
Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre
Giorgio Linguaglossa
Io penso che si può accedere ad una «nuova poesia» come la Nuova Ontologia Estetica soltanto se si comprende fino in fondo la portata della ontologia positiva, con tutte le conseguenze che si possono tirare in sede di scelta delle parole da infilare nel filo del discorso.
Se l’Essere è ciò che si dice, noi affibbiamo alla Parola la massima responsabilità e il massimo peso specifico, perché una volta detta, la Parola coincide con l’Essere.
Tuttavia, proprio pronunciando quella Parola, noi le scaviamo la bara. Il poeta NOE è consapevole che quella Parola è un Nulla, vuole dire Nulla. E questa consapevolezza è talmente disarmante da gettare nello sconforto e nello sgomento chi pronuncia la Parola. Scoprire che la Parola è un Nulla è un colpo durissimo da digerire.
Scrive Merleau Ponty: «in ogni caso, noi troviamo nelle parole degli altri solo ciò che noi stessi vi mettiamo; la comunicazione è un’apparenza, essa non ci insegna nulla di veramente nuovo».1
La comunicazione è comunicazione di nulla, il predicato del nulla è la comunicazione. La poesia non può essere comunicazione perché essa è un nulla. Discettare di «comunicazione» della poesia è un parlare a vanvera di persone digiune di ragione filosofica.
La differenza che passa tra una poesia normale e una poesia della nuova ontologia estetica è che la seconda ha vivissima la percezione del Nulla che dimora all’interno di ogni singola parola, mentre la prima si consola con l’illusione che la Parola indichi un referente che sta lì… Una convinzione senza dubbio consolatoria…
Ma a stare lì è soltanto il Nulla.
Ecco perché il significato dei segni che compongono una poesia è sempre e soltanto un Enigma. Se la poesia ha un significato esso è un Enigma. E in quanto tale, insolubile. O meglio, la soluzione dell’Enigma è la sua dissoluzione. L’Enigma vive della dissoluzione della poesia nel Nulla. Dunque, l’Enigma è un Nulla.
1 M. Ponty, citato da Massimo Donà in L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008 p. 508
Donatella Giancaspero
Da qualche giorno
Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.
Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.
Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro
[i muri –.
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.
Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.
Commento di Rossana Levati
Vorrei dedicare qualche riflessione alla poesia “Da qualche giorno” di Donatella Giancaspero.
Per accostarmi ad essa è una frase di Garcìa Marquez, da Cent’anni di solitudine, a fornire la strada migliore al mio personale gusto di lettrice: “Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe fuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte”, frase che conclude la pagina dedicata alla perdita di memoria da cui sono afflitti, solo temporaneamente, gli abitanti di Macondo.
Una realtà sdrucciolosa e inafferrabile quella che magicamente affiora, tra i versi della poetessa, senza poter fornire punti di riferimento che ancorino questa realtà nel tempo e nello spazio.
Pochi dettagli, come quelle case che devono tenersi tra loro ai fianchi, “come sostegno”, per non rischiare di franare nel Nulla, nel Vuoto. Una scala che sale dal cortile al terrazzo e che conserva forse quel misterioso ruolo delle scale che, come afferma René Guenon , ancorano il mondo inferiore a quello superiore lungo l’asse dell’ “essere” e si protendono dall’abisso verso un remoto spaziale irraggiungibile; e ancora, i gabbiani che appaiono come messaggeri invisibili “dentro i muri” o sul terrazzo, emblema di una inconoscibilità ma anche dell’unica possibile perfezione che è concesso intravedere nella nostra comune dimensione spazio-temporale, quasi essi fossero sorveglianti gelosi di un altrove irraggiungibile per l’uomo. La fotografia scampata alla frana dei ricordi è l’unico provvisorio modo di ancorare la fluidità del tempo e di assicurare certezza ontologica allo scorrere delle cose e degli oggetti, come ad assicurarci che quel luogo veramente esiste nella realtà tangibile.
