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Dalla «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna (con Stige del 1992) al ready language della poetry kitchen e della instant poetry, La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente, La pop-poesia scopre la valenza gestuale del linguaggio, Poesie kitchen di Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

Dalla «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna  (con Stige del 1992) al ready language della poetry kitchen

La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen. Dal 1992 anno che segna l’edizione di Stige di Madonna, scompare definitivamente dal periscopio della forma-poesia la possibilità di adottare una «struttura tragica», se ne accorgerà lei stessa, ne sono la prova le poesie poi apparse nel 2018, postume: Stige. Tutte le poesie (1990-2002), opera pubblicata da Progetto Cultura nel 2018, quando l’abbandono del «neolatino» segna, marca l’abbandono della «struttura tragica». La nuova fenomenologia del poetico investigata dai poeti dell’Ombra delle Parole in questi ultimi anni è un po’ la presa di consapevolezza della impossibilità di operare un riformismo moderato nell’ambito della forma-poesia del secondo novecento, che lavorava per successivi aggiustamenti e rimaneggiamenti della forma-poesia post-montaliana, post-Satura (1971). Ad un certo punto agli intelletti più avvertiti e sensibili appare chiaro che quella via si era ormai esaurita e si presentava senza sbocco. La poetry kitchen è il risultato di questa assunzione di responsabilità, ed il ready language ne è stato il necessario supplemento linguistico e stilistico.
La poesia di Guido Galdini, con i suoi pseudo limerick, si muove in questa direzione di responsabilità; le storie di una pallottola di Gino Rago, la poesia collage di Mario Gabriele, la instant poetry di Lucio Mayoor Tosi, di Mimmo Pugliese e Mauro Pierno in varia misura e con strumenti linguistici diversi adoperano un linguaggio che si trova già pronto nelle discariche linguistiche della nostra civiltà mediatica.

La pop-poesia scopre la valenza gestuale del linguaggio, il ready language è finalmente libero dal significato e dal senso; il linguaggio del ready language ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non riusciva a vedere, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo. Wittgenstein lo aveva messo in chiaro da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è funzione di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza gestuale-strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. Una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La poetry kitchen fa uso di linguaggio gestuale e figurato allo stato puro, è un ready language che rende evidente il fuori-significato, il fuori-senso. L’ontologia del linguaggio poetico del novecento faceva poiesis del non-senso, al massimo confezionava anti-poesia, nella poetry kitchen invece la valenza del linguaggio figurato e gestuale viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole dall’irretimento del linguaggio mediatico-strumentale. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

La poetry kitchen ha abbandonato il Principio di ragion sufficiente

non si pone più il quesito del perché qualcosa ha ragione di esistere e qualche altra cosa no, tutto esiste contemporaneamente, magari in un’altra dimensione, e quindi tutto è contemporaneo. Tutto dipende dai condimenti e dagli ingredienti che abbiamo in cucina, da ciò che abbiamo in dispensa, nella credenza, a portata di mano. La poesia la si fa con ciò che abbiamo in frigorifero, con gli avanzi di ciò che abbiamo in frigorifero.
Lacanianamente, il Simbolico è sempre mancante in un punto X. Il punto X è il punto non rappresentabile della rappresentazione. In quel punto il Simbolico non è simbolizzabile, questo significa semplicemente che il Simbolico è simbolizzabile proprio grazie a quel buco lasciato vuoto, grazie a quel punto non-simbolizzabile.

Il processo simbolico funziona così, da un lato opera entro un contesto fantasmatico, dall’altro implica una X non simbolizzabile, un «nucleo reale-impossibile» (dizione di Slavoj Žižek ), un punto vuoto, un punto cieco che inghiotte il Simbolico e che ne consente l’emersione. Ecco che la triade Reale-Simbolico-Immaginario comincia a prendere profondità e senso: il Simbolico è sì la dimensione dominante nell’uomo, ma essa, proprio perché umana, non è concepibile indipendentemente dal Reale (che forclude e che presuppone) né dall’Immaginario da cui è fondata e che continua a suscitare.
Nel seminario lacaniano RSI del 1974-5 questa emergenza fondamentale riveste una funzione psico-sociale, un aspetto individuale-collettivo: la costellazione Immaginario-Simbolico-Reale si dà in un nodo borromeo in quanto discende dal funzionamento dialettico: il Reale è la mancanza che si iscrive nel Simbolico, e l’Immaginario è la cornice fantasmatica che consente al Simbolico di emergere.

Quand’è che si incontra il Reale? Rispondo: la poiesis è il luogo ideale dove si può incontrare il Reale nel suo travestimento nel Simbolico.
Scrive Žižek: «Quand’è che io incontro l’altro nel Reale del suo essere… solo quando incontro l’altro nel suo momento di jouissance, cioè quando scopro in lui/lei un piccolo dettaglio- un gesto compulsivo, una eccessiva espressione del volto, un tic- che segnala l’intensità della realtà della sua jouissance …l’incontro con il Reale è sempre traumatico, c’è qualcosa perfino di minimamente osceno in esso».

Una nuova imagery di parole sorge quando sorge un nuovo condominio di Wortvorstellungen (rappresentazioni di parole) irriconoscibili. La nuova patria metafisica delle parole è nient’altro che questo: un nuovo condominio di parole irriconoscibili di cui ci è tolta la possibilità di appropriarcene. Fare uso del linguaggio come di un vuoto a perdere, farlo in modo che giri a vuoto, privo di referente e di denotazione.

Ciò che emerge dal Reale è l’immagine del «tram addormentato» in questo verso di Marie Laure Colasson in chiusura di una sua poesia. Vi sono due modalità mediante le quali l’uomo si può relazionare al linguaggio, quella inautentica, tipicamente novecentesca, ha a che fare con la «voce», in quella autentica invece non vi è né lingua, né patrimonio di nomi che si tramandano, bensì solo una dimora personale che non presuppone niente prima di essa, che il linguaggio è infondato.
Recuperare un rapporto autentico con il linguaggio significa recuperare l’immediatezza della sua espressione di pari passo con la sua infondatezza. Si tratta di esporre il linguaggio nel suo esser-così e alla sua maniera, senza appropriazione e senza illusione.

«Il tram si è addormentato come un viso mal rasato e sudato»

In questo verso della Colasson è evidente che ciò che è inverosimile e inappropriato (la metafora di «un viso mal rasato e sudato» che equivale al «tram [che] si è addormentato), diventa invece perfettamente verosimile e appropriato. Questo verso «tradizionale», quasi lirico, posto in chiusura di una poesia kitchen, aumenta a dismisura l’effetto di straniamento della poesia, la rende inesplicabile e insondabile in quanto riporta nel Simbolico la faglia, la schisi che si è aperta nel Reale. Il Punto X è la casella vuota della scacchiera, in ultima analisi, un Enigma.

1 S. Žižek, Che cos’è l’immaginario, Il Sagiatore, 1999, p.32

La Voce

Agamben continua l’intervento Hölderlin-Heidegger sostenendo che nell’articolazione / disarticolazione originaria si dà, secondo la tradizione, una “in-vocazione”: l’uomo è già da sempre richiamato ad assumere quel presupposto che prende il nome di Voce. Quindi in-vocazione significa tanto che si è “situati” anzitutto nella Voce, quanto che si è richiamati già da sempre presso di essa.

In Sein und Zeit ciò che richiama o in-voca è la lautlose Stimme (“voce senza suono”); cioè la voce silenziosa della coscienza che richiama il Dasein a se stesso. Agamben sottolinea, in Il linguaggio e la morte, il fatto che in Heidegger si dia un’«improvvisa reintegrazione del tema della Stimme» (op. cit. p. 73), che la spaesatezza dell’ Angst sembrava invece aver eliminato. La Voce è una pura intenzione di significare che non dice nulla di determinato. È un voler-aver-coscienza (Gewissen -haben-Wollen) anteriore ad ogni aver-coscienza di qualcosa di determinato.

