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Maria Rosaria Madonna (1942-2002) Una poesia, La tassa per il soggiorno terreno, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, il viaggio nell’Oltretomba, il viaggio di Dante nell’Inferno, il viaggio verso l’Isola dei morti; c’è Caronte che richiede il pedaggio, ma il pedaggio viene pagato da un «signore vestito in abito scuro» con delle «patacche», con dei sesterzi manifestativamente «una moneta fuori corso», di qui la stupefazione della voce narrante (Maria Rosaria Madonna) che si chiede: colui che si appresta al viaggio vuole pagare con una «patacca»? È possibile pagare con una «moneta fuori corso»?

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Maria Rosaria Madonna (1942-2002)

(Poco prima dell’approdo all’Isola dei morti)
La tassa per il soggiorno terreno

«Se vengono a riscuotere la tassa
per il soggiorno terreno – disse

un signore vestito in abito scuro, “una specie di
esattore delle imposte”, pensai –

pagherò con questa moneta, con
una moneta fuori corso».

Era lì, sulla soglia della porta. E qui mi mostrò
un soldo antico, probabilmente un sesterzio

del quarto secolo dopo Cristo con l’effigie
di un imperatore romano sul verso

e una bilancia sul retro.
«Una lega d’argento con poco argento

e tanto metallo povero!»
chiosò con ironia il convenuto ammiccando…

– la fessura nel mento ebbe un sussulto –
«Vuol dire che pagherà con questa patacca?»

– chiesi allibita –
«Nient’affatto, intendo pagare con una moneta

stabile, la moneta dell’Impero,
perché stabilmente consegnata all’oblio»,

replicò l’interlocutore lisciandosi il mento
con un gesto sordido del pollice.

«Ma non era nei patti», tentai di obiettare.
«Appunto perché non era nei patti»,

rispose l’ombra alla mia destra
mentre svoltava lo stipite della porta d’ingresso

e si dileguava nella strada buia…

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nella poesia di Maria Rosaria Madonna abbiamo la tematica metafisica per eccellenza: il viaggio nell’Oltretomba, il viaggio di Dante nell’Inferno, il viaggio verso l’Isola dei morti; c’è Caronte che richiede il pedaggio, ma il pedaggio viene pagato da un «signore vestito in abito scuro» con delle «patacche», con dei sesterzi manifestativamente «una moneta fuori corso», di qui la stupefazione della voce narrante (Maria Rosaria Madonna) che si chiede: colui che si appresta al viaggio vuole pagare con una «patacca»?. È possibile pagare con una «moneta fuori corso»?, si chiede la voce narrante, cioè con la moneta della «falsa coscienza» come giustificazione?, chi è questo «signore vestito in abito scuro» che vuole gabbare Caronte? È un «signore» che si presenta sotto le sembianze di «una specie di esattore delle imposte», pensa la voce narrante. Così, ponendo questa semplice Domanda, Madonna stravolge e ribalta la convinzione teologica e politica che si possa arrivare all’Isola dei morti sbandierando la propria «falsa coscienza» come giustificazione delle malefatte compiute nell’esistenza storica. È questa la grande problematica che Maria Rosaria Madonna solleva: il giudizio sulle azioni della propria esistenza storica: ma la Domanda cade nel vuoto, nel vuoto di risposta della storia d’Italia e dell’Europa, perché è soltanto osservando retrospettivamente la storia d’Italia e dell’Europa che possiamo rintracciare la Risposta alla Domanda.
E la Domanda posta da Madonna è: È possibile fare poesia dopo la fine della metafisica? Come e con quale moneta pagare per il viaggio? E quale poesia è possibile scrivere dopo questo cataclisma che ci ha investito tutti? Domanda gigantesca di cui nessuno in Italia si è accorto e che Maria Rosaria Madonna lascia per coloro che verranno, cioè noi postumi abitatori del presente storico.
Si può allora vedere nella questione dell’evento il momento centrale di questo genere di poesia, una estrema radicalizzazione della problematica fenomenologica dell’apparire delle parole nel dis-ordine del discorso poetico; si tratta di un dis-ordine che squassa le parole e l’ordine del discorso e che investe la «giusta coscienza» secondo la quale giunti al termine della vita storica, abbiamo o no il diritto di pagare Caronte con una falsa moneta?, con una «patacca»?.
La Domanda di Madonna mette a nudo lo scollamento che è avvenuto tra la coscienza e le sue azioni, tra le parole e le azioni, tra le parole e le cose. Le parole diventano allora varie e eventuali, eventuali in quanto gratuite, varie in quanto arbitrarie. E allora non resta che fare poiesis con le parole arbitrarie e con le «patacche». Le «imago» sono strettamente intrecciate con il dialogo, le immagini sono dialogizzate, personalizzate tra il morto che chiede di entrare nell’Isola dei morti mediante una «patacca», mediante un raggiro, e i pensieri della poetessa che problematizzano il dialogo stesso. La bellezza della poesia è in questa idea di fare una poesia che consta di un dialogo metafisico che  Madonna trae ovviamente dalla Commedia dantesca. Una poesia anti-moderna per eccellenza questa di Madonna.
La parola la si trova nel registro basso. Nella poesia di Madonna è evidente che il registro basso ospita le sue domande; in Madonna il registro del triviale convive con il registro culto, il sublime ormai con i suoi connessi e le sue adiacenze è stato definitivamente estromesso dalla dicibilità dalla dizione poetica. Le parole di Madonna si presentano con il vestito consueto di tutti i giorni, ma in realtà sono nuove, risuonano al massimo del diapason.
La parola è evento e, insieme, il luogo nel quale si mostra l’evento. Come dire che l’evento è la parola che lo indica.
La parola ci guarda, ci osserva, sta lì da sempre, attende un nostro cenno, un cenno di accoglimento, ma c’è una resistenza (conscia e inconscia) che noi opponiamo con pervicacia e supponenza, la resistenza dell’inerzia del linguaggio condiviso, del linguaggio sociale, del linguaggio della normologia.
Allora dobbiamo chiederci: si dà un evento senza la parola che lo nomina? La risposta è NO. È la parola che chiama l’evento in quanto lo indica. È perché siamo «guardati» dall’evento che siamo anche «guidati», condotti dalla parola che non ci aspettavamo.

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942, Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con sedici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trovano adesso la luce le poesie di uno dei poeti di maggior talento del  Novecento italiano. Alcune sue poesie inedite sono apparse nella Antologia da me curata: Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016). Nel 2018, sempre con Progetto Cultura di Roma, esce Stige, Tutte le poesie (1990-2002).
(Giorgio Linguaglossa)

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Due poesie di Franco Fortini, Leggo versi di Sereni, Sopra questa pietra, Così si chiude un’epoca della poesia italiana, Che cos’è un dispositivo poietico?, La Phoné e il Logos, Satura di Eugenio Montale, Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa

Brancusi Signorina Pogany

Constantin Brancusi, Signorina Pogany

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Giorgio Linguaglossa

La Phoné e il Logos 

Dispositivi poietici e dispositivi politici sono solidali, hanno luogo nella medesima polis e presuppongono sempre una metafisica. L’articolazione originaria tra la Phoné (la voce che si toglie, viene meno e precipita nel negativo) e il Logos (il discorso articolato in un linguaggio), fonda la phoné come il negativo e il logos come positivo.
Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela una nuova metafisica. Una nuova «voce» può sorgere soltanto dal perire della vecchia «voce».
La dizione «voce senza linguaggio» significa questo emergere della voce nel e dal linguaggio, nel e dal linguaggio che sta emergendo. La «voce» è sempre alla ricerca del linguaggio più appropriato che possa ospitarla. Il linguaggio è la «casa» della «voce».
Quando la «voce» abbandona un linguaggio, ciò avviene perché quella «casa» è diventata inospitale: ci piove dai tetti, le finestre e le porte non chiudono bene alle intemperie e vi penetra il gelo d’inverno e la calura in estate. Allora, la «voce» deve abbandonare l’abitazione e si mette in viaggio alla ricerca di una nuova abitazione…
La poiesis è quell’ente per il quale ne va, nel suo esistere, del suo aver nome, del suo essere un fare nel linguaggio.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2021/02/15/inediti-di-mario-m-gabriele-lucio-mayoor-tosi-la-poesia-kitchen-pone-con-urgenza-il-problema-di-un-nuovo-rapporto-con-le-cose-e-per-farlo-assegna-altri-nomi-alle-cose-commenti-di-jaco/comment-page-1/#comment-72395

franco fortini_pier paolo pasolini

Che cos’è un dispositivo poietico?

Un dispositivo poietico è una costellazione di categorie retoriche ed ermeneutiche.
La poesia di Mario Gabriele e di Lucio Mayoor Tosi, e la poesia kitchen in generale, non può non recepire la riterritorializzazione del trash e del kitsch, prendere atto della spazzatura… non può non de-territorializzare, de-costruire, de-rottamare il già rottamato, il già costruito, il già territorializato, la spazzatura della cultura divenuta cultura del trash e del pacchiano.
Il genere lirico, il gusto euforbito ed eufonico è diventato trash e kitsch, pacchianeria dello spirito, furfanteria di manigoldi…

La poesia consapevole di oggi non può non riterritorializzare frammenti, tracce, orme, lessemi, impulsi, abreazioni, rammemorazioni, idiosincrasie, tic, vissuti, dimenticanze, obblivioni; attaccare post-it e segnalibri, segnali semaforici e somatizzazioni, pixel, trash, pseudo trash, codicilli… questo spetta all’arte, è compito dell’arte senza più voler sondare chissà quali profondità metafisiche; in fin dei conti tutte le tecniche sono parenti strette della Tecnica con la maiuscola che afferisce al Signor Capitale e ai suoi epifenomeni: gli esseri umani, gli acquirenti consumatori di merci. Il Capitale pensa, sa, ma l’arte ne è consapevole e dismette gli abiti di scena, adotta la strategia del camaleonte, si mimetizza tra gli oggetti, vuole essere un oggetto più oggetto di altri, da usare e gettare via; vuole essere un oggetto meno oggetto di altri, vuole essere un conglomerato di orme, di tracce di oggetti scomparsi, luminescenze, rifrazioni di oggetti sprofondati in chissà quale superficie…

Nel volume II/3 del progetto su Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, del 2008: oggetto dell’analisi è, qui, il paradigma del “giuramento” come luogo in cui si rende manifesto il dispositivo “veritativo” messo in campo da diritto e religione, che «sarebbero nati […] per cercare di legare le parole alle cose, per assicurare l’efficacia del linguaggio, per “vincolare, attraverso maledizioni e anatemi, il soggetto parlante al potere veritativo della sua parola”».*
Stante quanto sopra, appare evidente che nell’ambito della poiesis non si dia alcun «giuramento» di voler far coincidere le parole alle cose, qui il dispositivo veritativo non può che essere quello di scollegare, de-collegare il dispositivo veritativo tra le parole e le cose e di introdurre un altro dispositivo veritativo il cui compito precipuo sarebbe quello della istituzione della differenza tra le parole e le cose.

* G. Agamben, Homo sacer, p. 105

Due poesie di Franco Fortini.

Leggendo una poesia

Leggo versi di Sereni
per un amico che morì anni fa. Rammento
quel suo amico e la casa dov’era vissuto.

E quando Sereni ebbe accompagnato
al cimitero del Verano il corpo del suo amico
per l’autostrada oltre l’Appennino ritornò
fissando a uno a uno cinquecento chilometri
riflettendo a poco a poco
verso questa città
che oscilla nei mattini di sole sulle marcite.

Non ho mai capito gli altri né me stesso
ma il modo che ho di sbagliare questo sì. Se mi arriva
una verità è nel mezzo della fronte: è
un’accusa. Ragiono
senza comprendere. Mai sono dove credo.

Avrò parlato quel mattino
come l’idiota che so essere. Qualche bava
gaia avrò avuta alle labbra. Qualche sussidio
per la mia giornata fino a notte.
Per arrivare a passi torti fino a notte.
Incredulo Sereni mi guardava
offeso no ma stupefatto. Era seduto
al suo tavolo e negli occhi sanguinosi
gli duravano le grandi costruzioni della propria morte.

La cortesia e la grazia non so bene che siano.
Dentro questo autobus che ci trasferisce c’è tale un urlìo
che non permette di parlare
e nemmeno di tacere umanamente.

Mi è stato fatto non so quando un male.
Una ingiustizia strana e indecifrabile
mi ha reso stolto e forte per sempre.
Leggo i versi di Sereni per Nicolò Gallo
e scrivo ancora una volta parola per parola.
Non tutto allora è vero quello che ho detto sin qui.
Posso anche io intendere chi noi siamo.

(da Paesaggio con serpente, 1984)

Sopra questa pietra…

Sopra questa pietra
posso ora fermarmi. Dico alcune parole
nello spazio vuoto preciso.
Le grandi storie
tentennano in sonno, vacillano
nelle teche i crani
dei poeti sovrani.
L’enigma verde ride la sua promessa.

Olmi e oh vetrate di Trinity illuminatevi!
Ecco il fulmine di giugno.
Batte l’acqua gronde e guglie.
Lo spazio dei dilemmi è verde e vuoto.
Non può vedermi più nessuno qui, nessuno
mi farà mai più.

(da Composita solvantur, 1994)

Dall’84 al ’94 passano dieci anni durante i quali scompare un sotto genere della poesia italiana: la poesia in forma di missiva che si rivolge ad un altro poeta con il quale si è in interlocuzione. Qui Fortini che si rivolge a Vittorio Sereni.
Un genere o un sotto genere letterario scompare quando le condizioni storiche mutano e ne decretano la inanità. Qui a mutare sono state le condizioni storiche: quel tipo di interlocuzione tra letterati che adottano il mezzo poetico non ha più adepti, non interessa più a nessuno, tantomeno agli interessati. Infatti, la poesia italiana che è seguita a Composita solvantur non presenterà più la crisi della comunicazione tra due persone, tra due poeti, la crisi del conflitto tra due o più poetiche. La crisi delle poetiche non richiede più lo strumento poetico per la sua espressione, perché è la crisi delle poetiche a non fare più testo.
Le poetiche che verranno dopo il 1994 non sono più in crisi perché non ci saranno più poetiche in conflitto, ma soltanto poetiche personalistiche e posiziocentriche che hanno come obiettivo primario la competizione per la visibilità e l’auto storicizzazione.
Fortini ne è ben consapevole quando scrive malincomicamente:

«Dico alcune parole/ nello spazio vuoto preciso».

Così si chiude un’epoca della poesia italiana.

eugenio montale 05Gino Rago

cari Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Jacopo Ricciardi, Mario Gabriele vorrei porvi una domanda: anche noi della poetry kitchen siamo figli del dopo Satura?

Riflessione su Eugenio Montale, Satura

Satura, il quarto libro di Eugenio Montale , quindici anni dopo La bufera contribuì nel 1971 a dare alla voce del poeta una (sorprendente?) nuova fisionomia. Una novità costruita su due diversi movimenti:
– il primo, più breve, Xenia I e II, si fonda sulle emozioni legate alla scomparsa della moglie;
– il secondo, Satura I e II, si rifà alla “satura” latina, ed è articolato con caustica ironia nell’osservazione critica di una realtà in vistoso, travolgente mutamento.

Con Satura (1971) la poesia di Montale scende dai piani alti e si apre verso una colloquialità distante dalle metafore delle Occasioni (1939) e della Bufera (1956) attraverso una semplicità espressiva fino al 1971, e a Satura, estranea alle precedenti raccolte.

Lo stesso Montale scrive:« I primi tre libri, Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939), La Bufera e altro (1956), sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio».

Il taglio diaristico-narrativo, prosaico-quotidiano di Satura da un lato denota un poeta in grado di sapersi rinnovare profondamente, dall’altro indica la maturata sfiducia nel valore della poesia e nella capacità o possibilità dei poeti a giocare un ruolo decisivo, significativo nella società del dopo ‘68/ ’69: Montale non crede più né alla funzione diciamo salvifica della poesia, né alla idea della poesia come strumento rivelatore di verità, né alla poesia come folgorazione luminosa.

La negazione della poesia impone una nuova poetica, la poetica di chi è chiamato a vivere immerso nel caotico mondo della informazione, nel martellante uso della propaganda, nell’assedio degli oggetti e nella atroce morsura di sterco e di nafta del post alluvione di Firenze che con il pack dei mobili sommerse anche l’idea stessa di poesia.

Su certi aspetti essenziali di Satura e nel nuovo, comunicativo e colloquiale percorso di Montale anche Giorgio Linguaglossa coglie nel dimesso e quotidiano lessico montaliano sia il tono basso che avvolge e coinvolge la figura di Drusilla Tanzi, come moglie, come donna, come guida e come compagna, sia la tendenza di Montale a creare un’ opera strutturata e strutturante che avrebbe influenzato tutta la poesia del dopo Satura per una Weltanschauung ironica e pessimistica nello stesso tempo, e che è valida in tutti i tempi.

Scrive Giulio Ferroni: «In Satura II, insieme a spunti polemici, ritornano con maggiore insistenza oggetti, situazioni, figure del passato: nell’attrito con un presente vuoto di senso e pieno di rumori, di parole, di rottami, questo passato si stempera in un succedersi di segni grigi», con lo stesso Montale che in Intervista immaginaria scrive:
«Non sono sicuro che il mondo esista, che la materia esista, che io esista».

*
Eugenio Montale
XENIA I

Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.

4
Avevamo studiato per l’aldilà
Un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
Che tutti siamo già morti

5
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

9.
Ascoltare era il solo modo di vedere.
Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco.

14.
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa

eugenio montale 2

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

Montale con Satura (1971) fonda una soggettività discorsiva che si ri-forma come confessione e, altre volte, come monologia nell’atto di porsi-di-fronte a quell’apertura muta, nera, come un black hole che è la Storia, gli eventi della Storia. Montale dimentica, o fa finta di dimenticare, la relazione tra monologia e eterologia e riduce tuta la questione in monologia e monolinguismo. Da questo punto di vista «chiude», non «apre» la poesia italiana.

Quello che fa Montale è una poesia rinunciataria, certo di gran classe come nessuno dei suoi contemporanei era capace di fare, fa una poesia in discesa e di pianura. Montale abbandona la «visione tragica» che lo aveva accompagnato e ispirato da Ossi di seppia (1925) a La Bufera e altro (1956). Pasolini lo bollò: «teppista borghese frequentatore di Grand Hotel». La poesia di Montale diventa monologica, cripto-monologica. Ci si confessa? A chi ci si confessa? – Se si assume la «confessione» come forma poetica dispositiva, come fa Montale, si va a finire dritti nel Foro interiore, e l’elegia rammemorativa ne è la conseguenza in sede poetica. Un risultato conservatore perché prolunga il monolinguismo fino ai suoi esiti ultimi proprio mentre il tardo Zanzotto giunge alla schizoafasia dei suoi ultimi libri degli anni novanta.

In un certo senso, tutta la poesia italiana post-Satura è anche post-montaliana (Zanzotto da questo punto di vista è un epifenomeno), appunto perché sceglie di andare, inconsapevolmente, in discesa, verso una modernizzazione del monolinguismo. A furia di derubricare la poiesis si giunge al monolinguismo del minimalismo romano-lombardo, che pure era qualcosa di decente alle origini.
Oggi siamo arrivati, dopo lunghi decenni di normologia monolinguistica appena modernizzata con innesti lessicali e di derubricazione della forma-poesia, alla poesia auto rappresentativa, in cui i poeti si auto celebrano, si auto rappresentano e si auto storicizzano.

La poetry kitchen che nasce intorno al 2020, e che prosegue la ricerca quinquennale di una nuova ontologia estetica, segna un cambio di paradigma. Ha fatto i conti con la poesia post-montaliana e l’ha messa da parte. Ha fatto i conti con le poetiche autocelebrative del tardo novecento e di questi due ultimi lustri. Non una discontinuità, di più, contrassegna una poesia che vuole misurarsi con le grandi problematiche del nostro tempo, fa una poesia in «salita», rinuncia e denuncia le scorciatoie, adotta un rapporto dialettico e conflittuale con la Storia e con il nuovo mondo globale, bandisce il ritorno all’elegia e all’io ipofisario, all’io rammemorante.
Dimenticavo la cosa più importante: la poetry kitchen annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro.

Giorgio Linguaglossa giacca bluGiorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.

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gino-rago-in-grigioGino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa.. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.

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Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

Alfredo de Palchi

Domanda: Chi è il poeta Alfredo de Palchi?

Risposta: Alfredo de Palchi è nato a Legnago (Verona) il 13 dicembre, 1926, e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italiano residente negli U.S.A., a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua individualità stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento e di questi anni. Il suo primo libro, Sessioni con l’analista, esce in Italia nel 1967, con Mondadori, grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni; poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è ancora tutto da spiegare, un destino davvero singolare ma non difficile da decifrare. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione, (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri delle celle durante la detenzione del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo. Estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica degli anni che seguiranno la seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza letteraria italiana, per di più il giovane poeta era visto con estremo sospetto per via della sua scelta di affiliazione, ancorché giovanissimo, tra le file della Repubblica di Salò.

Laboratorio 5 zagaroli

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Perché una monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi?

Risposta: Perché Alfredo de Palchi è un poeta asintomatico e che non è possibile irreggimentare in una corrente o una scuola o una linea correntizia della poesia italiana del Novecento. E poi direi che il maledettismo di de Palchi non è nulla di letterario, non è costruito sui libri ma è stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana fu colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non è stata mai compresa in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini di schieramento politico-letterario. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neoavanguardia, la poesia di de Palchi venne messa in sordina come «minore» e «laterale» e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso e segnato. Finita in fuorigioco, chiusa dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava, e risulta ancor oggi, incomprensibile e indigesta alle istituzioni poetiche nazionali, era una fattura stilistica e poetica troppo dissimile da quella letterariamente riconoscibile della tradizione secondo novecentesca. Quella particolare «identità», quella convergenza parallela di vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di estraneità alla tradizione italiana. Probabilmente, la poesia di de Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica «europea», come espressione adiacente alla poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie. Diciamo, con una formula eufemistica, che quel manufatto era allora «oggettivamente» indisponente e indigeribile da parte della società letteraria del tempo. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia «migliore» di quella di Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci.

Laboratorio gezim e altri

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Pensi che oggi i tempi siano maturi per una rilettura priva di pregiudizi ideologici della poesia di de Palchi?

Risposta: Oggi, ritengo che i tempi siano maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo», per citare una dizione di Brodskij, da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano. Per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” da Pasolini nel 1963 perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo; questo almeno nelle intenzioni di Pasolini, artefice di quella operazione. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile» per motivi politici e di politica estetica, e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo e con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione storico-estetica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Domanda: Un capitolo della tua monografia è denominato «L’anello mancante della poesia del Novecento italiano». Vuoi spiegarci che cosa significa e perché questo titolo?

Risposta: La dizione non è mia ma di Luigi Fontanella che l’ha coniata per primo, che ritengo fortunata ed azzeccata. L’esperienza poetica del de Palchi di Sessioni con l’analista (1967) è centrale per comprendere la diversità esistenziale e stilistica della sua poesia nel contesto della poesia italiana del secondo Novecento, la irriducibilità di una esperienza poetica legata a doppio filo con la sua esperienza biografica e umana. Se si salta la poesia di de Palchi non si capisce nulla della poesia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. È incredibile, a confronto con la poesia depalchiana la poesia che si faceva in Italia non ha nessun punto di contatto, sembra quella di un marziano che scriva sul pianeta Marte.

Domanda: Una dichiarazione di sfiducia totale per le opere di storicizzazione.

Risposta: Sfiducia totale.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo de Palchi

Domanda:  I sei anni di carcerazione preventiva subita dal diciottenne Alfredo de Palchi con l’accusa infamante di omicidio di un partigiano, sono anni di letture intensissime da parte del giovanissimo poeta. Scrive Luigi Fontanella:

«Gli anni nel penitenziario di Procida, duri e vessatori da un lato, ma assai ricchi di letture, di stimoli e fantasie letterarie. de Palchi divora una montagna di libri che vertiginosamente (ma anche con diligente intento cronologico) vanno dalla Bibbia, Dante (specialmente quello delle rime petrose) e Cavalcanti, fino ai moderni e contemporanei, passando attraverso qualche rinascimentale, per arrivare, appunto, ai vari Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Quasimodo, Ungaretti, Montale,  l’amatissimo Cardarelli (su cui, sempre in carcere,  scriverà un breve saggio che, inviato a Cardarelli in persona, a quel tempo direttore della ‘Fiera Letteraria’, uscì su questa rivista,  suscitando scalpore e un certo dibattito),  fino ai suoi,  quasi coevi,  maestri o ‘fratelli’ maggiori: Sinisgalli, Sereni, Caproni, Erba, Zanzotto, Cattafi. Dalla lett(eratu)ra italiana passa poi a quella francese, non importa se – a quel tempo – con scarsa conoscenza di questa lingua, venendo conquistato in particolare da François Villon (non pochi eserghi tratti da questo poeta verranno poi utilizzati da de Palchi), Charles Baudelaire, Gerard de Nerval e, su tutti, Arthur Rimbaud».

Risposta: Il discorso poetico di de Palchi ha preso congedo dalle «fondamenta» pascoliane della poesia italiana del Novecento. Pascoli e D’Annunzio sono saltati di netto. È il primo poeta italiano del secondo Novecento che si libera anzitempo della zavorra stilistica pascoliana e dannunziana. In tal senso, è il poeta più realista del Novecento.

Laboratorio 4 Nuovi

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: E questo ai tuoi occhi è un distinguo importante?

Risposta: Nella mia visione dello sviluppo della poesia del Novecento questo è un punto decisivo.

Domanda: Torniamo agli anni Sessanta Settanta. Qual è a tuo avviso il distinguo dell’esperienza poetica di de Palchi rispetto alle coeve esperienze poetiche che in quegli anni si facevano in Italia?

Risposta: Nel libro, ho scritto: «Alfredo de Palchi sterza vigorosamente dalla poesia di impianto simbolistico-auratico del primo periodo montaliano, da una poesia meramente fonetico-musicale della tradizione lirica italiana dove l’io si auto conserva entro l’impianto dell’alienazione dell’«io» e del «corpo», per aderire ad una poesia dell’immaginario e della internalizzazione degli oggetti; fa una poesia afonetica, amusicale, anti auratica, fantasmatica non inscritta in alcun pentagramma melodico tonale. Un po’ in consonanza con quello che avveniva nella musica di avanguardia degli anni Sessanta da Giacinto Scelsi, John Cage a Luciano Berio, a Morton Feldman che apriranno nuove prospettive alla musica contemporanea». Non mi sembra cosa di poco conto.

Domanda: La poesia di Alfredo de Palchi come esempio di un nuovo tipo di realismo?

Risposta. Direi che non ci possono essere dubbi in proposito. Nel libro scrivo:

«Leggiamo alcuni sprazzi di «materia poetica» di de Palchi all’argento vivo, da «Un ricordo del ’45» in Sessioni con l’analista (1967):

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
[…]
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

Si tratta della poesia che ha consumato la più alta capacità di combustibile dagli anni del dopo guerra, un veicolo ad altissimo dispendio energetico, che non conosce il principio del risparmio di carburante, che va allo scontro frontale con l’entropia delle scritture detritiche dello sperimentalismo in auge negli anni Cinquanta e Sessanta, attraversa i decenni con una incredibile fedeltà alla propria intuizione stilistica ed arriva all’epoca della stagnazione stilistica e spirituale dei giorni nostri sempre con l’allegria del naufragio prossimo venturo».

Laboratorio quattro

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

ALFREDO DE PALCHI COVER GRIGIADomanda: Hai scritto nella monografia:  “Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo de Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967». Ritieni questo un punto qualificante della esperienza poetica di de Palchi?”

Risposta: Lo ritengo un punto assolutamente qualificante.

Domanda: Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore».

Risposta: Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

Domanda: So  che hai letto l’ultimo libro inedito di de Palchi Eventi terminali. Che cosa mi puoi dire su questo lavoro?

Risposta: Siamo circondati dalle parole-chat: radio, televisione, internet, giornali, riviste di intrattenimento e di nicchia, simil-poesie in plastica, miliardi di parole che sciamano con un ronzio inquietante e imperioso nella nostra mente. Anche le opere letterarie sono promulgate in parole chat. Purtroppo non abbiamo altra scelta che credere fermamente in una utopia: che soltanto una grande letteratura può bucare la rarefatta atmosfera fatta di sciami di parole insulse, inutili e perniciose. Le parole sono importanti per mantenere viva e vigile la coscienza estetica di una comunità nazionale. La decadenza delle parole di un popolo è l’indice del progressivo sfacelo di un paese e di una lingua. Una lingua è una precisa concezione del mondo e una immagine della identità di una comunità linguistica. Modificando le parole cambia la lingua, muta la concezione del mondo di quella lingua e muta l’immagine riflessa della identità di una comunità.  Il senso dell’identità dell’io è una costruzione linguistica e, come insegnava Lacan,  quello che per un soggetto è il significante non coincide con quello che per il medesimo soggetto è il significato; tra significante e significato si apre una voragine. Quando l’identità di una nazione è in crisi, si offusca anche il linguaggio dei suoi poeti migliori; de Palchi con quest’ultimo lavoro inedito, Eventi terminali, avverte, come per telepatia, la grande crisi del paese Italia, e la traduce in una scrittura anche sgrammaticata, sforbiciata ma di forsennato vigore. Una scrittura che vuole bucare il linguaggio poetico maggioritario dei nostri giorni, e lo buca a suo modo, con una forza effrattiva che lascia sgomenti. È un linguaggio testamentario che qui ha luogo: de Palchi ritorna, ossessivamente, ai luoghi e ai fatti della sua prima giovinezza, deturpati e violentati, prende per il bavero il più grande poeta italiano del novecento: Eugenio Montale e lo irride mettendo a confronto la edulcorata scrittura letteraria del poeta ligure con la propria irriflessa e istintiva. È l’ultimo atto testamentario del poeta Alfredo de Palchi.

In senso teleologico, il critico ideale è il lettore ideale. Comprendere l’«esperienza» che le parole di un poeta ci offre, questo è il compito del lettore ideale e quindi del critico. Abito del critico è la dichiarazione di valore letterario di un testo. A volte, non basta il primo incontro con un testo; di frequente il lettore vigile ritorna a riflettere sull’opera. Legge e rilegge la stessa opera, magari a distanza di anni. La riflessione è il primo stadio del processo di comprensione ma, inevitabilmente, in ogni atto di lettura è implicita una valutazione. Il lettore ideale si dovrà chiedere: a chi si rivolge quest’opera? Da dove proviene? In quali rapporti sta con le altre opere sue contemporanee? Come si colloca a fronte delle opere del passato? Come si colloca nel panorama del  contemporaneo? Cos’è che rende importante un’opera nei confronti di un’altra? Qual è il rapporto che collega un’opera ad altre contemporanee? Il giudizio critico implica sempre una collocazione non solo dell’opera ma anche del lettore ideale. Ma un giudizio critico è sempre «aperto», non può essere «chiuso», altrimenti sarebbe un dogma teologico; nel giudizio rientra la ricerca del confronto con altri giudizi; ciò a cui il lettore ideale tende è un confronto con altri lettori che lo induca a riesaminare il precedente giudizio. Paradossalmente, il critico ha bisogno, più del poeta o dello scrittore, del confronto con un pubblico. Senza di esso, l’atto della lettura critica diventa un responso soggettivo. Credo che debba esistere nell’ambito della comunità una élite di lettori intelligenti in vista di un accordo sul giudizio estetico. Privo del supporto con un pubblico intelligente, il lavoro del lettore ideale diventa un fatto utopico, al pari di quello del critico. In fin dei conti, anche la scrittura di un critico è un atto testamentario, al pari di quello del poeta.

Quando una società non dispone di una letteratura in salute, l’esercizio dell’attività critica risulta dimidiata e offuscata, la comunità dorme il suo sonno ontologico. La stessa democrazia è in pericolo. La valutazione delle «cose pubbliche» della comunità non è cosa diversa e distinta dalla valutazione delle «cose private» qual è un  libro di poesia.

La difesa di un libro di poesia ha a che fare con la difesa della democrazia. Occuparsi di un’opera di poesia, difendere un buon libro di poesia, un autore è dunque un esercizio altamente «politico», è un atto da cittadino della polis, un atto che ha a che fare con la libertà individuale e collettiva. È, in definitiva, un atto pubblico.

Domanda: Un’ultima domanda, pensi che sia utile in quest’epoca di grande confusione in materia di poesia scrivere una monografia critica su un poeta vivente?

Risposta: Sono fermamente convinto che nella attuale situazione di confusione indotta dei valori poetici sia indispensabile proporre delle monografie critiche sui poeti veramente significativi. 

Laboratorio lilla

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Alfredo de Palchi, Poesie
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
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Sangiuliano (Giuliano Santangeli), Da Belli a Pasolini: L’antilingua della poesia di Giuseppe Gioacchino Belli (Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863) come epica e denuncia paradossale della Roma papalina

Gioacchino Belli

Il fatto che Dante, nel suo De vulgari eloquentia, già definisse come tristiloquium la parlata romana, quando era appena sconcio del latino e non aveva ancora maturato quegli elementi fonici e lessicali che poi ne avrebbero stigmatizzato il carattere ruvido e burbanzoso per cui non riuscì mai lingua regionale, probabilmente indica che il Poeta si riferisse a effetti della pronuncia, della cadenza e della recitazione, che erano specchio di un’originaria e ben evidenziata disposizione della plebe romana. Questo essenziale aspetto della lingua restò sempre emblematico dell’ambiente, vieppiù perfezionandosi nel tempo, accolto e tramandato in letteratura in modi e a scopi molto differenti, fra i quali qui vogliamo considerare, per peculiari analogie d’intenti e di procedimenti d’ordine estetico, quelli che si rilevano nei testi del Belli e di Pierpaolo Pasolini, che, a distanza di un secolo l’un dall’altro, scrivono, in sostanziale continuità di simpatia e di raffigurazione, di una lingua e una gente che son tutt’uno, non avendo la gente altro che la lingua come mezzo di azione e, di conseguenza, come prova – o illusione – di identità. Procediamo a un confronto.

La definitiva valorizzazione del Belli, finalmente poeta etico e civile, con fatica sottratto a un’inveterata lettura da preti e goliardi sperimentata come piacere occulto e masturbatorio, ha fatto sì che ormai se ne possa esporre l’immagine completa e a tutto tondo, senza gli equivoci che nel passato hanno contribuito a sacrificarla con purghe, messe all’indice e un più o meno conscio ma sempre inopportuno pudore critico.
Se infatti per tutto il periodo dei papi-re (nel caso Cappellari e Mastai Ferretti) le ragioni dell’emarginazione e della riduzione del Belli a poetastro comico e licenzioso (l’autore dei Sonetti, naturalmente) si scorgono ben nette nei contenuti (per la denuncia aperta di una tirannide quanto mai scellerata e in cattiva fede poiché spacciata in nome e in grazia di Dio) e al tempo stesso nella provocazione di forme dissacranti, volgari e oscene, nel tempo che corre dal 1870 alla pubblicazione degli studi di Giorgio Vigolo nel 1952, non sono i motivi politici del passato a isolare l’autore, ma il lessico procace e perentorio che ormai da tutti viene considerato necessario ad un dire che esprime il genio e il severo rigore intellettuale di un artista di altissima qualità.