Forse essa è l’emblema di questa precaria esplorazione del mondo, in cui davvero, come dice Borges, le parole hanno funzione di argine al fluire del tempo e alla nostra sospensione tra un passato che permane nei nostri sensi, un presente in cui siamo immersi e un futuro che è appena a portata delle nostre dita e di cui possiamo avere lampi, fugaci rivelazioni.
Significativamente, la poesia è priva di avverbi temporali ed immersa in un presente assoluto, quello in cui vive la coscienza del personaggio narrante che assume la prospettiva dell’indagine, dell’esplorazione, della ricerca ma può solo raggiungere un sospettare dubitoso.
Proprio questo verso d’apertura mi pare racchiudere una cifra tipica della Giancaspero, che ho già osservato in altre sue poesie, come “E’ domani”, ossia la tecnica del rinvio che sostiene di strofa in strofa la poesia: ogni verso rimanda infatti al successivo, in una tensione chiarificatoria che aggiunge particolari alla prima dichiarazione, ma non sposta di molto le informazioni di base, solo le connota, le precisa, senza tuttavia assicurare mai il raggiungimento della certezza tanto attesa e senza che si possa mai superare del tutto quel “sospetto” iniziale raggiungendo una conoscenza definitiva e più stabile o più completa dell’esistere. Con le parole della poetessa continuiamo il nostro sforzo, la nostra ricerca si sposta col proseguimento della lettura. Mi sembra in questo caso che la poesia stessa, di verso in verso, assuma l’andamento di una scala a chiocciola in cui la visuale assicurata dal salire un nuovo scalino si rifrange sempre sullo stesso angolo: così non si potrà raggiungere una conoscenza totale del mondo, bensì sempre solo parziale nella tensione a quell’ “oltre” depositario di una perfezione che in sé e per sé non si può dare, nella interdizione del nostro vedere confermata dal volo in picchiata dei gabbiani.
Per tornare al confronto accennato, in “E’ domani” la tecnica del rinvio era costruita in una dimensione orizzontale, connessa col movimento delle rotaie della metro di superficie protese nel vuoto della loro corsa cittadina, mentre in questo caso il rinvio si sposta a una dimensione verticale che, di scalino in scalino, fa affiorare lo sguardo sulla terrazza condominiale. Ma ancora, è proprio il Tempo, “tempo muto” del domani, “zona franca” dove si compiono i destini, a costituire con estrema coerenza il luogo d’indagine della poetessa, non tanto alla ricerca di un tempo perduto consegnatoci dalle fotografie quanto alla ricerca di un tempo assoluto, quasi fuori dal tempo, in cui si possa attingere e sondare il fondo delle cose.

Se la poesia ha un significato esso è un Enigma. E in quanto tale, insolubile. O meglio, la soluzione dell’Enigma è la sua dissoluzione
Marie Laure Colasson
(trad. di Edith Dzieduszycka)
Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique
Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe
Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres
“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour
Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………
L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane
Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d ‘ enfants “
Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet
Miss Vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable
*
Rullo di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico
Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte scavalca la sua Harley Davidson
Scappa
Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri
“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle
Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………
L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio
Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”
Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet
Miss Vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

migrano le cose oscure del morire, una stazione per volta
Lucio Mayoor Tosi
Questa mia non c’entra con il nulla, ma è per riconoscenza.
L’amore è un legame.
L’amore è un legame. Lo sanno bene le tortorelle
di Padre Pio, che il gerundio si è perso da tempi immemorabili
tutto il piacere della vita.
Amore è il mio linguaggio, parola amata. L’anestesia
e quel che ne consegue, come ti cade un dente… e non lo puoi
rimettere. Amore che combina ( sì, baciamoci. E dunque l’Ariosto).
Amore si può dire, ma devi essere poeta in carne ed ossa.
Sul principio non ti avrei delusa. Le quattro parti mi piacevano.