Così Agamben può scrivere: «giunto, nell’angoscia, al limite dell’esperienza del suo esser gettato, senza voce, nel luogo del linguaggio, il Dasein trova un’altra Voce, anche se una Voce che chiama solo nel modo del silenzio». (op. cit. p. 74)

Agamben afferma così che il proposito heideggeriano di pensare il linguaggio al di là della Voce non è stato mantenuto, poiché, al pari della metafisica, il filosofo tedesco ha pensato l’esperienza del linguaggio a partire da quel fondamento negativo che è la Stimme. In questa negatività si situa – secondo la tradizione – l’aver-luogo del linguaggio come «pura intenzione di significare, come puro voler dire, in cui qualcosa si dà a comprendere senza che ancora si produca un evento determinato di significato» (ivi : 45).
In quanto è un non-più voce non-ancora significato, la Voce è il “fondamento” negativo che permette che «l’essere ed il linguaggio abbiano luogo».1

Sfugge nel linguaggio significante verso un passato, un esser-stato. Ma a questo proposito la parola poetica interviene per indicare un altro orizzonte al di là della negatività. In Hölderlin-Heidegger, si sostiene che Hölderlin – in Über die Verfassungsweise des poetischen Geistes – chiama l’aver-luogo della parola poetica “Stimmung”. Questa è lo spazio che si apre fra ciò che viene espresso in una poesia e l’elaborazione ideale. Tale “sentimento trascendentale” permette all’uomo di trovare “la sua parola”.* Lo riconduce alla disarticolazione fra vivente e parlante senza anteporre alcuna Voce, cosicché egli potrà finalmente proferire una parola libera «di un linguaggio che fosse veramente e integralmente il suo linguaggio».2

* In Il linguaggio e la morte, scrive Agamben:
«senza il richiamo della Voce, anche la decisione autentica (che è essenzialmente un ‘lasciarsi chiamare’, sich vorrufen lassen), sarebbe impossibile, come impossibile sarebbe anche da parte del Dasein l’assunzione della sua possibilità più propria e insuperabile: la morte»
(op. cit. p.: 75)

https://www.academia.edu/3163642/Jacopo_DAlonzo_Linguaggio_e_passioni_nella_filosofia_di_Giorgio_Agamben?email_work_card=title
2 Ibidem

Giorgio Linguaglossa

Le fanfare dei carabinieri a cavallo nuotano nel collirio
della materia oscura
Il pianoforte a coda litiga con i bersaglieri
a Porta Pia
Il cappello con le piume prenota una scatola di Pentotal
Le parole sono uscite a prendere il caffè
Dopo pranzo
Un manichino con la valigetta 24 ore
ha preso il treno per Parigi
Una ferrovia sospesa collega l’EUR alla Magliana
Una funivia con i vagoni pentastellati
attraversa l’Urbe in tutte le direzioni
Carlo Calenda candidato sindaco di Roma
Dixit
Il premier Giuseppe Conte deglutisce
il «Vaffa» di Grillo
La signorina Buonasera dice: «Buongiorno»
«Dopo il peggio viene il meglio», dice Flaiano
«Se non ci fosse la domenica dopo il sabato verrebbe il lunedì»,
dice Enzo Tortora al pappagallo Totò
«Il mio ideale di bellezza è lo scimpanzè Bonobo»
precisò la tgirl Aurelio Bang
Vota Antonio Vota Antonio Vota Antonio…
«Sarebbe preferibile»,
disse il maresciallo Oudinot

Lucio Mayoor Tosi

Instant poetry

Instant poetry Lucio Mayoor Tosi

http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-da-horcrux-5/?fbclid=IwAR1T3hxAq-_lpl8P26LhINX9Jn1Mg_91_fNsPMtT2F7EVWDGU76JmtLR40k

Mario M. Gabriele
inedito da HORCRUX

Buon Giorno Signor Klister.
Ha risolto il problema?
con tutto il materiale indiziario
in suo possesso,
dovrebbe giungere a conclusione
il contezioso con le parti offese.

La doglianza è fondata
ed ha tutti i contraddittori
perché i ricorrenti Marx,
Heidegger,
Derrida,
Nietzsche,
e gli iscritti al Circolo di Vienna,
possano procedere alla loro richiesta
di diritti offesi.

Non si può stare sempre al buio!
C’è da capire qualcosa, disse Klister a Corbin.

Domanda impertinente.
Che fa uscire i topi dalla fogna.

Non ho niente da dire,
se non quello che dissi
ai Priori del Convento
quando rimasi solo nella stanza
a cercare le ampolle,
le brocche,
i vasi di veleni per la morte.

Il Nulla non ha voce.
Non si chiude agli spazi,
né al tempo.

Ha un assorbimento universale
senza alcun punto di interruzione.

Ci pensi bene!
Scusi, ma non afferro il concetto.
Se sta qui, disse Klister
lo deve al Nulla.

Gianmarco Vermigliani,
filosofo della Università di Boston,
scrisse che il cervello è una specie di caffè
in ebollizione, con due tazzine
di cui una piena e l’altra vuota.

Credo che un contradditorio
debba essere fatto
sentenziò Corvin.

Ho capito. Lei ha sempre un po’
di Essential CBD Extract che la salva
da ogni entertainment,
concluse Klister.

Su instagram
appaiono tante escursioni mentali
da individuare un certo
-esternalismo attivo-.

Oh bambù, bum bum!
I semi che piantasti
si sono rinvigoriti?
Hanno prodotto bouquet
per la Regina Margarethe?

I quadri di Julie Mehretu
hanno proposto figurazioni esterne
al Whitney Museum
in quattro parti di acrilici su tela
già esposti nella prima edizione
di Art Basel Cities a Buenos Aires.

Mi scorre il sangue sapendo
che la cucitrice di nuvole e lampi,
una certa Signora Bresson,
possa un giorno
raggiungere il piano superiore
restando in quarantena.

Ciao, Miss Shelin,
a quest’ora dovresti essere
in terapia ormonale
per evitare i sintomi vasomotori
che mettono in azione
il tromboembolismo venoso
se non ricorri subito al gabapentin.

Sia nel primo che nel secondo caso
il risultato è sempre lo stesso,

Come al solito, disse Klister,
non capisco,
e resto con il Direttore del Dipartimento
Federale, se mai abbia letto notizie
da Il Guardian su Because of Who I Am?

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020) e Remainders (2021). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). È presente nella Antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
 .
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.

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Osip Mandel’štam, Allora con chi parla il poeta? Gino Rago, Storia di una pallottola n.8, Poesia inedita di Mario M. Gabriele, Dialogo Ewa Tagher e Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Struttura cristallografica

Marie Laure Colasson Struttura cristallografica 2012

[«struttura cristallografica» di Marie Laure Colasson, acrilico su tavola 2012 25×25 cm.]
 Come sappiamo, la forma poliedrica dei cristallo è conseguenza della sua velocità d’accrescimento che si manifesta come proprietà anisotropa discontinua, cioè con valori diversi nelle varie direzioni di accrescimento. La «struttura cristallografica» è una struttura a risparmio energetico massimo. Così anche nelle figurazioni di Marie Laure Colasson essa può prosperare soltanto in sistemi molto prossimi allo stato di equilibrio energetico.
In questa «struttura cristallografica» del 2012 si rinviene una ricerca volta a individuare una «struttura permanente», una struttura che precede l’ingresso in essa del Fattore X, l’Indice del mutamento. La successiva ricerca sulle «strutture dissipative» di fine ventennio rivolgerà l’attenzione su quelle soluzioni figurali che si oppongono alla dissipazione e all’entropia mediante una sorprendente ricomposizione delle forze termodinamiche interne alle stesse. È evidente che la ricerca di un momento di equilibrio tra le icone e le forme geometriche della «struttura permanente» risponda alla esigenza ipotetica di individuare una struttura libidica fissa, stabile, come istanza di non corresponsione con la volubile e mutagena economia del desiderio.  Il crollo della «struttura permanente» o «struttura cristallografica» che si verifica nella ricerca figurale colassoniana degli anni 2012-2015 sta a significare che non v’è né vi può essere una struttura stabile in qualsiasi sistema figurale complesso in quanto, come sappiamo, la instabilità è la legge fondamentale che governa i sistemi complessi. C’è, è avvertibile in questo lavoro, un mana, un colore di fondo dato dalla nostalgia per il sistema dei sistemi, per la stabilità della «struttura cristallografica» che la ricerca ulteriore in direzione della «struttura dissipativa» si incaricherà di smentire.
Per «struttura dissipativa» si intende nel mondo fisico un sistema termodinamicamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia.
Nel corso degli anni dieci, la «struttura dissipativa» prenderà il sopravvento sulla «struttura cristallografica», e l’indagine della pittrice si concentrerà sulla fluidificazione delle forze dissipative che avvengono all’interno di ogni «struttura dissipativa».
(Giorgio Linguaglossa)

Mario M. Gabriele

Un cocktail di Bull Shit inaugurò l’anno cinese delle candele.
Ci minacciavano Star Wars  e L’Uomo che fuma.

Così rimanemmo al tavolo con Sara e Dora Moore
pensando allo scacco matto.

Cara Ketty, sono 14 anni che non mi muovo più dal letto
e ho le allucinazioni durante il giorno, disse Arianna.

C’è un esercizio, una specie di Yoga,
che si attacca al passato  come il silicone.

A giudicare  le cose come sono andate,
basterebbe che la luna se ne stesse un po’ in disparte.

L’occasione è buona
per dire Vorsicht vor dem Winter.

Sembra che Padre Michell, non voglia liberarci dal male
perché legati  alla Passione, secondo Madame Bovary.

Sissy non si fa più sentire. E’ caduta nel disincanto
in una stanza di Prinsengracht 263.

Da inizio Gennaio fino alla quarantena
Ghebby ha seguito l’andamento dell’universo digitale.

Ne sa qualcosa Keurin dal suo paesino nella Brianza
che accomuna, mese dopo mese, remainders.

Nessuno sa come prendere un vagone,
ricordare  La relatività  con le 4 stagioni di Durell.