Nel Belli tutto è lingua, tutto si brucia per divenire magma originario di materia verbale, dotato di forza ostensiva immediata e diretta di una realtà barbarica cui somiglia, e al contempo si fa canto galoppante, martellamento ritmico su bronzo che attrae la psiche allo stadio precoscienziale, ai primordi indistinti delle passioni, a un pathos ineludibile di natura che solo l’arte attinge e governa in modo da renderlo leggibile alla coscienza. E l’intenzione esplicita del poeta ci mostra il parlare prescelto in funzione esclusiva, scartando sia qualunque forma ufficiale che ogni altra meno sconcia modalità, non solo come mezzi insufficienti a una resa adeguata, ma anche e soprattutto come strumenti di vera e propria, odiosa contraffazione, ingannevoli “a priori” se utilizzati rispetto alla specifica esigenza di fare un monumento alla plebe romana, in cui la plebe stessa si presentasse e si specchiasse fino all’orrore di sé.

Il Belli vuole esporre, non commentare, ed espone la plebe esponendo lingua, la lingua più rozza possibile che si trovi a testimoniare la vita di un genere umano che la possa parlare (o meglio si direbbe tirare addosso, vomitare, sputare e via discorrendo): una registrazione della natura come sarebbe il verso di un animale, l’eco roca di un rantolo, di un respiro, filato in versi che, nella cadenza etnica endecasillaba del parlare romano, paiono giustapporsi, farsi da soli. E un parlare di classe, non un dialetto dovuto a qualche “pattern “ culturale come i tanti vernacoli che hanno il crisma di un comune sentire municipale, e in questo ricorso a una lingua che non è sua, e in quanto tale meglio predisposta a trasformarsi in pura materia sonora nelle mani al poeta, il Belli agisce in una posizione che deve ritenersi privilegiata, maneggiando in funzione significante le parole così come uno scultore lavora il marmo in forme compatte e continue, libero dunque – il Belli – dalle ipoteche che gravano sull’uso del dialetto come «lingua del cuore».

Per tale valenza la lingua speciale del Belli, sconciata due volte rispetto ad un italiano onde si generava, per corruzione, quel dialetto ben poco individuato, come corpo linguistico strutturato, che a Roma si poteva considerare un fiorentino messo in bocca romana (data la forte toscanizzazione subita dal dialetto urbano medio), si definisce meglio come antilingua, espressione felice che è stata usata, nel libro Belli epico e popolare (Roma 1980), da un trascurato quanto eccellente studioso: Raniero Sabarini, accompagnato, almeno nella firma, dal fidato sodale Fiorenzo Nappo.

Se fu Giorgio Vigolo il primo ad aprire la strada ad una lettura adeguata del nostro poeta, fondando tante ipotesi successive che variamente avrebbero messo in luce la tempestività storica e la sensibilità etica in cui si compongono tutte le ambivalenze e le ansie personali dello scrittore, fu Sabarini l’ultimo a sviscerare, con novità e sapore di argomenti, seguendo la traccia lasciata da Carlo Muscetta, gli aspetti che fanno del Belli un autore europeo e rivoluzionario di gran rilievo, ideale continuatore della letteratura democratica dell’illuminismo, precursore dello straniamento di Brecht e dell’ironia di Hasek, frequentatore di una comicità intrinseca all’impiego dell’antilingua, con risultati di critica complessiva della cultura e dell’ideologia: specillando nel corpo dell’antilingua, Sabarini si mostra, come già il Belli, biclasse e bilingue per via di speciale empatia, in quella condizione unica e sola che permette di entrare con competenza all’interno di un dire paradossale, di un fare linguistico tutto performativo, imagine sonora di un ambiente che non si può annunciare in altro modo, perché altro non ha che l’interiezione – di cui l’imprecazione è una variante – per avvisare della sua sofferenza, che nella fattispecie sostituisce – o, se paia più giusto, costituisce – esistenza e presenza.

Che cos’è l’antilingua? L’opposto della lingua, evidentemente; e, come questa serve a veicolare valori organici sedimentati e condivisi in una società, attraversandone tutte le classi in un continuum culturale omogeneo, così quella serve a negarli, a rappresentare solo stati umorali, che inevitabilmente sono estremi, aggressivi e amari, latori di cinismo e istinto animale, risarciti soltanto da tutti i gradi del sarcasmo e l’osceno, lo spazio vitale del comico che accompagna la continua denuncia come unica reazione esistenziale a forze minacciose incontrollabili. La lingua copre vizi e difende interessi che la plebe non ha; I’antilingua è la prova, la stessa voce della disperazione e del dolore, un rantolo superbo, rassegnato ma mai riducibile a qualche consenso genuino.

Quest’antilingua, dunque, non è un dialetto (né perciò è autore dialettale il Belli), ma – si è detto – è una voce, raccolta dal poeta come folclore (di tipo urbano – è chiaro – e del tutto alieno da ogni visione romantica del fenomeno), nel modo in cui da altri si è proceduto a inventariare il canto popolare, quello più puro, senza età né autore, e spesso senza luogo o testo certo, che dilata all’intero mondo dei vinti le verità intuite nell’ignoranza. Non per nulla lo stesso Gioacchino Belli definì la favella del suo poema idioma romanesco e non romano, idiotismo continuo, effetto di abnorme sconciatura, deformazione instabile e arbitraria fermata solo nella registrazione della pagina scritta. Così, catturata la fluida e incisiva parlata dei luoghi più sordidi e ignobili della città, è in grado di esibire una sua “figura “ in cui convergono potentemente significato e significante: le descrizioni sono dirette e corpose, i giudizi sommari, espressi con nettezza e brevità, convenzioni e finzioni sono aggredite dall’irruzione dell’oscenità e dell’irriverenza più’ volgari che rompono le attese precipitando l’ascoltatore verso uno straniamento in grado di condurre al contatto intimo con la realtà sottesa alle parole; e d’altro canto dure allitterazioni, amalgami serrati e vigorosi di sibilanti e . suoni rotacizzati con effetti aspri e rochi, in traduzione acustica degli ambienti e degli umori guasti della città, dove pur “antivive” la maggior parte degli abitanti, i malestanti dell’Urbe. Di tale figura si può indovinare il colore: un livido grigio diffuso, talvolta avvivato da lampi sanguigni evocati indirettamente, soprattutto da vesti e da processioni (mettiamo il rosso che c’è in “cardinale “). Sono toni barbarici, primordiali, con rimandi all’inconscio e, in definitiva, epici e popolari – si diceva -, intendendosi l’epica in quella forma capovolta e istintiva attinente a gruppi che vivono senza essere mai soggetti della propria avventura, anche per ciò avvertita come sventura.

Tutto questo, che è frutto d’arte squisita, si potrebbe riuscire a verificare in qualunque sonetto, ma forse nessuno sarebbe efficace allo scopo quanto il seguente, che si riferisce alla prima delle manifestazioni sanfediste organizzate in risposta ai moti popolari liberali del 12 febbraio 1831: circa quattromila pezzenti furono fatti scendere, il giorno 21, dal quartiere Monti a piazza San Pietro, concedendo a una loro rappresentanza di trasportare in processione il papa. Il sonetto – per dirla con Sabarini – con un semplice elenco di soprannomi e una terzina che ne mostra un gesto, si fa ad un tempo «compiuto trattato di storia, di sociologia e di psicologia politica collettiva»:

UNO MEJJO DELL’ANTRO (n. 379, 27 gennaio 1832)

Miodine, Checcaccio, Gurgurnella,
Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto,
Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella,
Palagrossa, Codone, Merluzzetto,

Cacaritto, Ciosciò, Sgorgio, Trippella,
Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto,
Puntattacchi, Freggnone, Gammardella,
Sciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto,

Manfredonio, Chichì, Chiappa, Picozza
Grillo, Chiodo, Tribbuzzio, Spaccarapa,
Fregassecco, er Ruffiano e Mastr’Ingozza.

Cuesti sò li cristiani, sora crapa,
C’a Ssampietro stacconno la carozza,
E se portonno in priscissione er Papa. Continua a leggere

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Torquato Tasso (1544-1595) tra tardo Rinascimento e Novecento: incidenza poetica critica. A cura di Franco Di Carlo

 

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Torquato Tasso

La «polemica» che prese l’avvio (a proposito della Liberata e del Furioso) quando Tasso era ancora in vita e poi continuò anche in pieno Seicento fino ad arrivare alle aspre e negative Considerazioni al Tasso di Galilei (di cui lamenta la povertà concettuale, la ridondanza, l’eccessiva favolosità), ci dà l’esatta dimensione delle alterne e contrastate vicende cui fu sottoposta la «fortuna», critica e non, del Tasso. La sua opera e la sua vita hanno destato un interesse che, dal Manso al Solerti, fino all’agiografia romantica alle indagini positivistiche (Lombroso) e psicologiche (tra secondo Ottocento e prima metà del Novecento), è stato ininterrotto e via via sempre crescente: si va quindi dai limitativi giudizi di T. Campanella nella Poetica (in volgare), di cui lamenta l’evidente calco omerico, l’adulazione sfrenata verso i potenti, i fregi ornamentali di uno scrittore troppo incline al «sublime», al «lassismo» anti-ariostesco del primo Seicento al barocchismo enfatico del Marino (Adone) al controllato classicismo «eorico» del Chiabrera (Gotiade); dalle «imitazioni» tassesche di Gerolamo Oraziani e Francesco Bracciolini al melismo morbido e rarefatto del Metastasio, all’infelice e velleitario «intrigo» del Goldoni della commedia in versi T. Tasso, al tragico lassismo di Alfieri e, suo tramite, a quello, «omerico» di Foscolo; dal lassismo idillico-arcadico (Buccolica) ed «epico»-preromantico (La ragione) di G. Meli, al culto che ne fece il Leopardi (l’«amore» e il «nulla» dell’Angelo Mai, il poeta vittima della sua grandezza e disperazione nel Dialogo di T. Tasso e del suo Genio familiare; gli archetipi onomatologici di «Silvia» e «Nerina» desunti dall’Aminta); dalla «stroncatura» del Manzoni all’epos nazionalistico di T. Grossi (I Lombardi alla prima crociata) allo spirito drammatico del «giovane» De Sanctis autore della tragedia T. Tasso; dal classicismo mitico-cosmogonico del Monti della Bellezza dell’universo all’eroica sublimità del Carducci dell’ode Alla città di Ferrara; dai dialettali Porta e Belli a Andrea Maffei, col suo Tasso elegiaco-nostalgico della canzone Alla malinconia (posto accanto a Petrarca, Milton e Bellini), alle letture tassiane, vicino ad altri «classici» quali Dante, Petrarca, Ariosto, Monti e Manzoni, emergenti nella formazione letteraria di Verga (oltre che di R. Fucini); dal «dramma storico» di Paolo Giacometti al misterioso pathos simbolico-etico-religioso del Graf di «Morte regina» e «Lo specchio» (in Medusa). E in area novecentesca: dal rovesciamento antieroico e smitizzante del Gozzano della Signorina Felicita, al lirismo virgiliano e biblico-barocco dei tassiani «Cori di Didone» e «Recitativo di Palinuro» dell’Ungaretti della Terra Promessa; dal sostanziale «silenzio» di Montale (che gli preferisce il laico-immanentistico razionalismo naturalistico ariostesco), alla melica «arcadica» di certo Parronchi; dall’«epica» quotidianizzata del Caproni de «I lamenti» (in Passaggio d’Enea) alla riqualificazione «classicistica» della «maniera» operata dal Fortini di «Imitazione del Tasso» (in Poesia e errore), all’espansione citazionistica in funzione dissacratoria (Tasso è messo accanto a Rimbaud, Rilke, Mallarmé) attuata dallo «sperimentale» Gramigna (1)

Ludovico Ariosto

Ludovico Ariosto

Per non parlare poi degli echi, delle influenze, delle riletture, delle riprese, delle suggestioni dell’opera di Tasso operanti nella letteratura europea dalla fine del Cinquecento in poi: basti citare il petrarchista e manierista Philippe Desportes, il marinista Georges de Scudéry, lo scrittore dalmata Giovanni Gondola (autore di drammi pastorali e del poema epico Osman); il «travestimento» del «Gottifredo» attuato da Carlo Assonica; il romanzesco-cavalleresco-pastorale Honoré d’Urfé (Astrée), e poi Montaigne, quindi Rousseau (col mito «pre-romantico» di un mondo «naturale» e «senza leggi»); il tentativo del poema epico-nazionale (Enriadé) di Voltaire; il «georgico» e immaginative-descrittivo Jacques Delille; Chateaubriand e Stendhal.

E vogliamo ricordare ancora: il languido e sognante Edmund Spenser della Regina delle fate; lo Shakespeare «lirico» e del Sogno di una notte di mezza estate; il poema cosmologico-religioso di John Milton (Paradiso perduto), John Dryden, William Collins, fino a Byron (il poeta-genio-martire-eroe-vittima); Lope de Vega (Gerusalemme conquistata, 1608), Cervantes e Calderón, Góngora, fino ad arrivare ad Espronceda; Cristobal de Mesa e Duarte Diaz; l’olandese Joost Van den Vendei (traduttore della Liberata); Klopstock (col poema religioso Messìade), Ch. M. Wieland (col poema cavalieresco in ottave Oberon), sino a giungere al passionale dramma del «dolore» del Goethe «weimariano»: T. Tasso, con il contrasto tra idealismo (l’arte e l’umanità stravolta del Tasso uomo-poeta) e realismo (la grettezza, l’invidia, l’ipocrisia, l’iniquità della vita di corte che impedisce la passione d’amore), e il cui finale (il Tasso solo e «bandito e scacciato come un mendicante», col suo «grido di dolore», la sua «parola nel lutto», la sua «pena», il suo «tormento», il senso di un totale «naufragare») fa da tramite alla «lettura» ideologico-esistenziale e insieme lirica di Tasso, compiuta dal diciottenne Kafka all’ultima classe (1900-1901) di Liceo. (2)

Il Seicento fu un secolo per eccellenza «tassesco»: il suo pre-barocchismo fece considerare Tasso un poeta «moderno»: Paolo Beni (1607, 1612, 1616), in nome di una totale libertà e autonomia dal classicismo mimetico-imitativo, lo giudica non solo superiore ad Ariosto, ma addirittura a Omero e Virgilio, allo stesso modo di Udeno Nisiely (1695) (Benedetto Fioretti); mentre Traiano Boccalini (in Ragguagli di Parnaso, 1612-13) e Alessandro Tassoni (in Pensieri diversi, 1647) ne evidenziano la modernità in contrapposizione alla « pedanteria » rinascimentale.

Nella seconda metà del secolo Nicolas Boileau (L’arte poétique, 1674) già prelude, con la sua estetica del «buon gusto», dell’ordine razionale e evidente, del «buon senso» (il rifiuto degli eccessi, del preziosismo «ornato», dell’«orpello»: il similoro, il falso brillante – clinquant – tipico del ricercato stile tassesco), mediatore il padre gesuita Dominique Bouhours (Maniera di ben pensare nelle opere dello spirito, 1689, con l’accusa di formalismo e concettismo), al problema critico del Tasso nel Settecento, con la sua polemica nei confronti della cultura letteraria francese, concernente il valore delle due civiltà letterarie. Di qui l’orgoglio nazionalistico che spinge il Muratori (e l’Orsi) a «difendere» Tasso, il suo «mirabile artifizio», le sue metafore, la sua «poeticità» fantastica di fronte anche all’ariostismo omerico e grecizzante di un Gravina: basti pensare, inoltre, alla predilezione per la Gerusalemme (rispetto all’Orlando) da parte di Metastasio, per la sua tensione all’«ordine», al «sistema», all’«esattezza» e alla precisione; all’abate A. Conti (1756), sull’episodicità «frammentaria» della Liberata rispetto alla perfetta architettura dell’Aminta; o, di contro, a S. Maffei (1723), sull’«eroicità» drammatica, lo stile alto e tragico del Torrismondo; o anche a S. Bettinelli, sulla «prosasticità» e la «cantabilità» delle ottave tassesche (sulla scia del Rousseau tassofilo della Lettre sur la musique).

Concilio di Trento 1545-1563

Concilio Di Trento

Modello per il poema epico-nazionale dell’Henriade, il Tasso di Voltaire (nell’Essai sur la poesie épique, 1728) esprime un esempio di «gusto» poetico tipicamente «italiano» (e quindi difficilmente imitabile, sopra tutto nella «cartesiana» Francia, per il suo «spirito geometrico»), vario, sfumato, e insieme sostenuto, ma anche concettoso, sillogistico, soprattutto nelle parti dedicate, nella Liberata, alle rappresentazioni, scenografie e pratiche religiose.

La «sistemazione» critica (con la distinzione, già presente nel Crescimbeni e poi ripresa dal Tiraboschi, tra «genere» epico e romanzesco, con un Tasso «virgiliano» e insieme lirico-elegiaco rispetto all’Ariosto «poeta ovidiano»), attuata nelle interpretazioni settecentesche, in realtà, tramite il  pre-romantico» Cesarotti (che, per la sua «convenienza» e la sua poesia colta e decorosa e non-primitiva, pone il Tasso vicino a Virgilio, Petrarca e Racine, di fronte invece ad un Ariosto posto accanto a Omero, Dante, Milton e Corneille), ci porta direttamente nell’area più specifica del Romanticismo, europeo e italiano.

La critica romantica, da Schlegel a Quinet, da Hegel al Sismondi, oltre a inquadrare storicamente il problema del rapporto di Tasso con i suoi tempi e lo sviluppo della letteratura nazionale, ne evidenzia la liricità e l’individualità del «sentimento» (Schlegel); se Hegel ne sottolinea l’epicità non-originaria né «ingenua» né «primitiva» (Omero), ma culturale, riflessa e artefatta, imitativa, e quindi l’incapacità di esprimere gli alti ideali etico-religiosi dello «spirito» nazionale italiano; Quinet mette in luce lo scarto tra mondo intenzionale e resa espressiva diretta, tra volontà e sentimento, mentre Sismondi ne fa l’emblema della grave «crisi» politica e ideologica, morale del Rinascimento. Il Tasso perseguitato e infelice, martire vittima ereditato da Goethe, influenzò la cultura letteraria romantica: si pensi al Tasso-genio sofferente e incompreso ma eroico e titanico di Byron; all’«eloquenza» patetica e non-contemplativa, «malinconica» e «sentimentale», all’eccessiva sensibilità che rende privo di «interesse», disarmonico (anche sul piano stilistico-formale) il poema nazionale e cristiano tentato dal Tasso, che caratterizza la posizione del Leopardi dello Zibaldone; al Tasso poeta dell’«immaginazione» e delle «consonanze troppo eclatanti» e mollemente addolcite, della Staèl; al pateticismo melodrammatico tassesco non congeniale alla sottile ironia del Manzoni teorico e critico del Romanticismo e del romanzo storico.

Ma è con Foscolo e De Sanctis che il problema critico del Tasso «romantico» evidenzia i suoi caratteri più originali e innovativi: mentre il poeta dei Sepolcri dipinge un Tasso epico, eroico, «tragico» e insieme «lirico», religiosamente teso al «sublime», all’unità del pensiero poetante, tra impeto passionale-patetico e melodia dello stile (vario, chiaroscurale e nel contempo «armonico»); il De Sanctis della Storia della letteratura italiana approfondisce l’opera di Tasso come riflesso della «decadenza» morale e civile (e del gusto) dell’Italia tra Rinascimento e Controriforma, paganesimo sensualistico e sofferta religiosità (evidenziata anche dal Gioberti del Primato, che alla Liberata preferisce l‘Aminta), che il poeta tenta di riscattare in un’autonoma ispirazione fantastica, idillico-elegiaco-musicale, ma che rivela totalmente la sua natura «malata».

Poeta moderno e della « discordia » è il Tasso di Carducci, spirito eroico e sensuale, inquieto e nostalgico, poetico e mistico, cavalieresco e religioso, erede di Dante e del Medioevo scolastico e insieme teso (come nel Mondo creato) verso la «trasfigurazione». E l’interpretazione carducciana («Tasso gentile e sofferente cavaliere», come nota il Varese) (3), non ha mancato di influenzare quello che rappresentò il primo grande tentativo di esaminare l’«universo » tassiano: E. Donadoni vede nel Tasso l’uomo-poeta di sogno, di sentimento e di tragedia, vittima del suo genio: l’indagine di Donadoni, di carattere e matrice romantico-moralistica, mette in rilievo la religiosità solo esteriore e formale, cerimoniale, del Tasso, il suo egocentrismo, la brama eroica di gloria, il titanismo, il sensualismo, il lirismo espresso in particolare nei personaggi protagonisti (soprattutto Annida e Solimano) della Liberata. Un ritratto psicologico e umano, oltre che artistico, quello del Donadoni, che fa di Tasso il «poeta puro preso fra sincerità e retorica, fra poetica del grandioso e fondo idillico-elegiaco, fra storia e rifugio poetico » (W. Binni), tensione all’unità e al «parlar disgiunto», nervosità dell’eloquio.

conciclio di trento controriformaL’individualità e l’organicità dell’opera tassesca, al di là di qualsiasi tentativo di incasellarla in angusti àmbiti storico-politici (il rapporto con la Controriforma), è d’altra parte rilevata dal Croce che vede in Tasso il simbolo di una liricità non frammentaria ma cosmica, totalizzante, e insieme soggettiva, tragica, che si esprime nella Liberata, più che nella letterarietà ingegnosa e ricercata della maggior parte delle Rime, e che sa armonizzare in unità una sincera religiosità, epicità e voluttà. Sulla scia crociana (e desanctisiana) è da collocare il ritratto di Tasso «lirico» fornitoci dal Momigliano: l’attenzione per l’indefinito, lo sfumato, l’elegia e la sensuosa e pomposa scenografia, la «serietà» della sua religiosità; dal Flora; Finitima coesione tra eroicità e musicalità, la «serena sensualità», il pathos religioso; il mito della parola, l’unità sentimentale presente anche nei madrigali e nelle liriche, la nostalgica elegia musicale, la fusione tra senso dell’amore e della morte; e dal Russo (il sentimento del «patetico»), dal Sapegno (unità strutturale e drammatica del poema epico-religioso tassesco).

La critica del Novecento, insomma, si può condensare, in un triplice ordine di interventi: superare l’immagine tradizionale del Tasso perseguitato dal Potere e dall’Inquisizione, del poeta-martire-eroe-vittima, del poeta schizofrenico e «malato» d’origine positivistica; rivalutare la produzione poetica di più accentuata ispirazione religiosa dell’ultimo Tasso (da F. Orestano a G. Petrocchi a U. Bosco) e il suo «esistenzialismo» (Ulrich Leo); e infine stabilire più esatte lezioni testuali ed analisi filologicamente strutturate: dal Battaglia (sulla dissoluzione della forma rinascimentale e l’innovativa poesia tassiana nel clima del tardo Cinquecento); a R.M. Ruggieri e M. Vitale (entrambi sulla «polemica» linguistica sorta intorno alla Liberata, per le sue forme etimologiche, i latinismi e lombardismi); da M. Fubini (studio estetico e non semplicemente tecnicistico, della metrica e del lessico tassesco) a F. Chiappelli e W. Moretti (sul linguaggio e la tecnica del Tasso epico) ad A. Jenni (sullo «sfumato» tassesco); da A. Di Benedetto (sulla elaborazione stilistico-formale della Conquistata) a G. Devoto (esame storico-diacronico della «lingua» del Tasso); da G. Aquilecchia a E. Raimondi e R. Barilli (sul Tasso prosatore e teorico-critico).

Si è quindi evidenziato il rapporto profondo esistentetra il particolare «manierismo» (R. Scrivano, F. Ulivi, M. Praz, C. Ossola, fino a risalire a G. Hocke e A. Hauser) di Tasso, le arti figurative (G.C. Argan) e la musica di Monteverdi e Gesualdo (L. Ronga, F. Abbiati), nonché i legami della sua poesia e poetica con la cultura letteraria e la storia del tardo Rinascimento (E. Bonora, E. Mazzali). D’altra parte si è voluto rilevare il suo «melismo» (C. Calcaterra), l‘epos teatrale e scenografico (C. Varese, B.T. Sozzi, G. lorio, M, Pieri, R. Scrivano, G. Da Pozzo), la «sapienzialità» (Paolo Luparia), la tipologia demoniaco-infernale e «celestiale» (G. Baldassarri) del «meraviglioso» e «magico» tasseschi (B.T. Sozzi), la geografia fisica e morale (S. Zatti), spazio-temporale e topologico-funzionale (G. Genot) del «mondo» di Tasso; il suo «goticismo» romanzesco (G. Resta), la sua epopea trionfalistica e vittimistica (Ch. Baudoin).

Ma è con le analisi di L. Garetti e sopra tutto di G. Getto che l’opera tassiana, infine, viene finalmente interpretata e indagata nella sua originale e nel contempo filologicamente organizzata unità di ispirazione e nei suoi rapporti con le tensioni ideologico-letterarie, estetiche ed etico-religiose del suo tempo. Se, infatti, il Garetti, attraverso lo studio delle varianti e un’analisi di tipo filologico-storico riconosce e ricostruisce lo svolgimento artistico-espressivo del Tasso alla luce del legame con la sua epoca e dello sviluppo interno alla sua ispirazione, in relazione con la sua reale «situazione» storico-morale (il suo «bifrontismo» spirituale ed espressivo); il Getto, attraverso una rigorosa analisi testuale dell’intera opera di Tasso (dalle Lettere al Mondo creato), segue la diacronia operativa e creativa oltre che biografica ed esistenziale del poeta, offrendo, in una prospettiva di carattere storico-culturale, le «condizioni» (psicologiche, ambientali, letterarie, stilistiche, umane, inferiori) in cui venne alla luce la vis espressiva del poeta della Liberata, del « filosofo » dei Dialoghi, del teorico dei Discorsi, del poeta lirico ed epico-religioso, encomiastico e idillico e controriformista, tragico, platonico e aristotelico, accademico e devozionale, lucreziano e dantesco, il cui momento fondamentale di unità dialettica, e non-sincretica, va ricercato nel contrasto ossimorico vita-illusioni, realtà-sogno, Corte-viaggi, Accademia-pazzia (4).

(1) Sugli echi tasseschi in Leopardi e Ungaretti, Caproni e Parronchi, ci sia permesso rinviare, rispettivamente, agli interventi di F. Di Carlo, Ungaretti e Leopardi, Roma, Bulzoni, 1979, passim; Letteratura e ideologia dell’ermetismo, Foggia, Ed. Bastogi, 1981, passim.

(2) Cfr. Klaus Wagenbach, Kafka. Biografia della giovinezza (1958), Torino, Einaudi, 1972, pp. 52-53 e p. 60. Sulla « fortuna » di Tasso, cfr. G. Getto, Malinconia di T. Tasso, cit., passim e la voce Tasso nel Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Torino, UTET,  1973, pp. 462-63, con ulteriori suggerimenti bibliografici a p. 465 (n.e., 1987); M. Guglielminetti, in Introduzione a T. Tasso, Gerusalemme liberata, cit., pp. XXX1V-XLI; il volume collettaneo *T. Tasso, Milano, Marzorati, 1957 (in particolare gli interventi di E. Siciliano, G.M. Bestini, B. Tecchi, R. Pollak, e sopra tutto M. PRAZ); U. Bosco, L’uomo-poeta dei romantici, in Aspetti del Romanticismo, Roma, Cremonese, 1942 e la voce Tasso, in Enciclopedia Italiana, cit. (con indicazioni bibliografiche, p. 317) e B.T. Sozzi, La fortuna letteraria del Tasso, in « Studi tassiani », IV, 1954. Si rimanda, inoltre, per ulteriori approfondimenti, alla Bibliografia curata da L. Caretti, in T. Tasso, Gerusalemme liberata, Milano, Mondadori, 1983, p. LXXXVII, e a W. Moretti, T. Tasso, cit., pp. 678-80. Si pensi, infine, alle riprese dal Mondo creato da parte di A. Acevedo (Creación del mundo), Gaspare Murtola (Delia Creazione del Mondò), Felice Passero (Essamerone) e Giuseppe Girolamo Sememi (Mondo creato).

(3) Cfr. C. Varese, T. Tasso, in *IClassici italiani nella storia della critica, diretta da W. BINNI, Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 575.

(4) Cfr. F. Di Carlo, Filosofia e Teologia nell’opera di T. Tasso, in “Nuovi orientamenti”, n. 14, nov. 1989 e Id. T. Tasso, Milano, Mursia, 1990.

Franco Di Carlo con G. Linguaglossa, 2017

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismoil romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria(1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) 

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Franco Fortini (1917-1994), L’ultimo poeta storico del novecento. Analisi di una sezione di Composita solvantur, Sette Canzonette, (1994). Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: Lettura nostalgico-utopica della crisi del soggetto e della cultura umanistica. Il manierismo è una forma indebolita del soggetto forte

 

Redazione-Officina Pasolini e Franco Fortini, due scomodi compagni di strada

redazione di “Officina”, Fortini e Pasolini, due scomodi compagni di strada

 Franco Fortini, pseudonimo dello scrittore Franco Lattes (Firenze 1917 – Milano 1994); rifugiatosi durante la guerra, per ragioni razziali, in Svizzera, partecipò alla Resistenza in Val d’Ossola. La sua opera poetica, nata all’insegna dell’ermetismo, riuscì negli anni a conferire alla scontrosa severità di una ispirazione civile e politica una classica misura: Foglio di via e altri versi (1946); Una facile allegoria (1954); la raccolta complessiva Poesia ed errore, 1937-1957 (1959); Una volta per sempre (1963); Questo muro (1973); l’altra complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 (1978); Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983 (1984). Rare le sue prove narrative: Agonia di Natale (1948; col tit. Giovanni e le mani, 1972); Sere in Valdossola (1963); La cena delle ceneri (1988). Nel ruolo di coscienza inquieta degli intellettuali di sinistra, dai tempi del Politecnico di Vittorini, del quale fu redattore, fino ai Quaderni piacentini, F. costituì un sicuro punto di riferimento per le giovani generazioni, applicando l’intelligenza penetrante del saggista a temi non soltanto letterarî ma anche politici e culturali: Dieci inverni: 1947-1957 (1959); Verifica dei poteri (1965); I cani del Sinai (1967); Ventiquattro voci (1969); Saggi italiani (1974); Questioni di frontiera (1977); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990). Tradusse Proust, Éluard, Brecht e Goethe; una sua raccolta di traduzioni apparve con il titolo Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982). Del 1990 è l’ampia silloge di Versi scelti: 1939-1989, in cui F. riunì il meglio della sua produzione poetica. Si devono inoltre ricordare la raccolta degli scritti in versi e in prosa di carattere epigrammatico e satirico (L’ospite ingrato: primo e secondo, 1985), il recupero di due racconti rimasti a lungo inediti (La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, 1988) e alcune raccolte di saggi (Nuovi saggi italiani, 1987; Non solo oggi: cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, 1991; Attraverso Pasolini, 1993). Nel 1994 apparve il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur. Numerose le pubblicazioni postume, a partire dal volumetto di Poesie inedite (1997, già apparso in edizione fuori commercio nel 1995), curato da P. V. Mengaldo. Sono seguiti: Breve secondo Novecento (1996; nuova ed. 1998); i due volumi di Disobbedienze (1º vol. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985, 1997; 2º vol., Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, 1998); i quattro studi raccolti in Dialoghi col Tasso (a cura di P. V. Mengaldo e D. Santarone, 1999); Il dolore della Verità: Maggiani incontra Fortini (a cura di E. Risso, 2000), un’intervista del 1983 allo scrittore M. Maggiani; le conversazioni radiofoniche del 1991 pubblicate col titolo Le rose dell’abisso: dialoghi sui classici italiani (a cura di D. Santarone, 2000).

eugenio montale 05

con “Satura” (1971) la poesia italiana prenderà un’altra strada…

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Mi è stato chiesto spesso, e se lo è chiesto anche Alfonso Berardinelli, «Quando comincia il novecento? Quando finisce?». Ecco, quando inizia io non saprei dire, forse con l’affondamento del Titanic, avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, un fatto simbolico che irradierà la sua luce sinistra su tutto il secolo, però so con precisione quando finisce il novecento, almeno quello italiano. Il secolo finisce nel 1994, anno di pubblicazione di Composita solvantur di Franco Fortini. Dopo di allora, si apre il sipario del Dopo il Moderno, entriamo nel nuovo secolo. L’ultimo «soggetto forte» della poesia italiana viene meno, Fortini muore nel 1994, anno di pubblicazione del suo libro. Dopo di allora la poesia italiana subirà l’invasione del «soggetto debole», di una soggettità che ha lasciato gli ormeggi della tradizione (concetto da intendersi come «tradizione critica»), cioè di qualcosa di fondato, di stabile su cui fare in ogni caso riferimento. Dopo il 1994 la poesia italiana subirà una liberalizzazione della forma e dei linguaggi, un fenomeno eclatante che però la poesia italiana delle nuove generazioni non sarà in grado di esperire come atto critico, che si accetterà come un dato di partenza, un dato inconfutabile basato su una superstizione acriticamente posta.

Torniamo per un momento all’ultimo poeta «storico», cioè ancorato storicamente nel novecento: Franco Fortini. Lo stile di questa sezione, «Sette Canzonette», lo stile da canzonette, è riconoscibile, il metro è breve come si confà alle «canzonette»; le rime, quando ci sono, sono riconoscibili, hanno la funzione di «ricordare» e di ricordarsi di ricordare, quindi le rime hanno una funzione non solo mnemonica o di mnemotecnica ma anche una funzione «storica» perché ci collegano ad una tradizione entro la quale soltanto quelle rime e quelle strofe acquistano un senso. La poesia di Franco Fortini ci vuole ricordare che la poesia la si deve leggere come un segmento di una tradizione; al di fuori della tradizione la poesia resta inerte e inerme, è una scrittura priva di senso, e anche di significato.

Il manierismo di queste «canzonette» è sia una strategia di difesa (come è già stato notato da un critico) che di offesa, rappresenta un monito e un richiamo, un ripiegamento a posizioni stilisticamente minori, più arretrate, per poter sferrare un nuovo attacco (stilistico) quando i tempi saranno migliori, magari all’improvviso e alle spalle del nemico di classe quando il capitale meno se l’aspetta. Il manierismo di Fortini è ben diverso e di statura infinitamente superiore al manierismo del minimalismo di queste ultime decadi il quale è privo di spessore storico, privo di collegamento con la tradizione, ammicca al mediatico, alla cronaca, allude a una immediata riconoscibilità ed è politicamente neutro, se non apologetico oltre che esteticamente di nullo valore.

La differenza tra una poesia della tradizione del novecento e quelle degli autori venuti dopo l’eclisse della tradizione novecentesca è che queste ultime non si inseriscono, non fanno parte integrante della tradizione del novecento, nel migliore dei casi sono «scritture private», narcisisticamente imbonite, indirizzate ad un uditorio o, nel migliore dei casi, alle funzioni degli uffici stampa. Ma è chiaro che qui stiamo parlando di manufatti dattilografati (si diceva una volta) che non hanno alcun significato «pubblico», perché sia chiaro una volta per tutte, la «poesia» è una scrittura pubblica diretta ad un pubblico, magari a venire, ma sempre un pubblico.

