non avrà mai fine e che pone stabilmente il «finito» nell’«infinito». Se riusciamo a pensare il discorso poetico in questi termini, non potremo mai più fare poesia come lo si è fatto nella tradizione poetica occidentale.
Sono stato chiaro?

E con questo penso di aver risposto in qualche modo ad Antonio Sacco che mi chiedeva lumi sulla NOE, il tempo, interno, il tempo esterno, lo spazio, la tridimensionalità, la quadri dimensionalità, la disfania, la diafania etc.

Il «non dicibile» abita la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito. Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica ad esempio della poesia di Mario M. Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi.

Nella nuova poesia della «nuova ontologia estetica», non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tra-dizione filosofica occidentale.

(Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

[Milaure Colasson (Marie Laure), nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie].

Le miroir jaloux
De leurs ébats
Comme chante Oscar
Se brise
En mille éclatements

Au travers des paupières
L’écume des jours
Sa bouche ouverte
Un naufrage

Sur quatre couches
De tulle superposées
Un magma savamment coloré
Aéré de plages vides
Renato peint sa magie inventée

Autour de la table
En haute voltige excelle le protagonisme
Chacun se conjugue
À la premiére personne
Exister à tout prix

Les cris stridents des mouettes
À ciel ouvert
Semblent menacer la ville
Putréfaction

“ et moi et moi et moi
Et des millions de petits chinois “
Chantait Jacques Dutronc
La suite en devenir.

*

Le specchio geloso
Dei loro trasporti
Come canta Oscar
S’infrange
In mille frammentazioni

Attraverso le palpebre
La schiuma dei giorni
La sua bocca aperta
Un naufragio

Su quattro strati
Di tulle sovrapposti
Un magma sapientemente colorato
Alleggerito da spiagge vuote
Renato dipinge la sua magia inventata

Volteggia alla grande
intorno al tavolo ed eccelle
il protagonismo
Ognuno si coniuga alla prima persona
Esistere ad ogni costo

Le grida stridenti dei gabbiani
A cielo aperto
Sembrano minacciare la città
Putrefazione

“… e io e io e io
E dei milioni di piccoli cinesi…”
Cantava Jacques Dutronc
Il seguito in divenire.

(trad. di Edith Dzieduszycka)

Carlo Livia

Cenere

È grigio eterno. La macchina dura, malata al posto del cielo. La furia di metallo al posto di Dio. Mia madre si affanna a salire, lasciando un solco di pena. I morti prendono alloggio nella pausa, fitta di pugnali femminili.

L’Essere si lacera sul fondale scosceso. Grida: fuori dallo specchio! C’è l’orfano che uccide. La rosa inesorabile fuggita dal duomo. Che non ricordo più.

Affilate le colpe del deserto. Dice il profeta vestito di arida pace. Col vento della scure come preghiera. Il padre intoccabile. Il suo sonno nero. Ritratto in lacrime che oscura le marine.

L’estranea col peccato entra ed esce dal sogno. La musica dell’amata diventa verticale. Mi chiede l’ombra delle navate. O il viale dei quindici anni. Nella gabbia delle chitarre, con l’embrione infelice.

Sono nel terzo silenzio. Senza promessa. Una vecchia macchina fruga nel mio cuore. Per addormentarmi nel lunario rosa. Passa un morbo triste. L’angelo che non mi ama.

Carne rosea e riccioli d’oro. L’apparenza viziosa. Si accartoccia subito al vento degli ulivi. Dall’alto non ci vedono. Troppo nudi nel ripostiglio. Col lume votivo che piange nel millennio.

Senza bambini. La giostra desolata.

Aspettando il tuono

Entro nello sguardo della bambina. La sua tristezza mi dissolve. L‘anima resta sola. Mi prende per mano e mi porta nel bosco. E’ Il corpo dell’antica Signora. Cresce e s’inazzurra. Dalla sua testa si staccano tre grandi uccelli. Sono orfani. Pregano il quadro vacillante.

Ho ucciso una favola di fonti. Lascia che risorga in me – dice il fiume. Fuggo nel cielo malato, con l’amante in pena. La notte sacramentale mi avvolge, travestita da eclissi contagiosa. La danza dei pianeti piange rugiada di fanciulla.

Il cielo dimagrito per le nozze. Dai più lontani luoghi di sepoltura, al ripostiglio dell’Enigma. L’algebra defunta nell’estasi d’alabastro. Il profumo della Dea langue sugli spalti. L’angelo implacabile è la sposa. Perduta nell’immenso tabernacolo.

Porta un sogno verde sulle spalle. Non sa quanto pesa. Mettilo giù – le dice il cielo. E’ un’arpa folle d’amore. Mi abbraccia nella pioggia nuda. Triste di non essere qui. Con l’addio che cambia forma ad ogni vento.

La donna che amo nasconde in sé il segreto. Cammina davanti a me nella pioggia triste, circondata dagli angeli sterminatori. Non mi consentono di raggiungerla, minacciandomi con le lingue infuocate.