Kessy ha conseguito la laurea  in modalità telematica
chiudendo l’esercizio accademico 2015-2016.

Oggi compie gli anni. Le presenterò mammy,
in photoshop,  come quelle in bacheca a Bergen Belsen.

(dalla raccolta inedita Remainders)

Marie Laure Colasson

caro Mario,

leggo adesso la tua top-pop-poesia, e devo dire che è straordinariamente viva e frizzante come uno spumante Brut della cantina Righetti del Friuli, Derrida ne sarebbe rimasto elettricamente colpito e, forse, anche Deleuze… so che in Italia questo genere di poesia non è molto amata, voi italiani i poeti li lasciate volentieri in uno sgabuzzino, meglio se in presenza di scope e di aspirapolveri, scolapasta e pentolame di latta colorata. Sai, penso che anche così la poesia possa, anzi, debba saper sopravvivere, a lato di scatole di fagioli e confezioni di spaghetti scaduti. La top-pop-poesia si nutre di scatolami e di mascalzoni, di pantaloni dismessi e di camicie verdi… tra bacheche di Bergen Belsen e cocktail di Bull Shit…

Mario M. Gabriele

cara Milaure Colasson,

grazie del tuo graditissimo intervento che assembla, con profonda sintesi, una serie di approdi critici bene articolati e di diversa identità. E’ questa la condizione migliore per recepire e decodificare un testo poetico offrendo al lettore il meglio della propria sensibilità critica che, grazie al tuo buon esercizio poetico, rende l’interpretazione dei versi, meno ostica. Non c’è dubbio che abbia gradito il tuo punto di vista finalizzato ad una desemantizzazione della lingua tradizionale. Confesso, che qui, da parte mia e per la poesia o le mie poesie di diversa connotazione, non trattasi di modernismo post NOE, ma di una esigenza volta a trasferire nell’oggetto-verso, tutte le confluenze possibili, anche dicotomiche, ma che alla fine si energizzano e risorgono dal pantano dell’oblio, portando in superficie il rumore del Tempo. Grazie e un cordiale saluto. Mario.

[fotografie di Marie Laure Colasson, manichini in vetrina, Bruxelles 2015]

Giorgio Linguaglossa

Così inizia Lucio Mayoor Tosi una sua poesia:

«Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato…»

Ecco, nel mondo amministrato dove tutto è regolamentato con la massima precisione, capita di non sapere più come comportarsi nelle cose più elementari come entrare in un bar per prendere un caffè…

Così non sai come iniziare una poesia, se dalla testa o dalla coda, se dal «ripostiglio di sartoria teatrale» o dai miasmi fetidi di un cassonetto di immondizie che staziona qui sotto casa mia in via Pietro Giordani n. 18 a Roma. È che è diventato problematico l’inizio e la fine. Ed è diventato problematico anche proseguire dopo l’inizio. Per dire cosa? È il «dire» che è diventato problematico.

Ricordo un giorno che feci l’errore di uscire con una signora. All’improvviso, mi resi conto che non avevo nulla da «dire». Fu una serata alquanto imbarazzante.

Ieri sera la giornalista Lilli Gruber ha intervistato il senatore Bagnai della Lega. Il buffo era che Bagnai se ne fregava delle domande e rispondeva come gli pareva parlando di questo e di quello. Questo è quanto. Viviamo in un mondo pop, non resta che prenderne atto, ciascuno parla a vanvera. Già parlare di «sartoria teatrale» nel 1972 era qualcosa di fondato, esistevano le sartorie teatrali e Montale si poteva considerare fortunato a poter parlare di sartorie teatrali, oggi non c’è più neanche il teatro… dai tempi di Montale ad oggi non c’è più un argomento che possa essere preso in seria considerazione. La poesia non fa eccezione, questo è il problema. Penso che oggi si possa fare una poesia serissima facendo parlare direttamente le cose, finalmente liberate dalla schiavitù del referente.

mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

mandel’stam foto segnaletica nel lager 1938

Intorno al 1919 Osip Mandel’štam scrive il famoso saggio Sull’Interlocutore. Centra la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.

Oggi mi sembra che questo problema sia tornato d’attualità: Con chi parla Laborintus (1957) di Sanguineti? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto (1985), richiede una grande lentezza nella lettura, quella di Sanguineti una grande velocità di lettura. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede una grande velocità, può essere letta mentre parliamo al telefono o mangiamo un tramezzino. Come mai questo fenomeno? Che cosa è cambiato nella poesia di oggi? Con chi parla la poesia post-montaliana (post-Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?

Ecco, in proposito, un brano cruciale di Osip Mandel’štam nella traduzione di Donata De Bartolomeo. La poesia di Mandel’štam rispetto a quella dei simbolisti richiede una grande lentezza, va in senso contrario a quello dei simbolisti.

Osip Mandel’štam

Allora, con chi parla il poeta?

Allora, con chi parla il poeta? La questione è scabrosa e molto attuale, poiché sino ad oggi i simbolisti eludono la sua pungente impostazione. Il simbolismo, mettendo del tutto da parte la correlazione, per così dire, giuridica da cui è accompagnata l’azione del dire (dico, cioè, che mi ascoltano e che mi ascoltano non gratuitamente, né per curiosità ma perché obbligati), ha rivolto la sua attenzione esclusivamente all’acustica. Getta il suono nell’architettura dell’animo e, con il narcisismo che gli è proprio, segue le sue peregrinazioni sotto le leggi dell’altrui psiche. Esso prende in considerazione l’aderenza sonora, che deriva da una buona acustica, e chiama questo calcolo, magia. In questo atteggiamento, il simbolismo ricorda «Prestre Martin», il proverbio medievale francese, il quale nel tempo stesso dice la messa e la ascolta. Il poeta simbolista non è soltanto un musicista, egli è anche uno Stradivarius, il grande artista creatore di violini, preoccupato di calcolare le proporzioni della «scatola» della psiche dell’ascoltatore. Nella dipendenza da queste proporzioni, il colpo dell’archetto o riceve una regale pienezza o suona miseramente e con insicurezza. Ma, signori, la musica esiste anche indipendentemente dal fatto che qualcuno la suoni, in una certa sala e su un certo violino! Perché, allora, il poeta deve essere così previdente e sollecito? Dov’è, infine, questo fornitore di violini viventi per le esigenze del poeta, degli ascoltatori, la cui psiche è equipollente alla conchiglia del lavoro di Stradivarius? Non sappiamo, non lo sapremo mai dove sono questi ascoltatori… François Villon ha scritto per la marmaglia della metà del XV secolo, eppure noi troviamo nei suoi versi una viva bellezza.

Ogni persona ha degli amici. Perché mai il poeta non dovrebbe rivolgersi agli amici, alle persone che gli sono veramente vicine? Il naufrago, nel momento critico, getta nelle acque dell’oceano una bottiglia sigillata con il suo nome e la descrizione del suo destino. Dopo lunghi anni, passeggiando tra le dune, la trovo nella sabbia, leggo la lettera, vengo a sapere la data del fatto, l’ultimo desiderio del morente. La lettera, sigillata nella bottiglia, è indirizzata a chi la troverà. L’ho trovata io. Significa che sono io il misterioso destinatario.

 Il mio dono è misero e la mia voce non è alta,
ma io sono vivo e sulla terra il mio
essere a qualcuno è caro:
un mio lontano discendente lo troverà
nei miei versi, chi lo sa? La mia anima
stringerà con la sua un rapporto
e come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.

Leggendo i versi di Baratynskij, provo la medesima sensazione come se nelle mie mani fosse caduta quella bottiglia. L’oceano di tutta la sua enorme produzione poetica le è venuto in aiuto, l’ha aiutata a colmare la sua predestinazione e l’emozione si impossessa del provvidenziale trovatore. Nel gettare la bottiglia nelle onde da parte del naufrago e nell’invio dei versi da parte di Baratynskij, ci sono due momenti che appaiono assolutamente identici. La lettera, così come i versi, non sono indirizzati a nessuno in particolare. Ciò nondimeno, entrambi hanno un destinatario: la lettera, colui che si accorge per caso della bottiglia nella sabbia, i versi il lettore «nella posterità». Io vorrei sapere che tra quelli cui capiteranno sotto gli occhi i citati versi di Baratynskij, non sentirà il brivido felice e sinistro che viene quando all’improvviso ti chiamano per nome.

Konstantin Bal’mont dichiara:

Io non conosco la saggezza, utile agli altri,
soltanto la fugacità metto nei versi.
In ogni fugacità io vedo mondi,
pieni di volubile, iridescente fuoco.
Non maledite, saggi, che vi importa di me?
Io sono soltanto una nuvoletta piena di fuoco,
io sono soltanto una nuvoletta – vedete, veleggio
e chiamo i sognatori – voi, non vi chiamo.