Fortini opera una lettura nostalgico-utopica della crisi del soggetto «forte» e della cultura umanistica,

 resta fedele ad un concetto riappropriativo della tradizione umanistica, considera ancora possibile, anzi, doveroso riproporre la centralità del soggetto quale ago della bilancia, periscopio critico della disgregazione della società capitalistica. Fortini è l’ultimo depositario di una concezione restaurativa e riappropriativa della tradizione umanistica, pensa ancora in termini di umanismo in una società completamente laicizzata e de-storicizzata, la sua lirica ultima resta nel segno e nel solco restaurativo-elegiaco e non può spingersi oltre queste colonne d’Ercole, non riesce a intravvedere uno spiraglio nella crisi dell’umanismo e della tradizione, pensa ancora in termini di sopravvivenza della progettualità di un soggetto critico nelle nuove condizioni di esistenza della società tardo capitalistica. Nei testi di Composita solvantur circola un’aria di elegiaco tramonto anche la dove il poeta esibisce un tono ironico e lirico, una cadenza da ballatetta. Ormai l’epoca della rivoluzione possibile è irrimediabilmente alle spalle, il futuro appare un dominio del capitalismo sviluppato, c’è solo una flebile speranza che ancora resiste, ma è una postazione difensiva, l’ultima postazione difensiva che resta al soggetto critico nell’ambito della società borghese dispiegata. Il manierismo fortiniano sarebbe un indebolimento del determinato che proviene dalla crisi del soggetto «forte» marxiano, della sua impossibilità di guidare il corso della storia; l’elemento ascetico marxiano viene ad essere promiscuato con l’elemento forte della insopprimibilità dei rapporti di produzione, il carattere repressivo di quest’ultima dà luogo alla forma indebolita del manierismo come fortino difensivo della antica forma del soggetto «forte». Il manierismo, in altre parole, è l’ultimo recinto stilistico nel quale si può ancora rinserrare l’autenticità (Eigentlichkeit) del soggetto marxiano «forte» in attesa di tempi più proficui. In altre parole, anche se in modo indiretto e diffratto, il declino del soggetto «forte» trascina con sé anche la possibilità eventuale che si possa ancora scrivere poesia sulla base di un soggetto «forte».

Adesso è chiaro, possiamo affermare che l’ultima opera poetica dell’umanesimo dell’età borghese del novecento italiano, sia appunto Composita solvantur, che indica anche nel titolo inequivoco la dissoluzione dei composti un tempo «forti», in primo luogo della soggettività marxista rivoluzionaria.

Aldo_Moro,_Pier_Paolo_Pasolini_-_Venezia_1964

Aldo Moro e Pasolini al festival di Venezia, 1964

Le nuove generazioni conosceranno ormai la «riappropriazione» di un soggetto indebolito:

la riappropriazione del «corpo», del «quotidiano», del «privato» dello «psicologico», tutte sintomatologie psicologicamente compatibili con la proposizione di una ergonomia della soggettività indebolita e di una progettualità debole. Il soggetto storico un tempo protagonista della «storia» viene ad essere sostituito dal nuovo soggetto della «storialità», dal soggetto visto dall’esterno di una «storialità» sempre più lontana ed evanescente. Dal punto di vista di un soggetto «forte» che si oppone ai rapporti di produzione della società capitalistica, la nuova società dell’organizzazione globale ed efficiente non può che apparire che come un inferno dell’esistenza umana. Con il che si spiega la ragione della fine della poesia elegiaca e riappropriativa (seppur corretta con inserti di prosasticismi) di un Fortini, un feticcio di un passato remoto che non potrà più tornare.

Con l’invasione di massa del minimalismo incipiente negli anni di composizione dell’ultima opera fortiniana, viene implicitamente e silenziosamente accettata l’idea che l’arte non debba venire resa inattuale o hegelianamente soppressa, in quanto essa si auto sopprime da sé, si consegna mani e piedi alla narrazione che ne fa il medium mediatico, e in tal modo si consegna ad una funzione ancillare e anaclitica.

Una brillante analisi del manierismo fortiniano è data da Guido Mazzoni in Forma e solitudine, cit.: «Il manierismo esprime nostalgia perché evoca un’immagine dell’integrità che appartiene al passato per scatenare, al cospetto della realtà alienata, un’energia di attesa: non è dunque un valore adempiuto ma un progetto. […] In questo senso, il manierismo è una forma di ironia romantica: indicando una verità ulteriore e irraggiungibile, chiede di essere superato e inverato» (p. 202). Il rapporto generale tra ironia ed “energia di attesa” è stato teorizzato molto bene, riferendosi a Benjamin, da Paul de Man: «L’ironia è la radicale negazione la quale, tuttavia, rivela, attraverso il disfacimento dell’opera, l’assoluto verso il quale l’opera è in cammino» (P. de Man,The Concept of Irony, in Id., Aesthetic Ideology, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996, p. 163-191, tr. it: Id., Il concetto di ironia, in «Studi di Estetica», anno XXXV, III serie, 35-36, 2007, pp. 73-100. Il passo citato si trova a pag. 99).

Si veda infine la recensione alla raccolta Composita solvantur di Raffaele Cavalluzzi (Fortini, “Composita solvantur”, in «Lavoro critico», n.s., 1992 [in realtà 1996], 22-24, pp. 121-124), che interpreta la settima delle Canzonette come «densa metafora autobiografica della patologia che infierisce, sorda, nella sua esasperata fisicità, dentro le viscere dell’uomo-Fortini» (p. 122).

Leggiamo le «Sette Canzonette» apparentemente «minori» che formano una sezione del libro di Franco Fortini, Composita solvantur (1994) che raccoglie le poesie dal 1984 al 1993, che chiude il novecento.

giovanni testori aldo-moro nel bagagliaio della Renault-via-fani

Aldo Moro nel bagagliaio della renault, via Fani, 1978

Sette canzonette del Golfo, da Composita solvantur (1994)

 Ah letizia…

Ah letizia del mattino!
Sopra l’erba del giardino
la favilla della bava,
della bava del ragnetto
che s’affida al ventolino.

Lontanissime sirene
d’autostrada, il sole viene!
Che domenica, che pace!
È la pace del vecchietto,
l’ora linda che gli piace.

Le formiche in fila vanno.
Vanno a fare, ehi! qualche danno
alle pere già mature…
Quanto sole è sul muretto!
Le lucertole lo sanno.

2. Lontano lontano…

Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.

Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!

Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.

E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo! Ho scarso l’inglese!

Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi ?

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via. Continua a leggere

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Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

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Paolo Valesio, LA POESIA ATEOLOGICA di EMILIO VILLA

Trasalimenti logosferici dalle opere sparse di Emilio Villa. Performance recitativa di Pilar Castel. Creazione video di Gianni Godi

Foto Omino pop

 [Paolo Valesio nasce nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia, 1979, La rosa verde, 1987, Dialogo del falco e dell’avvoltoio, 1987, Le isole del lago, 1990, La campagna dell’Ottantasette, 1990, Analogia del mondo, 1992, Nightchant, 1995, Sonetos profanos y sacros, 1996, Avventure dell’Uomo e del Figlio, 1996, Anniversari, 1999, Piazza delle preghiere massacrate, 1999, Dardi 2000, Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo, 2002, Volano in cento, 2002, Il cuore del girasole, 2006, Il volto quasi umano, 2009 e La mezzanotte di Spoleto, 2013. È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan, 1978, e Il regno doloroso, 1983; di racconti: S’incontrano gli amanti, 1993; di una novella, Tradimenti, 1994, e di un poema drammatico, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato nel 1993 e a Salerno nel 1997]

Prefazione al volume Emilio Villa, la scrittura della Sibilla, a c. di Daniele Poletti, Viareggio, Edizioni Cinquemarzo / dia∙foria, 2017, pp. 13-25

foto by drawing of Ileana Hunter

L’utopia della poesia (un’utopia di tipo ermetico o alchemico) è quella di un linguaggio autosufficiente [Paolo Valesio]

 L’utopia della poesia (un’utopia di tipo ermetico o alchemico) è quella di un linguaggio autosufficiente; l’utopia della critica di poesia d’altro canto è doppia: c’è quella razionalista che mira all’esplicazione, e quella (chiamiamola alchemica) che invece ricerca una sorta di mimesi dell’autosufficienza poetica. Entrambe queste utopie critiche sono necessarie; e del resto i loro confini si rivelano a volte porosi. Per esempio: vi sono autori in cui “scrittura” è sinonimo di “struttura”, e altri in cui scrittura significa profusione, diffusione, diffrazione. (Emilio Villa appartiene chiaramente a questa seconda categoria.) I critici letterari sembrerebbero schierati dalla parte della scrittura strutturata; ma non è sempre così.

  In effetti, entrambe le “utopie” critiche sono rappresentate in questa raccolta di acuti saggi, la quale rende opportunamente più accessibile quello che era nato come “e-book”; aggiungendovi, per l’attenta cura di Daniele Poletti, oltre a uno “Pseudo-introibo” (di Fabrizio Biondi), due nuovi saggi, un’ intervista frastagliata (con Francesco Villa) e una singolare appendice; il tutto integrato da una minima ma molto utile antologia poetica. (Il discorso critico non può sussistere senza la voce della poesia.)

  Il filo conduttore della poesia di Villa (filo su cui sarà inevitabile ritornare) affiora fin dallo “Pseudo-introibo”, secondo cui il poeta “abita consapevolmente la caduta gnostica dal pleroma”. Dopo di che, il tono di Aldo Tagliaferri (benemerito degli studi villiani, e autore di saggi fondamentali sul poeta) è più distaccato e di tipo universitario; come lo è anche il tono dell’altra benemerita studiosa villiana (vedi nota 1), Cecilia Bello Minciacchi, che qui presenta una miniatura di critica stilistica su un componimento latino di Villa. E questo tono continua nel saggio di Gian Paolo Renello, che sviluppa metodicamente un esame comparativo dei “verba sacra” di Villa; e anche nel saggio di Ugo Fracassa, che si sofferma su concetti come “luogo” e “senso e/o impulso” nell’opera villiana. Uno stile, insomma, filologico-universitario – non voglio dire “accademico” perché questo termine (che in inglese è innocente) ha acquisito in italiano, come sappiamo, una connotazione negativa. E invece questi saggi, di alto livello come gli altri nel libro, evitano la pedanteria.

  Ma il volume provvede anche una benvenuta varietà, pertinente a quella critica di cui dicevo all’inizio, parlando di alchimia e di mimesi  termini che preferirei al vecchio attributo di “militante”. E’ Carlo Alberto Sitta, con un brevissimo scritto ripreso da sue pagine precedenti, che provvede quest’altro approccio: «La critica non si scompone, per essa ogni irregolare è un alveo saldato agli argini. Non c’è gesto deviato che valga a spezzare l’erudizione, chi la nega la usa, chi la pratica ne fa scempio». Del resto – e a proposito dei confini porosi fra i vari modi di avvicinamento critico –  la riflessione di tipo filosofico piuttosto che filologico può servire, fino a un certo punto, da ponte fra i vari metodi, come nel saggio di Ugo Barbaglia sul «ritorno labirintico». E un ponte di tipo filosofico è anche quello lanciato da Enzo Campi, all’insegna di una categoria tipicamente villiana come quella del “Chaos”, e con importanti riferimenti a esperienze teatrali. (Vi è infatti una profonda parentela fra la poesia e il teatro –  parentela offuscata dall’infelice espressione ‘teatro di prosa’. )

Foto keith Haring polipo

Keith Haring, Image, polipo

Si torna poi alla filologia con il saggio di Chiara Portesine sulla “armonia dinamica”. L’autrice giustamente richiama una certa vicinanza fra il discorso villiano e la neoavanguardia; e allora, la polemica del poeta contro questa avanguardia, che l’autrice stessa poi nota? Non mi pare che sia una contraddizione, anche se il Villa critico e teorico pare tutt’altro che preoccupato (e va bene anche così) dalle contraddizioni .

  Ma la divergenza Villa / neo (post)avanguardia dovrebbe esser vista al suo livello appropriato, che non è quello linguistico. Infatti i procedimenti espressivi considerati (dalla Portesine e da altri nel libro, e anche da Dominic Siracusa nella sua introduzione al volume delle poesie tradotte in inglese, per cui vedi più avanti) come tipicamente villiani appartengono in realtà alla tradizione modernistica dell’avanguardia –  compresa l’eredità, indispensabile ma ancora non adeguatamente riconosciuta, del futurismo in generale e di F. T. Marinetti in particolare. Al di là comunque di ogni polemica, la differenza villiana va ricercata nella contestualizzazione culturale; diciamo pure, ancora una volta, che è una differenza di tipo filosofico, o più precisamente ancora ( è la coraggiosa “inattualità” di Villa) di tipo teo-filosofico.

  Avevo auspicato che fosse possibile “andare al di là di ogni polemica” –  e invece… Ma andiamo con ordine, come si diceva nei romanzi d’una volta. Una delle più deprimenti testimonianze che illustrano il persistere di una certa tendenza accademica alla parafrasi eulogistica piuttosto che alla vera e propria critica, mi si presentò quando udii la seguente domanda, rivolta da un collega a un altro suo collega che aveva appena finito di presentare una relazione in un convegno pirandelliano negli Stati Uniti, vari anni or sono: “Ma perché ti occupi di Pirandello, se non ti piace?” (specifico che il sottoscritto non era, né quel relatore né quell’obiettore –  donde la mia posizione per così dire oggettiva.)

 Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre –  è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore –  la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa)  –  è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico. Senza entrare nel merito dei singoli ideologhemi, mi limito a osservare che ogni posizione ideologica (compresa quella, molto diffusa in Italia, che consiste nel bollare come “ideologiche” le posizioni contrarie all’ideologia dominante nell’intellighenzia e fra i politici) è allotria rispetto a Villa, nemico dell’ideologia –  come appare anche in un efficace neologismo di tipo joyciano «stupore idolologico» –  e come forse traspare anche in una simile parola composta, «eidololatria» .

  Tutto ciò porta al saggio in appendice di Fausto Curi –  che è ancora il teorico più acuminato fra i molti eccellenti studiosi nel Dipartimento di Filologia Classica e Letteratura Italiana dell’università di Bologna (suo pari era Guido Guglielmi, ora scomparso). Va riconosciuto al curatore Poletti il merito di avere accolto questo saggio drasticamente anti-villiano in un volume dedicato all’opera di Villa. Non si tratta di mosse più o meno diplomatiche: quella che è in gioco è la possibilità (come detto) di consolidare lo spirito democratico nella critica letteraria italiana. E a Curi dev’essere riconosciuto il merito, innanzitutto, di contribuire a smitizzare la tradizione secondo cui Villa sarebbe stato un isolato. (D’altra parte, un senso di isolamento può contribuire a spiegare l’impazienza alquanto sprezzante spesso affettata da Emilio Villa – e che pare condivisa anche da alcuni dei suoi critici –  verso la cultura italiana contemporanea, letteraria e non; atteggiamento però che veramente non convince: la cultura poetica, e non solo, del Novecento italiano è una delle più alte a livello internazionale  –  e ciò va chiarito, contro il provincialismo di ogni disfattismo suppostamente anti-provinciale.) In secondo luogo, Curi ha il merito di aver scritto un saggio nel pieno senso del termine, cioè un testo composto con un tono autenticamente personale. (Per il resto, il saggio comincia con una lucida analisi delle poetiche francesi alla giuntura fra Ottocento e Novecento, e poi si tuffa in un virulento pamphlet ideologico dal quale non sono assenti parole un po’ grevi.) Ma a questo punto tento semplicemente, senza presumere di offrire una sintesi finale, di allargare lo sguardo oltre ai questionamenti di avanguardia e non-avanguardia. Continua a leggere

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Mario Gabriele, Poesie scelte da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017), con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Ci sono state calunnie su Donovan,/ ma il vento ha pulito le piazze

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016), In viaggio con Godot (2017) è in corso di stampa Registro di bordo. Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Gaetano Salveti, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Francesco D’Episcopo, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci, Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it

foto leggings

la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Astorialità per eccesso di storia definirei questo ultimo lavoro di Mario Gabriele, al quale corrisponde un pluritematismo e un pluristilismo, in linea con i fondamenti della «nuova ontologia estetica». Ma la storia qui è ridotta a storialità, a cartoline, flash, lampeggiamenti, icone, patterns, involucri, simulacri, ready made, parole usa e getta, parole plastificate e di polistirolo, e parole monouso gettate nella discarica abusiva dell’epitelio semantico dove questa poesia soggiorna gratis con tanto di permesso di soggiorno e di tramonto.

Dire che nella poesia di Mario Gabriele c’è solo metalinguaggio equivale a dire che tutto è metalinguaggio, il nostro ordo idearum è fondato sul metalinguaggio, che lo stesso ordine significante è un metalinguaggio in azione, che non c’è una significazione «ultima» del linguaggio e non c’è mai stata neanche una significazione «prima», che non v’è parola né ultima né prima, la parola, e quella poetica in particolare, semmai si pone come «mancante», come non-presente. Così, genialmente, la poesia di Gabriele mostra come tutta la tradizione poetica è finita nel buco dell’ozono della propria disparizione. Al posto della parola che cercavamo troviamo altre parole, quelle usa e getta, e così via, l’una tira l’altra in un saliscendi senza fine, come al luna park. Non c’è alcun linguaggio perché tutto l’armamentario linguistico della poesia moderna è diventato metalinguaggio, cartapesta linguistica e iconica.

È il linguaggio in quanto metalinguaggio che apre nell’esistenza il vuoto entro cui la parola si dà come rifrazione di presenza-assenza, specchio duale che autoriflette il «vuoto» di cui essa è presenza. La poesia di Mario Gabriele può essere intesa alla stregua di una immensa e variegata superficie specchiante che riflette altri specchi, che vive in un gioco di rifrazioni e di rimandi semantici ed iconici. Ma si tratta di rimandi svuotati di qualsiasi simbolismo, sono specchi vuoti che riflettono il vuoto, come in una famosa poesia di Kikuo Takano. Il «viaggio», che l’autore richiama finanche nel titolo, nel nostro mondo telematico e globale è ormai diventato un viaggio turistico con tanto di accessori e di monitor, non è più possibile alcuna autenticità se non nel similoro e nel kitsch. Le poesie di oggidì che trattano con seriosità il tema del viaggio, fanno sorridere per la loro bontà perché periclitano agevolmente nel kitsch e nel piacevole, si adattano al piacevole e all’intrattenimento, sono un diversivo al gioco della canasta e della macumba.

Strilli GabrieleStrilli Gabriele Da quando daddy è andato viaMario Gabriele  intende il «viaggio», appunto, «con Godot», con questo misterioso ospite che è la nostra Ombra, il nostro irraggiungibile sosia. Siamo noi stessi Godot, per questo non potremo mai raggiungere la nostra interiorità perché essa è stata ampiamente colonizzata dall’Altro dell’Altro, non c’è più nemmeno un angolino, un ricettacolo di autenticità nel mondo disilluso e amministrato da un ordo rerum onnivoro e globale.

Non v’è più alcuna economia monetaria della dicibilità perché tutto è diventato dicibile, tutto è scambiabile in base al valore di scambio, e la parola non fa eccezione, anch’essa è finita nell’imbuto del valore di scambio, perché non può esservi una esteriorità che non sia inclusa anche nel linguaggio, ed il linguaggio è il luogo per eccellenza dell’ambiguità e del gioco semantico della significazione, di ciò che non rientra nel linguaggio: quel misterioso «di-fuori» che si chiama «mondo». È per questo che la nuova poesia di Mario Gabriele, così sofisticata da apparire ingenuamente fuori-moda, si presenta come un manufatto ultroneo, ammicca ossessivamente a questo nuovo ordine post-simbolico fitto di simulacri nel quale oggi siamo tutti immersi, dove non c’è dialogo che possa durare qualche minuto, «Il Dialogo fu di breve durata» scrive ironicamente Gabriele in una poesia della raccolta, perché non c’è più nulla di cui dialogare, le cose si capiscono benissimo nell’ambito di un’altra economia monetaria, quella dei titoli di borsa e del mondo ridotto a intrattenimento futile, un ottimo fertilizzante per le menti decorticate della società mediatica.

La tradizione metafisica, ci dice Derrida, vede nell’essere un assoluto, una sostanza impredicabile perché presente in ogni predicazione. Resta però aperta la questione che se l’essere è impredicabile, il linguaggio si trova a colmare una distanza impossibile. L’essere cioè diventa la condizione, il presupposto incluso tuttavia trascendens, il linguaggio. Dire che il «linguaggio è dimora dell’essere» (Heidegger) se da un lato esclude la possibilità che l’essere possa essere detto dal linguaggio come una referenza diretta, dall’altra tende a porre l’essere stesso in una prospettiva sfuggevole e indeterminata – l’essere si rivela come qualcosa di «pienamente indeterminato» afferma Heidegger – e, allo stesso tempo, fondativa, proprio in quanto si tratta di una indeterminazione inclusa nel linguaggio stesso.

In In viaggio con Godot, è il linguaggio stesso ad essere in «viaggio», in una traslocazione locomozione senza tregua… è il linguaggio che si sottrae a se stesso… il linguaggio cessa di essere fondazionale ma appare, si rivela, per il suo essere un rinvio continuo… il linguaggio in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vede nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si serializza in una molteplicità di sintagmi.

Nel volgere di pochi anni si è avverata la previsione di Marcuse: «è probabile che il secondo periodo di barbarie seguirà  ad un lungo periodo di civiltà». Il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza sen­za precedenti è la più imparziale delle accuse contro lo stesso processo della civilizzazione capitalistica, l’arte e la cultura sono state ammorbidite e derubricate a sottoprodotto del prodotto, della merce. L’ideologia dello sviluppo è profondamente irrazionale, non c’è più nulla da sviluppare se non la nostra barbarie ininterrotta. In un mondo in cui dieci famiglie detengono la ricchezza di circa quattro miliardi di persone, non è più possibile fare poesia, almeno la poesia che abbiamo conosciuto. E Mario Gabriele si è regolato di conseguenza. Per questo la sua poesia spinge oggettivamente verso il «nuovo». Pur all’interno di un mare di ciarpame e di belletristica mediatica essa diventa, oggettivamente, «irriconoscibile», in quanto non-merce che assume l’apparenza di merce che Gabriele derubrica a sub-merce.

Mario Gabriele è un poeta troppo dotato per non aver tirato le conseguenze in sede estetica di questa situazione macro storica, la sua è una poesia che assume la presunta «ricchezza» delle merci e delle citazioni della cultura mondiale come specchi per le allodole, è una poesia che si assume l’onere di essere il garante e il guardasigilli della non-verità del mondo amministrato.

Strilli Gabriele2

Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.
(Th.W. Adorno)

[…]
«già l’arte è inutile per gli usi dell’autoconservazione- e la società borghese non glielo perdonerà mai del tutto – e allora deve rendersi utile mediante una specie di valore d’uso, modellato sul piacere dei sensi. Così si falsifica, allo stesso modo di come si falsifica l’arte (…) il piacere sensoriale conserva qualcosa di infantile quando si presenta nell’arte in maniera letterale, intatta. Solo nel ricordo e nella nostalgia, non come copiato e come effetto immediato, esso viene assorbito dall’arte (…)»
[…]
«All’ontologia della falsa coscienza appartengono anche quegli aspetti nei quali la borghesia, che tanto liberò lo spirito quanto lo prese alla cavezza, accetta e gode, dello spirito, proprio ciò in cui non riesce completamente a credere – maligna anche contro se stessa. Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto: un’impresa che prosegue finché rende e con la sua perfezione aiuta a superare l’inconveniente di essere già morta».

«L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata»1].

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».2]

1] T.W. Adorno Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, trad. it di Enrico De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, 1975 pp. 21 e segg.

28

La sera ci sorprese
facendo del giorno un rapido declino.
Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue
della signora Polonskij.
Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:
rondine di altri cieli e di altri nidi!
-Qui dura ancora il turnover.
Vado all’estero, mi rifaccio una vita,
troverò un lavoro,
avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.
Una stagione infausta si ferma
stretta dalle corde dell’autunno.
Nei vecchi bungalow si contano le ore.
La casa lungo il fiume
non ci appartiene più,
è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.
Max sta finendo Psicostasia politica.
Ti rivedo nel Bacio di Klimt.
Non c’é tavolozza senza il nero.
Quando Marisa tornerà da Dortmund
sarà come un lampo a ciel sereno,
chiederà le catenine di Istanbul,
prima di dire:-oh mamma, mamma,
perché sei rimasta così sola nel silenzio?

Strilli Gabriele

33

Da quale rovo sei venuta?
La stagione porta trappole.
Temi le Centurie, i mesi bisestili.
Un testamento è nel Caveau.
Aspettami quando il leone e l’agnello
si saranno fermati all’ombra delle oasi.
Noè ha attaversato il Topanga Canyon.
Il frutto dell’albero è maturo.
E’ diventata cieca la tua memoria.
Una tettoia d’anni è finita sul selciato.
L’anfora è rotta, Ubaldo!
L’anfora più bella è rotta.
Sono venuti giù acqua e neve.
A tratti si è fermato l’anticiclone.
Il vecchio Osborne non se ne è accorto.
Sta a guardare il sole che nasce e muore.
Preghiamo per i nostri gelsomini.
Il Signore solleva dalla polvere il misero,
innalza il povero dalle immondizie.
Scendiamo in una valle silente
nel giorno di tristezza di Makeda.
Il gran sacerdote,
lasciò messaggi nelle crepe del Muro,
senza piccioni viaggiatori
e pagaie, azzurro-mare.
Il pony express aspetta.Tace.
Augura: Feliz Navidad.
Il cammino si accorcia,
senza il miracolo da ponente.
A Daisy non diremo nulla
che possa scuotere i rami del suo bosco,
nulla di come è fatto il lazzaretto.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli Gabriele Ci sono anni che sembrano boschi

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LA NUOVA POESIA – LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Poesie e Commenti di Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Edith Dzieduszycka, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero, Antonio Sagredo, Tadeusz Rozewicz, Alfonso Cataldi, Serenella Menichetti, Adeodato Piazza Nicolai

Foto Bauhaus 1

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità»

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:10

Dice bene Luigi Celi quando scrive che Eliot, Pound, Mandel’stam (ma io ci aggiungerei anche Pessoa, i polacchi: Milosz, Herbert, Krinicki, Rozewicz, Szymborska… i cechi Petr Kral, Ajvaz, Topol, Reznicek… gli svedesi Tranströmer, Frostenson, Aspenstrom… il finnico Rolf Jacobsen, la bulgara Josifova, la rumena Crasnaru, gli italiani Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino, le italiane Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna etc.) sono i basamenti sui quali è fondata la nuova ontologia estetica. Il basamento degli autori modernisti è quello che ha fatto la grande poesia europea del primo e secondo novecento, questo è indubbio. Penso che è da qui che bisogna ripartire. Tracciare le coordinate della migliore poesia europea è utile, anzi, indispensabile; fare critica del presente e del passato è il miglior veicolo per allestire la poesia del presente e del futuro.

Certo, all’interno di questo ampio ventaglio della poesia europea ci può stare chi, come Antonio Sagredo, privilegia un autore piuttosto che un altro, o che voglia spostare il baricentro della NOE un po’ più ad est… questo è ammissibile, e anzi anche auspicabile, ciascuno può e deve forzare l’elastico della NOE dove e quando e nella misura che ritiene più opportuno…

Sul problema dell’Essere e del Nulla, io ho la mia posizione, ma ciò non significa nulla di costrittivo, ciascuno può nutrire le proprie convinzioni filosofiche e religiose. Presento qui alcuni miei «appunti» sulle questioni più propriamente filosofiche toccate dal saggio di Luigi Celi.

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.

Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Strilli Rago1Sul Frammento

Il frammento reca incisa in sé la traccia dell’essere-per-la-morte,apre un varco dal quale si può sbirciare nella dimensione dell’iscrizione della mancanza, nel vuoto che si apre nella mitica pienezza ontologica dell’essere.

Ma c’è mai stato un’epoca della mitica pienezza dell’essere? O è un nostro abbaglio? Un miserabile infortunio del pensiero?

Il «frammento» si dà soltanto all’interno di un orizzonte temporalizzato. Sta tra il dado e la clessidra.

Ecco perché l’età pre-Moderna non conosce la categoria del «frammento». L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Si può anche dire così: il frammento è la dimora stabile dell’Estraneo.

Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia.

Strilli LeoneSul Nichilismo

L’atto originario è un venire in presenza, ma può venire in presenza solo in quanto esso è un atto a partire dalla indistinzione e indifferenza del nulla che l’origina. Così, l’atto originario che viene in presenza è lo stesso atto originario che si auto annulla e recede nella indistinzione e nell’indifferenza del nulla. L’atto originario, proprio in quanto crea il tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio in quanto si-fa-presenza si fa anche assenza, ossia abolizione di essere e di presenza.

Il nichilismo è un immenso campo di possibilità, significa che il nulla è prolifico. Il nichilismo è il luogo della possibilizzazione di infinite possibilità espressive, indica che tutte le questioni sono aperte, che tutte le questioni sono possibilizzazioni del pensare, tutte le questioni sono possibili. In questa ottica si ha una grande estensione delle possibilità estetiche come forse mai si è avuto nel passato.

Presso i minimalisti inconsapevoli di oggi si è avverato l’assunto adorniano secondo cui «la metafisica trapassa in micrologia», vale a dire che senza metafisica si va dritti nella micrologia del quotidiano e della topologia acrilica della poesia e dell’arte alla moda di oggi.

Tra l’altro, agli sciocchi che guardano con sospetto alla metafisica, dovremmo dire che una infinità di concetti e parole che tra l’altro usiamo tutti anche nella nostra vita quotidiana quali «libido» di Freud, la «Cosa» di Lacan, il concetto di «Infinito», quello di «Principio» etc. sono tutti concetti metafisici in quanto di essi non si dà e non si potrà mai dare una prova scientifica, sperimentale, che so, isolare l’infinito e dire: ecco qua, abbiamo messo l’Infinito in provetta… voglio dire che senza i concetti e le parole della metafisica noi non riusciremmo neanche a parlare tra di noi… ma anche la parola «poesia» è un concetto della metafisica, senza quella parola scomparirebbe di colpo tutta l’arte di tutti i secoli, dal paleolitico superiore ai giorni nostri…

(Giorgio Linguaglossa)

Strilli Král A tratti un libro ripostoGiorgio Linguaglossa

10 novembre 2017 alle 10:32

Ricevo e pubblico due poesie di Adeodato Piazza Nicolai alla maniera della nuova ontologia estetica:

Adeodato Piazza Nicolai

Alice nel paese del post-reale

Senza alcuna meraviglia. Manca soltanto un minuto
allo scoccare del vero
che non c’è. Poiché semplicemente non esiste…
[…]
scoccano le sei del pomeriggio serale. Ancora non nasce
la prima-vera. Il matto cappellaio non sa confezionare
il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie.
S’è appisolata sulla sponda dell’invisibile naviglio
dove il mago cinese sembra alquanto impaziente: ha quasi
perso la sua memoria e la regina lo incalza con inclemenza.
[…]
Quel mago fuori di testa è l’assassino che vuole far fuori
Il cappellaio nascosto dietro il pollaio
dove sospetta la differenza fra uovo e gallina.
O Alice, povera fanciulla caduta nel buco che non esiste.
Da lì fuoriesce l’amico coniglietto incapace di darle alcun consiglio.
Scappa, Alice, fuggi velocemente. Attenta al terrificante riflesso
dell’incantevole specchio dorato ma frntumato alla base …
[…]
Accipicchia a quel maledetto riflesso che illude ogni cosa
e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro
per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà.
[…]
Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza
per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.
Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.
La fuga per sempre sarà fugata/frugata e mai consumata dal fuoco
che non può bruciare e neanche bucare…
Bussa alla porta del Mad Hatter e/o Capellaio Matto
però nella casa non c’è più nessuno.
Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza
finale.
Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca
di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.
Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello
che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.
L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance
scivolano lacrime di gioia…
Postscriptum: domani verrà la nuova puntata quando
la Rossa Regina, nascosta in cantina, ordinerà le guardie
regali d’imprigionare il Mago cinese. Good-bye fino
alla prossima cinepresa…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 8 novembre, ore 21:45

I venetoi trasumananti
[—]
Un fosco mattino come pochi a Venezia. Un timido Ashenbach
chiuderà gli occhi per sempre sulle sabbie del Lido.
Pallido, certamente ammalato era sceso da qualche cittadina
austro-ungarica per l’ultima vacanza sulle strade immorali…
Passeggia sulle rive dell’Adriatico, una rosa nell’occhiello,
in cerca dell’ultimo bordello.
[…]
Cavalcati dai Venetoi, splendidi cavalli corrono sui colli.
… Arrivano i romani imperiali a soggiogarli;
dopo il millenio e alcuni centenni, anche
2 guerre mondiali attraverseranno il loro fertile territorio
e nel dopoguerra (anni 50-60-70) tanti di loro scopriranno
il dolce boom statunitense …
tutto cambierà: contadini-impresari, nobili e certi operai
faranno enormi fortune alle spese della Madre Gea — sono
esportatori di vini in tutto il mondo, di scarpe eleganti, di macchinari
e pure armamenti, tecnologie avanzate, ecc. ecc.
ingrasseranno le pance di banche e ricchi padri-padroni.
[…]
Più tardi spunterà la Lega nordista colma di sogni-promesse-
fandonie
per mandibolare i poveri superstiti nelle venete pianure
insieme alle montagne… Il loro slogan: “Far-Fuori-Roma-Ladrona”.
Alla fine anche loro diventeranno ladri e truffatori,
rispettabilmente marci ciarlatani.
[…]
Mediocri città, piccoli paesi e magre cittadine del Veneto,
insieme ai villaggi delle Dolomiti, si spappoleranno:
emigranti in ogni angolo del mondo in cerca di lavoro
e la tragedia cresce tuttora!
Appena concluso il referendum per ottenere poteri speciali
Ploden/Sappada diventerà terra friulana, abbandonando
(per agevolazioni economico-politiche?)
la Provincia di Belluno e passando al Friuli.
Quanti altri paesi confinanti seguiranno l’esempio?
Forse Cortina, Regina delle Dolomiti, sarà la prossima.
[…]
Due giorni fa un cadorino ventunenne
morì drogato …
con vari amici al funerale; fu sepolto in questo modo
un altro membro
del clan post-moderno venetoiano e non vetruviano …

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 9 novembre, ore 6:22

LD07

«la metafisica trapassa in micrologia» (Adorno)

Giorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 10:51

‎Serenella Menichetti‎ da La scialuppa di Pegaso (FB)

MOLTI MA MOLTI SECOLI FA
C’ERA UN PAPA

C’era una volta un papa.
-Quale papa?-
-Un papa tutto d’oro
che spesso mangiava.-
-Che mangiava?-
-La pappa al pomodoro.
E poi si addormentava.-
-Dove si addormentava?-
-Sopra un trono.
Un trono tutto d’oro
e poi si risvegliava.-
-E che faceva?-
-Faceva colazione
mangiava un bel calzone,
con dentro un gran ripieno.-
-Che ripieno?
Addirittura un treno.-
-Un treno?-
-Si, un treno.
Un treno di prosciutto
se lo pappava tutto.-
-E poi?-
– Faceva un gran bel ratto-
-Ratto?-
-No, un gran bel retto-
-Retto?-
-No, un gran bel ritto-
-Ritto?-
-No, un gran bel rotto-
-Rotto?-
-Si, lui rompeva tutto.-
-Perchè tutto?-
-A causa di quel rutto-
Serenella Menichetti
“Filastroccare Fantasia in rete”

Strilli Tranströmer 1Gino Rago

10 novembre 2017 alle 10:58

Nel poema “LORO”, da me letto, riletto, metabolizzato e perfino AMATO, per il carico di novità di linguaggio non già specificatamente per i motivi e/o i temi che l’autrice affronta, Edith Dzieduszycka che atteggiamento assume verso il tempo? Che rapporto instaura con lo spazio? In quale conto tiene il ‘nominalismo’ (non necessariamente lirico): più precisamente, Edith Dzieduszycka parla di ‘alberi’, ‘animali’, ‘piante’ ,in generale, o gli alberi diventano pioppi, platani, cilieigi… E le piante vengono nominate come robinie, tigli, glicini… E lo stesso per gli animali e gli ‘uccelli’?