Seguo la processione dell’aborto infelice. Il branco mi attraversa per copulare con la reliquia. Perdendo la vita entro nel cerchio di luce. E’ la radura boschiva da cui nasce l’apparenza. La statua senza testa decreta il mio destino: uno stuolo di manichini che parlano ma non capiscono. In fondo la foresta di sogni senza sguardi.

Dal cielo malato cadono estasi di corallo. Il ragno che inghiotte la notte fa infuriare le ombre. L’addio è troppo timido per abbracciare la sua particola. La curva paranoica cresce inglobando terribili sagrestani.

Un suicidio disadorno oscilla nella cella. Un tentacolo dell’enigma esce dal confessionale. L’eclissi contaminata si confonde col roveto ardente. L’angelo sigillato rovescia la clessidra. Nella città appena risorta preparano il giudizio.

Giorgio Stella

Il Conte Beppe Salvia è a cena con la
Marchesa Amelia Rosselli…

Entrambi hanno deciso di tenere
le finestre aperte per volarci per primo

ma tra Salò e Bètlemme il miele rosso
del piccione da caccia ha il tappo in

bocca… Guarda bene di non poter volare
male la lingua che ha dovuto rinnegare

tra le rovine del panforte e altre
lucurnie del proprio paese –

– all’altro capo dello stesso –
è rotta la macchinetta delle foto

per il censimento del primo dell’anno
mille quando la Florida fu invasa da Cuba

ed Hernry Miller si chiedeva se Tropico del
cancro fosse superiore a Tropico del capricorno:

Una veggenza in piena regola come
Il Tallone di ferro di London o Sotto il Vulcano

cantava: ‘strano il destino, arde la terra mentre un
fiume è in piena’

ma al nono piano del civico 27. di Centocelle
alle 17 del pomeriggio, morte nel pomeriggio,

la vecchia ballerina impartiva lezioni di danza
a giovani ragazze che aspettavano i genitori…

dal vetro pare che l’anziana donna parli da
sola e che all’orologio non sia stata

cambiata apposta la batteria in maniera
tale che la retta stabilita sia saldata

per la festa d’OGNI SANTI.

(Roma,1 luglio, circa le 11.00 del 1, luglio, 2019)

.

Giuseppe Talìa

L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
E lava il mondo nottetempo, dice Celan.

In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
E Kant, di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.

Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.

Spesa settimanale: un po’ populista un po’ liberista.
Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.

Grammi di differenza. La psicologia giustifica:
Nuova esperienza, porta pazienza contano i residui

Del vissuto: la buccia, la polpa e il seme, la tridimensionalità
Del frutto. Quel che è fratto è fratto dice A. L. Lohman. Attrice.

Lucio Mayoor Tosi

In tempo

– Cosa si dovrebbe mai trovare nel nulla,
se proprio lì ogni cosa sparisce. Che vai cercando?

Seguì un concerto di dromedari. Le vacche
avevano da ridire. Eravamo capitati in un gorgo di tempo.

– Se invece che il nulla, covassi l’ambizione di poterlo
attraversare. Magari a costo di restarci secco…

E il nulla fu: lo sferragliare del tram (Primavera, nel segno
di Botticelli), l’alpino tosato, e tutte quelle… parole,

come essere in convento. A pochi metri dal mare, gente
che va su e giù per le scale mobili. – Che esista anche

un nulla virtuale? – Sarebbe il benvenuto. Nulla lo spaventa.
Il nulla è sia qui che lì.  Tiene in vita le cose, le sostiene.

– Nel nulla-spazio si muore. Nel tempo dimensionale,
è pieno di tamerici in fiore. La freccia è ormai scoccata. Continua a leggere

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Sandro Montalto, Bianciardi una vita in rivolta, Mimesis 2019, pp.140 € 6, Una vita per la ribellione

Luciano Bianciardi Milano, anni '60

Luciano Bianciardi, Milano, anni Sessanta

Riportiamo qui alcuni stralci della monografia di Sandro Montalto su Luciano Bianciardi, uno degli intellettuali e scrittori italiani più originali degli anni Cinquanta e Sessanta, in quanto utilissima per ricostruire e comprendere non soltanto il valore in sé dalle opere bianciardiane ma il rapporto intellettuali-società dell’Italia provinciale e bigotta di quegli anni, retrospezione indispensabile per poter comprendere il cattivismo normografico della nuova destra conformista e razzista dell’Italia di oggi.

Ecco l’incipit  di un capitolo significativo della monografia:

Nel 1952 Luciano Bianciardi era alle soglie dei trent’anni, e agli inizi di una ampia e onnivora collaborazione ai giornali che lo avrebbe occu­pato fino agli estremi giorni della sua troppo breve vita. Si sarebbe detto un pacifico letterato di provincia: l’anno precedente, dopo la parte­cipazione alla guerra e la laurea in filosofia, e dopo essere stato per breve tempo insegnante di inglese alle medie e di storia e filosofia al Li­ceo classico, era stato nominato direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto, semidistrutta dalle piene del fiume Ombrone e dai bombar­damenti. In precedenza, come volontario e poi come dipendente, aveva già lavorato sodo per salvare dal fango e dai detriti migliaia di volumi 1:

No, hanno ragione quelli che dicono che io sono rozzo, che non mi so muovere. È vero, io non so nemmeno camminare, e una volta mi arrestarono per strada, soltanto perché non so camminare. E poi mi licenziarono, per lo stesso motivo. Così come licenziarono Carlo, mio nobi­le amico e vero signore, soltanto perché, diceva­no gli altri, gli attivisti, non sapeva parlare, era lento di pronuncia e rallentava il ritmo di tutta la produzione. Io non cammino, non marcio: stra­scico i piedi, io, mi fermo per strada, addirittura torno indietro, guardo di qua e guardo di là, an­che quando non c’è da traversare. Sorpreso in at­teggiamento sospetto, diceva appunto al telefono quel maresciallo del buon costume, dopo che mi ebbe fermato, caricato sul furgone nero e porta­to in questura. “Come atteggiamento sospetto?” chiesi io un po’ risentito. “Allora lei vuoi fare il furbo, nè?” disse. “Lei camminava lentamente, e si è fermato due volte. Dove andava?”. “A passeg­gio”. “Ah sì, a passeggio? Lei va a passeggio sen­za cravatta? Da solo? E non tira dritto per la sua strada? Va così lentamente? E si ferma?” Mi ten­nero chiuso a chiave una nottata intera, e intanto presero informazioni, ma non risultò nulla e mi rimandarono a casa con tante scuse. “Ma anche lei, benedetto ragazzo” concluse il maresciallo del buon costume, paterno adesso. “Anche lei, girare così”1.

Commenta Sandro Montalto:

Bianciardi subito (avendo la sensazione di parlare nel deserto) si rende conto che lo svi­luppo dell’industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta avrebbe presto preso una deriva drammatica: la simbiosi (confusione, spesso) tra lavoro e comunicazione. Il modello lavora­tivo di Bianciardi era la fabbrica, i badilanti, o i minatori. Un modello che nasconde una qual­che forma di nostalgia e che può essere forse il limite che impedì a Bianciardi di «giocare fino in fondo la carta del cambiamento»24. Per fare un esempio, cercava probabilmente segni a suo avviso palesi di cambiamento nella socie­tà senza talvolta rendersi conto che il cambia­mento della società portava ad una evoluzio­ne dei segni stessi, così mentre si preparava la stagione delle lotte operaie lui scriveva in una lettera che aveva notato «l’assenza, palese, degli operai. Gli operai non ci sono almeno in quella Milano che è compresa nel raggio del movimento mio e dei miei colleghi, non entrano mai nel nostro rapporto di lavoro»; e gli intellettuali ci sono solo «come singoli, ma mai come gruppo», mentre «l’intellettua­le diventa un pezzo dell’apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere» in quella Milano che «non produce nulla, ma vende e baratta».

Milano Quartiere Quarto Oggiaro

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio

Scrive Gian Carlo Ferretti:

Si può dire fin d’ora che in articoli, lettere e racconti-saggio Bianciardi non vede o non vuol vedere la vivacità e creatività della vita intellettua­le, letteraria, teatrale, cinematografica degli anni Cinquanta (e poi Sessanta) a Milano e in Italia, perché continua più o meno consapevolmente a vivere in una dimensione provinciale arroccata, perché restando fedele alla sua natura irregolare disprezza le corporazioni e le figure intellettua­li istituzionali, perché si sente più a suo agio nel mondo eterogeneo dei giornalisti, fotoreporter, pittori, cabarettisti, fuori da schieramenti e clan. E si può dire altresì per contro che Bianciardi, at­traverso le sue personali vicende esistenziali e pro­fessionali, arriva a vedere, e con grande acutezza, i segnali dei guasti, prevaricazioni, mistificazioni, stravolgimenti, appena emergenti dal nascente boom economico, e li vede in anticipo sulla stes­sa Vita agra, che del boom nel suo pieno sviluppo condurrà un disvelamento ancor più esaustivo […]. Bianciardi a livello pubblico resta sempre al di qua di una vera opposizione, ribellione e prote­sta. Non è casuale che il tono polemico-divertito degli articoli 1955-56 sull’“Unità”, sia fondamen­talmente analogo a quello degli articoli 1952-53 sulla “Gazzetta”: che cioè i bersagli metropolitani siano trattati come i bersagli provinciali. Mentre la stessa collaborazione all’“Avanti!” del 1959-60, resta nell’ambito dell’analisi ironico-critica. […] la vera rabbia, denuncia, accusa, erompe dalle lettere e conversazioni private, o dalle opere in volume che sono in certo senso al riparo dal più diretto impatto dell’attualità, della contingenza, e perciò anche dalla compromissione, con tutte le relative conseguenze.