E dunque. Dunque. Bisognerebbe chiudere la porta. Il cancello.
(May – lug 2019)
Giorgio Stella
migrano le cose oscure del morire, una stazione per volta –
l’ammorbidente è il programma della lavatrice –
alcune case sono monolocali
i lotti a schiera di Renzo Piano bilocali –
‘mi incarta i cornetti per favore?’ – “si, ma i caffè sono a portar via?” –
la mensa aveva finito i fagiolini ma restava il pane: rosetta o in cassetta –
ho fatto il test sono negativo –
la cerniera della lampo è divisa dall’orlo nella camicia di forza –
forse pioverà, l’ombrello Carpisa costa parecchio –
forse la stagione delle piogge ammette l’ultimo gelato di stagione –
Mignon è partita… l’Archibugi pensò fosse la Transiberiana –
Mignon è partita, ho scordato di rinnovare l’abbonamento Atac-mensile –
Francesco Paolo Intini
Il Bianco ed il Nero. Gatti entrambi dello stesso quartiere
Il Bianco aveva un regno. Un giorno lo sorpresi tra le radici bruciate di un pino. Sonnecchiava tranquillo pensando alle sue cose, per niente invece alla chioma secca sulla sua testa.
La sostanza e gli accidenti della vita di un re passano per una continuità di lotte che talvolta possono sembrare cessate. Una tribù da difendere. Copioni che si ripetono uguali, maschere che recitano lo stesso obiettivo di conservare il seme nel tempo. La ventura di essere il capofila, l’interfaccia con il quartiere.
Interagire con esso porta a compiere delitti. Uccidere o quanto meno spaventare colombi e perché no? i gabbiani.
Un solido Nulla si portò via il pino e le altre forme di vita campestre, piantandoci cemento armato con i balconi fioriti e le vetrate, i box auto, i passeggini.
Direi che l’impotenza sul passato è pari a questa volontà di costruzione urbana. In qualche modo la riempie come si trattasse delle fondamenta di un palazzo.
D’altra parte il Nero è scomparso anzitempo. Ad un passo da qui separato da un fossato di asfalto e muro sorvegliato notte e giorno da gendarmi che assomigliano ad Alichino e Graffiacane.
Un prato sempre curato. Il suo regno, il suo harem profumato.
I ragazzi del Campus gli scivolavano accanto. Ma lui rimaneva indifferente alla superstizione e all’orrore che destava in taluni la sua pancia enorme, la sovranità di pantera, il fascino della materia oscura negli occhi.
In realtà pensava alle sue numerose amanti ma senza riflettere su come converga tutto in un uno stesso senso sia che si parta dalla luce e sia dal buio.
Non essendo previsto un salto da un settore all’altro, il confine rappresenta uno iato insormontabile. Anche gli uomini sono diversi perché non c’è ragione per supporre che l’ora dell’uno sia sincronizzata a quella dell’altra. E chissà dunque quale tra l’uomo di Scienza e l’Operaio sia l’orologio avanti e quello indietro.
Eppure qualcosa sfugge al controllo.
Il regno del Bianco ha figli neri. Quello del Nero ne ha bianchi.
Una divisione netta, abissale grida dunque la sua impotenza nei confronti della casualità. Nel suo gioco nessuna bottiglia è mai completamente piena e nessuna cantina è mai completamente asciutta.
Quel muro che doveva garantire la divisione tra bianco e nero è così soltanto perché manca il suo obiettivo ma nello stesso tempo non lo è perché tutto avviene sulla base di un suo “essere” qualcosa.
Neanche il Bianco ed il Nero hanno ragione di essere qualcosa in questo qui e ora ma sono soltanto punti con una certa probabilità di manifestarsi a cui si associa una probabilità di Nero e Bianco rispettivamente.