Nel caso di “LORO” Edith Dzieduszycka quale ruolo affida all’IO? Che uso fa l’autrice della punteggiatura? Il poema di Edith Dzieduszycka è o no riconducibile e interpretabile all’interno del linguaglossiano Spazio Espressivo Integrale (formidabile strumento ermeneutico concepito e adottato per la prima volta da Giorgio Linguaglossa)?

Edith Dzieduszycka in “LORO” è nello spirito premoderno, moderno, tardomoderno, postmoderno o addirittura si muove nella dimensione del transumanesimo…? E altro e altro ancora…

Credo che oggi l’esercizio d’un tentativo non dico di ‘critica’ ma più semplicemente di ‘tentativo d’interpretazione’ di un testo poetico non possa più sottrarsi agl’interrogativi prima rivelati e/o sommessamente elencati, per evitare che non soltanto in poesia ma anche nella critica letteraria la desertificazione si spinga anche nell’Amazzonia.

Ciò detto, ammiro la vastità di dottrina di Luigi Celi. Ma da quando Giorgio Linguaglossa mi ha accostato allo Spazio Espressivo Integrale, come strumento d’interpretazione dell’altrui poesia, non me ne distacco quando cerco d’analizzare l’altrui poesia verso per verso, così come ho tentato di fare con LORO di Edith Dzieduszycka, con Preghiera per un’ombra di Giorgio Linguaglossa, con l’ALLEGORIA recente di Mary Colonna, con ‘il gondoliere turbato‘ di Francesca Dono di appena ieri.

Strilli GriecoGiorgio Linguaglossa
10 novembre 2017 alle 12:14

Un esempio di interrogazione poetica del nichilismo.

Donatella Costantina Giancaspero

Ripieghiamo in direzione del bar


Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,

in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.

Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».

Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…

Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)

traduzione in francese di Edith Dzieduszycka

Nous replions vers le bar, en marge de l’automne.
Nos semelles obéissent au terrain, qui pourrit entre averses
et éboulements lumineux au fond des crevasses.

D’un bloc à l’autre, les passants acheminent le crépuscule
vers l’hiver.
Ils marchent avec nous jusqu’à le but. Et puis,
nous les laissons aller.
Nous laissons aussi le refuge des poches,
en cet instant qui ouvre la porte aux miroirs
et aux yeux qui se souviennent.

Les voilà appuyés au zinc, en silence, -devant, le café que tu m’as offert-
sans répondre à la demande “combien de sucre?”.

Des petites choses, tu sais, je ne suis plus tellement sûre, désormais,
je procède un peu à tâtons…

Un sourire opaque, en réponse, de la glace derrière le banc.
Et la gorgée pleine, avec un arrière-goût d’inaptitude. 
Tout au fond, reste le doute.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoCommento di Giorgio Linguaglossa

La poesia non narra, è. La poesia vuole narrare un determinato essere dell’Esserci, il momento in cui l’Esserci avverte nel profondo la nullità del proprio fondamento; con le parole di Heidegger: «il nullo fondamento della propria nullità».

I verbi che introducono all’essere, sono: «Ripieghiamo», «Camminano», «Lasciamo», «Stanno». Sono i verbi guida perché indicano una azione. Ma i verbi, e le proposizioni che succedono ad essi, non narrano degli accadimenti, narrano piuttosto dei non-accadimenti, sono essi i segnali significativi che ci introducono nella modalità esistentiva del personaggio della poesia. Sono appena accennati, come in scorcio, degli elementi figurativi: gli isolati, «i passanti», «il crepuscolo», «l’inverno» elencati uno dopo l’altro quasi fossero dettagli insignificanti, ed invece sono essenziali per poter mettere insieme tutti i dettagli e fornire un quadro della condizione esistenziale sotto analisi. Tutti gli elementi del quadro tendono e concordano nella espressione che occupa il momento centrale di esso: «il rifugio delle tasche». In questa espressione viene condensata tutta la temperie e l’atmosfera dei versi precedenti, è una metafora e una catacresi che apre una fenditura di significato più profondo. In quell’accenno al fondo delle «tasche», c’è tutto lo scacco di una esistenza, è il buco nero entro il quale tutto precipita: il momento del risveglio della coscienza verso il momento della decisione anticipatrice, è un «istante» che si perde tra gli «specchi». Altra metafora fulminante perché condensa la sensiblerie della condizione esistenziale raffigurata in precedenza, marcandone il carattere di inautenticità e di falso.

Adesso la poesia può procedere al salto, alla interruzione della prima parte che resta, necessariamente, una parte introduttiva all’unica azione che accade veramente; tutto ciò che viene detto prima è frutto di un processo immaginativo, indiziario: adesso due persone stanno al bar davanti ad un «caffè». Una semplice domanda: «quanto zucchero?».
Una domanda anodina e casuale, banale, risveglia l’Esserci dalla dispersione nell’anonimato della sua coscienza; quel «senza risposta» rimarca piuttosto il senso di sorpresa, di stupore e di smarrimento per la inadeguatezza che il domandato avverte rispetto alla domanda del domandante, inadeguatezza per il non sapere quale risposta dare, quale sia la più consona alla circostanza e alle condizioni convenzionali del bon ton e del savoir vivre. La domanda, corriva e banale, risveglia nel profondo e dal profondo la coscienza assopita del domandato.
Tutto qui. La poesia è già finita. Tutto quel che segue è un accompagnamento, un completamento musicale della sensiblerie; ci sono elencati alcuni dettagli che servono a completare il quadro esistentivo.

La poesia raffigura un momento della presa di coscienza dell’essere dell’Esserci, ed è significativo che questa presa di coscienza avvenga in un luogo insignificante, un luogo qualunque, generico come un «bar», con «i passanti» che passano e «inoltrano il crepuscolo verso l’inverno». La poesia raffigura il momento di una decisione anticipatrice, reso nei suoi momenti essenziali, ridotti al minimo…

«L’Esserci, una volta che si è deciso, assume autenticamente nella propria esistenza di essere il nullo fondamento della propria nullità. Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci. La morte non si aggiunge all’Esserci all’atto della sua “fine”; ma è l’Esserci che, in quanto Cura, è il gettato (cioè nullo) “fondamento” della sua morte. La nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico. L’anticipazione fa emergere chiaramente l’esser colpevole dal fondamento dell’intero essere dell’Esserci».1]

1] M. Heidegger Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Milano, Longanesi, 1976 p. 370

Strilli Gabriele2Alfonso Cataldi

10 novembre 2017 alle 13:42

Per mia sensibilità (per mio gusto?) la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è quella che sento più attinente alle richieste della NOE nel momento in cui si appresta a rappresentare “il buco nero entro il quale tutto precipita”. Nei suoi versi non si esplicitano case senza tetti, alberi senza radici, automobili senza motori. Non nomina mai “senza”, “vuoto”, “mancanza”, sono le immagini potenti a restituirci la sua idea di nichilismo.

 Anna Ventura

10 novembre 2017 alle 17:02

Mi piace,molto, la poesia di Donatella Giancaspero,capace di evocare tutti i fantasmi che si nascondono dietro un’espressione banale (“Quanto zucchero?”).Forse, anche, per un mio ricordo personale. Perchè le storie si assomigliano tutte,e solo la pialla del tempo può restituirci la serenità dell’indifferenza; il che,purtroppo, non è una grande conquista. Ma,col tempo, impareremo ad amare i nostri fantasmi:quando saranno (cito ancora Didimo Chierico)”come calore di fiamma lontana”.

Strilli RagoMariella Colonna

10 novembre 2017 alle 18:31

Donatella Costantina,

hai fatto qualcosa di assolutamente inedito, non soltanto (inedito) da parte tua, ma dei poeti in genere: hai acceso un cristallo di luce autunnale sulla banalità del quotidiano. Non voglio rovinale la persuasa linearità delle parole

disegnate o meglio scolpite nella grigia presenza della stagione che avanza, preferisco citarti:

«…Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?…».

Forte l’idea dei passanti che aiutano il crepuscolo a spegnersi nell’inverno avaro di sole, compagni di un breve viaggio… che poi vanno scomparendo e noi ” li lasciamo andare” .come assecondando un’onda che va a morire sulla sabbia. Che la domanda senza risposta sia proprio la più facile…è un notevole invenzione poetica. In fondo è proprio vero, è alle domande più semplici che non sappiamo dare risposta!

Poesia Nuova, intensa.

 Gino Rago

 10 novembre 2017 alle 19:25

Perfino il sorriso non è diretto. Giunge sull’autrice attraverso la riflessione della lastra posta dietro il bancone. Unica certezza è il fondo nella tazza del caffè da poco sorseggiato. E un tempo i fondi del caffè, come le strutture viscerali di certi animali, venivano interpretati…

” i passanti inoltrano il crepuscolo / verso l’inverno.”

Qui siamo alla delegittimazione totale. Costantina Donatella Giancaspero ribalta i cicli delle stagioni, inverte i ruoli: non più il tempo-clima a sospingere i passanti-uomini da una stagione all’altra, ma gli uomini-passanti a inoltrare il crepuscolo verso la stagione invernale, in una atmosfera liquida in cui la relazione con l’altro/a non soltanto non riesce ad andare oltre una sorta di soddisfazione immediata, ma non implica nemmeno un minimo di assunzione di responsabilità, di doveri e di diritti reciproci in grado d’essere durevoli…

In questi versi, già ben commentati da Mary Colonna e da Giorgio Linguaglossa, resi anche in lingua francese dalla elegante, raffinata traduzione di Edith Dzieduszycka, il poeta si colloca in uno spazio e in un tempo del dopo postmoderno. E’ in uno stato in cui il senso del ‘Sé’ è

mancante. Perché? Perché i confini del Sé (Costantina Donatella Giancaspero stessa) sono fluidi. Perché la sua unità viene lucidamente e abilmente convertita in pluralità di sfaccettature: che rimane al poeta in questo stato tutto cosciente? Al poeta, a Costantina Donatella Giancaspero, rimane soltanto il gioco del linguaggio nel quale disperdere l’Io, visto che l’evento nel caffè, anch’esso un nonluogo, è assorbito dalla superficie…

Foto Emma Watson minimalist

«Le previsioni del tempo sono buone»
«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano» (E. D.)

Strilli TosiMariella Colonna

11 novembre 2017 alle 0:42

Carissimo Adeodato,

la tua favola di Alice è ASSOLUTAMENTE STRAORDINARIA. secondo me il segreto si nasconde nel doppio livello di realtà-favola su cui fai scorrere i tuoi versi, doppio livello in cui favola e realtà si intrecciano si confrontano, si negano, e infine si abbracciano drammaticamente, senza mai rivelare dove dobbiamo orientarci per assaporarne il messaggio:

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare… Seguila bene fino al traguardo.

Sul portmanteau senza Mad Hatter c’è appeso il cappello

che tu volevi, ferito a morte dal troppo dolore.

L’aurora lo vede sbiadire. Alice, svegliati; sulle tue guance

scivolano lacrime di gioia…”

“…Il cappello / che tu volevi ferito a morte per troppo dolore…” è il testimone concreto dei fatti: ma non sappiamo quali fatti e perché proprio un cappello faccia da testimone

“…L’aurora lo vede sbiadire: forse è un sogno di Alice, CHE VOLEVA QUEL DELIZIOSO CAPPELLO TUTTO PER SE’, o forse è un incubo di Alice, che lo VEDE SVANIRE CON LACRME DI GIOIA. O forse è tutt’e due le cose…un SOGNO che diventa un INCUBO.

Per capire è necessario risalire indietro.

“…scoccano le sei del pomeriggio serale…”

“… il matto cappellaio non sa confezionare / il giusto cappello per Alice dispersa nel Paese delle Pastiglie…” qui il riferimento molto realistico dovrebbe essere alla realtà. Luigina ha l’influenza ma non vuole stare a letto ed è… dispersa in quello strano Paese dove, “nascosto dietro il pollaio, un mago assassino “fuori di testa” vuol uccidere il cappellaio… perché (soggetto è il mago) sospetta che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina… oppure che ci sia una differenza tra l’uovo e la gallina (in tal caso il soggetto, colui che sospetta è il cappellaio); certo il dubbio sulla primogenitura tra uovo e gallina è storico e forse qui ha come effetto uno sconcertamento del lettore che certo non pensa più a Luigina che non vuole stare a letto con l’influenza, ma all’ipotesi della Creazione del mondo a cui si contrappone ormai da un paio di secoli e più la teoria dell’Universo in evoluzione che nessuno (il signor Nemo?)avrebbe creato dal nulla, tantomeno Dio in Persona. OGNUNA DELLE DUE TESI è COMUNQUE INDIMOSTRABILE, ma sembra che comunque la Scienza contemporanea abbia preso una strada diversa con la teoria dei Quanti e il Principio di Indeterminazione di Eisenberg.

Ad Alice, adesso, conviene fuggire via, troppi misteri e pericoli la minacciano. C’è anche quel maledetto riflesso dello specchio dorato che va in frantumi alla base e , quindi, riflette male nella parte bassa, proprio quella dove potrebbe specchiarsi Alice! Adeodato la esorta a stare attenta “Al terrificante riflesso… che illude ogni cosa e ogni realtà. Dov’è tuo papà? Sta forse scrivendo il suo libro per misurare l’inesistenza del tempo…? Chissà…”.

[…] l’allusione alla mancanza del Padre di Alice introduce discretamente un motivo familiare intimo che fa ruotare di nuovo il cerchio magico in una direzione diversa, con Adeodato al posto di Lewis Carroll.

“…Adesso parte il cavallo senza carrozza. Hai nelle mani una piccozza

per aiutarti a scalare le crude pareti del buio nero.

Attenta ai draghi, vulcani, incendi immanenti e alle foreste distrutte.”

Si ritorna al mistero del cappello, sottolineato però dal mistero più estraniante e coinvolgente ad un tempo:

“…Nella casa non c’è più nessuno…”

“…Ognuno è partito per l’altra oltranza in cerca della stanza

finale…” Il poeta allora chiede aiuto e salvezza alla favola poetica…e riapre il cerchio magico

“…Bisognerà credere ancora alla Fata Bianca; mai si stanca

di sognare viaggiare affabulare…”

Caro Adeodato, questa è una gran bella poesia e Alice-Luigina sarà fiera di te! Hai fatto un bel regalo anche alla NOE! GRAZIE!

Strilli Dono Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 8:43

Sono d’accordo con Alfonso Cataldi: “Ripieghiamo in direzione del bar” è una poesia NOE, per le ragioni che ha detto e perché vi è accadimento – tutto cinematografico, con pochi dialoghi, silenzi e rumore di passi –. A ogni verso corrisponde un istante, e come passa il tempo così fanno i versi. Cessati gli uragani delle fantasie di questi giorni, fa piacere potersi rifugiare nel bar di una poesia. Tutto è visivo, anche il fondo della tazzina del caffè:

“Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone. 

E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.

Nel fondo, resta il dubbio”.

Il verso “Nel fondo, resta il dubbio” pare un’espressione del viso.

Complimenti a Donatella Giancaspero.

Lucio Mayoor Tosi

11 novembre 2017 alle 9:35

Io non amo tanto le poesie di Eliot. L’arrivo degli americani ha sempre creato in Europa degli scompensi. E poi allora andava molto il giornalismo; che in poesia significa fluenza discorsiva, ritmo e musicalità: tutte cose che con le poesie che si fanno qui, c’entrano davvero poco.

Sulla poesia “Loro” di Edith Dzieduszycka, mi pare dissi a suo tempo che è un testo catartico, che sembra uscito da qualche incontro di psicoterapia. Mi è piaciuto ma non capisco perché se ne parli tanto. Però Edith sembra avere un forte temperamento o, quanto meno, la forza sembra essere tra i suoi obiettivi. Ma ho letto quasi niente di suo.

Antonio Sagredo: con la poesia NOE c’entra poco o nulla, perché è poeta a modo suo; se ha qualche similare bisogna guardare a Carlo Livia. Però ultimamente ho letto cose di Sagredo che ho trovato più vicine allo stile NOE; ho il sospetto che ci stia lavorando, come pure sta facendo Calo Livia.

Non sono tanto d’accordo con questa affermazione di Giorgio Linguaglossa: “Se in una poesia non ci sono Estranei che spadroneggiano, che entrano ed escono di scena sbattendo la porta, non è poesia”, più che altro non vorrei passasse l’dea, del tutto irreale, che il pensiero possa essere chiassoso e che si voglia portare il lettore sulle montagne russe; piuttosto, sì, su qualche cima innevata… Sono invece pienamente d’accordo con Luigi Celi quando annota che ” Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano”. Del risveglio, non del sogno !

Foto profil Marilyn bianco e nero

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile. (E.D.)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 12:19

Edith Dzieduszycka Tre poesie inedite da Grovigli

«Le previsioni del tempo sono buone».

Il respiro di prima si trasformò in sospiro.
E allora diventava quello lì.
«Una settimana.
A volte di meno, a volte di più».

Dipendeva dalla densità della nuvola.
«È solo un tentativo – dissi – vediamo cosa succede».

Lui aveva insistito, incomprensibilmente.
Ma intuiva la finta.

«Sarebbe solo tempo perso – ribadii – corriamo
sul filo del rasoio. Aspettiamo un po’
e forse sapremo qualcosa di più».

L’appartamento era polveroso, grigio,
per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre.

«Io avrei scelto il mare insieme a due coppie di amici
che a lei, chi sa perché, non piacciono affatto».
*
Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano.
Un sentore un po’ acido alla gola, appena passato l’uscio.
L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè.

Provava un disagio indefinibile.
Forse per l’autunno in arrivo?
In quell’incertezza stava ogni volta il lato antipatico della faccenda.
Come cambiano i punti di vista secondo l’umore!
Ogni casa ha la sua impronta, la sua emanazione specifica.
Far capire. Non dire.
Questo era il suo vizio.

«Perché non potrebbe andare sempre così?»
Dovrò fare la spesa domani.

Il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi.
Cosa avrebbero dovuto dirsi?, domandarsi?, confessarsi?
Ma, ripartire?
– Che parola vuota, per andare dove? –
«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».
«Il tempo che si calmino gli animi».
Però aveva insistito, incomprensibilmente.
Anche se non era nelle sue abitudini.

Ma questa volta era diverso.
Ormai non avrebbe saputo più niente.
Doveva farsene una ragione.

*

Due settimane fa, esattamente.
Aveva tutte le ragioni del mondo per essere scocciato.
Ma che ci faccio qui?
Sto diventando masochista?
Il dentista consigliava un antibiotico.
quella città nella stagione incerta,
un po’ malinconica, avvolta nelle prime nebbie leggere dell’autunno.
Solo per agitare un po’ le acque.
Per una volta potrebbe fare questo sforzo.

– Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette –

Cinque anni dopo si era ripresentato lo stesso problema.
Una persona gentile, discreta, un po’ eterea e distratta.

La loro vita era diventata più complicata.
Non se ne capacitava.

Leggere il giornale in autobus, in piedi è quasi impossibile.

Mario Gabriele In viaggio con Godot Cover gialla

Un Appunto di Giorgio Linguaglossa

La poesia di Edith Dzieduszycka si muove anch’essa all’interno di quella gigantesca problematica che nel novecento è stata denominata «esistenzialismo», con il che deve intendersi il problema del senso dell’essere dell’Esserci, ovvero, della «situazione emotiva fondamentale dell’angoscia come apertura caratteristica dell’esserci».1] Ecco alcune frasi paradigmatiche della Dzieduszycka:

«Le previsioni del tempo sono buone»

«Gli sguardi, i gesti, i silenzi non mentono e non ingannano»

«Due settimane fa, esattamente»

Ecco gli incipit delle tre poesie che introducono direttamente all’interno di «una» temporalità indicandone i limiti del calendario e, ironicamente, le caratteristiche climatiche della stagione; ma c’è anche un accenno ai tratti sopra segmentali del linguaggio umano: «Gli sguardi, i gesti, i silenzi» i quali, al contrario delle parole, «non ingannano». Ecco delineata la cornice temporale dell’esistenza umana, tra rammemorazioni, amnesie, rimozioni, denegazioni, abreazioni e informazioni, e poi «il vizio dei pensieri nascosti, perfino a se stessi». Anche qui ci sono degli elementi del quotidiano insignificante, banale, da rottamare, anzi, già rottamato, che entra nella sua poesia con il suo statuto di rottame, di frammento: «L’olio era finito. Pure lo zucchero e il caffè», insieme ad elementi delle intenzioni e delle preterintenzioni: «Devo andare alla banca per la domiciliazione delle bollette». Il parlato è fuso insieme al pensato e al quasi pensato; pensieri quasi inconsci friggono e collidono a contatto con i pensieri dell’io e con le istanze perentorie del super-io che irroga sentenze e sensi di colpa.

Nella poesia della Dzieduszycka si assiste al dramma eroicomico e serissimo della rappresentazione dell’angoscia come su un palcoscenico; le sue poesie sono sempre teatralizzate, teatralizzazioni dell’inconscio e delle sue peripezie: il problema principe è la indistinzione della «verità» dalla ciarla e la impossibilità di darsi un orizzonte di autenticità. Una oscurità profondissima impedisce di discernere il vero dal falso, il subdolo dalla mistificazione, perché c’è qualcosa nel fondo limaccioso dell’inconscio che ci svia continuamente, qualcosa di inconoscibile che sovrasta l’io:

«I nostri demoni sono più forti, riprendono il sopravvento».

1] Martin Heidegger Sein un Zeit, Verlag, 1927. Essere e tempo, trad. it. a cura di Pietro Chiodi Milano, Longanesi, 1976 p. 231

Strilli Busacca Vedo la vampaDonatella Costantina  Giancaspero

11 novembre 2017 alle 14:05

Cari amici,

Edith Dzieduszycka, Alfonso Cataldi, Anna Ventura, Mariella Colonna, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, vi sono grata per l’interesse che ha suscitato in voi questa mia poesia. L’ho conclusa proprio pochi giorni fa e non pensavo che Giorgio me l’avrebbe pubblicata sulla rivista. È stata un’autentica sorpresa! Anche il suo commento lo è stato e la traduzione di Edith, che ringrazio doppiamente. Ormai, quando scrivo, mi sento sempre più convintamente attratta dalla nuova prospettiva poetica indicata dalla NOE. Ho compreso che questo orientamento mi si addice alla perfezione. Probabilmente, lo cercavo da sempre, ma senza saperlo e soprattutto senza che nessuno me ne potesse dare indicazione precisa. Perciò, non potrò mai ringraziare abbastanza Giorgio Linguaglossa, mia imprescindibile bussola, per aver corretto la mia navigazione poetica, che se ne andava un po’ a naso, diciamo, seguendo l’intuito… Con l’ago puntato sulla NOE, invece, sento di poter raggiungere nuovi (e non effimeri) territori espressivi.

Ecco, cari amici, questo mi sento di dire in risposta ai vostri commenti tanto positivi.

Anche il poemetto di Edith Dzieduszycka, “Loro”, si inserisce nella ricerca operata dalla e nella Nuova poesia; e questo già prima che si parlasse di NOE. Un dato significativo del fatto che certi esiti espressivi si affermano necessariamente, perché imposti dalle direttive del Tempo storico.

L’originalità del poema “Loro”, a mio avviso, sta nell’insieme compatto di forma e contenuto: l’una necessaria all’altro, in quanto la crisi profonda dell’Io (“il suo scacco ontologico”, come ebbe a dire Giorgio, in un precedente commento), la crisi esistenziale, emergente da questi versi, non può altro che avvalersi di frasi brevi, chiuse in se stesse dalla punteggiatura. E di un tono perentorio, che trova nel parlato la sua manifestazione più forte. Molto è stato detto riguardo a questo poemetto e tutto davvero illuminante rispetto al suo significato. In ultimo, il saggio di Luigi Celi mi pare esemplare.

Concludo così, rinnovando il mio grazie, unito all’augurio… Buona poesia a tutti voi!

Foto New York traffic

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta». (Marcuse)

Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 16:29

Per tornare al caro amico e interlocutore Luigi Celi,

sarei curioso di conoscere il tuo punto di vista sulla nuova ontologia estetica, dopo la valanga di commenti, poesie, rilievi che sono piovuti in coda al suo articolo. Ormai questo nuovo modo di intendere il testo poetico è una realtà, la poesia italiana si è rimessa in moto (con quali risultati lo vedremo, ma già alcuni risultati sono sotto gli occhi di tutti).

La Nuova Poesia della nuova ontologia estetica è già di per sé un fatto nuovo, direi travolgente, travolgente (lasciatemelo dire) per la stagnante poesia italiana di questi ultimi decenni. Un fatto epocale, storico, in fin dei conti. Come scritto da molti poeti qui intervenuti, già da tanti anni i singoli poeti cercavano nuove vie, nuovi mezzi di espressione, certe novità erano nell’aria da molti anni, basti pensare a poeti diversissimi che non si conoscevano tra di loro prima di incontrarsi qui su questa piattaforma: Mario Gabriele, Steven Grieco Rathgeb, Lucio Mayoor Tosi, Antonio Sagredo, Donatella Costantina Giancaspero, Edith Dzieduszycka, Francesca Dono, Letizia Leone, Gino Rago, Giuseppe Talia, Anna Ventura, Alfonso Cataldi, Carlo Livia, Mariella Colonna, Chiara Catapano, Vincenzo Petronelli, Adeodato Piazza Nicolai, Luigina Bigon, Mauro Pierno, Laura Canciani… più altri autori che si situano nelle vicinanze di questo nuovo Grande Progetto e che ci seguono da tempo con interesse…

Io dico sempre che il nostro punto di riferimento deve essere l’Acmeismo degli anni dieci del novecento, il movimento che ha cambiato il volto della poesia del novecento (non solo russo)…

ho scritto di recente che «la Lingua di relazione si è de-psicologizzata», e che di conseguenza, si è verificato un «raffreddamento» delle parole, un «raffreddamento» stilistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, chi non se ne è accorto continua a redigere frasi protocollari, che recano il calco dell’antico endecasillabo, dell’antico novenario, mentre invece, in realtà, nella realtà della lingua parlata e tele trasmessa, non è rimasto nulla di tutto questo armamentario un tempo nobile. Il poeta di oggi ha a che fare con una cosa nuova: la parola «raffreddata» e con un nuovo processo: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno più la risonanza di un tempo: voglio dire che le parole del linguaggio poetico della tradizione, diciamo, dagli anni sessanta del novecento, hanno perso risonanza. E allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, raccolta di rottami dalle discariche della lingua quali sono internet, il linguaggio televisivo, il linguaggio di facebook, instagram, twitter, sms… non resta al poeta di oggidì che fare copia e incolla di frammenti.

Molto opportunamente, uno scrittore come Salman Rushdie ha affermato che i frammenti sono già in sé dei simboli, ovviamente de-simbolizzati. Così, senza che ce ne siamo accorti, la fragmentation è diventata il modo normale di costruzione delle opere letterarie, siano esse romanzi, racconti o poesie; ovunque ci volgiamo, vediamo frammenti, incontriamo frammenti. Noi stessi siamo frammenti, al pari delle particelle subatomiche che sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi che quel grande circuito che è il CERN di Ginevra identifica un giorno sì e un altro pure, là dove si fanno collidere i fotoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando.

La poesia si è prosaicizzata, prosasticizzata. Si tratta di un fenomeno storico, epocale di cui non resta che prenderne atto.

 Giorgio Linguaglossa

11 novembre 2017 alle 18:09

con le parole di Marcuse:

«È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

*

Nel 2010 così rispondevo ad una domanda postami da Luciano Troisio:

Domanda: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Risposta: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo.

Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta.

Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.

Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di

una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti: Mario M. Gabriele, Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Costantina Donatella Giancaspero; né bisogna dimenticare la riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein: i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche », o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto

di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

 

foto Le biglie

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno (A. Sagredo)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:20

Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica» – Spostare? – Se mai rovesciarla perché sia più efficace e incisiva e capace di conservare in un museo la vecchia poesia del ‘900 – poi a proposito di T. S. Eliot (così amato da Luigi Celi, e lo capisco) l’ho così rivoltato come un guanto di vecchio ermellino che non si riconosce più il suo specchio e la sua finzione in BISTROT:

*
Bistrot

Torniamo dunque, tutti quanti noi,
quando il cielo è in pace e finisce il giorno,
come un infermo folle che sul letto si acquieta .
Torniamo da viali chiassosi poco noti,
dai luoghi strepitanti dei flâneurs,
nei tranquilli cantucci di locande lussuose,
bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze;
sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento
di concreto disimpegno,
e ci inducono a una domanda opprimente
e ci allontanano da una sopportabile risposta.
Oh, rispondete, cos’è?…
quando saremo tornati da un consulto.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate ,
l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti
ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora,
ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche,
s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria,
è volata dal tetto decollando d’un tratto,
e mirando una tempestosa sera primaverile
ha sciolto i suoi anelli e s’è destata.

E davvero non ci sarà da aspettare
per l’aria pura che risale dai vicoli,
che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti;
e davvero non ci sarà da aspettare
per improvvisare una maschera, non incrociare i volti.
E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere,
e per oziare e per le notti dei piedi ……….
che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia.
Non c’è tempo per noi due,
e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe
e per mille realtà e reazioni
dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane.

In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili,
erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo,
e della chiacchiera.

E davvero non ci sarà più tempo
di rispondersi: sarò vile e non sarò vile?
Andare avanti diritto e salire sulle scalinate
con la chierica ben in vista…
e saranno muti per la folta capigliatura.
Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero
e intorno nemmeno una fibbia allentata,
e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia!
Non avrò timore di armonizzare gli universi?
Nell’eternità non c’è tempo
per indecisioni e reazioni che riempirà.

Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate.
Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi,
Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio,
ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti
sopra la musica che se ne va da un domestico spazio.
Così, come stare al sicuro?

E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati,
gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa
e quando non enunciato mi blocco su un pianoro,
quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete,
come potrei allora finire
a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini?
Perché non dovrei tutelarmi?

E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati,
questi piedi senza armille, imbrunite e coperte,
ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!.
È l’afrore che s’allontana da un vestito
che mi fa annoiare così?
Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa.
E che dovrei tutelarmi, allora?
E come finire?

Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali?
E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe
di tanti uomini in camicia insieme sui balconi?

Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati
inchiodati sulle onde di mari tempestosi.

E il premeriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così!
Irruvidito da corte dita,
sveglio… attivo… o sanissimo realmente,
in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me.
Non dovrei, dopo le leccornie,
aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità?
Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo,
malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta
mancante su un vassoio…
io sono un profeta – e questo mi interessa.
Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi.
Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver contegno,
e alla lunga, ne ero confortato.

E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio,
prima delle porcellane e delle leccornie,
fra maioliche bianche e qualche mutismo
tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio
di rinascere con un pianto,
di dilatare l’universo all’infinito
e di fissarlo in una risposta liberatoria,
di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò!
Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
non vi dirò nulla!”.
Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo,
rispondesse: “È quello che intendevo.
Si, è così”.

Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto,
ci sarebbe stato un vantaggio,
prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze;
prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta.
E non è quello, o poco di più?
È possibile non dire esattamente quello che non intendo!
Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete:
ci sarebbe stato un vantaggio
se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo
ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse
“Si, è così.
Non è questo ciò che intendevo”.

Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole;
non sono uno del suo seguito, uno che non servirà
a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno,
dissuadere il principe, incerto indocile strumento
irriverente, infelice d’essere inutile.
Non politico, imprudente e disordinato,
privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente;
quasi austero,
o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso.

Divento giovane, divento giovane.
Indosserò calzoni srotolati per intero.

Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca?
Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli.
Traducevano le sirene il silenzio una all’altra.
Non credo che erano mute per me.

Se ne venivano verso la riva per la sessa,
scompigliando la nera peluria di onde avvilite
quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.

Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato
accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte.

Fino a quando suoni disumani ci assopiscono,
e ci leviamo – su, dalle acque!

(antonio sagredo, Roma, 21/22 maggio 2015)

Foto uomo tigre

gli uomini ribelli/ gli angeli dannati/ cadevano a testa in giù/ l’uomo contemporaneo/ cade in ogni direzione (T. Rozewicz)

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 17:25

Per Edith i miei personali apprezzamenti che si ripetono identici a quel che scrissi a proposito dei suoi versi: asciuttezza e profondità coincidono… che è qualità rara.

Mario M. Gabriele

11 novembre 2017 alle 18:09

Basta questa poesia, Sagredo, per stare un po’ in allegria compagnia, come sarebbe bastato, per esempio a Leopardi aver scritto soltanto l’Infinito. Ma per un vecchio enologo come me che custodisce il vino delle migliori poesie, trovo questi tuoi versi, a parte le risonanze eliotiane e il timbro ironico, un vero colpo d’ala a cielo aperto.

Antonio Sagredo

11 novembre 2017 alle 18:00

E aggiungerei – anzi aggiungo e dichiaro – che è ormai maturo, se non già marcio (“La terra desolata” come titolo è errato, la traduzione precisa è “La terra marcia”! ) il tempo di ri-iniziare un NUOVO TEMPO per la Poesia, così come sempre è stato all’inizio di un nuovo secolo… la NOE sta dando un piccolo contributo, che è gigantesco vista la piattezza assoluta dello stato in cui versa la POESIA Italiana e non solo… i tempi sono già maturi (mi ripeto) poiché saremo fra un tempo non molto lontano davanti a sconvolgimenti che dire epocali è un eufemismo banale e spicciolo.

Avevo già dato un esempio con i versi delle mie 10 “LEGIONI” nel 1989… inascoltati poiché pioneristici : e questo è cosa ovvia per chi non ha orecchie. Sarebbe il caso che mi si desse l’opportunità di postarli…uno alla volta e per l’ultima volta… lo stile è quanto ci sia stato di meglio negli ultimi 60 anni: presunzione? No, consapevolezza.