Ed ecco le vicende legate alla traduzione e pubblicazione di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno di Henry Miller. In una importante testimonianza sollecitata da Irene Gambacorti, Valerio Riva, allora direttore della collana in cui apparve l’opera milleriana, scrive:

Era una traduzione difficile, anche per problemi di censura, perché bisognava evitare infatti di essere accusati di aver calcato la mano su frasi od espressioni che potessero essere considerate offensive della morale corrente, o, come si diceva allora, del comune senso del pudore. Ma noi non volevamo fare una edizione corretta, volevamo invece che fosse il più possibile scrupolosamente integra ed assolutamente, assolutamente aderente al testo originario. […] Nella traduzione invece Bianciardi era stato molto libero, così la traduzione fu mandata, d’accordo con lo stesso Bianciardi, a Mario Praz, il maggior anglista dell’epoca, per la revisione. Ad ogni blocco di pagine, Praz mandava le sue osservazioni in fogli dattiloscritti fittissimi e disseminati di grande cultura: purtroppo molti di quei fogli sono andati perduti, e pochi rimangono nell’archivio Feltrinelli. Io e Veraldi trasportavamo sul manoscritto di Bianciardi le correzioni di Praz e qualche volta risolvevamo i dubbi, perché Praz a volte indicava due possibili traduzioni, e a noi toccava decidere, il lavoro ci prese, se non ricordo male, quasi tre mesi. Ogni tanto Bianciardi passava in redazione e guardava il nostro lavoro un po’ infastidito, ma consenziente: del resto questo era stato l’accordo fin dall’inizio. Al momento di pubblicare il libro io preparai tre grossi folder per circa mille pagine di documenti, articoli, giudizi critici ecc. per gli avvocati Tesone e Broc che consigliavano Feltrinelli in merito ai pericoli della pubblicazione del libro: materiale che ho poi pubblicato a parte in un volume dei Narratori Feltrinelli intitolato Prefazione ai Tropici, che uscì nel ‘61. […] Nonostante le prove a favore del libro, gli avvocati sconsigliarono Feltrinelli di pubblicare il libro in Italia, e Feltrinelli, che era un uomo coraggioso, decise per la pubblicazione, ma con l’accorgimento di fingere una pubblicazione all’estero. Era lo stesso trucco usato durante il Risorgimento dai patrioti italiani e durante il fascismo dagli antifascisti.

I Tropici in realtà furono stampati a Varese, con un marchio prestatoci da un gentile editore svizzero, mezzo clandestino pure lui. Le copie erano immagazzinate in Italia, in un capannone, non ricordo più bene se a Monza o a Sesto. La distribuzione avveniva attraverso una serie di accortezze e con qualche prudenza, ma non più di tanto: i librai lo vendevano sotto banco e l’edizione fu esaurita quasi subito. Insomma, la nostra non era proprio una vera edizione clandestina, era un po’ uno show: proprio per dare l’impressione di una edizione alla macchia, la copertina fu disegnala da Steiner in modo diverso dalle solite copertine dei Narratori. Poi il tribunale ci dette ragione e per l’occasione facemmo venire anche Miller dall’America, e fu finalmente possibile ripubblicare i Tropici nei Narratori di Feltrinelli nel 1967.

Nel 1962 esce con buon successo La vita agra, che racconta di un traduttore che lascia la pro­vincia per andare a vivere a Milano, e cova l’in­tenzione di far saltare in aria il “torracchione”, ossia il palazzo della Montecatini (e non, come diversi scritti riportano, il Pirellone), in una sorta di contrappasso delle esplosioni di grisù che cau­sarono la morte di 43 minatori della Montecatini a Ribolla, una tragedia che lo scrittore si troverà a documentare, seguendone anche i tristi sviluppi, e che lo segnerà per sempre. A Ribolla, Bianciar­di era arrivato con il bibliobus. L’azienda stava smobilitando la miniera, tre pozzi su cinque non erano più in funzione; nell’aprile 1953 durante uno degli scioperi contro i licenziamenti quaran­tacinque operai che si erano barricati per pro­testa furono portati via, ammanettati, dai cara­binieri. Bianciardi correva qua e là, intervistava, annotava. Pochi mesi dopo, l’esplosione55. Nel 1956 presso Laterza uscirà, a firma di Bianciardi e Cassola, il libro-inchiesta I minatori della Marem­ma, un vigoroso quanto documentato atto d’ac­cusa. Sei persone, direttori e capiservizio della Montecatini, furono arrestate e indagate, ma nel novembre 1959 la Cassazione li prosciolse: tutto era in regola, si trattò di pura fatalità. È da se­gnalare come nel 1960 Bianciardi avesse tradotto Ragazzo del Borstal dell’irlandese Brendan Behan (1923-1960) la cui trama ricorda molto da vicino quella di La vita agra (ma come è ovvio la cosa più importante del romanzo bianciardiano non è la trama, volutamente esile, bensì il linguaggio usato e la critica sociale). Montanelli dedica al romanzo una pagina entusiasta sul «Corriere della Sera» che fa im­pennare le vendite; poco dopo il noto giornali­sta propone a Bianciardi di collaborare a quel­lo che era pur sempre il più diffuso quotidiano d’Italia, ma lui rifiuta: aveva capito che, inevi­tabilmente, la grande macchina cerca ciò che funziona e tenta di inglobarlo, metabolizzarlo. Ma c’è anche un’altra motivazione: aveva capi­to che scrivere sul «Corriere» sarebbe significa­to non essere mai veramente libero, mentre ac­cettare, come fece, di collaborare a una testata più giovane come «Il Giorno» gli avrebbe ga­rantito un contesto più aperto e libero, senza contare che su quelle pagine scrivevano anche nomi come Giorgio Bocca, Gianni Brera, Ot­tiero Ottieri, Umberto Eco, Alberto Arbasino e il suo amico Cassola. Rifiutare, quindi, era necessario. La motivazione si può capire anche ripensando a certe riflessioni fatte ai tempi in cui girava l’Italia per promuovere La vita agra: quel libro è «la storia di una incazzatura in pri­ma persona singolare» e anche i lettori avreb­bero dovuto incazzarsi, invece è un «tripudio di applausi»56. Forse il suo lavoro non è servito a nulla. Scrive in una lettera:

Ormai poi sto girando come un rappresen­tante di commercio, ho battuto i marciapiedi dell’Emilia e adesso mi preparo a fare la mede­sima cosa nel Veneto. Viene con me Domenico Porzio e a volte sembriamo due comici da avan­spettacolo: sempre le stesse battute, e sempre la faccia di chi le dice per la prima volta. […] L’ag­gettivo agro sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Il mondo va così. Cioè male. Ma io non ci posso fare nul­la. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo.

Il romanzo sembrò portargli sfortuna anche sul fronte famigliare. Maria Jatosti ricorda che la lettura del romanzo la fece stare malissimo: «Lessi il dattiloscritto subito prima che andas­se in stampa e stetti malissimo. […] So che è un modo sbagliato di leggere un libro, che è romanzo, invenzione… Ma quelle pagine rac­contavano la nostra vita, la nostra battaglia, in un modo che mi offendeva profondamente. Leggendo, provai una stretta al cuore e tanta rabbia. Il libro era fatto di tante storie vere, ma tutte filtrate dalla sua visione malata. Era una storia di angoscia senza scampo, senza vie d’u­scita. Non c’era solidarietà per nessuno, era una tremenda farneticazione sulla solitudine. La donna del protagonista non fa che dormire, leggere, passeggiare, mentre lui è solo contro tutti. Lei si svaga e lui soffre. Lei non capisce e lui combatte. Lei si addormenta e lui veglia sui mali della vita. Ma soprattutto lei si riposa, gio­ca, si annoia e lui lavora, lavora, lavora. Da solo. Ma come? E io dov’ero? Le mie angosce, la mia fatica, dov’erano? […] Quando finii di leggere il libro mi misi a piangere, mi sentivo crollare tutto il passato, cominciai a pensare che lo avrei lasciato […] Luciano non capì. Reagì al solito modo, cominciando a sfottermi e a dire a tutti quanti: “Maria s’è incazzata perché non le è pia­ciuta La vita agra. […] Litigammo, decisi dav­vero di lasciarlo, presi Marcellino e partii per Roma». Seguì un travagliato ritorno, ma «anche se non ci siamo lasciati, qualcosa tra me e Lucia­no, dopo La vita agra, era finito per sempre».

milano il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery

Bianciardi si dedica, a partire dagli anni Ses­santa, alla critica televisiva diventando uno dei pionieri di questo genere così particolare1 (basti pensare alle critiche televisive di Achille Cam­panile il quale ha in comune con Bianciardi una certa insistenza sullo “specifico televisivo”, soprattutto sul valore della diretta). A partire dal 1962, per nove anni, scriverà molte criti­che per sei diverse testate (è da ricordare Mike: elogio della mediocrità, del 1959, che anticipa in molti punti il celebre articolo di Umberto Eco Fenomenologia di Mike Bongiorno), e non perderà l’occasione per alimentare l’ossessione per certi personaggi come Bistoni, il compagno “anar­chico” che cedette alle lusinghe di “Lascia o raddoppia” dove vinse rispondendo a domande sulla storia dei Longobardi. Elogia la televisione pedagogica, in primis le trasmissioni del maestro Manzi, critica i tentativi fallimentari3 e rilancia certi imprevisti fenomeni come l’esordio di un dirompente e cattivissimo Paolo Villaggio, o Dario Fo che difende dopo la sua cacciata da “Canzonissima” per aver parlato di “mafia” e di “padroni”.

Sandro Montalto nella sua ricostruzione biografica passa in rassegna i processi per oscenità e diffamazione subiti da Bianciardi nella Italia degli anni Cinquanta e Sessanta sessuofobica e conformista:

Bianciardi non era del tutto nuovo alle grane giudiziarie e alle aule di tribunale. Un processo fu intentato da un artigiano che si sentì offeso dal­la parodia che nella Vita agra si compie della sua parlata settentrionale (processo perso: l’editore è costretto a ritirare le copie in commercio e stam­pare un’altra edizione priva del breve episodio).  