Quale contrasto rappresenta il tono sgradevole, insinuante di questi versi con il profondo e modesto valore dei versi di Baratynskij. Bal’mont si difende, come se si scusasse. È inammissibile per un poeta! L’unica cosa di cui non si deve scusare! Eppure, la poesia è consapevolezza della propria ragione. In Bal’mont, in questo caso, non c’è questa consapevolezza. Il primo verso uccide tutta la poesia. Il poeta dice subito chiaramente che non lo interessiamo:

Io non conosco la saggezza, utile agli altri.

Inaspettatamente per lui, lo ripaghiamo con la stessa moneta: se noi non ti interessiamo, anche tu non ci interessi. Che me ne importa di una nuvoletta, ne veleggiano molte… Le vere nuvole hanno questo vantaggio, che non si fanno beffe della gente. Il rifiuto dell’interlocutore attraversa come una riga rossa tutta la poesia di Bal’mont e la sbiadisce fortemente. Bal’mont nei suoi versi tratta continuamente con disprezzo qualcuno, gli si rivolge senza rispetto, con negligenza, con alterigia. Eppure, questo «nessuno» è il misterioso interlocutore. Non compreso, disconosciuto da Bal’mont, egli brutalmente si vendica di lui. Quando parliamo, cerchiamo nel volto dell’interlocutore l’approvazione, la conferma che abbiamo ragione. Tanto più il poeta. La preziosa consapevolezza della ragione poetica spesso manca a Bal’mont, poiché egli non ha mai un interlocutore. Donde i due spiacevoli estremi della poesia di Bal’mont: la piaggeria e l’insolenza. L’insolenza di Bal’mont non è autentica, non è originale. Il bisogno di auto-affermazione in lui è francamente morboso. Egli non può dire «io» sottovoce. Egli grida «io»: «Io – improvvisa frattura, io – tuono che gioca». Sulla bilancia della poesia di Bal’mont il piatto «io» squilibrava decisamente ed ingiustamente il piatto «non-io», che sembrava troppo leggero. Lo stridulo individualismo di Bal’mont non è gradevole. Non è il tranquillo solipsismo di Sologub, che non insulta nessuno, ma un individualismo a spese di un altro «io». Sentite come Bal’mont ami sbalordire con diretti e penetranti usi del «tu»: in questi casi egli assomiglia ad un cattivo ipnotizzatore. Il «tu» di Bal’mont non trova mai un destinatario, ma gli passa rapidamente vicino, come una freccia scoccata da un arco troppo teso.

E come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.

Gif Hitchcock Sparo

Gino Rago

Storia di una pallottola n.8

Ufficio degli oggetti smarriti di via Gaspare Gozzi. Il commissario Ingravallo ha requisito una busta con dentro questa conversazione telefonica.

Wislawa Szymborska:
«Madame Colasson,
avrei bisogno del suo cardiogramma».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, le posso concedere un cablogramma
con dentro il nulla».

Wislawa Szymborska:
«La sua pallottola viaggia sempre a scrocco…
E anche senza biglietto».

Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, sto dissipando le mie “strutture dissipative”.
Domani sarebbe già tardi, non posso risponderLe.
Adieu».

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

sono passati 101 anni dal saggio di Osip Mandel’štam Sull’Interlocutore. Questa tua poesia rende bene la differenza, anzi, l’abisso che passa (e divide) tra la visione della poiesis della Szymborska (sostanzialmente ancorata alla ontologia poetica del tardo novecento) e quella di Marie Laure Colasson, una poetessa della nuova ontologia estetica.

Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.

Il vero potere destituente è la potenza destituente del «nulla» che abita la poiesis della nuova poesia della nuova ontologia estetica.

Ewa Tagher

Giorgio Linguaglossa scrive:

“Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.”

Leggendo questa acuta riflessione, questa ennesima questione poetica che Linguaglossa ha portato a galla, mi chiedo: e se il nulla corrispondesse a un’altra dimensione? Se il destinatario così definito non ci fosse, non avesse ragion d’essere, se la poesia della nuova ontologia estetica fosse semplicemente riflesso di un evento, che non ha per forza bisogno di spettatori? Tempo fa, su queste stesse pagine ci si chiedeva: che poesia è possibile dopo l’Olocausto? Credo, però che giunti a questo punto nello sviluppo critico della nuova ontologia estetica, si debba fare un passo avanti e chiedersi: che poesia è possibile dopo le leggi sulla meccanica quantistica? Nel casino fuorilegge dell’universo quantistico, non esiste una realtà oggettiva: la materia può essere letta sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove ad esempio la luce è descritta solo come un’onda. Mi permetto perciò un paragone, forse un po’ azzardato, ma efficace: credo che la poesia qui fondata della nuova ontologia estetica sia figlia naturale, risenta, della teoria dei quanti, quasi ne fosse un naturale riflesso. La nuova poesia, non è descrittiva, non descrive la “luce”, il fenomeno, l’evento, ma è piuttosto essa stessa materia, è essa stessa evento, lo crea, in forme diverse, intellegibili sia come onda che come particella. Figurativamente la pallottola di Gino Rago può essere onda e particella insieme, così come Herr Cogito, crea un evento facilmente fruibile in una dimensione anni luce da noi. E così via dicendo. Giuseppe Gallo scrive così:

“Si mise il pennello nell’occhio destro.
La Madre lo colse sul fatto.
-Perché vuoi accecarti, Figlio mio?
Il Figlio rimase perplesso.
La intravedeva ancora con l’occhio sinistro.
Allora prese un altro pennello e lo ficcò dentro l’occhio sinistro.
-Perché sei cieco, Figlio mio?
-Per vedere il resto del mondo!”

Fu così che Newton, ficcandosi letteralmente una matita in un occhio scoprì la vera natura della luce, scomponendola in ogni sua onda. Perdonate la mia digressione “fisica”, che sarà anche azzardata, ma Linguaglossa è in grado di provocare anche questi azzardi, con le sue riflessioni.

Giorgio Linguaglossa

Cara Ewa Tagher,

Sono contento che tu abbia colto questo problema da me messo in luce. Negli anni novanta mi chiedevo che cosa intendesse Mandel’štam con il concetto di «interlocutore», adesso, dopo trenta anni ho capito che quella parola oggi va tradotta con la parola «nulla». L’interlocutore è il nulla che abbiamo davanti, dietro e di lato, è la parete bianca del futuro al quale la poesia è inviata, la parete bianca è il telos della poiesis, la poiesis non ha abitazione nel nostro mondo, non ha una Heimat, una patria, non è lecito baloccarsi con le belle parole, dobbiamo guardare bene quest’ospite in faccia diceva Heidegger.

per Wittgenstein le entità primarie di cui si compone questo nostro mondo non sono gli oggetti, ma i fatti. Se qualcuno si chiede che cos’è il mondo, o meglio, in che cosa consiste il mondo potrebbe essere tentato di fare un elenco delle cose che ci sono: il fiore, il vaso, il tavolo, lo schermo, la finestra e così via, finché arriva a un elenco completo, un inventario del mondo. Chi pensa così suggerisce che il mondo sia la somma delle cose che esistono; come se il mondo fosse un grande magazzino con lunghi corridoi di scaffali dove troviamo in un corridoio i fiori, in un altro i vasi,in un altro ancora i tavoli ecc.

I limiti di questa concezione sono evidenti: ciò che conta non è il mero essere degli oggetti, ma il modo in cui essi si relazionano gli uni con gli altri. Importa, in altre parole, non soltanto che il fiore esista e che il vaso esista, ma che il fiore stia nel vaso. «Il mondo» – dice Wittgenstein all’inizio del Tractatus – «è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose».Per descrivere questi fatti ci serviamo, secondo Wittgenstein, delle frasi o proposizioni. Se uno dice: «Il fiore sta nel vaso» descrive il fatto che il fiore sta nel vaso. E si nota subito una somiglianza tra la proposizione e il fatto descritto: infatti, Wittgenstein suggerisce che le proposizioni siano immagini dei fatti del reale. A ogni elemento presente nel fatto (il fiore, il vaso, lo “starci dentro” nel nostro esempio) corrisponde un elemento della proposizione,la parola “fiore”, la parola “vaso”, l’espressione “sta nel”. Il fatto è caratterizzato da una struttura interna, che determina come si relazionano gli oggetti all’interno del fatto (che «il fiore sta nel vaso»); e questa struttura viene rappresentata dalla struttura logica dell’enunciato, che determina come si relazionano le parole all’interno della proposizione.

Può apparire banale ma è bene ricordare che la poesia ha a che fare con le proposizioni e che ogni proposizione è una immagine fatta ad immagine di fatti che avvengono o sono avvenuti nel reale. È questa distanza tra le proposizioni e il reale che a me interessa come poeta. Come poeta sono il custode di questa «distanza».

Per la poiesis dire «tavolo», «vaso», «fiore» significa accogliere l’evento come esso si dà nella sua nudità. È l’Evento che illumina le cose che sono nei fatti. È l’evento che illumina la poiesis.