Giorgio Linguaglossa

novembre 2017 alle 19:25

Scriveva il poeta polacco Tadeusz Rozewicz nel 1963:

[…]
gli uomini ribelli
gli angeli dannati
cadevano a testa in giù
l’uomo contemporaneo
cade in ogni direzione
contemporaneamente
in giù in su ai lati
in forma di rosa dei venti
un tempo si cadeva
e ci si sollevava
in verticale
oggi
si cade
in orizzontale.

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Luigi Celi: Appunti sul racconto/poesia LORO di Edith Dzieduszycka, sulla interpretazione psicofilosofica del poemetto di Giorgio Linguaglossa e sulla Nuova Ontologia Estetica

foto cry me a river

devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi – Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE

 Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avermi invitato più volte ad intervenire sulla rivista, ma motivi personali mi hanno impedito finora di pronunziarmi sul racconto poetico Loro di Edith Dzieduszycka. Scrivo adesso, senza piaggeria, riconoscendo molti meriti all’autrice. Il testo scritto da Edith mi piace; soprattutto mi piace come racconto. È un sogno ad occhi aperti, un po’ kafkiano, incalzante quanto basta, coinvolgente e distaccato quanto basta! Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE. Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido. l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla. Una caratteristica della prosa e della poesia di Edith è l’ironia.

L’io dice a se stesso:

“Ma devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi e dirmi; ‘Sei stato il più bravo. Il più coraggioso. Il Più’ ”. Si tratta in fin dei conti, e Linguaglossa in ciò ha ragione, di un attacco dissolutivo alla pletoricità dell’ “Io”; una messa in mora del suo presunto cartesiano primato, in nome, in questo caso, forse, delle conquiste psicoanalitiche. Linguaglossa non fa riferimento al Super io, che è una sorta di alter ego, spesso in dissidio con le altre strutture della psiche; egli tuttavia dà un’interpretazione psicoanalitica molto suggestiva, oscillando tra Freud e Lacan. Sulla scia delle sua scelta ermeneutica vorrei dire la mia.

L’“Io”, il suo presunto primato,

nel racconto della Dzieduszycka, esplode nello scheggiarsi della sua immagine in uno sciame di maschere e demoni persecutori. È ironica, la Dzieduszycka, di una ironia raggelata. L’ironia è un modo per relativizzare, velare e depistare. Poteva essere, Edith, più coinvolta e coinvolgente? Non lo so. Ma a volte occorre anestetizzare i propri ricordi, soprattutto se dolorosi; è necessario dare veste letteraria o teatrale, trasformare in personae, in maschere, le proprie memorie infantili, i timori, le angosce sopite. Mentre scrivo, penso all’amico Salvatore Martino, che non si è sentito coinvolto leggendo LORO, e mi viene da ribadire che si tratta di un testo in prosa, non di una poesia tout court, di una messa in scena attuata con brechtiano distacco. Salvatore Martino lo sa: fa bene alla scrittura e anche al teatro espressionista, che pure mirano al coinvolgimento, tenere un certo distacco, perché sia possibile capire non soltanto patire.

Le considerazioni di Giorgio, nel suo commento “psicofilosofico”, mi sono sembrate quanto mai stimolanti. Aggiungerei che l’“IO può essere assunto in tanti modi, come “IO” generico, io sociale, io borghese, aristocratico, proletario  oppure come l’“IO” struttura della Psiche, e certo forse, dietro quest’“IO”, si nasconde l’io individuale, il piccolo io che ha a che fare con il corpo, con la sofferenza e il piacere, con il desiderio e con il senso di colpa…. Ma quanti “io” esistono nella fenomenologia del soggetto? L’io è un camaleonte, è mercuriale, sguscia quando lo si vuole afferrare, definire. A me pare, però che noi complichiamo le cose, al fondo di tutto il racconto, ad essere assediato dai lemuri o dai demoni del “Super io persecutorio” (Freud) e l’io reale o anch’esso fantasmatico di chi scrive, di Edith. Non vedrei tanto nei fantasmi che ossessionano l’io, il segno della ritorsione del desiderio generico dell’io-corpo che, non conseguendo l’“oggetto”, scaricherebbe la propria energia su se stesso, come un boomerang. Certo ciò che è rappresentato in scena è il conflitto tra Es, io e super io, ma la battaglia vera si compie non nella sfera strutturale, ma nel regno dell’individuale, del corpo e delle relazioni concrete.

foto volto con mano

l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla…

Si può dunque proseguire sul doppio binario dell’analisi strutturale e dell’analitica esistenziale. Mi permetto adesso di fare una digressione un po’ scolastica. Il Super io è, secondo Freud, una struttura psichica, che si costituisce nell’infanzia, come introiettato divieto dell’incesto. Esso può divenire persecutorio perché si è formato nei conflitti familiari, quando il bambino che desidera la madre, arriva ad allucinare la soppressione fisica del padre; per questa fantasia di amore e morte si genera il senso di colpa o si costituisce la coscienza etica, come introiezione super egoica del divieto dell’incesto. La bambina, ovviamente – secondo questa lettura mitico-simbolica (l’Edipo è un mito) – desidera il padre e vorrebbe sopprimere la madre. È invalso, a questo proposito, parlare di Complesso di Elettra, come variante al femminile del Complesso di Edipo. Se ritorniamo allo schema psicoanalitico freudiano, accade che il Super io, introiettando il divieto, può divenire via via più rigido, e quanto più si irrigidisce tanto più continua l’azione repressiva dei desideri e delle pulsioni, amplificando le suggestioni e le distruttività mnesiche della colpevolezza (delle colpe reali o immaginarie) producendo fobie, sintomi d’ansia, disturbi della personalità e frantumate maschere persecutorie. L’io è per altro, in questo schema, una “struttura di mediazione” tra le pulsioni dell’inconscio e le istanze etico- sociali del Super io subcosciente. La funzione sociale del Super io non è del tutto negativa: essa è funzionale a “sublimare” l’istinto, a rendere disponibile l’ “energia psichica”, la libido, per fini culturali, civili, sociali. Piuttosto quando l’io non è più in grado di mediare tra gli istinti e le superiori istanze superegoiche dell’etica e del sociale allora si può entrare nella patologia. Non bisognerebbe demonizzare né l’inconscio, né il super io, né l’io psicologici, occorre solo considerarli nelle loro interattive funzioni, nella fisiologia e nella patologia del loro agire.

Questa chiave interpretativa del testo di Edith Dzieduszycka, può essere utile ad entrare in dialogo con quella sempre molto interessante di Giorgio.

Ci sono diverse possibilità ermeneutiche. Nietzsche sosteneva che “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.

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Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido

Forse la prendo alla lontana, ma si può interpretare anche il racconto di Edith

non guardando più solo al super io quanto piuttosto alla svolta subita dalla psicoanalisi freudiana dopo il 1920, con Al di là del principio del piacere. Freud studiando le “nevrosi traumatiche”, scopre che gli ammalati di questa sindrome – generalmente persone rimaste sotto le macerie di un bombardamento durante la prima guerra mondiale – tornavano continuamente e coscientemente sui propri traumi, non riuscivano a staccarsene. La sua scoperta rischiava di mandare in aria la sua teoria del rimosso e della necessità dell’anamnesi. Non erano esperienze inconsce, dimenticate, da riportare alla coscienza, a tormentare le persone affette da questo tipo di nevrosi. Il trauma può essere più o meno grave, ma se ha provocato la nevrosi traumatica – quale autocostrizione psichica tesa a rivisitare ossessivamente gli eventi dolorosi, traumatici, in una condotta che egli definisce “coazione a ripetere” – allora il soggetto, pur ricordando i motivi del suo trauma, non riesce a liberarsi; egli è come dominato da thanatos, una forza, una spinta interiore distruttiva, che Freud chiama anche “principio di morte” per opporlo al “principio del piacere”.

Thanatos è la seconda istanza pulsionale/funzionale, dopo Eros,

ad informare la psiche nelle interpretazioni freudiane dopo il 1920. Il caso rilevatore è stato quello di Hans, il nipotino di Freud, il cui papà è andato in guerra. Nel gioco del rocchetto, Freud individua la “coazione a ripetere”: il bambino lancia un gomitolo urlando “Fort”, cioè “via”, così agendo sembra rispondere a una necessità interna coattiva, mentre è più sereno nel riattirarlo a sé, quando dice “Da”, che vuol dire “qui”. Hans, rende attivo ciò che ha passivamente subito e che lo ha fatto soffrire. Freud dirà che il rocchetto sta per il padre di Hans, e che l’atto di scagliarlo lontano riproduce attivamente il trauma subito. Hans mette in scena nel suo gioco il momento doloroso, riattiva il distacco, mentre il momento libidico, gratificante, atto a compensare la sofferenza, passa in secondo piano. Ora Edith Dzieduszycka ha anche lei subito un doppio trauma: ci ha più volte raccontato di  aver perduto il padre, per colpa dei collaborazionisti di Vichy e dei nazisti e, per un certo tempo, di aver perso anche la madre, che fu incarcerata. La messa in scena teatralizzata del racconto LORO, è solo un modo di configurare, velare e sublimare una storia di persecuzione realmente subita. L’abilità di chi scrive è nel rendere meno drammatica la elaborazione dei ricordi per nulla rimossi, i pensieri dolorosi di cui è rimasta prigioniera, non del tutto  metabolizzati. Nella mia disamina critica di Cellule – un altro libro di Edith, pubblicata sull’Ombra  – ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione.

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ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione

II

La svolta modernista della poesia del novecento

 Il racconto LORO di Edith Dzieduszycka è stato riscritto, su suggerimento di Giorgio Linguaglossa, in forma-poesia, con gli accapo opportuni. Egli ha avuto anche il merito di rendere con ciò visibilmente attuale l’ironica frase, che la poesia moderna non sia altro che “l’arte di andare accapo”. Ed è dunque abilissimo, il critico, con questo coup de théâtre, nel voler dimostrare a suo modo che non c’è alcuna differenza tra prosa e poesia. L’assunto, con molte limitazioni, ha un suo fondamento storico nella svolta modernista della poesia del novecento. Il modernismo ebbe tra i suoi esponenti personalità di grande livello Ezra Pound, T. S. Eliot, Virginia Woolf, J. Joyce, Ernest Hemingway, F. Fitzgerald, Henry Roth, e tra i suoi affini Kafka, Céline, Emilio Gadda, Luigi Pirandello. Nel modernismo il razionalismo coesiste con l’empirismo, la sensibilità reclama nei versi concretezza, prossimità alle cose.

 Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica»

Nei commenti a LORO della Dzieduszycka c’è un intervento di Antonio Sagredo che, con mio grande stupore, critica uno dei maestri del modernismo, un poeta la cui importanza è universalmente riconosciuta, T. S. Eliot. Sembrerebbe aver poco a che fare, quest’intervento, con il testo di Edith, ma nella sua eccentricità, non so quanto intenzionalmente, Sagredo solleva alcune questioni che hanno attinenza con la NOE. A questo punto abbandono il discorso su LORO della Dzieduszycka per affrontare proprio alcune questioni estetiche e filosofiche che vengono sollevate, anche nei commenti sull’Ombra delle parole. L’attacco a Eliot di Sagredo forse tende, come fa spesso lui, a spostare il baricentro ermeneutico della NOE, da una linea più filo-occidentale, ad una che faccia propria i territori più misteriosi della poesia slava. Egli cita, però, anche, oltre a Chlebnikov e Majakovskj,  poeti occidentali  di grandissimo livello come Paul Valéry e Hart Crane, ma lo fa sempre per sminuire Eliot, per ridurlo a un poeta “che rappresenterebbe il marcio e il malato della poesia europea”. Nella storia della letteratura mondiale, ci sono autori di altissima rilevanza e in genere non si dovrebbero fare graduatorie; nella poesia russa, come non apprezzare poeti del livello di Puskin, Osip Mandel’stam, Bella Achmadulina, Anna Achmatova, V. Majakovskj…, esaltare gli uni non ci deve portare a disprezzare gli altri.

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Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico

Vorrei spendere alcune parole su Eliot,

su come la sua poesia possa interessarci ancora. Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico. Egli sapeva gestire in maniera intensa il linguaggio alto con cadenze e ritmi di grande musicalità. Nei Four Quartets assume la tecnica del contrappunto, mutuandola da Beethoven e da Berlioz. Eliot comprese che occorreva fondere il linguaggio alto con il linguaggio basso, più prosastico, ricorrendo, tra l’altro, ai celebri “correlativi oggettivi”, che fanno palpitare di vita poetica le cose. Non dimentichiamo che in giovinezza era stato attratto dal simbolismo e più tardi dall’imagismo poundiano. Nei versi delle sue opere maggiori, la ragione ottiene il pieno riconoscimento dei suoi diritti; l’“io” è decentrato ed è un “io”plurale… cioè vengono convocati altri “io” nei suoi versi come ad un magnifico simposio, i pensatori del passato e del presente – Eraclito, Platone, Agostino, Tommaso, Bergson, F. H. Bradly, B. Russel, E. Husserl, J. Maritain e molti altri – e poi i grandi poeti. Eliot assume, mutandoli di segno, i versi dei suoi maestri e compagni di viaggio: Omero, Virgilio, gli stilnovisti, Dante, Shakespeare, i metafisici inglesi del XVII secolo; ha familiarità con i moderni e i contemporanei, J. Laforgue, Milton, Yeats, Valery, Auden, Joyce, Poe, Pound; sa attingere, senza darlo a vedere, dai Vangeli, soprattutto da Giovanni, dalle Epistole paoline e dai Profeti dell’Antico Testamento; da Ezechiele ricava tra l’altro il titolo del suo poema, La terra desolata (che non c’entra nulla con “terra marcia”); prende spunti, da Geremia, da Isaia e dai testi biblici sapienziali; utilizza i mistici come San Giovanni della Croce… Aleggia nella sua poesia il linguaggio mitico, le leggende nordiche, il Graal, parla di Adone, di Attis, di Osiride, innesta la storia antica nell’attualità, per cui un prototipo dell’uomo d’affari e della finanza del suo tempo, Stetson, può combattere a Milazzo durante la prima guerra punica! Aperto alle culture orientali, al buddhismo e all’induismo, esprime drammatica consapevolezza della deriva dell’Occidente, della desolazione della guerra. I suoi versi sono come una fiamma che si alimenta di una materia poetica sempre viva, con citazioni e prestiti, anche nascosti… Se non basta la vastità degli interessi e l’ampiezza della sua prospettiva a darmi ragione, non serve ovviamente neppure il premio Nobel a confermarne l’eccezionale livello, né il numero enorme di critici che su scala mondiale si sono occupati di lui. Direi, in ultimo, che l’importanza e la grandezza di un poeta dipendono non solo dal gusto di questa o quella persona che  li legge, ma dall’influenza che la sua poesia ha esercitato e continua ad esercitare sul piano  planetario.

Onto T. S. Eliot

La NOE deve molto ad Eliot e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea

    La NOE deve molto ad Eliot

e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea.  Linguaglossa lo ha compreso, si vede dalla sua citazione di Eliot, negli interventi critici a LORO di Edith, però, egli è subito contraddetto e con virulenza dall’amico Antonio Sagredo, troppo aggressivo, ingeneroso verso il poeta anglo americano.

La rivoluzione modernista non è ancora compiuta che già incalza la tendenza dissolutiva, di cui pur sempre essa era latrice per il doppio movimento verso la profondità e verso la superficie, verso la poesia e verso la prosa. L’unica possibilità di salvezza è l’equilibrio del doppio registro poetico prosastico. Non si può negare la deriva prosastica attuale, basata sull’imitazione delle traduzioni in prosa di poeti stranieri che spesso hanno scritto in rima; l’assunzione dei linguaggi dei traduttori, che non possono rendere la qualità originaria dei poeti stranieri, non è un’acquisizione positiva. Suono e senso dovrebbero concorrere; anche il nonsense vale per il suono, non in sé. Il linguaggio di certa poesia minimalista, sciatto, meramente enumerativo, vicino agli elenchi telefonici, l’eccessiva ricerca della spigolosità del verso, le cacofonie più o meno intenzionali, la rinuncia programmatica alla metrica, o anche solo al ritmo o all’unità formale del testo, pur nell’uso congruo del frammento, sono elementi di un nuova estetica che è come un tavolo che si regge solo su una gamba. Una differenza tra prosa e poesia bisogna conservarla, lo dice chi ha pubblicato come sua prima opera un prosimetro – L’Uno e il suo doppio (Bulzoni, Roma, 1997) – che quindi non ha rifiutato mai per partito preso la commistione dei “generi letterari”, evidentemente tramontati nella loro rigida separatezza…

  Una tesi da cui dissento, è che la poesia si generi ex nihilo.

Secondo il mio modesto parere, ciò non avviene, se non per metafora. Ogni opera poetica nasce indubbiamente dalla creatività del poeta ma è risultato di un lungo percorso personale e storico collettivo. Spesso i rimandi, i prestiti, le influenze sono determinanti per comprendere e valutare un testo di poesia.

In ultimo – ma forse ho capito male e vorrei che il mio dubbio mi fosse chiarito – non sono convinto che la battaglia per una Nuova Ontologia Estetica debba passare per l’accettazione, piuttosto che per la critica del nihilismo. Amerei trovare il senso “ontologico” della poesia piuttosto che il suo “niente” nei dibattiti dell’Ombra. “Ontos” sta per essere, logos sta per discorso, mentre mi pare che si intenda bypassare la differenza tra Essere e Nulla, tra Nulla e niente, tra pieno e vuoto, tra ontologia e nihilismo… La cosa è pericolosa, già lo ha visto Nietzsche – “Il nihilismo è il più inquietante dei visitatori, sta fermo davanti alle porte”… Figuriamoci se gliele apriamo! Può accaderci di essere invasi irrimediabilmente dai lemuri del racconto poetico di Edith Dzieduszycka. Faccio notare umilmente che certi démoni non si possono evocare, senza pagarne nel tempo le conseguenze e su più piani. Quali? Per esempio, se non si accetta la differenza tra essere e nulla è impossibile fondare un’etica. Vi pare poco? Due guerre mondiali, i Campi di Sterminio, i Gulag, i morti per fame a causa del neoimperialismo economico, il terrorismo internazionale e le emigrazioni planetarie sono esempi che non c’è stata né ci sarà mai alcuna nietzschiana “Trasmutazione dei valori”; che la vera “Etica del risentimento” è quello degli ignavi che non fanno niente per gli altri, e svalutano chi si impegna, quella di chi, dopo aver affamato e sfruttato interi continenti, si permette di condannarne la rabbia, di non aprirsi agli ultimi della terra, agli espropriati di ogni umana dignità. Questo è nihilismo. Il nihilismo è insito nelle ideologie laiche assolutizzate del nazismo, del fascismo. Il nihilismo è la porta della guerra e di ogni abuso, di ogni discriminazione e violenza perché elimina ogni differenza assiologica, oltre che ontologica.

  L’identificazione tra essere e nulla

è stata fatta, su  altri piani dai mistici, anche sotto l’influsso della teologia apofantica neoplatonica, perché si voleva dire che di Dio (dell’Essere assoluto) non è possibile alcuna conoscenza essenziale. Egli è al di sopra di ogni nostra possibilità di definirlo e conoscerlo, tranne che per analogie, per cui il suo Essere è oltre l’essere, ed è per noi come Nulla. Di fronte a Dio i mistici si ponevano con interrogante umiltà, in meditante silenzio, in attesa fiduciosa per un ascolto interiore e profondo, accompagnato dall’impegno alla conversione e all’amore. Il nihilismo è tutt’altra cosa. Aggiungo che si potrebbe scrivere una storia del concetto di Nulla e si vedrebbe come la questione del nihilismo è solo marginale, rispetto ad essa. Parlando delle stesse cose e con le stesse parole, può succedere di trovarsi in ambiti epistemici o ermeneutici totalmente lontani; tuttavia, dell’Essere e dell’ente, di ciò che permane o che diviene è sempre il caso di dibattere, non solo in relazione alla poesia. Per i poeti, certo, è più importante scrivere versi, ma chissà se saranno in grado, meglio dei filosofi, che hanno interrotto i loro sentieri per carenza di linguaggio, di interrogare la parola sulla grandezza e la miseria dell’ente.   

  Perché l’ente e non il nulla?

Ciò che si spalanca, nella contingenza e finitezza, è la costitutiva mancanza di “ragion d’essere” degli esistenti (Leibniz). Perché l’ente e non il nulla? Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?  L’ontica costitutiva indigenza degli enti – si nasce e si muore, e qui sorge la questione del fondo vuoto dell’esserci, richiede logicamente ed esistenzialmente una risposta. L’indigenza ontica è come una domanda inscritta nella carne della natura e nella storia. Il vuoto dell’ente si fa cosciente a volte nell’uomo, ma anche se non è consapevole di sé, si esprime tuttavia come angoscia, disperazione o speranza e ci sospinge verso il Nulla o verso il Pleroma. Noi viviamo proprio in questo “vuoto” – sunyata , in questa infinita apertura del finito (dicono i buddhisti), e potremmo non occasionalmente come Leopardi, ma sempre ritrovarci dietro la siepe dell’infinito. Il desiderio, il tendere, la dynamis segnano costitutivamente ogni ontica ed essenziale indigenza dell’ente, perché l’ente è e non-è, l’Essere invece è, non ha origine e fine, in tal senso è metafisicamente Infinito. Non è l’Essere che sta oltre l’ente, è l’ente che abita nell’Essere ed è l’Essere che abita nell’ente, che lo origina, lo sostiene e lo trascende. Quale sia il Fondo misterioso di questa compenetrazione, che uccide e risuscita, non credo che possa essere raggiunto con la sola ragione; solo un Dio può rivelarcelo. L’ente viaggia nell’Essere come nel tempo interno; nel tempo esterno l’ente è divenire: miscuglio di vita e morte. 

Chi non si appaga del finito, parla del nulla, perché ha  bisogno di Infinito.

Di queste suggestioni e possibilità voglio ringraziare tutti gli amici dell’Ombra, che non nomino solo per non dilungarmi.

Dopo aver seminato di perplessità e interrogativi il mio intervento, vorrei  esprimere una certezza. Merito di Giorgio Linguaglossa è aver inteso che la grande poesia non è mero sfogo di stati d’animo o superficiale levigatura impressionista di schermi, di fogli di carta e di specchi, ma ha profondamente a che fare proprio con l’Essere e con il Nulla, cioè con le dimensioni più profonde, evocate con il Linguaggio. Non qualsiasi linguaggio, ma quello che sveglia se stesso risvegliando le cose. Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano. La poesia guardando al futuro e alle cose, con lo sguardo dell’ente sull’assolutamente Aperto, forse può ritornare nella sua antica Casa ancora oggi disabitata.

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

  Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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LA NUOVA POESIA RICHIEDE UN NUOVO LINGUAGGIO CRITICO, UNA DIREZIONE DI RICERCA – Dialogo tra Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi – Una poesia di Donatella Costantina Giancaspero con Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa

 

Foto New York traffic

la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico, una direzione di ricerca

gino rago

20 agosto 2017

Irrompendo nella storia dell’arte i Capogrossi, gli Hartung, i Mathieu, gli Scanavino (arte segnica e gestuale, nella pittura contemporanea) e poi i Burri (pittura materica), i Pollock, i de Kooning, i Francis (pittura d’azione), sensa dimenticare i Fontana e gli Scialoia (pittura spaziale) e i Dorazio (pittura neoconcreta e arte cinetica) se niente hanno fatto, hanno costretto la cosiddetta ‘critica d’arte’ a rivoluzionare quanto meno il lessico nel nuovo gergo critico. e non tutti i critici d’arte furono trovati pronti…
Perché si comprese ob torto collo che non si potevano applicare alla pittura contemporanea gli schemi, i paradigmi, le misure che si usavano per quella ‘antica’ usando espressioni, anche abusate, come “bella materia”, “ricco impasto”, “variopinta tavolozza…”, “agili pennellate”, “delicati arabeschi”
di fronte a cenci raggrumati, lamiere contorte, tele tagliate.
Eppure a lungo, errando clamorosamente, alcuni interpreti d’arte non furono inclini ad abbandonare quel “linguaggio critico” che se si addiceva ancora all’arte di ieri, inadatta appariva a quella contemporanea…
Temo che la “critica letteraria” abbia lo stesso problema oggi di fronte alla nuova poesia… È come se il critico d’arte si attardasse a parlare ancora di “accordi di colore” di fronte a un’opera di Klein tutta azzurra o dinnanzi a “una superficie irsuta di chiodi o seminata di fori e di tagli inflitti alla tela”
d’un Lucio Fontana….

Strilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secolo

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,
hai colto il punto centrale: la nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico. Non è facile costruirsi un nuovo linguaggio critico, ma penso che esso dovrà essere fatto con gli stessi materiali con cui è stata fatta la nuova poesia. la poesia della nuova ontologia estetica richiede il nuovo linguaggio critico, ma non è cosa facile né automatica, e forse un nuovo linguaggio critico non vedrà mai la luce perché non è nell’interesse dei gruppi editoriali e istituzionali favorire e avallare un nuovo linguaggio critico; del resto, io stesso dico sempre che non sono un critico e né un ermeneuta, non so proprio cosa voglia dire fare dell’ermeneutica, tento di fare della critica ma non sono affatto sicuro di riuscirci, consapevole dei miei limiti e delle mie possibilità.

Un nuovo linguaggio ermeneutico deve prendere tutto da tutto, proprio come fa la poesia della nuova fenomenologia del poetico, come fa la poetry kitchen che prende tutto da tutto, deve saper gettare a mare gli antiquati linguaggi della critica accademica, la vecchia terminologia stilistica. Un nuovo linguaggio deve essere ancipite, eclettico, ellittico, deve saper anche improvvisare, deve saper trattare i linguaggi di disparati campi, non escluso quello del giornalismo, quello filosofico e quello della moda, deve essere un conglomerato di esperienze, di polinomi frastici, un concentrato, una sovrapposizione di altri linguaggi, di iconologie, di asimmetrie, deve saper parafrasare, dialettizzare, deve procedere a zig zag, deve essere rapido, infungibile, inquieto…

Strilli Gabriele2Ecco, ad esempio, quello che scrivevo a proposito della poesia di Kjell Espmark:

” Le parole di Espmark sanno di essere effimere, transeunti, fragili, entropiche. Le parole che vivono nel nostro mondo non possono che essere volatili. Il sostrato ontologico dell’Occidente del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di volatile i cui componenti appartengono alla categoria dei conglomerati, fatti di giustapposizioni e di emulsioni, di lavorati e di semilavorati, materiali che si offrono alla costruzione, alla auto-combustione e alla entropizzazione. Il Moderno del Dopo il Moderno è ragguagliabile a un gigantesco conglomerato di elementi aerei, fluttuanti, effimeri dal quale sembra sia scomparsa la forza di gravità. Le parole sembrano allentarsi e allontanarsi dal rigore sintattico, appaiono volatili, frante. Ma qui interviene il rigore del poeta svedese che le tiene incatenate alla orditura sintattica del testo.

Nella poesia di Kjell Espmark ci trovi in trasparenza frasari che riecheggiano frasi un tempo già pronunciate, già scritte, magari nella Bibbia o in qualche cronaca dell’impero cinese. L’ingresso in questi grattacieli del fabbricato leggero, le novelle piramidi del nostro tempo, è fatto di effimero e di transeunte, di transitante nel Nihil, ponte di corda steso sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà. Ecco, la poesia di Kjell Espmark ha la solidità e la leggerezza di un ponte di corda. L’ingresso, dicevo, in questo fabbricato di frasari nobili e non-nobili è un tortuoso cunicolo che ci porta all’interno del mistero dell’esistenza dell’uomo occidentale. Qui, ci si muove a tentoni, non si vede granché, non c’è luce, non si percepisce se la via scelta sia quella giusta, ma l’attraversamento di essa è per un poeta un obbligo non eludibile. Bisogna varcare quell’ingresso e inoltrarsi. La poesia di Kjell Espmark si propone questo compito. È un tragitto fra intervalli di buio durante i quali il tempo sembra sospeso, dove la «parola» si è volatilizzata, portandosi via con sé «una patria incompleta», ed è diventata invulnerabile al tempo che la vuole soccombente. Le «ombre» commerciano con i vivi. Ci sono molte «ombre» in queste poesie, e noi non sappiamo chi sia più vivo, se le «ombre» o i vivi:

Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –

Questo «passaggio» tra le «ombre» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Um-Weg per raggiungere un luogo non significa girarvi attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si interrompe nel bosco) – ma significa compiere una innumerevole quantità di strade, perché la «dritta via» è impenetrabile, smarrita e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.” Continua a leggere

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Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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domenico morelli ritratto di giacomo leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause». Continua a leggere

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Giacomo Leopardi – Il pensiero filosofico e poetico del recanatese nelle letture della nuova ontologia estetica e di Emanuele Severino – a cura di Giorgio Linguaglossa

Congresso di Vienna

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Digital art (l’ente)

Giacomo Leopardi nella lettura della «nuova ontologia estetica»

Non c’è dubbio che il pensiero e la poesia di Leopardi siano usciti fuori dell’orizzonte di lettura delle ultime quattro decadi della cultura poetica italiana. La poesia italiana si è mostrata reticente e restia ad affrontare l’eredità poetica del recanatese e a ricollegarla alla sua filosofia critica; il recanatese è così diventato un grande estraneo, uno scomodo e ingombrante poeta pensatore, ad avviso di Severino il più grande pensatore degli ultimi due secoli. Addirittura, di recente una poetessa alla moda lo ha inserito tra i poeti «minori».
La «nuova ontologia estetica» ritiene invece che occorra al più presto rimettere Leopardi nel posto che gli spetta, come il primo e più grande poeta pensatore europeo che pensa la crisi come un complesso di enti dileguantensi nel nulla. Il pensiero poetante che si esplica in una poesia è l’ente dotato di autocoscienza. La nuova poesia europea dunque parte da Leopardi. La «nuova ontologia estetica» si è occupata a più riprese del «problema Leopardi», e ha rimesso al centro della propria ricerca la questione dell’ente, e quindi la questione del nichilismo nella sua fase attuale di sviluppo e del peculiarissimo «stato psicologico» proprio della nuova poesia ontologica. In questa accezione, la NOE non poteva non occuparsi della critica del recanatese alla civiltà del suo tempo e si è mossa in direzione della fondazione di una nuova poesia ontologica che ripartisse da una critica radicale dell’economia estetica e filosofica degli istituti stilistici del secondo novecento e dei giorni nostri. Ma già parlare di «istituti stilistici» significa dimidiare e fuorviare la impostazione che la «nuova ontologia estetica» dà dell’ente. La «nuova poesia» è quell’ente che designa lo stadio attuale degli altri enti ricompresi nell’orizzonte della crisi che quegli enti impersonano e prospettano. Direi che l’apertura prospettica verso gli altri enti è l’aspetto fondamentale della «nuova poesia ontologica», ente prospettico per eccellenza.

Occorre porre un alt all’economia curtense delle ultime decadi del pensiero poetico italiano. La «nuova ontologia estetica» col suo rimettere in piedi la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia intende riprendere, per reinterpretarla in base alle mutate esigenze della odierna età della tecnica, la lezione del grande recanatese.

Testata azzurra

grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Porre la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia,

è questa la chiave di accesso che usa Leopardi per attraversare i linguaggi petrarcheschi degli ultimi secoli della poesia italiana e ristrutturarli in un linguaggio poetico integralmente espressivo che nulla concedesse alle sinapsi petrarchesche della tradizione italiana.
Concordo con quanto sostenuto da Emanuele Severino sul «pensiero» di Leopardi. Il filosofo italiano legge il recanatese come il primo poeta filosofo del nichilismo, colui che si è posto come critico radicale dell’«età della tecnica». Il recanatese scopre che l’assunto fondamentale dell’età della tecnica è il nichilismo, quel pensiero soggiacente, non detto, dell’Occidente, quel «solido nulla» che costituisce il reale inteso come esito transitorio, passaggio di un ente dal nulla al nulla. Cioè nichilismo.
Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese, scrive: «La vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento».1]

Leopardi pensa il divenire in termini ontici e ontologici,

poiché fa coincidere il divenire con la storia degli uomini e la loro infelicità nel dolore. Il pensiero poetante per sua natura non ha semplicemente il ruolo di rilevare il senso ultimo dell’ente e di porgerlo all’uomo, il pensiero poietico è un pensiero fondante, un pensiero che dà la misura del mondo, fonda gli ambiti di comprensione dell’ente visto nel divenire come permanente produzione e distruzione dell’ente. Leopardi affida alla poiesis un compito arduo ed estremo, quello di porgersi in posizione di ascolto dell’ente.
È ovvio che un pensiero così abissale non poteva e non può essere accettato dalla poesia italiana del tardo novecento, rimasta sostanzialmente petrarchesca, scettica, acritica, conformistica e priva di un pensiero filosofico.

Testata politticoIl problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa»,

così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente.

«Il secol superbo e sciocco»

Il pensiero filosofico di Giacomo Leopardi mette a nudo la realtà dello stato di cose presente in Europa scaturito dal Congresso di Vienna (1815). Il problema intravisto dallo sguardo acutissimo di Leopardi è il fondamento minaccioso del «nulla», del «niente» che sta alla base della costruzione della civiltà europea. Questo pensiero, sconvolgente per la sua acutezza e per l’anticipo di settanta anni con il quale viene formulato prima di Nietzsche, ci fa capire la grande potenza del pensiero filosofico di Leopardi, il suo aver percepito con estrema chiarezza, in anticipo sul proprio tempo, che il presente e il futuro dell’Europa sarebbe stato il Nichilismo. È un risultato sconvolgente quello cui giunge il pensiero di Leopardi se pensiamo che ancora oggi siamo all’interno delle determinazioni che l’età del nichilismo riserva al pensiero europeo dopo Heidegger. Il pensiero debole di Vattimo e il pensiero parmenideo di Emanuele Severino si muovono nell’orbita tracciata a suo tempo dal filosofo di Recanati. E, probabilmente, la civiltà europea dovrà anche nel futuro fare i conti con il pensiero filosofico di Leopardi, d’altronde espresso con una chiarezza e precisione lancinanti.

Rispetto al pensiero dell’Illuminismo, Leopardi fa un passo indietro, ritorna al pensiero dei greci, mette a punto l’apparato categoriale che gli serve per scoprire e mettere a nudo la vera essenza della civiltà europea. «Il secol superbo e sciocco», che credeva a quell’800 romantico ed idealista, e credeva nelle «magnifiche sorti e progressive», viene irriso dal poeta di Recanati il quale si cimenta in un pensiero che riparte dal punto zero, dal pensiero di un «corpo» che si muove nel «nulla», fonda il modo di pensare ontologico della civiltà europea. Il paradiso della civiltà della tecnica è destinato all’angoscia, in quanto la logica della scienza sulla quale esso è fondato è una logica che poggia la sua costruzione su ipotesi auto evidenti, sprovviste però di fondamento nell’épisteme su una verità immutabile e definitiva. Questa suprema felicità che il paradiso della tecnica può dare all’uomo sarebbe quindi, in ultima istanza, una felicità effimera, precaria, falsa e falsificabile. Continua a leggere

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Roberta Costanzo: Confronto del Sonetto CCXI di Francesco Petrarca nel Vat. Lat. 3196, c. 5r e nel Vat. Lat. 3195, c.42r.

foto Mondrian Design Movement Mondrian House

Bauhaus Mondrian movement

https://youtu.be/dXC1HjOab-0 Nel sonetto CCXI del Canzoniere di Petrarca sembrerebbe agire una lotta tra forze opposte: quelle d’amore e passione da un lato, contro altre che invece invitano alla loro fuga. Il sostantivo iniziale “Voglia” richiama, infatti, un intenso desiderio, che accanto al verbo “spronare” indicherebbe un’energia che travolge il poeta nella direzione di “Amore” e contrasta fortemente con l’ “usanza” che lo “trasporta” in una direzione opposta. Proprio questo conflitto tra forze potrebbe essere posto alla base dei cambiamenti che investono il sonetto dal Vat. Lat. 3196 al Vat. Lat. 3195.