Un altro [processo] gli fu intentato dall’amico Tacconi, citato col suo vero nome nel romanzo La vita agra; Bianciardi scrive in una lettera: «Oggi sono giù di morale. Tacconi Otello […] mi ha querelato per diffamazione: cioè per avere scritto che la Montecatini lo licenziò in seguito a un suo comizio di accusa contro i metodi del­la società. Io mi chiedo che mondo è questo. Ora ti lascio perché sono dagli avvocati. Sareb­be meglio piantarla di scrivere»2. È una lettera del 5 maggio 1963 all’amico Terrosi. Il processo sarà più tragico del previsto perché Otello Tac­coni, avviata la causa, muore di crepacuore, ma la vedova non molla l’osso e la causa va avanti. Ma perché Tacconi se l’è presa tanto? Perché nel romanzo l’amico Bianciardi gli ha messo in bocca qualche parolina esplosiva: Tacconi chie­de al protagonista, trasferito a Milano dalla Ma­remma, notizie del famoso “torracchione da far saltare” per vendicare i quarantatré morti della miniera di Ribolla di proprietà della Montecati­ni. Era il chiodo fisso di Bianciardi, come detto rimasto scosso dall’incidente minerario. Qual­cuno sostiene che lui è la quarantaquattresima vittima dell’esplosione, e cioè che il malessere che l’ha portato a bere fino a distruggersi e mo­rire di cirrosi era dovuto al trauma di quell’espe­rienza vissuta quasi in prima persona. In que­sto processo Bianciardi viene assolto, ma non dimenticherà facilmente l’umiliazione provata quando il giudice gli chiese se veramente voleva far saltare in aria la sede della Montecatini.

Bianciardi appare sempre combattivo, ma in realtà è sempre più deluso. Si sente anche irri­mediabilmente lontano dalla sinistra così come viene praticata: «Essere “di sinistra” non signifi­ca ormai nulla. Tutti sono di sinistra, dai cattoli­ci ai socialdemocratici, ai socialisti, ai comunisti e a quelli che si dicono con infelice neologismo “extra parlamentari” (come a significare che si son prenotati un posto in parlamento per l’indomani). Io sono anarchico, nel senso che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità»1. Si trova ormai alla fine di quel percorso che è iniziato con Il lavoro culturale, salutato al suo apparire come una nuova ed effi­cace espressione letteraria di quella “ribellione alla condotta burocratica” del partito comuni­sta (sono parole usate in una recensione da Vit­torio Gorresio) espressa anche in testi come La grande bonaccia delle Antille di Calvino (1957)2. Ha ormai capito fino in fondo che gli si chiede di esercitare “la professione dell’incazzato”, e che non è più un momentaneo gioco di società al quale subito dopo l’arrivo del successo ci si po­teva anche adattare un poco: ha ormai anche timore di manifestare le sue incazzature autenti­che perché potrebbero sembrare ad alcuni una posa, o l’obbedienza a una legge di mercato. Senza contare che da tempo ha smesso di crede­re che l’intellettuale libero (anarchico nel sen­so della citazione poco fa riportata) possa avere spazio e voce nella società a lui contemporanea, e scrive su questo argomento (oltre a vari con­tributi sparsi) la serie Come si diventa un intellet­tuale, pubblicata sul settimanale «ABC»4 che portò avanti numerose campagne anche co­raggiose: contro il canone RAI e gli abusi della società telefonica, a favore del divorzio e della pillola anticoncezionale, eccetera), nella quale consiglia ai giovani una certa vaghezza in fatto di politica, certi modi di parlare e gesticolare, un certo compiacimento nell’enunciazione di banalità e pseudo-verità condivise. Si tratta an­cora una volta di uno scritto divertente e tragico per quanto è aderente alla realtà, a tutt’oggi da leggere con profitto. E anche in questi anni non perde l’occasione, come ha fatto in quasi tutta la sua produzione, di rivolgere il coltello contro di sé, quindi consiglia di non perdere mai i con­tatti anche con la provincia, e ricorda: «Di che cos’altro si parla mai in provincia? Di sesso e di sport, naturalmente!». Vale a dire i due temi che più lo hanno appassionato durante la gran parte della sua ampia, spesso forsennata attività giornalistica. Continua a leggere

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Edith Dzieduszycka, Poesie inedite da L’immobile volo con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, La vita è una serie di collisioni con il futuro, Il decadimento delle categorie psicologiche, le psicologie tendono alla psicosi, L’Io è stato ridotto a nuda voce

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Le pareti del Foro interiore di agostiniana memoria sono diventate pareti di prigione

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

«Le categorie psicologiche… sono diventate categorie politiche. Le tradizionali linee di demarcazione tra psicologia da un lato e filosofia politica e sociale dall’altro, sono state rese antiquate dalla condizione dell’uomo della nostra epoca: processi psichici un tempo autonomi e identificabili vengono assorbiti dalla funzione dell’individuo nello stato – dalla sua esistenza pubblica. Problemi psicologici diventano problemi politici: il disordine individuale rispecchia più direttamente di prima il disordine dell’insieme, e la cura del disturbo personale dipende più di prima dalla cura del disturbo generale. L’epoca tende al totalitarismo anche dove non ha prodotto stati totalitari. Fu possibile elaborare e praticare una psicologia come disciplina particolare finché la psiche fu in grado di contrapporsi al potere pubblico, finché vi fu una vera vita privata, realmente desiderata e in grado di creare da sé le proprie forme».