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Ludwig Wittgenstein, Perché dire la verità se si può trarre vantaggio da una menzogna? Poesie e Dialogo, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Adriana Gloria Marigo

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[Marie Laure Colasson, foto di un interno domestico, 2020 – La foto ritrae un interno visto attraverso il riflesso del vetro di una finestra con la tendina di lato. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che si accosta all’altro, da un occhio che legge un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. Questo sostare del senso sul limite è espresso anche con il termine di escrizione, intesa come la scrittura del senso nel fuori, nel-l’ex, sulla pelle di un corpo.  L’escrizione del quadro è analoga alla escrizione del nostro corpo. È ciò per cui dobbiamo innanzitutto passare. Osservando, noi entriamo dentro il quadro, possiamo ispezionarne l’interno. La sua inscrizione-fuori, la sua messa fuori-testo come il movimento più proprio del testo è il risvolto della sua inscrizione-dentro […] Il corpo, come il limite di una foto, di un quadro, non è un precipitato ma è il limite, il confine, il bordo esterno-interno, estremo, che niente richiude e niente esclude e che include… Il testo, il quadro sono un corpo e un fuori corpo, includono l’iscrizione e l’escrizione, il limite e il non-limite. E questo è il senso. L’unico senso possibile, la verità] (g.l.)

Ludwig Wittgenstein

Perché dire la verità se si può trarre vantaggio da una menzogna?”*

Questo fu l’oggetto della prima riflessione di Ludwig Wittgenstein di cui si abbia traccia. Aveva circa otto anni quando si soffermò a considerare la questione, giungendo alla conclusione che, dopo tutto, non v’era nulla di male a mentire in quella circostanza.

* Questa riflessione è ricordata in alcuni appunti ritrovati tra le carte di Wittgenstein e citati in McGuinness Brian, Wittgenstein: A life. Young Ludwig 1889-1921, London, Duckworth, 1988, pp.47-48. Monk Ray,
Ludwig Wittgenstein, Il dovere del genio, Bompiani, traduzione italiana di Arlo-rio P., Milano 1991, p.11.

 

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

[Lucio Mayoor Tosi, Polittico su parete bianca. Un quadro lindo e pinto, manca solo un delitto. Entra il commissario, ispeziona con lo sguardo la parete, il mosaico, ne deduce che c’è stato un delitto ma che l’assassino ne ha cancellato le tracce, e quindi non resta che interrogare il portinaio, il vicino di casa, il commesso degli alimentari, l’ubriacone sotto casa della vittima, etc. Il commissario redige un verbale nel quale sono accuratamente segnati gli oggetti: il divano verde, la sedia di gomma, il mosaico di 13 tessere… Tutto in apparenza è in ordine…] (g.l.)

Lucio Mayoor Tosi

Morti di questi tempi

I morti per virus corona, tenuti in grazia dalle istituzioni
camminano su rotaie con intorno lo spavento delle ossa.

Vivi, ci ricordiamo di loro in gabbiette di metallo ripiegati,
alcool che disinfetta e aceto. Nessuno più, ma fiori nuovi,

occhi della Madonna. E forse e domani. Se qualcuno
tornando, mettendosi di lato, tra quelli che restano,

in farsi di primavera non avrebbe odore. Aria smemorata
che sa di niente. Leggera, nuova si direbbe.
.

Nei locali pubblici a lutto le saracinesche della crisi
dove si balla, quando passano veloci quelle poche

automobili che a notte sfiorano con il tempo distanze
stellari, e al mattino trovi il corpo del gatto

di qualcuno penitente; che magari starnutiva in laboratori,
al braccio forte della finanza. Certe persone a martello,

o certi numeri. Una grande famiglia in assetto di sterminio,
davanti al sole costruire cerbottane.

Ma dietro, nulla. Non un nemico. Un perché di tutto.
.

Allora, poniamo che venga ferragosto, e ci arrostiamo:
di quale colore i campanelli, le fettuccine all’arancia?

Oh, Mayoor, sei tornato? Avevo da finire un libro,
aggiustare una tapparella. Metterci dei buchi.

Su pianeti come questo, dove non si fa altro che lavorare;
quindi arredato con paesaggi alpini, lune belle e ripostigli

per le scarpe da sci. Pensieri di tante maiuscole. Nomi estinti
di morti profili social. Nuovi cimiteri. Sorridenti.

Metà grazie, prego. Veniteci a trovare.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

[Lucio Mayoor Tosi. Sembra la foto di una scena di delitto. C’è la caraffa del tè, la tazza, la zuccheriera, un vaso di fiori… e, forse, un veleno disciolto nel tè…] (g.l.)

Giorgio Linguaglossa 

caro Lucio,

apprezzo in particolar modo l’andamento dinoccolato del componimento, con i suoi allunghi nel non senso del senza-senso, quel tuo modo di nominare le cose («Pensieri di tante maiuscole») che sono un modo per non nominarle, per evitare di passare alla cassa a pagare il conto salato della esistenza. Perché l’esistenza ha un conto in sospeso… e così tu lasci le tue fraseologie in sospeso, tu adotti la strategia dello struzzo, nascondi la testa nella sabbia quando vedi arrivare la buriana, il pericolo di animali feroci. Ma è che sia la natura che la società è popolata di nefandezze. A me non mi incanta il cielo stellato di kantiana memoria, anzi, lo trovo irrisorio e usufritto, roba da fumagalli per chi ci crede.

Apprezzo questo tuo entrare con «le scarpe da sci» nel discorso poetico più scombiccherato e svagato che oggi si scrive in Italia… e quel modo auto ironico di citarti in seconda persona «Oh, Mayoor, sei tornato?», per poi infilare la risposta in modo indiretto «Avevo da finire un libro,/ aggiustare una tapparella. Metterci dei buchi», che non sai se sia derisoria o irrisoria o auto irrisoria. È questo tuo procedere per diradamenti e per evitamenti che più apprezzo, quel tuo modo di non-rispondere, di sottrarti al dovere di fornire una risposta come il celebre Mr. Bartleby lo scrivano, di Melville, che risponde sempre allo stesso modo a tutte le domande: «Preferirei di no», il che getta nella disperazione il suo datore di lavoro che lo interroga. Ecco, tu adotti la medesima strategia di sopravvivenza di Bartleby, ti sottrai al dovere, a qualsiasi dovere di dover rispondere dando comunque una risposta che però risulta inutilizzabile, evasiva, e, alla fin fine, eversiva… La verità è che dei «morti per virus corona» non gliene frega niente a nessuno, questa è la verità, quello che importa sono le quotazioni di borsa in crollo e la pecunia che non olet.

La tua poesia vuole sottrarsi a tutto ciò. Vuole sottrarsi ad ogni dovere. Ad ogni dovere di kantiana memoria. E in questa impresa temeraria mi sembra che riesca a comunicare al lettore quello che vorrebbe fargli capire: la profondissima disistima che noi abbiamo di noi stessi per accettare senza battere ciglio tutto quello che accettiamo senza mai colpo ferire, senza auto dichiararci tutti quanti dei pazzi che sbraitano in un grande manicomio l’un contro l’altro armati.

Lucio Mayoor Tosi

Caro Giorgio,

tento di scrivere una poesia immune dal senso di colpa. Non l’ho fatto io questo mondo, sono qui per ragioni personali che nulla hanno a che vedere con tutta quanta l’umanità. E non mi riguarda il “pensiero unico”, tendenzialmente presente anche nelle varie diramazioni ideologiche. Se provo disistima, ed è vero, è perché considero pazzesca la volontà di potenza, che tanti hanno perfino tratto dalla Bibbia. Da non credere, cose dell’altro mondo!
Poesie come quelle della Gualtieri, pubblicata ieri, del volemose-bene, non mi riguardano. Il “noi” giustifica sempre le nefandezze del mondo, e non ci mette al riparo da nulla. Se manca autenticità, a che vale essere volenterosi?
Non si può dire che la natura sia popolata da nefandezze: solo perché non ci asseconda nei desideri? Cerchiamo piuttosto di capirla, capirci, perché non ne siamo separati… e lì trovare equilibrio.
In mancanza di ideologia, viene meno anche il giudizio. In mancanza di desideri nessuno più resterebbe deluso. Riprendiamoci la ricchezza prodotta forsennatamente a prezzo della vita, e il tempo che ogni giorno ci viene sottratto. E liberiamoci dal lavoro. Amen.

 

Lucio Mayoor Tosi Sponde

[Lucio Mayoor Tosi, Polittico – Un polittico di tessere apparentemente innocue. Chi può dirlo? Tuttavia, queste tessere potrebbero nascondere qualcosa di non completamente innocuo] (g.l.)

Giorgio Linguaglossa

Relazione non significa identità

La nuova ontologia estetica è fondata sul Principio di relazione, in base al quale le Figure, le Icone, i luoghi della poiesis non vogliono ridurre il discorso poetico a discorso intorno alla identità di ciò che noi siamo ma come discorso intorno alla molteplicità e alla diversità di ciò che noi siamo diventati e continuamente siamo.