Partendo dai versi 10 e 11, cancellati nel Vat. Lat. 3196, la loro prima stesura era: “Soave honesto ragionar m’invesca / e l’angelica voce dolce humile.”. Essi potrebbero rimandare ad un pensiero piacevole che attira il poeta (soave ragionar) ancorato all’amore, pensiero che tuttavia è degno di onore (honesto). Questo pensiero d’amore, connesso all’ angelica voce, diverrebbe parola pronunciata (angelica voce dolce) e dunque poesia. Ma si tratterebbe della poesia giovanile di Petrarca, che ha come oggetto l’amore per Laura e “le vane speranze e ‘l van dolore” della gioventù, richiamate nel sonetto iniziale del Canzoniere. Dolce e angelica alluderebbero così all’oggetto amoroso della giovanile poesia petrarchesca e humile alla non elevata materia in essa trattata.

La seconda stesura di questi versi, che vengono cancellati e riscritti alla fine del sonetto nel Vat. Lat. 3196, riporta: “Animo antiquo in nova età m’invesca / e il dolce ragionare con voce humile”. Questo mutamento potrebbe essere fatto risalire allo stesso momento dell’inserimento della postilla in capo al sonetto, che ne indica il recupero in luogo della sua distruzione. La ripresa del componimento, che viene rivisto e modificato, ne implica una lettura più matura da parte del poeta. Petrarca non sarebbe più travolto dalla forza della passione amorosa, quanto piuttosto si limiterebbe adesso a ricordare quel sentimento del passato e quella poesia che ne derivava. La modifica di tali versi potrebbe dunque essere in linea con il cambiamento e la maturità che investono il poeta dopo la morte di Laura e che lo inducono a chiedere perdono e a pentirsi per la sua passata produzione poetica. Tuttavia, così come si vede nel sonetto proemiale, Petrarca non intende abbandonare del tutto il proprio passato: “Animo antiquo” potrebbe proprio richiamare quell’uomo che il poeta era stato, ma che deve attraversare una nuova fase di vita, indicata da “nova età”. Dunque, sebbene debba esserci per il poeta un certo distacco dal passato, sembrerebbe che una parte di esso possa essere conservato attraverso la memoria. Potrebbe essere possibile che Petrarca, rileggendo il sonetto a distanza di tempo, abbia sentito una certa dolcezza nel ricordare la propria produzione poetica giovanile, produzione che ormai andava, però, modificata. Il ricordo di quell’ “antiquo animo” può avvenire attraverso la parola e dunque attraverso la poesia, considerata un “dolce ragionare” che “invesca” il poeta.  Ricorrono nuovamente, riprese dalla prima stesura, la parola dolce, forse in riferimento all’amore e alla poesia amorosa del passato, oggetto adesso di ricordo, e la parola humile, per la materia d’amore, non alta come doveva essere la poesia impegnata cui Petrarca aveva promesso ad Agostino, nel Secretum, di dedicarsi. Continua a leggere

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Salvatore Martino (1940) AUTOANTOLOGIA DI POESIA E RACCONTO DEL PROPRIO PERCORSO DI POESIA DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI – POESIE SCELTE – Relazione tenuta al Laboratorio di poesia de L’Ombra delle Parole del 30 marzo 2017

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Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma

 

Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra(1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Ha ottenuto i premi Ragusa, Pisa, Città di Arsita, Gaetano Salveti, Città di Adelfia, il premio della Giuria al Città di Penne e all’Alfonso Gatto, i premi Montale e Sikania per la poesia inedita. Nel 1980 gli è stato conferito il Davide di Michelangelo, nel 2000 il premio internazionale Ultimo Novecento- Pisa nel Mondo per la sezione Teatro e Poesia, nel 2005 il Premio della Presidenza del Consiglio. Nel 2014 esce con Progetto Cultura di Roma, in un unico libro, la sua produzione poetica, Cinquantanni di poesia. È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura Belmondo. Dal 2002 al 2010  con la direzione di Sergio Campailla , insieme a Fabio Pierangeli ha tenuto un laboratorio di scrittura  creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008, un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Testata politticoSalvatore Martino

Eros e il Mito, i viaggi i labirinti

Quando alcuni giorni fa Linguaglossa mi ha raggiunto telefonicamente invitandomi a parlare nel Laboratorio di poesia de l’Ombra delle Parole intorno alla mia poesia sono stato preso da una sorta di smarrimento.
In quasi sessanta anni di dedizione al discorso poetico mai mi sono trovato a parlare in prima persona del mio mondo raccontato in versi.
Ma non ho avuto scampo ed eccomi qua a camminare con voi questo lungo viadotto, intriso di scorie e trabocchetti, abissi e cancellazioni a volte persino di felicità.
Sono nato nel cuore più segreto della Sicilia, la terra degli avi di mio padre, a mezza strada tra Palermo e Agrigento. Adolescente ho vissuto in Toscana la terra degli avi di mia madre, e credo che queste coordinate abbiano contribuito a plasmare il mio carattere,a dare una dimensione alla mia creatività. Due avvenimenti hanno avuto una influenza decisiva nella costruzione dell’edificio dove sono andato ad abitare: lo studio della medicina all’Università per cinque anni, e il suo abbandono letteralmente rapito dal teatro.
Nel 1963 a Palermo per il servizio militare di leva. E qui un’altra svolta importante. Avevo già prodotto un certo numero di testi poetici, ma in questo lembo del mio sud compresi e per sempre che una cosa è scrivere versi, altra cosa essere poeta, voler essere poeta, vivere da poeta.

Adolescente sono stato un lettore disperatamente onnivoro, sotto la guida di Luciano Bianciardi allora direttore della Biblioteca Chelliana ubicata al piano terra del mio liceo classico a Grosseto.
Più che i poeti erano i romanzieri ad affascinarmi: i grandi russi, gli inglesi Conrad e Wilde su tutti, i francesi dell”800 e Proust, e naturalmente gli adorati Melville e Poe. Buzzati, Gadda, Berto e Pavese fra gli italiani. Quando la poesia mi invase totalmente i miei innamoramenti andarono ai poeti di lingua spagnola, anche perché potevo leggerli nel testo originale, come del resto i francesi.
Jimenez e Machado, Lorca, Guillen, Aleixandre, Darìo, e naturalmente Baudelaire e Rimbaud, per citare solo quelli più volte visitati. Degli italiani del novecento non molto, qualche cosa di Ungaretti, il primo Montale, Cattafi, Dino Campana. Naturalmente i maestri dei maestri Cavalcanti, Dante, Petrarca, Leopardi.
Sono di quel periodo Venti pezzi facili e Ricordi da Palermo dove tentavo di trasfigurare in musica esperienze di vita, il colloquio con la mia terra, l’eros che avrebbe accompagnato tutta la stesura del viaggio poetico.

Nei primi anni sessanta feci parte dell’Avanguardia storica romana che in teatro tentava di dare un nuovo indirizzo alle vicende del palcoscenico. Fu Giordano Falzoni che mi fece conoscere i poeti del Gruppo 63. Devo confessare che non mi interessarono affatto, solo Sanguineti in qualche modo, al quale riconoscevo una straordinaria intelligenza, e una ricchezza linguistica assoluta.
In quegli anni conobbi Bianca Garufi, da poco tempo psicanalista junghiana. Era stata la donna di Cesare Pavese col quale aveva scritto a quattro mani il romanzo Fuoco Grande. Con lei mi addentrai nello studio della psicologia analitica, cardine fondamentale per la mia scrittura, e conobbi il grande Bernard, che mi iniziò ai misteri del profondo.
Nel 1966 conobbi Corrado Cagli che mi introdusse nel pantheon della scena romana: Afro, Mirko, Guttuso, De Chirico, Vespignani, ma anche letterati come Emilio Villa e Pier Paolo Pasolini. Frequentazioni intense di amicizia che segnarono spiritualmente e intellellualmente la mia formazione. E poi due grandi personaggi Giorgio Amendola e Antonello Trombadori, che rafforzarono la mia fede nel comunismo, e mi introdussero alla vita pratica del partito. Sul palcoscenico ho dato più volte il mio contributo nelle Feste dell’Unità. 
A metà degli anni sessanta come in un prezioso ritrovamento altri due incontri decisivi: Ezra Pound e T.S.Eliot. Cambiò totalmente il mio modo di fare poesia. Si materializzarono due poemi: Attraverso l’Assiria e La fondazione di Ninive. Il primo nasceva di getto in un’estate di delirio, nella quale non facevo che ascoltare ossessivamente Tristan und Isolde. Ninive ebbe invece una lunghissima gestazione, undici ani, dilatandosi ed essiccandosi alternativamente. Sottoponevo molto spesso i miei risultati di revisione a Ruggero Jacobbi e a Libero de Libero, ricevendone stroncature o incoraggiamenti. Lo stesso Jacobbi nella introduzione al volume avrebbe scritto: …..Martino ha percorso questo itinerario rischioso, talora spaventoso, per giungere a un riscatto che egli stesso ha propiziato in anni e anni di adulta e coscientissima ricerca di linguaggio, in modi di verso e di prosa che non somigliano a niente di oggi……

Laboratorio 30 marzo Rago Sagredo Martino

Laboratorio di poesia del 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma da sx Salvatore Martino, Antonio Sagredo e Gino Rago

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Ispirazione e immaginazione sentimento e magma, filo rosso col mondo più sotterraneo, una scrittura talvolta quasi automatica alla aniera dei surrealisti, queste credo furono le vie che intrapresi. Al vers libre preferii la cadenza non ritmata. Cercavo sempre anche in un ipermetro una certa musica , che verificavo con la lettura ad alta voce. Devo ammettere che già allora non avevo interesse per la poesia che si andava materializzando in Italia. Leggevo, conoscevo, ma nella totale indifferenza. In questi due libri cominciarono a delinearsi le tematiche,che mi avrebbero accompagnato nell’arco di oltre cinquanta anni : il rapporto dell’Io con se stesso, la maschera (persona) , l’archetipo dello specchio, il colloquio con l’Altro, il viaggio reale e quello sognato, l’ambiguità dell’essere e delle parole, Eros nella sua duplice natura, principio di relazione proprio alla vita, o progenie della notte, fratello della morte, incapace di salvarci da essa, e i sogni (oneiroi), che sia Omero che la mitologia orfica collocano nel regno di Ade. Tutto sotto la freccia apollinea, l’ebbrezza dionisiaca, il fuoco della conoscenza, il freddo del bisturi nell’indagine razionale. 

E nel guscio più ripido il dissidio mai sanato di essere a un tempo viandante e cavaliere e contadino legato al mio segno di terra, dentro una sorta di misticismo non trascendente , che anela al superamento dell’effimero, della fragilità. Certamente mi hanno aiutato, forse condizionato le mie frequentazioni: Bianca garufi, Bernard, J. Hilmann, le letture appasionate di Jung e di Kerenji.
Ricordo una sera a casa di Bianca appunto…c’erano alcuni mebri dell’AIPA Aldo Carotenuto e Paola Donfrancesco tra gli altri, ospite d’eccezione James Hilmann. Si parlò ovviamente di anima, di sogni, di mito, ma soprattutto di arte e della sua importanza nella psicologia del profondo. A un certo punto Hilmann quasi concludendo apoditticamente : ma a che serve l’arte, la poesia se non dà emozione.

Fu a metà degli anni ’80 che incontrai più volte Ghiannis Ritsos nella sua casa al 39 di Michail Koraca ad Atene. Avevo portato sulla scena per la prima volta in Europa il suo Oreste, anni dopo avrei recitato all’Eliseo un testo da me composto sulle sue poesie: Uomini e paesaggi. Furono davvero incontri incancellabili, forse i più emozionanti della mia vita. Parlavamo di tutto, in francese, del suo confino e dei colonnelli, degli antichi eroi e filosofi, della sua poesia, che mai lo aveva abbandonato. Potrei restare qui a discorrere con voi in un tempo dilatato tanti erano gli avvenimenti, i pensieri che scorrevano nei lunghi pomeriggi e talvolta anche al mattino. Mi mostrò alcune foto che lo ritraevano a bordo di una automobile scoperta, mentre attraversava le strade di Atene in mezzo ad una folla entusiasta che cercava di toccarlo mentre passava: erano i festeggiamenti del suo settantacinquesimo compleanno.Nel nostro ultimo incontro salutandomi mi consegnò tre sassi levigati dal mare sopra ai quali egli stesso aveva disegnato con inchiostro di china facce di antichi dei ed eroi. Li ho conservati quasi religiose reliquie. Lasciandoci sull’uscio faticavo a trattenere le lacrime, e mi accorsi che anche lui piangeva, e ci trovammo stretti in un indimenticabile abbraccio.

Nel ventennio dall’80 alla fine del secolo scorso si delinea nella mia scrittura una pentalogia miticometafisica, come la definisce Donato di Stasi, la terza fase del mio cammino.

Commemorazione dei vivi- Avanzare di ritorno- La tredicesima fatica- Il guardiano dei cobra- Le città possedute dalla luna.
Qui il mito diventa decisamente più ctonio, infarcito di Ybris: Odisseo e i suoi viaggi nel mondo supero e in quello infero, Eracle e Deianira, Giobbe e ol suo confronto con Jahvé , Ermes e le sue molteplici facce, il Minotauro nel suo labirinto metropolitano, Edipo cieco ad Eleusi come nelle nostre città. Il reperto mitologico come modello del quotidiano , del dettato storico. A proposito della storia in questi cinque volumi compaiono personaggi che la storia stessa hanno segnato. E la vicenda personale tende, almeno nelle mie intenzioni, a divenire cammino anche per gli altri.
Così l’individuo mitico-metafisico sceglie il salto nel vuoto, il rischio esistenziale, il dèmone della poesia. Viaggi verso culture lontane alimentano non solo paesaggi sconvolgenti, ma anche il contatto con civiltà in apparenza lontane, chiamate a descrivere le loro mitologie, le loro vicende di lotta e di sopravvivenza.
Dopo i primi moduli espressionistici, dal delirio linguistico poundiano , iperletterario e
intellettualistico, dagli accenti epici e dagli erratici momenti in versi e in prosa, si entra nell’ultima fase del mio cammino poetico: la trilogia del Nichilismo Libro della cancellazione- Nella prigione azzurra del sonetto- La metamorfosi del buio. Non so quanto abbia influito la lettura di Nietzche, segnatamente Il crepuscolo degli idoli de Al di là del bene e del male.

In Libro della cancellazione l’incontro con Ade , colui che è presente ma non c’è perché polvere, diventa pressante. Fino ad allora avevo in qualche modo pensato che la memoria fosse il solo esercizio da seguire, qui invece diventa chiaro che l’unica operazione consentita è l’oblio.
Paradosssalmente, lo stile è sempre più scivolato verso la chiarezza, le azioni, le persone, i paesaggi, gli stessi sentimenti più limpidamente oscuri. C’è un ritorno più concreto verso l’autoritratto alla maniera dei pittori del quattro-cinquecento, e c’è a partire da questa stagione un coraggio abissale di guardare in faccia il Nulla con una violenta volontà iconoclastica, contro le strutture di una società, che mi appare estranea. La corporeità diventa protagonista in questi tre libri, volutamente narrativi, dove ho cercato di trasferire tutto il mio pathos, che in parte mi deriva dalla poiesis greca corale e monodica.

Avevo scritto alcuni sonetti alla fine del secolo scorso e successivamente in Cancellazione, e nei primi anni Duemila sono caduto in una folle impresa alla don Chisciotte, folle e apparentemente senza uscita. 122 sonetti rimati tutti alla stessa maniera ABBA ABBA CDE EDC. Declinavo all’inizio de La prigione azzurra i nomi dei maestri ai quali ero debitore : Cavalcanti e Petrarca, Shakespeare e Borges. Non so io stesso come mi sia avventurato in questo labirinto di perfetta geometria. Certo il labirinto è stata una costante nella mia scrittura, anche se spesso ho pensato che abbiamo smarrito filo e Arianna e vittime e spada, forse abbiamo smarrito il labirinto stesso. Lungo tutti gli anni di gestazione, soprattutto passeggiando col mio Totò nel locus amoenus dove ancora vivo, ho pensato, parlato a voce alta in endecasillabi rimati, come sorgessero già confezionati nel mio mondo infero, in un colloquio con quegli dei che conoscevo quasi che essi trasmettessero in forma non cifrata , messaggi al mio dàimon. Certo il labor limae poi era spietato, perché in una simile struttura chiusa si corre il rischio di usare terminologie desuete, o di cadere nel ciarpame passatistico. Fu come raccontare ad uno sconosciuto la mia vita in versi, ma anche una feroce scommessa contro tutto quello che viene prodotto in Italia, cercando di mostrare come si possa scrivere in una forma vecchia di sette secoli con parole di oggi, con tematiche di sempre, da una Meditatio mortis a una Meditatio erotiké.

Dopo la reclusione azzurra maturata nell’endecasillabo discesi ancora di più nell’abisso, condotto per mano dagli oscuri disegni delle malattie, che mi trascinarono lungo il filo che delimitava il baratro. Ma sono risalito anche da quelle voragini.
Forse il segno più vibrante de “ La metamorfosi del buio”si avvolge intorno alla solitudine, alla ricerca di custodirla e di sconfiggerla. Ma non volli risparmiare niente, tutti i movimenti tematici ritornano con una luce ancora più ctonia, perché la discesa agli inferi non è soltanto quella individuale, ma quella nell’inconsco collettivo. Ma forse dietro al suo scenario di solitudine, c’è qualcosa di più angosciante dell’angoscia stessa. Anche stilisticamente si passa da una forma liricheggiante, a quella epica, a quella narrativa, il viaggio e i viaggi hanno una connotazione più grigia, l’eros è soltanto ricordo ma non rimpianto, il pensiero filosofico si insinua nella disputa scacchistica tra il Nulla e il suo Doppio.

Ai Maestri , ai compagni di teatro, agli amici ho dedicato l’ultimo mio libro edito: Incontri Ricordi Confessioni. Voci, volti, corpi, pensieri incontrati sul mio cammino e che hanno profondamente inciso nella mia vita.
Dopo la pubblicazione di Cinquantanni di poesia (2014) pensavo di aver esaurito il mio compito, di non dover scrivere più: il dàimon è stato di avviso diverso e mi ha imposto di continuare la mia avventura poetica.
Come work in progress sta vivendo tra le mie mani Manoscritto trovato nella sabbia un viaggio sempre più nell’Ade, nascosto nella sua invisibile pienezza, con Eros e Thanatos, al mio fianco, sulla barca del fiume azzurro che avanza verso Anubi.

Salvatore Martino

Autoantologia

Da La fondazione di Ninive 1965-1976

Questa notte mi hanno visitato le formiche
Hanno preso le mani
imbavagliati i piedi
stretto d’assedio il letto
Che sia solo la stanza a respirare?
Il resto giace Inerte
tenuto insieme da robusti negri
il lago infame e la memoria
Estraneo alla vicenda
il viaggiatore ride
acquattato nell’angolo
E aspetta
Che tutto si cancelli?!
Divorato nel sangue
Una brezza invadente increspa l’aria
Ci sono stati morbidi passi nella scala
parole sussurrate incantamenti e riti
una musica dolce sulla soglia
Il viaggiatore infìdo arriva dritto dall’Ade
Ma non ci paralizza l’ignoto grido
o l’avvicinarsi del branco
né il richiamo ingannevole col nome
L’occhio dentro l’occhio
avvitato dalla morsa che sai e non conosci
e decifri il mandante l’involucro lo scopo
Mi hanno visitato questa notte
gente partita da lontano emersa in superficie
attraverso i rigori dell’inverno
e navigando cristalline montagne
prati innevati e case crocefissi e paludi
adesso è qui
Olio sopra la fronte l’orecchio e il labbro

Da Il guardiano dei Cobra 1986-1992

Mi trovavo nel sogno in una barca con il mio fratello
e Guardiano C’erano anche dei compagni e un marinaio
Doveva essere un braccio di mare grigio e calmissimo del
nord simile a un lago senza sponde Io chiedevo notizie
sulla rotta ai compagni e al giovane nocchiero e il motivo
della fuga perché di fuga si trattava Ma non ottenevo
risposta Erano tutti morti E non provavo angoscia né
dolore solo un acuto senso di vertigine e vergogna per
loro che non avevano avuto la disperazione di resistere
Il mare cominciava a farsi denso Al posto dell’acqua mi
sembrava ci fosse un liquido vischioso una specie di olio
In preda a una violenta eccitazione presi a scuotere il
Guardiano sdraiato al mio fianco perché temevo che
quest’altro incidente potesse rallentare il precario avanzare
della barca Una caligine lattescente era caduta senza
bussola sarebbe stato impossibile orientarsi Ma quello
non rispose girò mostruosamente sul fianco rotolandomi
addosso all’infinito La sua faccia penentrava la mia
le braccia le cosce il suo sorriso m’invadevano il corpo in
una indescrivibile euforia e incominciai a cantare a voce
altissima a ridere a sognare e non ci fu più fuga né barca
né compagni soltanto e sconfinata una distesa bianca

Da Le città possedute dalla luna 1992-1998

El mundo perdido La foresta le pietre
nell’orizzonte fermo di Tikál

I
La morte interamente ti possiede
incantata dalle tue parole
dal fiore bianchissimo dei corpi
Si sono rintanati nella selva i miei serpenti
indistinto brusio la loro voce
le scimmie urlatrici invocano la pioggia
a lavare la febbre i desideri
Nel perimetro verde
in dolce precipizio a primavera
nel dominio uniforme delle piante
e per timone una barra di velluto
un colloquio strisciante di formiche
per vela un sentiero diroccato
un possibile agguato
da te dagli altri teso
dai minuscoli eventi che c’illudono
e inseguire dovunque
l’introvabile volo del quetzάl
l’uccello incredibile di piume
promesse ai sacerdoti
e accetta la morte non la cattività

II
Orfani senza voce
messaggeri del verbo
che lacera la morte
indagatori traditi dell’Oscuro
sopra la piattaforma
del Gran Tempio Piramide
di nuvole forse diviniamo
del domestico rito
costruzione perfetta dell’inutile
Guidarono i Poeti questa terra
testimoniando gli inferi e la luce
la freccia scoccata nel delirio
verso l’addome e il cuore
centro del movimento verso il labbro
perché immortali fossero i responsi
iniziatico dono nella veglia
Verde ancora la selva
gli alberi spalancano le braccia
tessono fili di saliva dove gli insetti
annegano e i rettili possono tremare
Un sacro terrore
su queste grigie pietre si respira
tracce visibili
quegli uomini stamparono
un ispirato codice di astri
I poeti osservano la morte
ne contano i sussurri gli abbandoni
i rami incoerenti della vita
le vertebre corrose dal nemico
testardo passeggero
antico testimone di battaglie
che ci dorme accanto
vigilando nel cavo del torace
lo sgomento la pena
I corpi bruceranno
interamente i fiati nell’attesa
tutte le formiche della terra
diventeranno un vuoto agglomerato
l’equilibrio invocato
tra il Nonessere e il Tempo
coinvolgerà fuggitivi e soldati
saremo
tutti
sacerdoti votati allo sterminio
Avranno occhi perforati
il coyote e l’iguana
gli uccelli tutti e sono migratori
e invadono gli stagni
prima di soggiacere all’acqua
lasceranno un sospetto
del loro transitare?
Avremo occhi perforati
un ghigno per sorriso
costretti ad inseguire
come insonne Giaguaro la sua preda
scivolato Serpente tra le dita
lasceremo un sospetto
del nostro transitare?
Presagi ingannevoli
in questo autunno della vita
si concretizza limpido il bersaglio
fiore bianchissimo sul corpo
invocata carezza
interamente tutti ci possiede

Da Libro della cancellazione 1996-2004

Il giardino dei sentieri che si biforcano

Mi ritirai nel giardino
a scrivere poesia
per consegnare agli altri un labirinto
una mappa divorata dal tempo
che conducesse in un secondo altrove
Un giardino pensato all’italiana
un gioco di armonia
immagine speculare della vita
Mi ritirai a scrivere a poesia
ritornando bambino
in un sogno da un altro già sognato
Perché la fine del viaggio è ritornare
al punto esatto da dove sei partito
e saranno le rughe del tuo volto
la carta del disegno iniziale
a segnalare il punto dell’arrivo
la fanciulla che attende sulla porta

E tu sai come incidere la sabbia

Tornato da una riva
più desolata di un colloquio
che a nulla rassomiglia
non al sesso spietato
né all’amore
una felicità c’invade
dolente come il mare
quell’abissale liquido materno
dove tutti invochiamo di restare

La memoria e l’oblio

Aveva sempre pensato
che fosse la memoria
il solo esercizio da seguire
ma svegliandosi una mattina
quasi prima dell’alba
comprese
e per sempre
che l’unico esercizio consentito
era l’oblio

Inno a Hermes

Non si apriranno strade
non correremo verso la paura
non ci saranno vele per l’approdo
Incontreremo Hermes
aggrappato ad una finta stele
nella mano una coppa avvelenata
per transitare il fiume
Signore degli inganni
ladro al banchetto degli dei
fanciullo tessitore di astuti giochi
infantili nequizie
reggitore di fiaccole
che accendono il cammino
delle anime in fuga
spiana le rughe dalla fronte
scendi ad evocare
la gioia mai dimenticata
pronuncialo il nome
che non mi corrisponde
aiutami ad accettare la mia sorte
in attesa di averti come guida
nel viaggio che faremo
quello senza ritorno
ma non per questo freddo
ostile
forse più temuto

Le candele della notte si sono consumate

Sopra le balze di tufo
Machu Picchu domestico
che forse mi appartiene
il verde dilaga a primavera
il raffinato canto degli uccelli
Qui persino il vento
assume un andamento circolare
In questo paradiso ricercato
come un lontano appuntamento
dovrebbe sorridermi la vita
l’ansia distendersi sul volto
Incubi invece i miei pensieri
s’insinuano tra i muri
come morti giganti
Si fermano talvolta sulle soglie
sugli stipiti sbattono la fronte
agitando le chiavi
Dormono al mio fianco
affondano la testa sui cuscini
respirando a bocca spalancata
Usano il bagno schiuma
le mie saponette profumate
si radono la barba nello specchio
sussurrano parole
alitano vendette sulle spalle
s’infilano persino le mie scarpe
Attraccati alla sedia
guardano con sospetto
la macchina da scrivere
e questa d’improvviso
incomincia a battere da sola
Frugano la dispensa
negli armadi
senza testa né piedi
i vestiti passeggiano da soli
come svuotati di pensieri
Invece sono là questi nemici
spiaccicati negli angoli
aspettano pazienti
un passo falso
un alibi una resa
come tentacoli di seta
protendono le braccia
e la domanda accesa
dentro l’occhio cavo
mi arriva dentro l’occhio
sempre la stessa
e non avrà risposta
Sono divenuti familiari
complici di scalate nell’abisso
L’orologio commenta questo imbuto
dove qualche volta c’infiliamo
per addestrarci a non sentire
il rumore ostinato del silenzio
Li vedo sparire nella doccia
ma l’acqua non bagna i loro corpi
non raggiunge la bocca
non diviene fontana
sembra che trascini i loro piedi
come un fiume infernale senza uscita
simile a quelli nella piana di Olimpia
un’estate lontana
nel clamore di un’assurda vittoria
purificammo il corpo nell’Alfeo
prima di naufragare nel profondo

Libro della cancellazione

Mi chiedo a volte
quando dal fiume salgono i vapori
e il paesaggio assume
i colori tonali del risveglio
mi chiedo a volte
dove si disperde il sentiero fissato
se il carcere ossessivo
del piacere dell’armonia del bello
possa esorcizzare
quest’aggrumo di segni
quest’abitare dentro la ferita
Chi siamo mi domando?
Quale fato ci guida?
Diventano risposte le domande
senza mai esserlo
che importa?
Forse siamo quel fuoco immaginario
la montagna coperta di ghiacciai
la scala dimenticata contro l’albero
la tormenta e la luna
Siamo i depositari dell’assurdo
il viandante emerso dalle crete
il vuoto di un addio
la sabbia che purifica i peccati
il faro intravisto di lontano
Siamo l’acqua del fiume dei dannati
la cronaca infinita delle lotte
l’arbitrio e la dimenticanza
siamo l’isola ormai disabitata
siamo la strada alata
la cancellazione

Da Nella prigione azzurra del sonetto (2002-2009)

VI
Scivola inerte il piombo nella sera
sopra la carta incisa dalla voce
se la sentenza è solamente atroce
il colloquio di un uomo che dispera
se sfuggire non è che una chimera
la condanna diventa più feroce
l’inganno fu scoperta assai precoce
apparsa sullo schermo veritiera
Quest’inverno incantato che declina
e una scala sull’albero appoggiata
un tradimento intriso di carezze
vanamente una strada d’incertezze
è corenice dal tempo scardinata
nel mare di papaveri in rovina

LIV
Un gabbiano trovai sopra il suo mare
poche miglia distante dalla riva
un ferro l’incagliava e lui soffriva
a un pontile per farsi medicare
I marinai lo sentono tremare
dalla sua bocca il sangue fuoriusciva
nella febbre violenta che saliva
sulla pietra si lascia abbandonare
Ma tornò d’improvviso nel suo cielo
l’oceano era approdo senza fine
nell’illusione d’essere immortale
Non sa che niente al mondo può restare
soltano l’acqua è terra al suo confine
che tramontiamo liberi davvero

XCI
Il tempo che a noi due fu destinato
di viverla morendo una passione
è stato solamente una finzione
un attimo di pietra immortalato
Incontro al tuo delirio ho respirato
ricercando nel nome un’iscrizione
che fermasse un istante l’emozione
la musica fuggita dal tuo fiato
E’ stato così lieve il nostro andare
e così atroce la dimenticanza
la stagione crudele del ricordo
Nella musica suona un solo accordo
l’incanto ha demolito la speranza
nel letto che ha paura di tremare

Da La metamorfosi del buio 2006-2012

L’ospedale non chiude a mezzanotte

Se arrivo a dominare il mio pensiero
da questo letto di monitor e di tubi
mentre numeri verdi segnalano
la pressione arteriosa i battiti del cuore
Dal braccio e dalla mano
ti nutrono e dissanguano
il pentagramma delle medicine
normalizza il ritmo impazzito
fibrillazione atriale coronarie ostruite
Percorreva stanotte l’ambulanza
il Grande Raccordo che assedia la città
la sirena barattava la corsa per un arrivo
quasi era l’alba sopra l’ospedale
circondato dal vuoto
e dalla invincibile speranza
nel criminale giogo dell’attesa
Le macchine indagano
la tua sopravvivenza
stillano responsi
che non puoi contraddire
pronunciano sentenze
la rivincita dell’inorganico
e azzurra e accecante
non abbandona la stanza
persino nella notte
sorveglia il sonno che non viene
a trascinare il corpo dentro i sogni
Ti affascina il contagio col margine
da dove contemplare l’abisso
e ti vedi aggrappato
e dita e braccia e piedi e cervello
a chiodi e rampini fissati alle pareti
magari nel ghiaccio piuttosto che la pietra
È un descensus oppure una scalata?
E disperi sia un liquido
un vortice che affascina e sconvolge
Voce del mio dominio disegnami
nel famelico antro della porta
il casale in collina di querce e di roseti
e gli olmi che s’attardano di uccelli
e il giallo e il rosso il bianco
il violetto dei fiori
e da questo balcone circolare
l’occhio si contamina dei colori del bosco
e in cerchio descrive l’orizzonte
Voce del mio dominio lasciami
volver a mi perro a mi casa a mi jardin
al ragazzo di Tangeri che aspetta
quasi tu potessi più facilmente
decifrare la mia preghiera
nell’idioma spagnolo
che a volte più mi corrisponde

Notturno dell’inquietudine

Questa sera
che l’abbandono corrisponde al tempo
si consultano i segni di un cammino
bruciato tra sospetti e finzione
questa sera
disceso al ventre dell’inutile
nel giogo effimero della rinuncia
in questo sogno di nonesistenza
un’ambigua follia
affascina il giardino
intonano gli uccelli
un mistico richiamo
le creature del giorno
hanno ceduto al soffio della notte
agli artigli dell’oscurità
Perché non divulgare le tenebre
e cancellare dalla mente il sole?
………………………… e la vita?

Nella lucidità intollerabile dell’insonnia

Il grido inconsolabile di un uccello
lo riportò nel fango dell’irrealtà
era un’alba livida e sorridente
in quella sospensione che precede la luce
Comprese di essersi addormentato
in un cerchio senza rispondenze
un labirinto ottagonale
di sabbia e di parole
una metafora della coscienza
comprese e per la prima volta
che sarebbe stato uno dei tanti
segnalato da un numero
accecato dall’indifferenza
e il sogno non avrebbe avuto fine
Fu allora che in un accesso d’ansia
decise di porre fine a questo sogno
perché non ci fosse alcuno
che potesse sognarlo
perché non restasse traccia
d’ogni suo sguardo d’ogni sua paura
sicuro di essere non soltanto per gli altri
un simulacro
uno spietato ossimoro del nulla
Credo che tutto questo accadde
nella intollerabile lucidità dell’insonnia

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Pier Paolo Pasolini, Franco Di Carlo legge Trasumanar e organizzar (Garzanti, 1971)- Intervento di Franco Di Carlo tenuto al Laboratorio di Poesia dell’8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma –  Il momento di svolta della poesia italiana del secondo Novecento – Un articolo di Francesco Erbani e alcuni brani poetici del libro

 

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017 G. Linguaglossa prospettiva

Laboratorio di Poesia, Roma, Libreria L’Altracittà 8 marzo 2017

Nota critica di Franco Di Carlo

Trasumanar e organizzar (Garzanti, 1971) rappresenta un momento di importanza decisiva, non solo per la storia personale di Pasolini poeta, ma anche per quello, generale, della poesia italiana del secondo Novecento; infatti, proprio nel 1971 vengono alla luce libri di poesia di un certo rilievo, dei vari Montale, Penna, Bertolucci, Luzi, Ottieri, ecc., dai quali Pasolini si vuole distinguere, soprattutto per la dichiarata volontà dell’autore di progettare e attuare una poesia in cui emerga, tra i suoi diversi caratteri distintivi, quello esplicito ed evidente, della «letteratura», dell’abilità e del «mestiere del poeta». Schemi e modelli letterari «correnti»: «frammenti» diaristici e autobiografici; il viaggio, la quotidianità, la cronaca e l’attualità, discorsi metapoetici e metalinguistici in cui vengano esibiti il «lavoro», la «professione» del poeta-letterato, i temi politici ed «eretici, la nostalgia, non-reazionaria, del Passato, l’affiorare di una «nuova gioventù» non umile né ribelle né ubbidiente né rassegnata né rivoluzionaria, senza speranza alcuna, insomma.