(Herbert Marcuse,  Eros and Civilisation, 1955, trad it. Eros e Civiltà, Einaudi, 1964 p. 47)

Ortega Y Gasset ha scritto: «La vita è una serie di collisioni con il futuro: non è una somma di ciò che siamo stati, ma di ciò che desideriamo essere. L’uomo è l’essere che ha assolutamente bisogno della verità e viceversa, la verità è l’unica cosa di cui l’uomo ha essenzialmente bisogno, il suo unico bisogno incondizionato»2; ma potremmo anche capovolgere il suo assunto affermando che l’uomo è l’essere che non ha assolutamente bisogno della verità, la verità è l’unica cosa di cui l’uomo non ha assolutamente bisogno.

La problematica che Edith Dzieduszycka affronta in questo libro è esattamente questa: è possibile vivere autenticamente nel freudiano Principio di realtà? È possibile un barlume di felicità nell’ambito del freudiano Principio di piacere delle odierne società occidentali evolute a capitalismo dispiegato e a repressione invisibile e capillare? È possibile pensare e parlare in maniera autentica nell’ambito della categoria della «confessione» e del «monologo interiore» e del «flusso di coscienza»? E, in ultimo, è possibile l’elaborazione dello stesso pensiero cosiddetto libero costretto entro il circolo ermeneutico del discorso rivolto ad un interlocutore? Ad un interlocutore risponditore?. Domande inquietanti, dalla profondità abissale che ci portano nel cuore del problema dei problemi.

Il libro è costituito da due «voci», una maschile e l’altra femminile, ridotte alla «nuda vita»L’Io è stato ridotto a nuda voce. Due «voci» monologanti, presumibilmente due persone conviventi o sposate dei giorni nostri di un qualsiasi luogo insignificante dell’Occidente evoluto che mettono in opera una «confessione» separata, a compartimenti stagni, in camere separate, blindate dalla incomunicabilità generale. Ciascuna «confessione» avviene nell’ambito del proprio Foro interiore, ciascuna parla a se stessa per  parlare all’altra, ciascuna parla un linguaggio che l’Altro intende benissimo ma che, proprio per questo, lo fraintende e lo equivoca. Perché ciò che aziona le «voci» è la mole invisibile dell’Inconscio. Ecco spiegato il titolo L’immobile volo, in realtà i due Personaggi, le due «voci», pur legate presumibilmente da una contiguità passata e da una relazione intima pregressa, ciascuna, dicevo, è sostanzialmente «immobile», cioè incapace a superare e infrangere lo schermo del Foro interiore, la convenzione sociale della «confessione» e quant’altro. Ergo, ciascuna «voce» è  inetta e infetta,  e falsa, fortificata dalla propria falsità, falsificata dalla falsa coscienza con la quale si presenta la civiltà dell’ordine borghese dei rapporti di produzione e delle forze produttive che ubbidiscono alle regole del mercato e del capitale.

Entrambi i personaggi hanno un vissuto, vivono, si strappano le vesti, gridano e si dibattono nei meandri del teatro della «confessione», ma sembrano incapaci di andare oltre di essa,  impossibilitati a varcare le colonne d’Ercole del Foro interiore. Ciò che c’è in interiore homine è in realtà cloaca, falsità, menzogna, ipocrisia, ambiguità, narcisismo, esibizionismo,  in una parola: falsa coscienza e inautenticità. Non si dà alcuna possibilità, come scriveva Adorno, nell’ambito della falsa coscienza di attingere un sia pur lontanissimo frammento di felicità, essendo ogni felicità trafugata un piccolissimo frammento della grande infelicità degli uomini, che gli uomini si negano e negano agli altri loro simili.

Dicevo che i due personaggi dzieduszyckiani sembrano trovarsi in stanze separate da una sottile parete, tentano in tutti i modi e con tutte le proprie forze di comunicare, di aprirsi all’altro, ma quello che ottengono è una chiusura e un aumento di chiusura, una iperchiusura. Le pareti del Foro interiore di agostiniana memoria sono diventate pareti di prigione, sono inamovibili, impermeabili ai buoni sentimenti e alla presunta sincerità delle «voci», sono espressioni del regime del presentismo mediatico delle odierne società post-democratiche;  in realtà, ciascuno dei due personaggi organizza una propria strategia per porre in scacco il contendente, quella che si gioca è una partita per il potere e la volontà di potenza, per il vessillo della vittoria da erigere sul catafalco del contendente. È che le categorie psicologiche sono diventate inutilizzabili per la introspezione delle peculiarità individuali delle psicologie, e sono anche inadatte alla spiegazione dei fenomeni politici; le psicologie tendono alla psicosi, ed entrambe sono simultanee e concordanti con lo stato totalitario verso il quale quelle psicologie sono dirette.