La forma-polittico è quella più idonea a raffigurare (cioè ridurre a Figura) la molteplicità del divenire. Alla base della «forma-polittico» non si dà più la forma di dominio sull’ente ma l’ente viene nominato senza l’intervento di alcuna forma di dominio su di esso. Nominare l’ente è il farlo venire alla presenza della visibilità della poiesis.

La scienza e l’arte dell’Occidente sono una forma di conoscenza che si è sviluppata nell’ambito dell’alienazione nichilistica dell’Occidente, utilizzando le categorie ontologiche sviluppate dall’epistéme greca.

Ponendosi come una forma di dominio, di potere sulla realtà, disposta a farsi dominare proprio in quanto diveniente («il senso greco del
divenire dell’ente rimane alla base della scienza moderna», «l’ontologia greca apre lo spazio della creatività e della distruttività estreme»),1 la scienza moderna si toglie la maschera, rivelando come tutti i suoi elementi,come «tutti gli elementi della nuova scienza siano già presenti nella filosofia e nella scienza greca» : l’affinità tra scienza e filosofia si manifesta soprattutto nel fatto che, nata nella modernità come una forma di sapere «che intende essere epistéme e anzi, spesso, l’epistéme autentica, in contrapposizione alle pretese epistemiche della filosofia», con il «tramonto dell’epistéme» in filosofia, anche la scienza «per rendere più radicale il proprio dominio sulle cose […] rinuncia ad essere verità definitiva e incontrovertibile»: «il tramonto dell’epistéme è un evento che non si manifesta soltanto nell’ambito del pensiero filosofico […] la filosofia, in quanto epistéme, è diventata infatti un poco alla volta il terreno, lo sfondo, l’atmosfera in cui sono andati via via manifestandosi i grandi fenomeni della storia dell’Occidente». 2

1 Severino E., Gli abitatori del tempo, p. 63.
Ivi, p. 66.
Ivi, p. 65.
2 Severino E., La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, cit., p. 283. 261

Adriana Gloria Marigo

concordo sulla tua affermazione “La relazione non significa identità”. Tuttavia nella relazione sono implicate le identità. Da questa implicazione sorge la complessità e la problematicità della relazione in quanto le identità si strutturano a livello psicologico filosofico culturale antropologico e in una percentuale di consapevolezza o inconsapevolezza tali da rendere la tramatura della relazione un processo perfettibile.
La tramatura della relazione consente il sorgere, inevitabile, dell’ontologia estetica: deve pur darsi un canone entro il quale esprimere il potenziale compresente delle identità che, in virtù della compresenza, perdono la distinzione e l’individualizzazione e si coniugano olisticamente, perdendosi così ogni forma di dominanza a favore di un oltre che, a mio avviso, si dà come metafisico.

Giorgio Linguaglossa

Les mots qui vont surgir savent de nous ce que nous ignorons d’eux.
(René Char, Chants de la Balandrane)

cara Adriana Gloria Marigo,

è l’inconscio che fa sì che accadano un «effetto di ritardo» e un «effetto anticipatorio» nella catena significante, effetti che si manifestano in un risultato di disallineamento fraseologico il cui prodotto finale è il discorso poetico minato al proprio interno da questa funzione ritardante o anticipatrice che lo renderebbe del tutto inidoneo alla significazione ordinaria o consuetudinaria. Il polittico è una costruzione di relazioni, di effetti ritardanti, anticipatori, di effetti di deviazione che prescindono da qualsiasi orditura di un senso stabilito. Ed è ovvio che una tale costruzione non corrisponda più ad un discorso poetico unilineare e unitemporale, ma ad una struttura a polittico multitemporale e multispaziale.

Infatti, la phoné è quello che dà il senso della peculiarità fenomenologica di continuità e di contiguità dei significanti fonici, che sembrano susseguirsi senza interruzioni, per disporsi in una successione unilineare e irreversibile. Ciò conferisce al soggetto la convinzione che lo sviluppo di un discorso non solo si manifesti linearmente, ma che si costituisca come tale linearmente, teleologicamente, fase dopo fase, astrazione dopo astrazione, come in una sorta di addizione progressiva. Questo sarebbe «il concetto linearistico della parola», che avrebbe indotto De Saussure ad affermare «l‟essenza temporale di ogni discorso».1

L‟idea di linguaggio, della costruzione da parte del soggetto di una proposizione con significato, per De Saussure, così come esposta nel Cours de linguistique générale, è proprio quella di una concatenazione progressiva di sintagmi e che è al contempo resa possibile dalla forma sensibile della temporalità lineare.
All’inizio del Corso, De Saussure elenca infatti i due principi sui quali deve fondarsi una scienza linguistica: il primo è l‟arbitrarietà del segno, il principio secondo il quale non vi è nessun rapporto di necessità fra una cosa e la parola usata per indicarla: il cane si può indicare benissimo con una parola diversa da “cane”, niente lo proibisce. Il secondo, invece, riguarda il significante che “essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo ed ha i caratteri che trae dal tempo:
a) rappresenta un‟estensione,
b) tale estensione è misurabile in una sola dimensione è una linea”.2

1 J. Derrida, De la grammatologie, Parigi, Minuit, 1967, a cura di G. Dalmasso, Della Grammatologia, Como,Jaca Book, 1969, p. 105.
81 Ivi., p. 105.
2 F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Parigi, Editions Payor, 1922, trad. It. di T.De Mauro, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1968, p. 88

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Dialoghi, Commenti e Interviste a Montale e a una studiosa di poesia del Novecento del 26 marzo 2019, Interventi di Ludwig Wittgenstein, Michel Meyer, Anna Ventura, Gino Rago, Mauro Pierno, Sabino Caronia, Giorgio Linguaglossa, 

Gif gambe camminano

Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 9:32

Il grande merito della NOE è quello di tentare un discorso importante con pochissimi mezzi economici,”Noi facciamo la politica della busta rivoltata”, diceva l’avvocato Nino Carloni, uno dei grandi fondatori della gloriosa Società dei Concerti aquilana, E Machiavelli: ”Della mia buona fede è prova la mia povertà”. Il terremoto aquilano ha provveduto a privarmi di un patrimonio immobiliare notevole, per cui oggi vivo a Montesilvano, in quelle che era una casa di vacanza. Però ho guadagnato il mare.

Gino Rago

Novecento poetico italiano/2

Una conversazione al Caffè Greco di Roma con una studiosa di poesia italiana

Domanda:

E’ possibile secondo i Suoi studi stabilire una data di nascita per il Novecento poetico italiano?

Risposta:

Sembra un paradosso, ma si può dire che la poesia italiana del ‘900 ha inizio nell’Ottocento

Domanda:

Può essere, mi perdoni, più precisa

Risposta:

Con i poeti italiani nati fra il 1880 e il 1890, da Saba, Campana e Gozzano a Palazzeschi e Ungaretti, appare del tutto evidente che la cosiddetta “opposizione” all’Ottocento in fondo continua a convivere con la continuità e con la ripresa ironico-sentimentale di forme ancora ottocentesche.

Domanda:

Perché, in che senso, questi poeti procedono allo stesso modo?

Risposta:

No. Possiamo dire che per un versante si procede per estremistica semplificazione alla abolizione della letterarietà tramandata, è il caso di Palazzeschi, ma anche di Ungaretti; per un altro versante invece si lavora a un assai ampio ed esibito, perfino esibito, riuso di quel linguaggio poetico già accettato e noto come linguaggio convenzionalmente poetico (di certo Saba e Gozzano, ma anche, sebbene parzialmente, Cardarelli e Sbarbaro).

Domanda:

Secondo Lei dove è possibile trovare le ragioni di queste due modalità di procedere

Risposta:

Non vi è dubbio che tutti i poeti italiani che hanno inventato la poesia novecentesca, lo ripeto, quelli nati negli anni ottanta dell’Ottocento, hanno iniziato a scrivere quando la scena letteraria e poetica era totalmente dominata da Pascoli e D’Annunzio, quando cioè all’inizio del Novecento Pascoli aveva 45 anni, essendo nato nel 1855, e D’Annunzio 37, essendo nato nel 1863.

Le dico di più, sia l’uno, Pascoli, sia l’altro, D’Annunzio, disponevano di una vastità di pubblico, di fama e di prestigio che nessun altro poeta riuscirà più a conquistare dopo di loro nella stessa misura.

Domanda:

Le ombre pascoliane e dannunziane sono durate a lungo

Risposta:

Sì, sono durate per lunghissimo tempo. Basti ricordare che ancora negli anni ’50 del Novecento era piuttosto raro che nelle scuole italiane si parlasse di Ungaretti e di Montale…

Domanda:

Perché secondo Lei, secondo gli studi da Lei condotti

Risposta:

Perché Ungaretti e Montale erano considerati dalla stragrande maggioranza degli insegnanti di quegli anni poeti astrusi, difficili, alla cui comprensione venivano richieste giustificazioni e/o premesse storico-ideologico-letterarie … “complesse”

Domanda:

La poesia moderna per imporsi e avere un pubblico ha dovuto aspettare a lungo

Risposta:

Anche quando le più giovani generazioni di poeti li consideravano superati per umanesimo virgiliano, Pascoli, per umanesimo superomistico, D’annunzio, ma sorpassati anche per quel macchinoso apparato formale di provenienza classicistica, Pascoli e D’Annunzio hanno continuato a occupare in lungo e in largo il Novecento poetico italiano.