Giorgio Linguaglossa
Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole
Le poesie sopra postate offrono al lettore una pinacoteca di Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole. Sbaglierebbe chi giudicasse queste poesie come un «gioco» alla maniera novecentesca, qui non c’è nessun «gioco», e, se c’è, è un gioco serissimo che ha a che fare con le Figure che si presentano sull’orizzonte dell’apparire per poi, subito dopo, scomparire, e magari ricomparire in altre guise, sotto altre vestizioni. L’orizzonte degli eventi è abitato da Figure. Anzi, le Figure sono propriamente l’orizzonte degli eventi e gli enti abitano quest’orizzonte. Miss Vitamine, Charlotte, Sœur Candida sono propriamente delle Figure in transito, appena nominate, sfuggono via, hanno un barlume fuggevole di esistenza, e poi più nulla, appena nominate sono già nel passato. Lo sfondo di questa poesia è il nulla, il senza-fondo. Ed è sullo sfondo di questo senza-fondo che possono transitare le fuggevoli Figure che popolano questa poesia. In tal senso, le Figure sono eterne, perché eternamente si rinnovano ed eternamente transitano nel nulla.
Scrive Carlo Sini:
«…i viventi, le loro figure e le loro relazioni vanno a fondo. Ma sulla soglia transitante della figura, che si dà al mondo interpretandolo, il vivente attinge nelle sue figure una sorta di immortalità puntuale, in relazione alla sua aura. Relatività che allude ed è metafora dell’immortalità senza declinazioni del supporto ultimo di tutte le figure: quell’aura della presenza eterna della vita che è l’unità neppur una sottesa a ogni polifonia.
Per il vivente “che sa” si tratta allora di imparare a essere quel che (si) è: immortale. Eterna non è la figura nell’errore tenace del suo “qualcosa”, ma il precipizio del vuoto e del nulla che vibra ora e qui nella figura e che coincide con il comporsi e lo scomporsi, il dileguare e comparire che affetta le figure: Le figure sono così contemporaneamente eterne e transeunti. Eterne nel loro perenne transitare, non stare: esse modulano, irripetibilmente ripetendola, la polifonia della vita eterna. Effimere nel loro dileguare, nel loro sfumare al limite del loro confine, dove si fanno ponte della trasmissione verso altre figure».1
1 Carlo Sini, Il sapere dei segni, Jaca Book, 2012, p. 68
Qualche considerazione sul soggetto-polittico e sull’io, La Mega Crisi quale causa efficiente della nuova ontologia estetica, Poesie di Giuseppe Talìa, Gino Rago, Giorgio Stella, Commenti di Adorno, Mario Perniola, Giorgio Linguaglossa, Paolo Carnevali,
Digital art
Giuseppe Talia
Caro Germanico,
oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine
in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”
Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.
Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale
della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente
si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”
La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione
precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.
Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare
assomigliare a San Carpoforo.
Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.
Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.
Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”
Giorgio Linguaglossa
Qualche considerazione sul «soggetto-polittico»
Quando penso all’io, mi chiedo: «io sono io»? – È questa l’interrogazione principiale. È da qui che può prendere le mosse tutto il resto. Ma la domanda permette anche una risposta: «io non sono io». E questo cambia tutto. Adesso sappiamo che io e non-io sono equivalenti, che l’uno è la negazione dell’altro, che l’uno è l’affermazione dell’altro. E impariamo che la negazione e l’affermazione si equivalgono, sono sovrapponibili, e che l’io è forse Altro.
La nuova poesia, la nuova ontologia estetica, non prende per pacifica la questione dell’io così com’è, come faceva la poesia che designiamo solitamente come novecentesca, che procede di lì con una colonna sonora unidirezionale e unispaziale, ma sa che ciò che designiamo con la parola io è una convenzione. Questa consapevolezza, questa problematizzazione cambia tutto, cambia il rapporto dell’io con il linguaggio. Cambia il linguaggio. Cambia il linguaggio poetico.