Un libro libero e soggettivo, molto «privato» e auto-speculare, esistenziale, trasumanar e organizzar, ma anche, per modo di dire, oggettivo, nel senso che tutto quello che è al di fuori del soggetto pensante e di se stesso poetante, viene filtrato attraverso l’esperienza (ineffabile) dell’io-poeta-poetante sembrerebbe, quindi, una poesia in qualche modo neutra o neutrale, ma che, in realtà, è auto referenziale rispetto alla persona di Pasolini, in quanto a figura del desiderio, specchio di Narciso, anche quando nella seconda parte o libro di Trasumanar, risulta essere, come suggerisce lo stesso Pasolini, un canzoniere per una donna», «Maria» (Callas), dove il narcisismo, proprio del Poeta, deve fare i conti con l’altruismo e il rapporto di «affectus» (Spinoza).

Un libro, quindi, privo di ogni speranza o anche utopia o sogno idealistico o idealizzante, ma che, nonostante ciò, considera il fare poesia un’azione, un atto che incide sul reale, organizzandolo in termini di versi e di struttura espressiva: la poesia non è più qualcosa di ineffabile e astratto, ma punta tutto sul dire e sul fare concreto del comportamento linguistico-poetico, una poesia activa e pragmatica, con una sua organizzazione» e un suo Progetto, un Modello, un Paradigma, e anche, però, un suo Mysterium, una sua connotazione oscura e anfibologica, enigmatica: il Progetto dell’Ambiguo.

E già nelle terzine dantesco-pascoliane del penultimo poemetto di Poesia in forma di rosa (1964), «Progetto di opere future», emerge un tema simbolo tutto pasoliniano: il ritorno «al verde aprile», alla sua pre-espressiva nudità, alla «mistica filologia», cui fanno riscontro le ricerche progettuali per «BESTEMMIA» e «La Divina Mimesis», un’opera «mostruosa» e non deludente, una «nobile broda / d’ispirazioni miste…», realistica e misteriosa: l’oxymoron e la sineciosi, come ha indicato Fortini, sono e saranno la rappresentazione, per via retorico-figurale, del tratto caratteristico e fondamentale, della continuità, in senso oppositivo, accumulatorio e non-dialettico, dell’eterno coesistere della tesi e dell’antitesi espressive e stilistiche, non conciliabili e mai conciliate, da Poesie a Casarsa al non-finito «poema narrativo Petrolio: è «la nozione di Inespresso esistente senza di cui ogni cosa è mistero», una «PASOLINARIA / SUI MODI D’ESSERE POESIA», finché l’«AMBIGUO sarà in vita».

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017

                       Laboratorio di Poesia, Roma, Libreria L’Altracittà, 8 marzo 2017

Trasumanar e organizzar è, dunque, una forma di oxymoron: il MISTERO e il PROGETTO (a cui Pasolini penserà come sottotitolo di Petrolio): la via e la «vita dello Stile» accumulate nella propria storia personale particolare e in quella, generale, della Storia, ed anche della storia della letteratura e della poesia. Un Progetto, perciò, metapoetico e metalinguistico, che mette in scena due opposti inconciliabili, che restano doppi (come l’essere e il Non-essere): l’utilità-l’inutilità della poesia e, come afferma lo stesso Pasolini, «l’accettazione totale della letteratura il rifiuto totale della letteratura»: la possibile «attualità» di questa contraddittoria affermazione, risiede, quindi, nel ribadire perentoriamente la natura principalmente pragmatica e insieme soggettiva di questa poesia ( del fare e dell’agire) ed anche esistenziale, la sua esplosiva e disperata vitalità, espresse e rese esplicite, ambiguamente e anfibologicamente, ma quasi teatralmente messe a nudo, attraverso il ricorso al leopardiano sentimento del patetico e ad una raffinata e squisita, ironica e auto-ironica letterarietà e poeticità.

Una poesia «attuale», dunque, quella di trasumanar, rischiosa e «pericolosa», e non «storica», senza prospettive apparenti, se non quella sua complice «a-temporalità e vitalistica auto referenzialità: realistica e insieme forse perduta e disfatta in una inventata e compiaciuta non-realtà, sul punto quasi di decomporsi e morire, ma ancora presente nella sua passionale ed emozionale fisicità, corpo vivo di un’anima in declino e in crisi. Si intrecciano, così, ancora ossimoricamente, qualche verità ed alcune goffe ipocrisie, l’assurdità di voler dire sempre e solo la verità, quando di vero non c’è più nulla; verità assolute-verità parziali-verità inesistenti, da desiderare, da tentare, da afferrare e capire o solo da distruggere, per paura di conoscere.

Come sarà anche per i saggi teorico-estetico-critici su Lingua Letteratura Cinema di Empirismo eretico (1972 ma comprende interventi a partire dal 1954-65), così anche per le poesie di Trasumanar e organizzar (dal 1965 al 1970), per le opere teatrali e cinematografiche e gli articoli e interventi critici di questo periodo, domina l’inconciliabile carattere ossimorico, elemento costitutivo ed essenziale, basilare dell’opera di Pasolini, come se esistesse una doppia persona che crea scrive inventa e sviluppa il suo pensiero, dicotomico e ancipite: due scrittori e pensatori conviventi, contrastanti, che coesistono ambiguamente, in una sola vita di artista, in un unico Autore, contemplativo, risorico e pragmatico, interventista eroico-combattivo contestativo e poeta-lirico, «conformista» (nei confronti del «lettore nuovo») e rabbioso corsaro ribelle e luterano, eretico e anarchico, solo e isolato; il marxista gauchista e rivoluzionario, e l’idealista deluso «reazionario» e nostalgico; il nuovo Dante-personaggio-uomo e la sua tetragona «volontà di essere poeta». Un primo e un secondo autore, una doppia persona, un duplice personaggio. Come sarà per empirismo eretico, così è stato per Trasumanar: la rivolta e la contestazione studentesca del ’68, la «divisione storica» e lo sdoppiamento della persona e dell’autore Pasolini, faranno sì che i due libri (di teoria e critica, di poesia), non si ridurranno a mera «produzione», ma assumeranno un autonomo e profondo valore culturale e quindi, anche agli occhi del poeta e non solo, un disperato e intransitivo significato di «in-attualità» e di originalità, di vitalità senza speranza.

Mistero del Progetto e Progetto del Mistero, dunque, come sarà poi anche per Petrolio: organizzazione ordinamento (anche come istituzione), costruzione del Mistero, sua attuazione (il trans-umano, l’andare oltre la natura umana, eternarsi ed anche misticamente santificarsi). Il Progetto deve essere segreto, nascosto, non-chiaro né esplicito, ma solo immaginato, anche se adempie teoricamente ad una precisa funzione e azione, attività: quella progettata «Divina Mimesis» e dimensione trans-umana? Attraverso una scrittura ed un linguaggio necessariamente criptici e volutamente ancipiti: di qui il ricorso (a partire da Poesia in forma di rosa fino a Petrolio, passando naturalmente per Trasumanar, ed anche Empirismo eretico) a elementi ridondanti, sospensivi (come avviene nei racconti gialli), ellittici, devianti e fuorvianti, inseriti nel tessuto linguistico, strutturale e retorico delle opere, al fine di creare una tensione continua nel corpus interno di questa nuova forma-(informale) di poesia-prosa e di prosa-poesia: la sintassi il lessico e il metro vengono scompagnati e destrutturati e perdono quasi completamente la loro tradizionale, chiusa, composta canonicità. Basti pensare alle forme aperte presenti in Trasumanar, tutte o quasi volutamente non concluse, in chiave di prove «commissionate», «propositi», «rifacimenti», appendici», «recensioni» e «Charte (SPORCHE), zoppicanti», «Piccoli poemi politici e personali», «testamentarie», «oratoriali» e apocalittiche» («Patmos»), «continuate», «appunti», «comunicati all’Ansa», «riassunti», «sineciosi», «Cose successe», «Code», ecc. Tutti elementi tesi a caratterizzare la struttura metrica, sintattica, versale, lessicale del «discorso» poetico, in senso apertamente e volutamente libero, deciso dall’Autore-«Inespresso vivente» «e finché è vivo l’Ambiguo». Egli consegna la realtà Trascendente e Trans-umana, la Divina Mimesis, l’In-diamento santificante attraverso la sua Organizzazione mimetica e attiva, funzionale, costruttiva, ordinativa e progettuale, inevitabilmente in-espressa e misteriosa quando era ancora in vita, ma che diverrà chiara e comprensibile nell’azione nell’opera nel comportamento e nell’atteggiamento linguistico ed espressivo, visibile manifesto e presente soltanto con e dopo la Morte. Quello che egli esprime da vivo deve essere necessariamente non chiaro e depistante rispetto alle vere intenzioni del suo Progetto: il discorso (poetico critico ed anche filmico e teatrale) di Pasolini, diviene quindi libero-indiretto, diaristico, da laboratorio, appendicolare, denotativo, spesso giornalistico, volontaristico, come se la «sceneggiatura» (della sua vita) si voglia o debba «manifestarsi» in una nuova «struttura che vuole essere altra sceneggiatura, Empirismo eretico, (cit.) della sua Morte, cioè attraverso «la lingua scritta della realtà» (cit.), dove «Essere è naturale» (cit.) e reale, dove Essere è più importante che Non-Essere-Poco-o-Nulla. Non deve affatto direttamente essere percepibile che res sunt nomina, ma la sua affermazione resta fondamentale e si pone come essenza nucleare se Pasolini sa bene che le cose valgono e sono al di là dei loro riscontri nominali e afferma perentoriamente che il cinema e la sua «sceneggiatura» è la lingua scritta delle cose reali, e che il reale è il «Manifestar» (Trasumanar) di un Nuovo Teatro, di una Nuova Parola (poetica e vitale).

Laboratorio 8 marzo Franco Di Carlo

        Laboratorio di Poesia, Roma, Librreria L’Altracittà 8 marzo 2017, Franco Di Carlo

A questa nuova filosofia del linguaggio (anche poetico, narrativo, cinematografico e critico), oltre che l’assiduità dell’«Organizzar» (San Paolo), Pasolini giungerà attraverso la lettura e lo studio en poète dell’opera di Freud, de Sassure, dei Formalisti russi e Jakobson (la teoria dello straniamento) in particolare, ma anche di Bremond, Barthes e Wittgenstein.

Il pro-fetare della sua opera in versi-vita, è in Pasolini mitico e filosofico, un atto antropologico-linguistico e rientra quindi nel campo della dimensione del Sacro e della Sacralità: anche la vita, perciò, oltre che la Morte, fa parte della fenomenologia «miracolosa» della Realtà. Il Mistero, così, non va mai perso, ma fatto ri-nascere, sempre nuovo, attraverso la meticolosità, anche didattica e pedagogica, del Progetto: il linguaggio deve risultare, quindi, ricco di frammenti, di rottami, andato in pezzi, franato, frazionato, quanto resta, insomma (della Realtà della storia e del Privato) per creare un’opera anti-canonica e manieristica citazionistica, fatta di «appendici» fratture sezioni imitazioni, accenni di riassunti, scarti e riesumazioni: una sorta di «orgia» espressiva e linguistica, (quasi «bestiale» e incisivamente stilistica) che rappresenti l’Essenza del Nulla, personale, storico e del Linguaggio. Citazioni, residui letterari, strutture de-strutturate, riprese testuali fuorvianti ma significative con appunti per un poema politico con arringa insensata /«La restaurazione di sinistra»); scelte lessicali e stilistiche comunicate all’Ansa sulla libertà espressiva e sopra tutto «Comunicato all’Ansa (Ninetto)» nella sezione (del Libro primo) che dà il titolo all’opera in versi di Pasolini, dove vengono utilizzati, con fini mimetici destabilizzanti e devianti rispetto al significato vero della poesia (il Mito come realtà e viceversa), gli schemi strutturali dell’analisi narratologica di C. Bremond: dalla iniziale realizzazione del «Compito» alla eliminazione dell’avversario, dall’«aggressione» al «sacrificio» al «castigo», dove il «ciclo narrativo si disperde tra l’erbe», come accadde per il ragazzo che uccise Marlowe.

Nasce un nuovo modello di poeta-«buffone»-«dilettante» e narcisista, che non considera più le sue parole some preziose e spaziali e piene di «grazia» e di «bontà», ma solo «qualcosa di scritto» in continuo unilaterale movimento, con ironici umoristici distaccati epigrammatici «motti di spirito». «L’inutilità di ogni parola» che non scandalizzerà più nessuno, e di versi ormai abitudinari usuali ed anche banali, scritti da un poeta «boccheggiante», umile, ingenuo e affaticato, a cui basta rileggere l’Orestiade, Jakobson e i formalisti russi («Il Gracco»). La «volontà di essere chiaro» diviene perciò oscura, stanca, non esplicita, in un «Progetto» ormai silenzioso («Proposito di scrivere una poesia intitolata ‘I primi 6 canti del Purgatorio’»), ma  che non manca di ripudiare il tono alto del canto e trasgredire l’accuratezza e la tradizionalità dello stile, tipiche dell’opera pasoliniana negli anni Cinquanta, trasformando la sua poesia in senso narrativo, discorsivo, prosastico, finanche critico e di polemica (civile, sociale, politica, culturale), che prefigura il futuro scrittore eretico, corsaro, luterano, lucidamente aggressivo, volutamente e provocatoriamente scandaloso.

Laboratorio di Poesia, Roma, Librreria L’Altracittà 8 marzo 2017 Antonio Sagredo e Steven Grieco Rathgeb

L’«ambizione» dell’ultimo Pasolini, in realtà, è quella di scrivere un’opera in stile dantesco, plurilinguistico, ma non-finita, aperta, che non conosce un termine, e quindi «infernale», in cui l’Essere ha un cedimento a favore del Non-essere e, perciò dell’Apparire: in questa realtà e situazione magmatica e negativa, la poesia non può che essere-e-non-essere, ossimorica, contraddittoria, priva di dialettica e di sintesi; non può che interrogare senza avere risposte, essere utile e inutile, vera e falsa e, perciò, interminabile, invariabile. Anche questo spiega il motivo per cui Trasumanar e organizzar incontrò pochi favori e molta indifferenza sia tra i critici sia tra i lettori, sopra tutto perché Pasolini faceva convivere, nella sineciosi permanente, intenerimenti elegiaco-crepuscolari, mordenti ironie, aspri furori e rabbiose polemiche, passioni, invettive, sottili rimandi filosofici e allegorici, metalinguistici, lirismi, quotidianità, quasi al limite di un apparente, ma in realtà voluto e progettato, fuorviante Caos: e ciò lo consegue mediante o sconvolgimento della sintassi, del ritmo e del metro tradizionali, per cui il verso viene ora dilatato ora accorciato, movimentato o allentato o anche spezzato, dimostrando così un’indubbia e sicura abilità tecnica e virtuosistica che rende la sua poesia, a suo modo «manieristica», ma che serviva a rendere il significato della sua opera ancora più ambiguo e meno esplicito. L’amato Jakobson, insomma, sembra prendere il posto o almeno affiancarsi a Marx (e Freud): la teoria e lo strumento dello «straniamento», infatti, cerca di limitare o anche capovolgere, anzi distruggere la normale funzione e fruizione della poesia, per cui si può così pervenire ad una interpretazione autentica del reale.

La percezione, la coscienza, l’ideologia e la filosofia della «mutazione antropologica» e dell’omologazione sociale linguistica esistenziale imposero a Pasolini, necessariamente, la ricerca di un codice espressivo nuovo, di una nuova forma priva di forma, di una nuova sintassi del periodo addensata o accorciata o fatta di frammenti, escludente anche il soggetto e/o il predicato (stile nominale); un metro sregolato e completamente libero ed eslege, un lessico prevalentemente parlato e quotidiano, anche se non rinuncia alla professione della retorica. un «discorso» poetico, insomma, iniziato già in parte in Poesia in forma di rosa e definitivamente raggiunto in Trasumanar e nei non-finiti La Divina Mimesis e Petrolio) fatto di descrizioni narrazioni cronache diaristiche, notizie e comunicati, e misticismi narcisistici, cogitazioni trascendentali, con la morte… antitetica e antagonistica al Pensiero Dominante e all’alienazione invasiva e oppressiva del nuovo ipertrofico Turbo-Tecno-Capitalismo. Il paolino potere «istituzionale» del «Trasumanar», eccede sempre l’Organizzazione, per cui l’organizzazione è necessaria per andare oltre ed essere trascesi, e l’essere trascesi serve all’istituzione (edonistica e tollerante), per essere organizzati e controllati. Il «Doppio» (come avverrà in Petrolio) diviene il tema-simbolo e l’espressione fondamentale di questo necessario e ossimorico destino di con-vivenza.

L’ineffabile e ascetico itinerario della mistica e della metafisica (dantesche) e il «Corpo», il «pragma», le azioni e gli atti della contingenza (la polis gramsciana), e l’urgenza e gli obiettivi pratici della «lotta rivoluzionaria», sembrano emergere e organizzarsi alla fine degli anni Sessanta. Dicotomia e antitesi che Pasolini mutua anche e sopra tutto da Dante: visione teologica-indagine sociologica, rifigurazione mimetico-allegorica, rapidità-lentezza, luce-oscurità, narratore-personaggio, lingua poetica-lingua prosastica (1965, La volontà di Dante a essere poeta, poi in Empirismo eretico, cit.).

D’altra parte è lo stesso Pasolini ad affermare che l’ascesi mistica e spirituale, la santità (Trasumanar) è il risvolto speculare dell’azione pragmatica del fare, funzionale e utilitaristico degli atti (politici) e della loro organizzazione (del «Manifestar»).

La poesia diviene così ludica e arbitraria, contraddittoria e gratuita espressione del Nulla e del Vuoto (e della sua Santità), «disperata vitalità», «tetro entusiasmo», generati dalla fine di ogni speranza.

Roma, 8 marzo 2017

Pier Paolo Pasolini e Franco Di Carlo, 1969

Franco di Carlo e P.P. Pasolini Biblioteca Genzano di Roma gen 1975 (foto inedita)

 Pier Paolo Pasolini, “Versi del testamento”

da Trasumanar e organizzar (1971)

La solitudine: bisogna essere molto forti
per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori del comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza o mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere.
Il sesso è un pretesto. Per quanti siano gli incontri
– e anche d’inverno, per le strade abbandonate al vento,
tra le distese d’immondizia contro i palazzi lontani,
essi sono molti – non sono che momenti della solitudine;
più caldo e vivo è il corpo gentile
che unge di seme e se ne va,
più freddo e mortale è intorno il diletto deserto;
è esso che riempie di gioia, come un vento miracoloso,
non il sorriso innocente o la torbida prepotenza
di chi poi se ne va; egli si porta dietro una giovinezza
enormemente giovane; e in questo è disumano,
perché non lascia tracce, o meglio, lascia una sola traccia
che è sempre la stessa in tutte le stagioni.
Un ragazzo ai suoi primi amori
altro non è che la fecondità del mondo.
È il mondo che così arriva con lui; appare e scompare,
come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose,
e tu potrai percorrere mezza città, non lo ritroverai più;
l’atto è compiuto, la sua ripetizione è un rito. Dunque
la solitudine è ancora più grande se una folla intera
attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni –
l’andarsene è fuggire – e il seguente incombe sul presente
come un dovere, un sacrificio da compiere alla voglia di morte.
Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è mutato niente; allora per un soffio non urli o piangi;
e ciò sarebbe enorme se non fosse appunto solo stanchezza,
e forse un po’ di fame. Enorme, perché vorrebbe dire
che il tuo desiderio di solitudine non potrebbe esser più soddisfatto,
e allora cosa ti aspetta, se ciò che non è considerato solitudine
è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?
Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo,
che valga una camminata senza fine per le strade povere,
dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
Panagulis (*)
Questa volta no. Non deve succedere.
Siamo sopravvissuti ormai tante volte a cose simili.
Ma eravamo ragazzi: il diavolo ci tentava.
Essere dalla parte degli uccisi significava sperare.
Una fucilazione aumentava la vitalità: si cantava.
I martiri erano comodi: il PCI non era in crisi.
La garrota e il cappio erano buoni argomenti
dovuti alla stupidità del nemico.
Ma ora non siamo più ragazzi.
L’URSS è uno stato piccolo-borghese.
Non ci sono più speranze; non ci sono buone ragioni per sopravvivere.
L’avere ragione non rende più innocentemente ricattatori.
Non vogliamo fare alcun uso della morte di Panagulis.
Vogliamo che Panagulis non muoia, come il ragazzo Meneceo.
Gli Dei dicono che occorre un sacrificio umano
per la buona riuscita di qualcosa che riguarda l’intera città?
E il ragazzo indicato per il sacrificio, lo accetta?
Niente affatto, niente affatto. L’Inferno non è reale.
Tu, Meneceo, resterai qui con noi. La tua sete di morte
non deve essere accontentata. I tiranni non dovranno commettere
questo errore, e noi non dobbiamo sfruttarlo.
Dobbiamo piangere la tua morte prima che tu muoia.
Perché? Perché i duemila veri comunisti impiccati a Praga
non hanno più nulla da dire: e quindi nessuno ne dice nulla.
Perché Panagulis non vale sei milioni di Ebrei
del cui silenzio tutti approfittiamo per non parlarne.
E’ andata a finire che il ragazzo Meneceo è morto;
Tebe ha vinto; e al potere è restato chi c’era.
Siamo impotenti, è vero. Ma le parole valgono pure qualcosa.
Se tu morirai, noi ammazzeremo. Sceglieremo una vittoria significativa:
che non vuole morire, conoscendo la dolcezza di prima della rivoluzione! (1)
Non ci limiteremo ai digiuni come Danilo Dolci.
Sono passati i tempi dei bivacchi coi morti o dei digiuni.
Se non nei fatti, almeno nelle intenzioni, è l’ora della violenza.
Della violenza, aggiungo, senza speranza, arida, impaziente.
Ci hanno deluso tutti: chi ha torto e chi ha ragione.
Tuttavia siamo con chi ha ragione: ma senza illuderci.
Amici che non sventolate bandiere, ma siete diventati seri
come gente che rimugina senza dolore l’idea del suicidio,
non ci sono argomenti: l’unico argomento
è negli occhi neri di Panagulis, che rinuncia alla vita.

Nella fascetta editoriale che accompagnava l’edizione di Trasumanar e organizzar (1971), Pasolini scriveva:

«Chi è la persona che ha scritto questo libro? Non lo so bene. Comunque essa è stata certamente guidata da una mezza dozzina di “principi” dettati da chissà che istinto.

Il primo di questi principi è stato quello di resistere contro ogni tentazione di letteratura-azione o letteratura-intervento: attraverso l’affermazione caparbia, e quasi solenne, dell’inutilità della poesia.

Il secondo principio di tale persona è stato quello di non temere l’attualità (in nome di qualcos’altro che la vanifica, e in cui peraltro essa crede).

Il terzo principio è stato quello di concedersi una certa libertà linguistica rasentante talvolta l’arbitrarietà e il gioco (cose in precedenza mai avvenute, perché le sue mistificazioni furono sempre ingenue, appassionate e zelanti).

Il quarto principio è stato quello di considerare fatale da parte sua la rassegnazione di fronte al persistere dell”oxymoron”, o della “sineciosi” (vedi “Sineciosi della diaspora”).

Il quinto principio è consistito nella scoperta, quasi improvvisa, che la libertà è “intollerabile” all’uomo (specialmente giovane), che si inventa mille obblighi e doveri per non viverla.

Il sesto principio (molto meno importante) è consistito nel non voler fare di tutti i principi sopraddetti, e di una forma di fedeltà a se stessa, necessaria ad adempiersi, un contributo alla restaurazione».

(*) La poesia fu pubblicata per la prima volta in “Il Tempo” del 30 novembre 1968, con notevoli varianti e intitolata Panagulis: questa volta no. Vi si leggono numerose varianti. Ora è in Trasumanar e organizzar (pubblicato da Garzanti nel 1971). 

(1) Al contrario di Meneceo che non aveva una lira, benché figlio dello zio del Re. Quando si è al verde e si possiede solo ciò che si ha addosso, allora si è eroi: Euripide lo sapeva, e sapeva anche che mai nessuno avrebbe riso delle sue tirate retoriche attribuite agli eroi- ragazzi che volevano obbedire all’oracolo e morire. Nelle Fenicie di Euripide, Meneceo è il giovane eroe, figlio di Creonte, che decide di sacrificarsi perché solo così, secondo una profezia di Tiresia, Tebe si salverà.

Laboratorio di Poesia Libreria L’Altracittà, 8 marzo 2017 Donato Di Stasi e Donatella Bisutti

Articolo di Francesco Erbani pubblicato da “la Repubblica” il 17 maggio 2000 e la poesia di Pasolini Comunicazione schizoide all’ANAC contenuta nell’Appendice a Trasumanar e organizzar

“Smetto di essere poeta originale”, scrive Pier Paolo Pasolini negli anni a cavallo fra il 1968 e il 1969, “costa mancanza / di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo. / Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. / Naturalmente per ragioni pratiche”. Sul finire del decennio Pasolini spinge la sua poesia verso un punto estremo. La scompone sino a concepire il suo rifiuto, rigettandone l’ ordine e la stessa struttura, smantellando ciò che ancora la rende diversa dai tanti linguaggi che assordano la società di quegli anni – quello dei media, della politica o della contestazione.

Quei versi appartengono alla raccolta Trasumanar e organizzar, pubblicata nel 1971, due anni dopo la loro stesura avvenuta nel pieno di un turbamento fra i più laceranti della biografia pasoliniana: la scoperta di quanto sia perversa l’opera della borghesia italiana che, spinta dall’euforia neocapitalista, ha occupato ogni anfratto sociale, compresi quelli un tempo abitati dalle culture proletarie e sottoproletarie. Anche se non smetterà di scrivere versi, Pasolini considera che la lirica sia morta. E infatti in quella raccolta accoglie non solo la versione finale di alcuni testi, ma anche le redazioni originarie: supremo smacco alla poesia come forma assoluta.

Da quel gruppo Pier Paolo scarta un consistente numero di versi che chiude in una cartellina con la dicitura “Escluse”. Quelle poesie, finora inedite, vedranno la luce su Poesia ‘ 99, annuario a cura di Giorgio Manacorda in uscita presso Castelvecchi.

Sul perché Pasolini le abbia accantonate è possibile avanzare alcune ipotesi. Secondo Walter Siti, curatore dell’ opera pasoliniana nei Meridiani Mondadori, “il taglio è dovuto all’indole stessa di Trasumanar e organizzar, così tesa intorno ad un impianto civile da non ammettere toni intimistici o troppo legati ad occasioni o emozioni contingenti”.

In questi versi Pasolini si interroga sul futuro stesso della poesia.

“Perché esiste la poesia lirica? Perché solo io / e nessun altro per me, sa quali lunghe tradizioni / ha il dolore nascente dalla tinta dell’ aria che si oscura; / la sera e le nuvole annunciano, insieme, notte e inverno”.

Ma in essi risuona comunque il rombo di quegli anni. Dopo le contestazioni studentesche a Valle Giulia, Pasolini scrive la celebre Il Pci ai giovani, in cui striglia il conformismo borghese che permea la protesta. Gli umori si infiammano e il poeta prende fuoco. Fra queste poesie ne compare una, Esposto, in cui Pasolini replica con veemenza alle critiche rivoltegli su ‘Paese sera’ da Elio Pagliarani, poeta vicino al Gruppo 63 che lui vede come il fumo negli occhi (ricambiato di analoga considerazione). Scrive Pasolini in una nota al primo verso: “Ho esposto agli studenti ciò che andava esposto con vecchio amore al Partito comunista, ed essi mi hanno relegato tra gli Infrequentabili; ho poi esposto al Partito comunista ciò che andava esposto con inevitabile amore per gli studenti: e il Partito comunista mi ha relegato fra gli Infrequentabili”.

Pier Paolo Pasolini Life                                                     Pier Paolo Pasolini

Comunicazione schizoide all’Anac

È ora di finirla.
Questa vostra tacita tema di tradimento da parte di chi non è come voi
mi fa comportare forzatamente sempre come se fossi sull’orlo del tradimento
Fatto questo preambolo
Più che di schizofrenia è il caso di parlare
del linguaggio fatico
Le clausole conative son tutte nelle forme interne
Restano appunto i perché e i percome, bel tempo,
«Poesie pratiche» sarà il titolo della mia prossima raccolta di versi,
in concorrenza a «Poesie comuniste» o «I primi sei canti del Purgatorio»
Il titolo più plausibile sarebbe, certo, «Da pubblicare dopo la mia morte»
ma come potrei resistere alla tentazione di pubblicarlo prima?
Questa lettera segue una rapida decisione subito declinata
forse stupidamente. L’avevo presa in un sogno mattutino:
«Mi dimetto dall’ANAC e mi iscrivo al Pci»

Dovete sapere
Da parte del soggetto che vive le cose, e non le rivive,
attraverso le informazioni, la realtà ha sempre un aspetto infernale.
Fu nell’Inferno che una corte mi condannò
per aver diviso due litiganti (adesso ogni volta che vedo
gente che litiga, taglio la corda. Grazie, Patria,
per avermi insegnato a tagliare la corda e commettere
almeno in caso di rissa – reato d’omissione, che nessuno m’imputerà.
È stato nel mio Inferno,
non ancora in quello della Repressione,
che un Pubblico Ministero (commedia dell’arte)
mi accusò di voler fondare una nuova religione
sostenendo che:
Stracci ejaculava fuori campo.
Inoltre fui condannato per essermi messo un cappello nero
in testa, essermi infilato dei guanti neri
nelle mani, aver caricato con una pallottola d’oro
una pistola, e così aver rapinato un cristiano di duemila lire.
In altre parole sono stato condannato per un’azione
accaduta nel sogno di un altro.
Accennerò solo di sfuggita
a un’altra condanna subita
per aver consegnato una sceneggiatura
che essendo apparsa brutta e scandalosa
Il produttore disse di non aver potuto fare il suo film
perché la mia sceneggiatura era brutta e scandalosa,
e pretendeva quindi i danni. Il tribunale gli diede ragione!!
Cari, colleghi, questo è un precedente: e siamo nel ’62 o ’63.
Il Libro Bianco delle Sentenze
stilato contro di me dalla Magistratura Italiana
sarà il libro più comico
Per me è stata una tragedia:
ma non temete. Fingo che le mie spalle siano fragili:
in realtà sono più forti di quelle di Simone.
Ma fatemi fare il bravo cittadino per qualche mese
se no, non potrò fare più il cattivo cittadino per tutta la vita.

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, D. Maffìa, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismo, il romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria(1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013)

 

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LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mario M. Gabriele: Una poesia testamentum. Inedito. Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono fantasmi linguistici, rottami, spezzoni, frammenti che un tempo hanno abitato l’universo mediatico – Il Fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata», al declassamento ontologico del Soggetto parlante

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa. Sempre nel 2016 è stata pubblicata la raccolta di poesia L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura). Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele

Inedito da In viaggio con Godot
(di prossima pubblicazione nelle edizioni Progetto Cultura di Roma)

Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare.
L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.
– Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è? -,
chiese un turista.
– È la mano del mondo vicina all’indice di Dio -, rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.

Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways. .
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Esher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.

Et c’est la nuit, Madame, la Nuit!. Je le jure, sans ironie.

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
Il declassamento ontologico del «Soggetto parlante»

  L’io è letteralmente un
oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

J. Lacan – seminario XI 

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

J. Lacan – seminario XI

L’idea del «Soggetto parlante» è qualcosa che è in viaggio, qualcosa di inscindibile dal linguaggio, anch’esso sempre in viaggio nell’accezione mutuata dalla linguistica e in particolare da de Saussure, di un soggetto nel linguaggio, ovvero di quel soggetto colto nella sua inferenza con il significante in quanto condizione causativa del Soggetto. Questa premessa, se ricondotta nel campo psicoanalitico, implica che non vi sia ambito del desiderio, e che dunque non si possa dare propriamente parlando alcun  fenomeno dell’esistenza, se non all’interno di una dimensione che potremmo definire con Lacan «originariamente linguistica», determinata cioè dall’«Altro» come luogo della parola fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del Soggetto.

Il frasario:

«Solo il Verbo può giudicare»

indica sardonicamente il tema della poesia e della intera raccolta di Mario Gabriele, il dogma implicito del «Verbo» unico depositario del «giudizio». L’autore capovolge sardonicamente questo assunto dogmatico sul quale si è retto il potere dell’Occidente con il semplice indicare a dito il «Verbo», il vero falsario della storia degli uomini. Il soggetto quindi parla metonimicamente in quanto pronuncia una ordalia, scopre la nudità del «re», di che stoffa è fatta la sua menzogna.

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo in viaggio con Godot, solo che non ce ne siamo accorti; o meglio, le belle anime della poesia non ne hanno voluto prendere atto. Ormai il «Verbo» è un involucro vuoto, un significante con dentro il vuoto.

Il linguaggio, ci dice Agamben, deve necessariamente presupporre se stesso. Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra dirci Gabriele.

Gif lichtenstein peace through chemistry.jpgIl Parlante è il Soggetto declassato

il quale tiene in piedi le fila del proprio discorso rispetto all’indicibilità come condizione assoluta  della dicibilità. Non si dà indicibilità senza dicibilità. Essa dà, per così dire, figura alla «Cosa significata», le dà una struttura narrativa, una scena in cui possa apparire come oggetto perduto. Perché è il Soggetto ad essere perduto per sempre, che si è smarrito nella selva oscura della linguisticità della civiltà mediatica.

Il linguaggio del fantasma di Mario Gabriele rappresenta la finzione che dischiude la verità del soggetto come mancanza, vuoto, abisso, finzione attraverso cui si articola quell’al di là del desiderio – desiderio di nulla e nulla del desiderio al contempo – che Lacan designa, sulla scorta della nozione freudiana di istinto di morte, come «godimento», la beanza irraggiungibile della identificazione tra la parola e la cosa.

Mario Gabriele presta moltissima cura alla messa in scena del testamentum.

Una sorta di testamento. Come in un testamento che si rispetti c’è di tutto, c’è tutto l’essenziale: i beni immobili e quelli mobili, i beni materiali e quelli immateriali, il tutto riunito in una sola composizione. Un Aleph. Che brilla di luce sinistra, spettrale. Fermo restando che una poesia così è simile ad un rinvenimento di un cratere istoriato di epoca ellenistica o più antico ancora, e il critico deve vestire i panni dell’archeologo per riportare in vita una parvenza di ciò che tutti quei frammenti richiamano alla memoria. Più che lavoro di restauro (e non solo) qui occorre un lavoro di ricostruzione di tutti quei frammenti sparsi e disarticolati che un giorno lontano significavano qualcosa…

Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono quei «fantasmi» che un tempo hanno abitato l’universo linguistico mediatico e il nostro immaginario e che, in quanto tali, prendono possesso della pagina bianca.