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L’indagine sui rapporti umani è utilissima per la retrospezione della deriva autoritaria di molti paesi dell’Occidente, questo libro della Dzieduszycka rende palese ed evidente come siamo tutti dipendenti da una economia monetaria della libido e degli affetti, la cui regola aurea è: ti do tanto quanto tu dai a me, non di più, e forse di meno. È che gli affetti e le passioni sono nient’altro che idee confuse e prive di mèta, si sono ormai omologati al valore di scambio, e forse è disutile finanche indagare dove siano finite quelle passioni e quegli affetti, ma una ragione dovrà pur esserci se sono finite tutte nella rigatteria del rigattiere. Così, l’impossibilità della felicità globale attecchisce e corrode finanche la pur minima possibilità di conquistarsi la più minuscola delle felicità al portatore. E l’erotismo lascia il posto alla volontà di dominio, le passioni al totovincite dei premi organizzati dal marketing delle felicità compossibili, ciascuno infelice in quanto ci si ragguaglia senza remore alla infelicità collettiva.

Il lavoro alienato chiama in causa l’alienazione delle passioni e degli affetti e l’infelicità individuale giustifica e spiega l’infelicità globale nella quale siamo tutti irretiti qui in Occidente. I dialoghi della Dzieduszycka rendono vistoso e palese come la riproduzione allargata delle merci e del plusvalore si ripercuota sulla riproduzione allargata dell’infelicità individuale e generale delle moderne democrazie in via di sviluppo verso forme di democrazia totalitaria, dove l’incomunicabilità delle moltitudini sono ben evidenziate dalla incomunicabilità dei personaggi prigionieri in stanze separate, condizione questa omologa e parallela alla incomunicabilità dei due fori interiori.

Le categorie politiche si sono trasmutate in categorie psicologiche, ed anche estetiche, e viceversa. Il postruismo (dizione di Maurizio Ferraris)  e il truismario (dizione mia) sono categorie imperfette e precarie che dalla «nuda vita» (dizione di Giorgio Agamben) sono passate nella sfera psicologica, nella sfera politica e di qui all’estetica; ormai  le categorie sono transitabili, permutabili e mutagene; non c’è nulla di solido in esse, sono precarie, inferme, sono entità mass-mediali, entità ansiolitiche, categorie di plastica che ingolfa il pianeta totalitario. Il mondo è andato in frantumi e alla rovescia ribaltando le categorie che un tempo erano dritte e mandando all’aria le cose statuite. L’ordo rerum del capitalismo sviluppato impone il suo marchio vigoroso sui beni di consumo e sugli uomini, imprimendo sulle loro carni e sulle loro psicologie il sigillo della infelicità coniugale e generale. L’infelicità coniugale è diventata una sorta di epifenomeno della infedeltà e della infelicità generali. E così il disordine  delle menti rispecchia il disordine generale che vige nel regno del capitalismo galoppante. In queste condizioni, parlare di libertà, di felicità e di foro interiore significa partecipare inconsapevolmente o colpevolmente all’imbonimento generale delle masse e favorire la barbarie della civilizzazione ininterrotta.

Perché le ferite dello Spirito non guariscono e lasciano vistose cicatrici.

1 Ortega Y Gasset , Sull’amore, Sugarco, 1996 p. 76

[Pitture di Edith Dzieduszycka]

Edith Dzieduszycka, inediti da L’immobile volo

LEI


ma sì
lo so
certo che lo so
da tempo, tanto tempo, tempo che non sospetti
forse
ma forse sbaglio
come tu sai – credo – che io so
ma fai finta di nulla
come faccio anch’io,
così entrambi
in un livido vortice
di silenzio

.
LUI

prevedo che sarà quest’oggi una giornata no
Mi basta il suo sguardo
obliquo
sfuggente
per capire l’umore
l’oscuro meccanismo che di quando
in quando la pervade
la rode
rendendola straniera al decorso normale
pensa forse “banale” della vita vissuta
In quei casi
sto zitto
aspetto che passi

.
LEI

ti dirò mai
un giorno
quello che all’interno in fondo
a qualche botola
ogni giorno accumulo e mescolo
e giro
e schiaccio
per far posto ad altro che verrà
Ingredienti che si congiungono o si respingono
con disgusto amaro
che mai sospetteresti mi abitassero
inquilini potenti
del mio condominio
dalle finestre
chiuse

.
LUI

non si accorge
lei
che mi accorgo
io
dei suoi stati d’animo per cui sono sicuro
che sia convinta
lei
di vivere insieme ad un essere cieco
un uomo senz’acume né sensibilità
una persona rozza
ma forse ha ragione, non posso sempre stare dietro
ai suoi umori
ai suoi capricci
al suo mutismo
né passare il mio tempo a chiedermi perché
oggi
mi fa il broncio

 

LEI

da tanto tempo
dunque
nemmeno saprei dire esattamente
quanto
– perché
ora emerge?
perché
ora di più? –
s’incrociano – che dico – lungi dall’incrociarsi
parallele
diramano
su sentieri vicini
le nostre due strade senza mai incontrarsi
in seno alla foresta del non-detto
Soltanto all’orizzonte
fanno finta
d’unirsi

 

LUI

non saprei calcolare con molta precisione
da quando è scattato
quell’andazzo perverso
Ha cominciato
lei
a staccarsi
sfuggente?
O sono stato io
a sentirmi estraneo
un poco alla volta
al trantran quotidiano
per lo più prevedibile del grigio condividere
giornate mesi anni
ognuno prigioniero dei propri pensieri
ricordi e rimpianti


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