Domanda:

Una spiegazione la troverei nei professori di allora, ai quali Pascoli e D’Annunzio piacevano entrambi

Risposta:

E’ vero, a quei professori piacevano entrambi perché in fondo Pascoli e D’Annunzio dimostravano che una tradizione secolare, millenaria, era ancora viva, non aveva subito interruzioni.

Ma non piacevano soltanto ai professori.

Pascoli e D’Annunzio piacevano anche ai ceti medio-bassi e medio-alti se non altro come modelli morali e ideologici.

Più precisamente, Pascoli arrivava alla piccola borghesia, alle donne, ai socialisti; D’Annunzio era invece preferito dagli snob, dai prefascisti, dai fascisti e da quelle che allora chiamavano “le femmine di lusso”.

E da poeta e scrittore prolifico, e precoce, D’Annunzio seppe tenere a lungo occupati critici come Praz, Borgese, Giacomo Debenedetti, prima di sparire sotto le rovine dello stesso “dannunzianesimo” (retorica, stile d’epoca, moda,sommerso dalle rovine della sua stessa creazione estetica…)

Domanda:

E il destino di Pascoli?

Risposta:

Il destino di Pascoli è stato diverso …

Dovrei tirare in ballo Giacomo Debenedetti e le lezioni che gli dedicò negli anni accademici 1953-’55, Cesare Garboli e anche Pasolini.

Ma oggi non ho tempo sufficiente per farlo,mi aspetta una tesista molto motivata, merita di essere curata… E’ già pronto il taxi per andare alla

Sapienza. E’ una tesi di laurea su Govoni…

eugenio montale 2

Giorgio Lingua Glossa 25 marzo 2019 alle 11:25

Dalla prefazione al Tractatus logico-filosoficus di Wittgenstein

Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è, dunque, un manuale –.

Conseguirebbe il suo fine se procurasse piacere ad almeno uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può).

Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […]

Se quest’opera ha un valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri saranno espressi. Quanto più si sia còlto nel segno. – Qui so d’essere rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente poiché la mia forza è ímpari al cómpito. Possa altri venire a far ciò meglio.

Invece, la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e irreversibile.

Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.

(L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, ed. it. a cura di A. Conte, Torino: 1998, pp. 23 sgg.)

*

Dalla prefazione alle Ricerche filosofiche:

I pensieri che pubblico nelle pagine seguenti costituiscono il precipitato di

ricerche filosofiche che mi hanno tenuto occupato negli ultimi sedici anni. Essi riguardano molti oggetti: il concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, i fondamenti della matematica, gli stati di coscienza, e altre cose ancora.

Ho messo giù tutti questi pensieri sotto forma di osservazioni, di brevi paragrafi.

Alcuni di essi sono disposti in lunghe catene e trattano il medesimo soggetto; alcuni altri cambiano bruscamente argomento, saltando da una ragione all’altra. – In principio era la mia intenzione di raccogliere tutte queste cose in un libro, la cui forma immaginavo di volta in volta diversa. Essenziale mi sembrava, in ogni caso, che i pensieri dovessero procedere da un soggetto all’altro secondo una successione naturale e continua.

Dopo diversi infelici tentativi di riunire in un tutto così fatto i risultati a cui ero

pervenuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio che potessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato di osservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. – E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni. –

Le osservazioni filosofiche contenute in questo libro sono, per così dire, una raccolta di schizzi paesistici, nati da queste lunghe e complicate scorribande.

Gli stessi (o quasi gli stessi) punti furono avvicinati, sempre di nuovo, da direzioni differenti, e sempre nuove immagini furono schizzate. Un gran numero di esse erano state abbozzate in malo molo, o non riuscivano a cogliere le caratteristiche del soggetto, contrassegnate com’erano da tutte le manchevolezze che rivelano il cattivo disegnatore. E quando le scartai ne rimasero un certo numero, riuscite a metà, che dovettero essere riordinate e spesso tagliate, in modo da poter dare all’osservatore un’immagine del paesaggio. – Così questo libro è davvero soltanto un album. […]

Per più d’una ragione quello che pubblico qui avrà punti di contatto con quello che altri oggi scrive. – Le mie osservazioni non portano nessun marchio di fabbrica che le contrassegni come mie – così non intendo avanzare alcuna pretesa sulla loro proprietà.

Le rendo pubbliche con sentimenti dubbiosi. Che a questo lavoro, nella sua

pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o in quel cervello, non è impossibile; ma che ciò avvenga non è certo probabile.

Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.

Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andato così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.

(Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino: 1999, pp. 3sgg.)

*

“Per una prefazione” (da un manoscritto)

Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto. […]

Infatti, se un libro è scritto per pochi soltanto, questo lo si vedrà proprio dal fatto che saranno in pochi a capirlo. Il libro deve operare automaticamente la separazione fra coloro che lo capiscono e coloro che non lo capiscono. […]

Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri.

(L. Wittgenstein, Pensieri diversi, ed. it. a c. di M. Ranchetti, Milano: 1980, pp. 24, sgg.)

Gino Rago

Novecento poetico italiano/3

Intervista immaginaria a Eugenio Montale

(su Ossi di seppia, 1925, e Le Occasioni, 1936)

Domanda:

Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale Lei ha dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me, ma per tutti i lettori di poesia, vorrei sentire il Suo parere …

Risposta:

Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché: Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.

Domanda:

Quale idea allora di poesia…

Risposta:

Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto … Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.

Domanda:

Già nel Suo primo libro poetico Ossi di seppia (1925) Lei mostrava insofferenza verso un modo italico di fare poesia.

Risposta:

Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza.

Domanda:

In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…

Risposta:

Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia … Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.

Domanda:

E su Le Occasioni

Risposta:

Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.

Domanda:

Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta …

Risposta:

Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.

Domanda:

A quale frutto Lei ha pensato per Le Occasioni

Risposta:

Le Occasioni… Erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello direi della musica profonda e della contemplazione.

Domanda:

Che ruolo attribuisce nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre

Risposta:

Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia, la chiami come vuole, dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42‘, forse le più libere che io abbia mai scritte ….

Domanda:

Su La Bufera e altro torniamo in un secondo momento, se Lei è d’accordo. Ora mi intriga di più sentire da Lei stesso, dalla Sua viva voce, cosa è successo alla Sua poesia, cosa si è verificato nel Suo fare poetico, dopo Satura

Visibilmente contrariato, Montale non risponde, si alza di scatto e mi indica la porta invitandomi a uscire…

Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 14:03

Caro Gino,

la tua intervista a Montale ha aspetti interessanti, suggerisce, anche, possibili ampliamenti, data la complessità dell’opera montaliana. Il tuo, intanto, è un buon inizio verso la riscoperta dei nostri maggiori poeti, spesso più famosi che letti, e spesso fraintesi. Su Montale c’è una lettura critica sterminata, talvolta anche fuorviante. Un caro saluto.

Gino Rago

25 marzo 2019 alle 16:46

Grazie carissima Anna. Aggregare intorno a un proprio lavoro del consenso e/o qualche scheggia di apprezzamento per chi scrive lo sai bene anche tu è davvero aria pura da bere a pieni polmoni. Se poi consenso e apprezzamento arrivano da una persona di valore come te, credimi, la gioia si raddoppia. Ma lo confesso:il catalizzatore in tutti questi anni di collaborazione a L’Ombra è stato il nostro Giorgio Linguaglossa…

Giorgio Linguaglossa 25 marzo 2019 alle 17:42

Non è affatto semplice né accessibile a tutti giungere ad una nuova forma-poesia. Io ho iniziato a cercare in tutte le direzioni dalla fine degli anni ottanta, infatti nei miei primi due libri: Uccelli (1992) e Paradiso (2000) le singole sezioni sono scritte con linguaggi lievemente differenti e con stilizzazioni diverse. Il fatto è che non mi sono mai fermato ad un linguaggio, ho sempre tentato di forzare il «muro» del linguaggio poetico per andare in territori linguistici sconosciuti.

Fare questo lavoro da soli è quasi impossibile ve l’assicuro, adesso che siamo in tanti e che le forze sono maggiori, l’impresa è meno ardua. Ci si confronta, si discute, si tentano delle cose che da soli sarebbe più difficile fare.