Ciò che mi costituisce come soggetto, ecco la questione centrale. Non è dal soggetto che dobbiamo partire, ma dall’esterno, da ciò che ci rende soggetto, che sono gli Altri e l’Altro. È da qui che dobbiamo ripartire per una perlustrazione del cosa è il soggetto.
Questo esercizio di porre da parte il soggetto è una vera e propria «iniziazione» come dice Rovatti. Il soggetto è veramente soggetto soltanto quando si sdoppia, si triplica, si quadruplica; quando il soggetto abbandona se stesso, prende le distanze dal se stesso, quando è impegnato a costruire una nuova soggettività, quando lateralizza se stesso, si decentra, quando subentra un altro soggetto che prende il posto del primo e lo mette tra parentesi, lo spiazza, lo decentralizza.
Quando tutto ciò accade, allora il soggetto diventa pienamente se stesso in quanto è Altro e di Altri.
Allora, da questa molteplicità di soggetti, da questo indebolimento del soggetto, proprio da qui può nascere un soggetto fortificato, un soggetto invincibile. Un soggetto nuovo. Un «soggetto-polittico».
Il soggetto che si riappropria del soggetto non finisce mai di essere soggetto ma lo diventa sempre di nuovo. E qui il problema della «identità» sa di calcolo combinatorio, calcolo stocastico. Gli enunciati analitici non li si può ridurre alla formula A è B. Ogni volta il soggetto ricomincia daccapo, riapre lo scarto con il proprio mondo pulsionale e rappresentativo.
Con le parole di Giorgio Agamben, diremo che il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, cioè dal punto di vista musicale è eminentemente cacofonico, la cacofonia è la legge segreta che muove il «soggetto-polittico».
Paolo Carnevali
Un interessante articolo che ho condiviso, Giorgio Linguaglossa. C’è una verità profonda in quello che hai scritto e mi auguro di cuore che venga letto da molti in rete. Aggiungo una mia modesta interpretazione sociologica, forse non condivisa: credo che la nostra sospensione nel tempo trovi attraverso il narcisismo, l’espressione esasperata dell«io», la certezza di esserci, di non essere dimenticati. Dunque l’interminabile ossessione di non essere dimenticati. Ecco che molti si rifugiano nella poesia o almeno quello che credono essere per loro “poesia”. Speriamo veramente che cambi il linguaggio dell’«io»…..
Aforismi da Minima moralia, Einaudi, 1954
L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.
L’intelligenza è una categoria morale.
L’umano è nell’imitazione; un uomo diventa uomo solo imitando altri uomini.
La decadenza del dono si esprime nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo.
La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.
La vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario.
Non c’è correzione per quanto marginale o insignificante che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni ognuna può sembrare meschina o pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo.
Ogni satira è cieca verso le forze che si liberano nello sfacelo.
Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.
Giorgio Stella
Portato via in una clinica più idonea al suo caso.
La cuccia per criceti fatta a mano non ha il criceto quello è a parte ma è
[scontato.
[…]
Zagor Tex Mister.NO poi Dylan Dog rovinò tutto.
La clinica è fuori città per evitare i rumori… vanta una piscina ma gli ospiti [non ne vogliono sapere.
[…]
Se ha bussato qualcuno avrebbe prima citofonato; la cassetta della posta è vuota quindi non si aspetta nessuno.
[…]
ci sono distributori automatici al primo piano della clinica ma la caffetteria è decaffeinata per ovvi motivi e le merendine dietetiche perché chi è pazzo
[in genere ha pure il diabete.
[…]
Le trote pescate al laghetto pesate valgono più dell’ingresso ma le mangeranno colleghi o amici facendo finta che il dono sia per loro.
Bussano prima di citofonare sono Zagor Tex Mister.No Dylan Dog li vede dallo spioncino.
[…]
La caposala della clinica ha una piccola gabbietta con dentro un criceto.
Dice che il paziente ripete in continuazione che il paese della morte ha [l’ampiezza del cuore. Continua a leggere →
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