Ad esempio la poesia che ho postato sono quattro anni che la sottopongo a revisioni e a modifiche, magari di dettaglio, di alcuni dettagli… ma alla fine la somma dei dettagli è quella che fa la differenza. Le poesie che facciamo un po’ tutti quanti della NOE sono in realtà poesie-polittico, sono delle composizioni, non più poesie nel senso tradizionale, la composizione è per eccellenza una struttura aperta… mutagena…

Pasolini e Ungaretti

Gino Rago 26 marzo 2019 alle 8:54

Novecento poetico italiano/4

Brevissimo colloquio immaginario con Montale

(sull’esordio in poesia con Gobetti, l’identificazione con gli avversari)

Domanda:

Accantonando per ora l’autoritratto diciamo “trasposto” di Arsenio e il poemetto-monologo potremmo dire “raziocinante” de I limoni, ricordo che Lei esordisce in un momento problematico, difficile per la poesia

Risposta:

Sentivo di esordire in un clima e in un momento non facili per un poeta. Eravamo agli inizi degli anni ’20 del Novecento e si avvertiva la necessità di dover dare subito una idea forte del proprio stile e anche di se stessi.

Ma in me non ci fu mai una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in questo senso. In quegli anni quasi nessuno si occupava di poesia e l’ultimo successo in quei tempi di cui abbia ricordo fu Gozzano.

Domanda:

Gozzano… Ma gli spiriti forti di allora…

Risposta:

Ma gli spiriti forti di allora dicevano male di lui e (a torto) anche io ero di quel parere.

I letterati migliori di quegli anni, che presto si riunirono intorno alla Ronda, sostenevano che la poesia dovesse scriversi da quel momento in poi in prosa.

Né dimentico che pubblicati i miei primi versi nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti fui accolto con ironia dai miei pochi amici, già immersi nella politica e, dal più al meno, già antifascisti, verso il ’22- ’23.

Domanda:

Potremmo dedurne che difficoltà di situazione generale e insufficienza di fede nella autoidentificazione specializzata di poeta si sommano in coincidenza dei Suoi esordi in poesia

Risposta:

Deduzione pienamente corrispondente alla verità dei fatti. Includerei soltanto quella che la psicologia definisce “identificazione con l’aggressore”

Domanda:

Intuisco il senso di ciò che dice ma può per noi essere più chiaro?

Risposta:

Sulla “Identificazione con l’aggressore”?

Direi così: se gli altri tendono a fare della ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in generale, almeno per come è volgarmente, comunemente intesa…

Domanda:

Non riesco a nascondere il mio chiodo fisso… Satura, meglio il dopo Satura… Per la Sua poesia e per la poesia italiana del dopo Satura. A un cenno del capo di Montale entra nella stanza la Gina. Capisco e tolgo il disturbo. Continua a leggere

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ELOGIO DELLA LENTEZZA, Poesie di Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura, Mauro Pierno – Testi e citazioni di Jean-Pierre Siméon, Arthur Schopenhauer, Ernest Hemingway, Baltasar Gracián y Morales, Alejandra Pizarnik, Milan Kundera, Ludwig Wittgenstein, Roberto Cotroneo, Plutarco, Steven Grieco Rathgeb, Osip Mandel’štam – a cura di Giorgio Linguaglossa

Una poesia di Lucio Mayoor Tosi

Nautilus

Le parole che ci dicemmo e quelle
rivolte al finestrino. La famiglia numerosa
di aironi che d’improvviso prese il volo.
Non so se spaventa l’automobile futurista,
oppure sono i pensieri. Quei due
che passano.

Rosetta col pensiero di morire proprio qui
nel vicolo. L’animo sulla ghiaia.
Pensieri che vanno in aria allacciati con altri;
alcuni indietreggiano, poi tornano decorati
di crisantemi.

Non per me, che ho da scrivere una storia:
di lei e suo marito, dentro il bicchiere capovolto.
Casa di vetro, con giardino. Il cane Buf
che non mi può vedere. Rosetta gli dice
Buf, smettila!

Ma è come non ci fosse nessuno.
Le cose sembrano ferme, perché chissà
quale distanza le separa. Anni e anni luce
aggrappati agli attaccapanni, tra le maniche
delle giacche. Qualche inverno da noi,
di macchie e rattoppi.

Chi scendeva e saliva le scale, già qui
prima di arrivare. E andarsene lentamente.
(Devo ricordarmi di comprare i croccantini,
solo pollo, per il gatto di Rosetta. Dicono
che non è morta. E’ al ricovero).

Fa paura il tempo quando passa.
In fotografia la vestaglia di felpa. Cento,
duecento vestaglie. Estate e inverno,
Rosetta e suo marito ancora giovani,
le stanze da pitturare.

Dipingo un segno sui muri, viola che va oltre,
dietro le spalle, nell’ombra futura. Da qui
a qui. Non ha senso, Rosetta. Niente ha senso.
La scatola dei profumi – Ride. I profumi!
– Sa, io aspettai centinaia d’anni prima di nascere.
Ho rischiato di finire in una nidiata di topolini
di campagna. Tanto mi piacevano. Ti sentono.
Anche se arrivi invisibile.

– A lei questo non può succedere, facile
che sia stato ucciso dai bolscevichi. Anzi, lo so.
Quando? Alle tre del pomeriggio. Non ricorda
le foglie, quel turbine di vento?
Si guardi.  – Io sono vecchia, ho smesso di guardarmi.
Allora le scarpe. E’ comunque così che doveva andare.
C’è risentimento.

Scende dal naso una goccia di mare.
Morire è inutile. Faccio le valige. Fingo di metterci
qualcosa. Recito la vita. Entro, esco. Chiudo la porta.
Calpesto l’erba che infesta a primavera.
Il tempo fa questo e altro. Ci butto l’acqua sporca
dei pavimenti, con la candeggina. Qui è pieno
di pensieri. Nessuno li toglie.

Io per questo scrivo invisibile, una storia
silenziosa. Capovolta. Col giardino, il cane Buf.
Annessi e connessi alla rete, Metro Linea 2.
L’infinito dentale. L’Arco della Pace a Milano.
Tutto e tutti con e senza cappello, le buone idee.
Un minuto di pioggia. Una scatoletta.

La picchi sul tavolo capovolta. Dai una passata
e guardi altrove. Lo stra-ba-dan dei vagoni.

Giorgio Linguaglossa

Lucio caro,
questa è una poesia eccezionale, c’è tutto di tutto e sei riuscito a metterci anche il nulla + nulla. Incredibile: più ci metti le cose più si crea e aumenta il nulla. Allora è vera la teoria di Erik Verlinde secondo il quale non c’è mai stato alcun big bang ma la materia viene creata continuamente dal nulla, solo che noi non ce ne accorgiamo. Dice più o meno così Verlinde, che quando la concentrazione della materia si rarefà e giunge ad un estremo di rarefazione, a quel punto si produce altra materia, compaiono delle cose che si chiamano particelle elementari. Così, anche la poesia ha i suoi tempi di maturazione, solo che non sono i poeti che lo decidono, è il Signor tempo che decide come e quando i tempi sono maturi per una nuova poesia. Quando la materia della poesia si rarefa fino ad un grado elevatissimo di rarefazione, allora compare all’improvviso la poesia. Semplicemente giunge a maturazione. È solo una questione di tempo. E allora noi dobbiamo fare un elogio della lentezza alla lentezza del tempo che ci guida e amministra le nostre proprietà, o quello che crediamo sia di nostra proprietà.

Anna Ventura

La noce  

Durante un concerto
si addormentarono tutti ;
anche i suonatori.
Quando si svegliarono ognuno
Guardò l’orologio e vide
Che erano passate tre ore,
ma nessuno osò confessare  la cosa
e tantomeno i sogni che aveva fatti.
Solo il bambino che aveva sognato
di essere una noce
lo disse alla mamma e lei
rispose che sogno più bello
mai era stato fatto.
Il mattino seguente
la donna che puliva la sala
trovò una noce
sotto a una poltrona
e se la mise in tasca.
Lì la trovò il suo bambino, la prese,
la mangiò e la trovò buonissima.
Quella noce fu l’unico pegno
Che il tempo lasciò per tre ore
Rubate a quei nobili spiriti
Raccolti nella conchiglia sonora
Di un caldo Auditorium,
fu l’unico oggetto
sottratto al mondo dei sogni
di un bambino da un altro bambino.

*

«Ciò che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare».1]

È questa l’aporia del linguaggio. La tautologia e la contraddizione mostrano che esse si trovano, convergono, nella metafora, la quale contiene in sé sia la tautologia (il non-identico è lo stesso che l’identico) che la contraddizione (il non-identico non è l’identico). Da ciò se ne può dedurre che nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, il lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile.

Talché voler estromettere la metafora dal discorso poetico è come voler aggiustare Procuste mettendolo sul letto di Procuste.

Il discorso poetico tende «naturalmente» alla metafora.

  1. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1979 p. 33

(Giorgio Linguaglossa)

Mauro Pierno   26 maggio 2018

Il bello è che le noci nella busta
aspettano tranquillamente.
Il loro morso è duro
soltanto all’inizio
poi le due metà perfette
in miniatura assemblano
un cervello. Nella crosta gremiscono
anche i pensieri
e per i più gourmet
evidentemente assaporabili.

Il profumo di un’idea la rende eterna.
La velocità atterra nella masticazione
il vento violento di una intuizione. Continua a leggere

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