«Il linguaggio del fantasma»

Nel «linguaggio del fantasma» noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto-autore di fronte al mancare della «significazione», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata» come fondamento dell’esserci del soggetto, ma anche un «venire in presenza» di qualcosa che dimorava nel regno delle ombre dell’inconscio. Ciò che qui importa è proprio  l’aspetto scenico, il luogo retorico in cui il soggetto si ritrova come osservatore e autore (assente), regista e attore (assente) al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la  narrazione della sua mancanza. Il «fantasma» è infatti, in ultima istanza, una frase. A livello linguistico, simbolico, si presenta come una proposizione; a livello immaginario, si presenta come una scena. Il «linguaggio del fantasma» è legato a una dimensione liminale, una sorta di sipario chiuso oltre il quale resta velato quel nulla dell’infondantezza del soggetto, quel vuoto di significanti in cui si manifesta  l’abisso del metalinguaggio di Gabriele.

Siamo qui davanti ad una esemplificazione tra le più brillanti della poesia contemporanea che abbiamo definita «Nuova poesia ontologica», indicando questo tipo di poesia come appartenente alla «Nuova ontologia estetica» che stiamo investigando da qualche tempo su questa rivista.

L’inconscio del fantasma linguistico di Gabriele si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, citazioni, frammenti; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi. Tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne e lo coinvolge nel suo stesso, nel suo più radicale essere.

L’inconscio del fantasma linguistico di questa poesia è un inter-detto, esso non ha nulla della oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale. L’inconscio pensa cose e le pensa linguisticamente agghindate.

gif-xmas2011_keith-bates_peace_through_christmas_treeIl disorientamento

Ho scritto in altra occasione riferendomi ad alcune eccezioni sollevate da Claudio Borghi:

«comprendo molto bene il tuo «disorientamento» dinanzi alla nostra ricerca di una nuova ontologia estetica, io è dall’inizio degli anni Novanta del Novecento che tento di indagare la crisi della forma-interna della poesia, l’ho fatto con la rivista “Poiesis” che avevo fondato nel 1993 e tenuta in vita fino al 2005. Complessivamente ne sono usciti 34 numeri. Ma è accaduto che in questi ultimi 29 anni la crisi delle forme estetiche (e non solo) si è andata aggravando, la crisi ha impresso una accelerazione forsennata al crollo delle forme estetiche tradizionali, non è affatto colpa mia e dei miei compagni di strada se la crisi si è abbattuta come un maglio sulle forme estetiche che abbiamo conosciuto in poesia. Così, è avvenuto che quell’endecasillabo della tradizione che va da Bertolucci de La camera da letto al Bacchini degli ultimi libri, ormai non ha nulla da offrirci, è una forma estetica del passato e noi non possiamo restare fermi a dirci come erano belli i tempi nei quali scrivevamo e vivevamo come Attilio Bertolucci e Bacchini, con tutto il rispetto per quelle forme poetiche e la loro poesia.

Del resto, oggi, non vedo in giro in Italia ricerche alternative a questa che abbiamo messo in campo. Tenterò di spiegarmi. La «nuova ontologia estetica» è nata da una presa d’atto della crisi irreversibile della forma-poesia che abbiamo conosciuto nel secondo Novecento e in questi ultimi anni del nuovo secolo, è una risposta che è partita dai «fondamenti» della scrittura poetica, e, in particolare, da un nuovo concetto dei due elementi fondanti la forma-poesia: la «parola» e il «metro», entrambi visti non più come «contenitori» di grandezza fissa ma come entità a grandezza variabile; sia la «parola»che il «metro» sono entità elastiche, mutanti, noi percepiamo queste unità come enti dotati di tempo e di spazio «interni», non solo «esterni» come intendeva la poesia tradizionalmente novecentesca ed epigonica.

Che cosa voglio dire? Che spetta a ciascun poeta offrire una propria soluzione a questa crisi della forma-poesia e interpretazione a questi nuovi modi di intendere sia la «parola» che il «metro», e si tratta di quello che abbiamo denominato «tempo interno», che non è da intendere come un tempo interno fisso valido per tutti ma come una temporalità interna all’oggetto e al soggetto e una spazialità interna al soggetto e all’oggetto, per dire così.

Non era Tynianov che 100 anni fa ha scritto che «si può scrivere poesia anche senza una unità metrica»?

Cito a memoria. se noi accettiamo questo assioma possiamo concludere che oggi si può parlare non più di unità metrica ma di «unità metriche», ciascun poeta ha il diritto di sperimentare nuove e diverse «unità metriche», non dobbiamo farci intimidire da coloro i quali stigmatizzano che la nostra non è poesia ma prosa travestita da poesia, questi rilievi li restituiamo volentieri ai mittenti.
È di questi giorni la scoperta scientifica di una nuova forma di esistenza della materia: un «cristallo temporale» che ha una struttura atomica che cambia nel tempo: l’itterbio. Incredibile, vero? la scienza ci viene in aiuto mostrandoci che anche la materia può avere una struttura atomica mutagena. E perché non possiamo pensare allo stesso modo la poesia? Perché non possiamo pensare ad una poesia che è retta non più da una struttura atomica fissa ma da una mutabile nel tempo? (esterno ed interno?)».

Il frammento e la citazione nella poesia di Mario Gabriele rappresentano, in quanto finzione, il limite dell’ordine simbolico, un ordine simbolico che abita la zona anestetizzata dall’esistenza dell’universo mediatico.

Ecco la ragione della assoluta modernità della poesia di Gabriele.

Sul «Frammento»

Riporto un frammento di una mia riflessione già apparso su questa Rivista sulla poesia di Mario Gabriele:

“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio  che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Osip Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa.

(Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura).

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Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/23/la-nuova-ontologia-estetica-mario-m-gabriele-una-poesia-testamentum-inedito-le-parole-con-le-quali-e-scritto-questo-rogito-testamentario-sono-fantasmi-linguistici-rottami-spezzoni-frammenti-che/comment-page-1/#comment-18242

Torniamo alla lettura della poesia. Precisamente a questi versi della poesia di Mario Gabriele:

Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.

In questo testo poetico la profondità del tempo è diventata profondità dello spazio. Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità etc., è diventato il treno dello spazio. Il lettore nell’atto della lettura è costretto a cambiare continuamente il suo registro temporale, con l’effetto che il tempo diventa, magicamente, spazio. Il tempo si è spazializzato, ha assunto profondità spaziali. E lo spazio si è temporalizzato.

L’esperienza umana del Soggetto è scomparsa, è uscita fuori dell’orizzonte degli eventi della poesia. La poesia di Gabriele si è liberata del pesante fardello di un orizzonte di lettura unilineare e unitemporale, qui si aprono diversissime direzioni temporali che diventano direzioni spaziali. La spazializzazione del tempo è una delle caratteristiche precipue di questo tipo di poesia che io ho indicato con la denominazione di Nuova Ontologia Estetica perché i suoi assunti sono, in guise diverse da ogni autore, adottati da vari poeti che seguono questa nuova ontologia ciascuno con modalità stilistiche proprie. Così, il tempo diventa visibile attraverso lo spazio. Accostare tessere diversissime in un insieme, in un mosaico, diventa un puzzle, un Enigma che può anche non essere interpretato perché è prioritario per l’Enigma essere vissuto. Per sua essenza, l’Enigma rifugge da atti di padronanza categoriale, e rifugge da letture unidirezionali. Il «tempo interno» è nient’altro che questo processo che interviene tra l’autore e il lettore, ma è anche una caratteristica di ogni singola «tessera» o «immagine»; in fin dei conti, ogni «immagine» è analoga all’altra, c’è nell’orizzonte degli eventi del mondo e non ha bisogno di essere spiegata ma è un darsi e un moltiplicarsi di superfici riflettenti nelle quali l’uomo contemporaneo può riflettere la sua Assenza, la sua mancanza ad essere. Una problematica di carattere squisitamente esistenzialistica..

Il tempo può essere percepito ed esperito soltanto come una delle dimensioni dello spazio, ed esso spazio è la modalità con la quale l’esistenza è stata vissuta ed esperita. Dunque, l’esistenza è dentro lo spazio e dentro il tempo come una serie di scatole cinesi.

Qui siamo davanti ad un «tempo interno» che è diversissimo dalla visione retrospettiva e memoriale di un Proust, ma più simile a ciò che nel romanzo hanno fatto narratori come Salman Rushdie con i suoi romanzi Versetti satanici (1988) e Midnight’s children (1981) e Orhan Pamuk con Il mio nome è rosso (2000) e Il museo dell’innocenza (2008). L’utilizzazione dei frammenti nel romanzo moderno è una procedura assodata da tempo, in poesia l’accademismo e la tradizionalizzazione delle forme estetiche ad opera di letterati conservatori, in poesia dicevo questa nuova forma di pensare la scrittura letteraria qui in Italia è stata osteggiata e ritardata.

Platone nel Timeo parla del Tempo Cronos come di una «icona in movimento di Aion, come di una «immagine mobile dell’eternità». È singolare che Platone per indicare il «Tempo-Cronos» ricorra alla parola «immagine». Singolare ma significativo in quanto noi possiamo afferrare qualcosa intorno al «tempo» soltanto se ce lo rappresentiamo come una «immagine», cioè attraverso una figurazione spaziale.

Chi sogna ad occhi aperti sa molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto ad occhi chiusi. La poesia di Mario Gabriele è simile ad un sogno ad occhi aperti. Ne L’interpretazione dei sogni Freud ci dice che il sogno «è una messinscena originaria», anteriore alla stessa distinzione tra «soggetto» e «oggetto». Le immagini mobili che fluttuano sulla superficie riflettente degli attimi temporalizzati della poesia di Mario Gabriele sono messe in scena sostitutive di quella originaria, sono la traduzione di concetti temporali in figurazioni spaziali.

Scrive Giacomo Marramao:

«il tempo baudeleriano si è spogliato di tutte le prerogative spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il tempo, tutta l’esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi: identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente visibile, essere ‘sinestesicamente’ percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza […] Questo movimento è esattamente un movimento prospettico “l’atto con cui, per giungere alla profondità, si apre nel campo visivo una strada che lo sguardo percorre”. Si spiega così il significato recondito delle “magiche prospettive” che Baudelaire dispone nelle sue memorabili descrizioni paesaggistiche e che fa corrispondere le sue analisi delle tele di Delacroix alle proiezioni che l’esperienza organizza nei “quadri” del suo vissuto: “evaporazione e centralizzazione (o condensazione) dell’Io: è tutto qui (Oeuvre, II, 642). evaporazione inebriante e condensazione nel ricordo e nel rimpianto rappresentano i confini, i termini estremi, di un movimento del vissuto che tende a coincidere con lo spazio. Un’esistenza spazializzata è un’esistenza evaporata in numero: “Il numero – sottolinea Baudelaire – è una traduzione dello spazio (ivi, 663). E poiché sempre di spazio vissuto si tratta, anche il numero andrà inteso nel senso di numero vissuto. Sta qui la chiave segreta dell’immagine baudeleriana di “ripetizione”: essa prospetta la virtualità di esperire una moltiplicazione dell’esistenza attraverso un’infinita estensione di campo delle sensazioni. La moltiplicazione dell’esistenza divenuta numero dipende così da quella misteriosa facoltà di ripetere il suo salto lungo tutta la superficie dell’essere: di rimbalzare come un’eco lungo la misteriosa curva di uno spazio tempo i cui confini non sono mai tracciati definitivamente. Non per nulla i versi più belli e significativi di baudelaire sono proprio quelli che esprimono il riecheggiamento:

Comme des longs éclos qui de loin se
confondent…
C’est un cri par mille sentinelle…

Non si dà, pertanto, né reale né possibile esperienza del tempo a prescindere dallo spazio. La grande intuizione baudeleriana circa la costruzione di una profondità di campo quale condizione imprescindibile per afferrare-insieme (null’altro se non questo è il significato di “comprendere”) gli eventi che ci accadono sopravanza, in questo senso, la nozione di “tempo vissuto” di Bergson: non più Spazio come morte del tempo, estinzione della sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per poter fare esperienza…
[…]
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».1]

*
Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini.
Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante.
Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi (…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…» (Parm., 156d-e).

La moltiplicazione dell’esistenza tipica della nostra civiltà post-moderna ha prodotto la conseguenza di una moltiplicazione di superfici riflettenti quali sono le immagini nella civiltà telemediatica. Questo processo è esploso in questi ultimi decenni a velocità forsennata ed ha prodotto una profonda modificazione del nostro modo di percepire e recepire il mondo; il mondo si è frantumato in una miriade di spezzoni. Fare un processo al mondo per quanto accaduto non è nelle nostre intenzioni, questo della moltiplicazioni delle superfici riflettenti è un dato di fatto incontrovertibile e noi e Mario Gabriele non altro abbiamo fatto che prenderne atto e fare una poesia di superfici riflettenti. Questo processo epocale fra l’altro ha prodotto una conseguenza anche sull’idea di Soggetto e di Io (idea teologica e filosoficamente destituita di fondamento già da Freud e dal sorgere della psicanalisi). Il Soggetto è scomparso. È diventato un fonatore. Anche l’enunciato è qualcosa di diverso dal Soggetto enunciatore. Il predicato si è scollegato dal Soggetto. Si tratta di questioni che la filosofia del nostro tempo ha chiarito in modo ritengo sufficientemente credibile. Fare oggi una poesia del Soggetto che legifera nella sua sfera di influenza, è, a mio avviso, una ingenuità filosofica ed estetica. La poesia dell’Io è un falso, e una banalità.

Quanto ai concetti di armonia, di eufonia, di musica del verso musicale, di poesia e di anti poesia etc. sono concezioni tolemaiche legate ad una visione tolemaica e ingenua della poesia che ha fatto il suo tempo e verso i quali mi viene da sorridere, anzi, provo addirittura nostalgia per quell’età in cui si scriveva credendo ingenuamente in quelle categorie estetiche. La nuova ontologia estetica di cui qui si parla lascia questi concetti semplicemente come abiti dismessi sulla sedia a dondolo per chi vuole ancora dondolarsi in ozio intellettuale. Pecchiamo di arroganza? Forse. Non lo so. E neanche mi interessa.

G. Marramao Minima temporalia luca sossella ed. 2005 pp. 95 e segg.

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Francesca Dono, QUATTORDICI POESIE Inedite – La carta da parati – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La poesia dopo la fine della modernità, «La nuova poesia ontologica»

Foto selfie Jack Nicholson

Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.

Pubblicazioni sulla rivista «Odissea» di Angelo Gaccione – «Bibbia d’Asfalto»  e «Word Social Forum». Molti componimenti si sono classificati ai primi posti in vari concorsi tra cui :premio  internazionale Otto Milioni di Bruno Mancini,  premio internazionale “Terra di Virgilio” con critica di Enrico Ratti, premio “La Stampa ”con critica di Maurizio Cucchi. Premio Speciale Presidenza  “Abbiate Coraggio di Essere Felici” di Antonella Ronzulli e Annamaria Vezio , premio “Internazionale Leopardi d’Oro” dell’Accademia Leopardiana di Reggio Calabria come  ambasciatrice  e procuratrice dell’Arte  e Letteratura Italiana nel mondo. Premio MilaninSight. Concorso Racconta la tua Milano.

Anche i dipinti sono stati inseriti in vari Cataloghi d’Arte tra cui il catalogo d’arte “ l’Elite”  anno 2013 e 2014, catalogo  d’Arte di Assisi e di Artelis di Reggio Calabria nel 2015. A Novembre edita la sua prima raccolta intitolata Tra l’Insionismo* l’Inversionismo e il dialogo di Irda Edizioni”, ormai fortunatamente introvabile.

*(neologismo)

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Fine della modernità

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nel tragitto ortogonale e tangenziale verso una «Nuova poesia ontologica» credo si possa annoverare anche la poesia di Francesca Dono. Come ho detto in diverse occasioni, questa poesia non vuole essere né bella né brutta, né isoritmica (detto in altri termini: eufonica), né cacofonica, né dissonante né minimalistica, né sperimentale né antisperimentale, né novecentesca né anti novecentesca. In un certo senso, questa nuova procedura compositiva, per frammenti e per relitti, prende a prestito da tutte le acquisizioni stilistiche pregresse gli elementi di novità e li immette in una «forma» compositiva del tutto nuova. Siamo ormai lontani dall’epoca che ha sanzionato la decadenza di ogni narrazione, da quando, nel 1979, Lyotard dà alle stampe un libretto di circa cento pagine con il quale statuiva «la fine della modernità». La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una «grande narrazione», cioè a una storia che possa essere “macrostoria”, vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Ciò che restava erano i frammenti, i frantumi, i cocci dell’«Anfora» di Ubaldo de Robertis, i relitti, ed è con questi relitti che, volente o nolente, la poesia contemporanea dovrà fare i conti. Non c’è via di scampo. I ritorni al passato euofonico della poesia eufonica di Sandro Penna, sono impossibili, così come le derive narcisistiche verso le «narrature» (dizione di Roberto Bertoldo) post-modernistiche che fanno le fiche alla narrazione della narrativa.

Francesca Dono ha il dono, se così si può dire, di possedere il demone della poesia. Fa una poesia che nessuno si sognerebbe mai di fare, e lo fa con la naturalezza e l’ingegnosità di chi ha un talento maldestro e irriguardoso. Oserei dire che è un po’ il versante femminile di Antonio Sagredo. Fa poesia come fa fotografia, con lo smartphone, con l’ingegno della spontaneità, ha uno sguardo originale e non convenzionale sulle cose, come può averlo un primitivo nell’isola di Pasqua, leggi le sue associazioni e rabbrividisci, non ti ci raccapezzi. Inverte l’ordine degli addendi, e il risultato cambia, è questo il segreto del suo approccio. Incredibile, Francesca Dono possiede per via, per così dire, «naturale», il segreto dei «frammenti», li mette in un bussolotto, agita il tutto, e quello che ne viene fuori è un prodotto sempre diverso. Semplice, no? Fa del bricolage e del brigantaggio linguistico. Le sue composizioni hanno una leggerezza e una fragranza encomiabile; mi dicono che riesce claudicante, che qua e là inciampa sulla diversissima geografia delle immagini, ma, credo che sia il rischio del mestiere di poeta: («la carta da parati con una finestra / sul finire dell’inverno»; «Buona fortuna-  scrive Hoffman sotto stelle insultate»). Procede con una precisione fotografica, fotometrica, nel senso che il metro della immagine è il suo unico regolo («un pesce rosso dentro la boccia di vetro»; «Lacrimogeni gettati dentro autobus di linea»); si esprime mediante enunciati surrazionali  e insensati («Pindaro non smorzare il giglio con la cenere del vulcano»), adotta  notazioni quasi didascaliche, fa cartografie di fotografie e di immagini, poi cambia passo, allunga il passo, torna indietro, ci ripensa, va avanti, e poi a destra, e a sinistra, parla di cose scombiccherate, bizzarramente assemblate («Allungo il pennello guardando sacchi a pelo a ridosso / di ombre lunari»),  in un paesaggio de-paesagizzato e de-psicologizzato, lunarizzato, ridotto a palcoscenico di burattini in libera uscita; assembla immagini le più varie, desuete, contraddittorie, farsesche, sovra reali in modo da de-naturare i componimenti e de-automatizzarli. Le sue sembrano poesie scritte da manichini irriverenti e scontenti che litigano tra di loro. Fa una poesia della contaminazione lessicale, della disseminazione, della combinazione e dello spaesamento, direi della labirintite, malattia tipica del nostro tempo psicotico; fa una poesia molto simile a quella di certi schizofrenici che sono molto più sani dei poetini da Parnaso dipinto; fa una poesia che manca di equilibrio, sì, che inciampa spesso, cade a terra e si rialza… Ed è appunto questo il suo pregio: che lascia ben visibili le cicatrici linguistiche, i vulnus, le cuciture improvvisate, i salti, gli strappi…  Segue la funzione simbolica del linguaggio per contiguità metonimica, senza darlo a vedere, senza pensarci, e magari senza saperlo, si affida alla metonimia piuttosto che alla metafora,  alla funzione sinonimica, e se ne va a spasso per suo conto con una incredibile libertà fantastica. Fa una poesia che manderebbe in estasi i bambini, ma che certo, gli adulti ben pettinati si guarderebbero bene dal prendere sul serio e storcerebbero finanche il naso. In specie, i poeti laureati, quelli che parlano con scienza e coscienza delle cose di cui si può parlare con meticolosa seriosità con un linguaggio lindo e pinto.

(Francesca Dono)

Poesie di Francesca Dono

– la carta da parati –

la carta da parati con una finestra
sul finire dell’inverno.
Allungo il pennello guardando sacchi a pelo a ridosso
di ombre lunari.
Brulicano pietre.
Si traccia la mappa per allevare sonni tra le morgane.
Tre anni e ancora lui non m’appartiene.
E’ indelebile la malia del vecchio straniero. Torno indietro.
Nessuno sorride.

.
– Achille giunge nell’ora perduta –

spocchie e foglie vecchie di lacci militari.
Achille nell’ora perduta.
Dita disadorne giungono tra i sudici illibati.
È irritante quel
disordine nell’afa .
Lucy scompare alla dogana. L’acciottolio di piatti
nel buio di un sotterraneo.
__Alcune cameriere s’innamorano.
L’albergo ha un tetto nel diluvio.
________–
Girotondo dei cieli.
_____ Dorme la puritana di San Francisco. Stalattiti raccolgono
Saturno in mezzo alle caverne.
In corteo cappelli proletari –
Sconfinano necrologi sul Journal de Paris.
– Buona fortuna – scrive Hoffman sotto stelle insultate.
Si sospira.
Di bocca in bocca un cianotico pasto.
Fisso un garzone per la fuliggine.

– un pesce rosso –

un pesce rosso dentro la boccia di vetro.
Anni nella stessa direzione.
Mi chino. Lui si abbandona estraneo
al circolo dell’acqua sempre piatta.
Un pesce rosso. Nel caldo o nel freddo.
Niente si muove sul davanzale.

– dell’uomo solitario –

atroci piedi alle solide fondamenta. Dell’uomo solitario l’attrito
nel peso di un corpo sottile. Si oscilla nel sonnifero. Anche il sacrestano
non ha scalato i calandri di cera. Nella cella un’antica fiumana di peltri. Inodore
tu respiri. La roulette mi gira ai perni di Gomorra. Perché rifiutare la festa delle canne
slanciate? Un bovaro si avvia lontano. Dopo la colonia tristemente il nostro capo curvo.

– di rose i giardini –

di rose i giardini.
I lini delle case fino alle cose.
Quasi cangiante l’audacia dei volti indigeni.
Fisso i declivi frastagliati. Oso issarli all’insegna agostana.
La falsa abbronzatura fiancheggia l’alone del tuo iride. Sono tutti
laggiù i lapis per disegnare le galassie. Sulla scia pietre accalcate. Ipoteche
verso la corolla solare. Lacrimogeni gettati dentro autobus di linea.
Mi alzo. Mi siedo.

– centimetri di scure acquoline –

l’eclisse.
Centimetri di acquoline salutando la luna.
Un altro poeta è caduto dalla pietosa rupe.
Pindaro non smorzare il giglio con la cenere del vulcano.
L’alba si sbeffeggia.
Duri calchi nella villa di Pompei.
Ora tu cresci inglobando fiumi già logori.
Tetri commensali dentro la sala cobalto.
Asfittica la fetta di carne sui piatti decorati.
Omero ormai scrive insonne.
Vele di luci sotto l’Olimpo. Mi pettino tra miseri mendicanti.
Tacciono le colonne del tempio.

– e per mai osare la precisione degli uccelli –

contaminata
la pioggia vacilla.
Forse cava la nostra carne
dentro milioni di fosse oceaniche.
__________Un colpo si punta all’acciaio. Moloch sparge
l’ala dell’anatra verso le aquile.
Non un dubbio.
_________Sotto i radar il sole e gli angeli del viaggio.
Ti porto una cena carica di ruggine.
La porta d’ulivo ha rami lungo la notte.
|________
Tu succhi dal branco il feto triste. Il branco ci concede l’ennesimo bronzo nel volto scarnato.
———————-
Filo imbastito sulle schiene blindate.___ Marion s’incontra con le torri assoldando oscuri sicari.
_Orti ed erbari in mezzo alle stoviglie.
Il piatto è nudo.
Che faranno di me? Poison _ poison nella polvere frettolosa.
Sussurri lievemente. Cani-ragni sugli altari.
Chet Baker si tormenta con una tromba stonata.
La sala americana è tra pareti incartate.
_______Luce tra le macerie.

francesca-dono-con-tela

(Francesca Dono)

– il miglio mischiato –

un cucchiaio dentro la clessidra.
Questa svasatura è il miglio mischiato dentro gabbie di uccellini.
Zia Carmelina taglia le pigne a dadini.
Una ciotola più o meno.
Il santo mi ha sparso in milioni di fedeli.
Scende il crepuscolo.
L’oceano soggiorna a Cattolica.
Prende il volo un’anatra tra i rovi di un orto.
Papà andava per i campi.
Altri sei mesi raccogliendo tra i clivi.

–  i grandi canyon –

grandi canyon nella
caccia del vento. Sospesi i fiori rossi
qualche luna è scoppiata sconfinando.
Pareti ripide negli orizzonti caduti.
Ho visto erbe carnivore banchettare
con i tuoi vermi. Tre mesi di cielo terreo
non tornando alla bottega dell’oro.
Bolle bibliche nell’acqua: dietro le volute
Erode si sventra . Qui m’insabbio
nella congrega dei papi. Chiederti
della promessa per il sole. Gli oracoli
si susseguono in ogni grappolo d’uva. Molto tempo
la mia anima senza un calice maestro.
Nella contesa una quinta e l’ombra riflessa.
Ma già ti riconosco. Ho visto
quel corpo lacerato.

– poltroncine rosse –

la sala di un cinema.
File di poltroncine scolorando nel buio .
Ovunque poltroncine di stoffa tra fievoli
mormorii o segreti.
E’ quasi penombra il gioco della luce.
Ogni volta dalla tela un corpo dal fotogramma.
Con te il singulto di una strana immagine.
Guardo il respiro dell’aria viziata.
Distrattamente i nostri fianchi si sgretolano
al minimo colpo di sonno.
Cataste di poltroncine .
Poltroncine rosse legate in ogni fila.

– selve al banco dei merluzzi –

selve al banco dei merluzzi.
Si strofinano candele al santuario.
L’uomo ha ucciso.
Un monaco ha forzato il gelo nella neve.
In obbligo questa lucciola-pachiderma
a svelarsi di notte. Ti raggiungo nel campo del bambù
bramoso. Luoghi canonici con cecchini e
bombe che non smettono di cercare.
Eros sussurra all’orecchio.
Del sole un salto tra scansie spellate.
Povera Betta partoriva figli prima di prendere
la pila del vento.

*

Lieve. Fatto in un mulino di olmo
nel corpo asciutto di belle bambine.
Aspettando i circoli della volpe
Lara ebbe il segno per i polsi più chiari.
Ricordo le ombre di fiumare assediate.
Un tempio aveva i graffiti dove
Ippazia si compiva nel coltello di conchiglie.
E venne un tetto levitando
l’altezza attorno. Tu tra i
riflettori immortali di una città attonita.
Morgana era l’altra sorella
nell’acqua del mare.

– Sonagli a Bali –

L’aureola nacque. Era un pomeriggio
col tuo maglione rosso verso Madras.
Intanto la gasolina nella
frusta del vento. Tra i fumi un teschio vagante.

-Puoi essere uguale a questa boccuccia. – Diceva.

Era buio . Lo sbieco della coperta traboccava pallido.
Era buio.
Non per i pianeti ma nell’incrinatura di vuote fruttiere.

-La morte non va altrove-. Il tuo teschio ingiallito
simile a un furgone angusto.

-Mi annido. Potrei trascinarti – lui ripeteva.

(Alcune donne in sottoveste. Altre dentro grattacieli di creta).

Già arroccati i miei margini in quelle pietre dure.
Venivano persino tamburini dal Missouri.
Ancora altra neve nei grani del pulviscolo.

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Giovanni Boine (1887-1917) POESIE SCELTE La punta dell’iceberg a cura di Chiara Catapano

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Mi viene in mente un’eccellente antologia poetica (Poeti italiani del Novecento, Mondadori, 1978) a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in cui chi volesse farsi un’idea del panorama poetico italiano durante tutto il Secolo breve, troverebbe grande soddisfazione. Qui davvero è distillato il succo del nostro ‘900, qui davvero si attraversano città e paesi d’Italia e la poesia ti si mostra con cristallina chiarezza. Qui anche Giovanni Boine ha un suo posticino: pagine 415-419. E non è poco, se teniamo presente che nella maggior parte delle antologie scolastiche e non di Giovanni Boine non v’è traccia alcuna. Mengaldo nella sua nota all’autore ci ricorda che “si avrebbe torto a concentrare” sulla produzione poetica dei Frantumi “l’interesse critico, come si è pure fatto di recente: altrettanto e più rappresentative del loro autore, e delle sue spesso irrisolte tensioni, sono infatti la prosa morale, ad esempio, di Esperienza religiosa, quella convulsamente psicologica del romanzo Il peccato, o la critica intensa e così spesso acuta di Plausi e botte”. Mengaldo in questa sua introduzione rende un gran servizio e al Boine, e ai lettori: riabilita dopo decenni d’ingiusto oblio gli scritti boiniani nel panorama della più alta tradizione letteraria italiana. Carlo Bo farà passare ancora un ventennio per giungere alle stesse conclusioni. Mengaldo ci avverte che quanto stiamo per leggere è solo la punta dell’iceberg.

Chi partisse a conoscere Boine dalla produzione poetica dei Frantumi, com’è capitato anche a me, si troverebbe in grande imbarazzo, piuttosto sconcertato e certo confuso, perché vedrebbe aperta davanti a sé una strada che – contestualizzata agli anni in cui apparve – risulta chiaramente non ancora battuta. Un sentiero vergine e ricco di nuove specie, che vorremmo sapere dove porta senonché ecco! termina bruscamente e in mezzo ad intricatissima vegetazione, con la morte dell’autore. Mappe per uscirne Boine, per quanto incomplete, ce le ha lasciate: tutta quella produzione sommersa fino a pochi anni fa, fatta di lettere, saggi, articoli e diari.

Giovanni Boine nasce a Finale Marina, in Liguria, nel 1887. Vive l’ambiante della provincia e, spesso in polemica con gli amici della rivista fiorentina la Voce, rivendica la sua appartenenza a un ambiente culturale marginale ma vivo, spesso più lucido nei giudizi e nelle intenzioni, come vuole dimostrare partecipando attivamente alla rivista di Mario Novaro, la Riviera ligure. Rivista questa senza programmi, e stiamo già registrando la prima bizzarria, nell’epoca dell’impegno e degli “–ismi” serpeggianti tra gli intellettuali italiani all’alba della I Guerra Mondiale. Ma proprio questo piace a Boine: libertà di dire, disomogeneità dei testi, ampio respiro di contro al cappio dell’asservimento a qualsivoglia programma. Partecipò anche alla Voce di Prezzolini, ma sempre in polemica e pronto all’affondo dinnanzi alle virate alla dove va il vento, eccessivamente utilitaristiche della compagine fiorentina (“Chi è d’accordo mandi formale adesione per lettera, chi no buona notte”). Ma certo è alla Riviera ligure che Boine affidò i suoi testi senza mai doversi preoccupare di epurazioni e scontri ideologici. Nella rivista di Novaro, Boine prenderà in mano la rubrica Plausi e botte: pagina di recensioni “con gli umori” dei libri contemporanei in uscita. Claudio Magris ha sottolineato a tal proposito lo spessore di questa sua produzione, indicando in essa più un libro di letteratura che sulla letteratura. Le recensioni sono 87, e Boine dà giù più di botte che di plausi, senza peli sulla lingua e senza risparmiare stoccate anche agli amici (e soprattutto a loro, poiché a loro teneva e non sopportava i rammollimenti letterari di chi si sentiva già in cattedra) come Soffici e Papini, quando percepiva in loro una piega al ribasso, un intorpidimento che non ammetteva negli uomini d’ingegno. Apertamente divertenti le critiche a libri che non meritavano molta attenzione; oppure volutamente polemiche per “buttarla un po’ in caciara” altre. Ma non vanno dimenticati gli articoli, ampi, di lucida presenza e coscienza letteraria, dedicati a poeti allora sconosciuti che Boine veicolò (per primo scoprì, mi vien da dire) come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli.

giovanni-boineC’è pure nella sua produzione il romanzo. Anzi, si può affermare che Giovanni Boine fu l’antesignano del romanzo novecentesco, anticipando Italo Svevo e il suo Zeno. Giancarlo Vigorelli ci ricorda che James Joyce, mentre a Trieste scriveva l’Ulisse, teneva sul comodino Il peccato. Non è un particolare irrilevante, e va collegato all’aspra polemica con Benedetto Croce, alle cui teorie Boine opponeva la propria “estetica della simultaneità”. Scrive Boine a proposito del suo romanzo Il peccato: “L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia”. La vita, questa la chiave in fondo di ogni sua pagina: la vita e la regola, la vita e il canone, la vita e la tradizione. La vita e la storia. E l’intreccio tra l’una e le altre, il groviglio doloroso la cui soluzione per alcuni è la fede, per altri la legge. Ma Boine, che non riesce ad esaurirsi in nessuna delle due dimensioni, sentirà per tutta le sua breve esistenza la tensione tra i due poli, separati ma non distinti. E non sappiamo quale soluzione avrebbe potuto tentare, se una ne avesse infine tentata; siamo al punto di partenza, nello sconcerto e persi in un sentiero d’intricatissima vegetazione.

Giovanissimo, intesse un breve ma intenso scambio epistolare con Unamuno  (dicembre 1906 – marzo 1908) del quale tradusse il saggio “Inteligencia y bondad” e recensì “Vida de Don Quijote y Sancho”, “Soledad” e “Plenidud de Plenitudes”. Era quello il periodo modernista di Boine, della rivista “Rinnovamento”, della lettura di Tyrell e von Hügel, dell’enciclica “Pascendi dominici gregis” (8 settembre 1907) e delle scomuniche, della ricerca attiva e partecipata al rinnovamento spirituale inteso nella sua dimensione comunitaria, prima del ripiegamento verso una dimensione intima e soggettiva della fede, come la descriverà nel suo saggio “Esperienza religiosa”.

Giovanni Boine non si lascia afferrare da poche righe, benché, se vogliamo, il suo pensiero di fondo, meglio il suo rovello, è sempre presente e dichiarato. È scrittore che non si esaurisce, l’opaca patina del tempo non ne offusca la lingua e lo stile. C’è da dire che quanto scrisse fu sempre vissuto, e se esercizio letterario vi fu (sappiamo per certo che le sue liriche non furono, come a volte afferma, scritte di getto, ma subirono il cesello di accurate revisioni perché rientrassero in una forma musicale perfetta) fu esercizio di muscoli interiori: esercizio, si può dire, di fede. Boine richiede a tutti uno sforzo superiore, pretende nel lettore la scintilla dell’intelligenza, che significa approfondimento ma pure capacità di illuminare le cose attraverso l’ironia. Richiede tempo, non lo si consuma in pochi attimi. Non è lettura-fast food.

Per questo, a mio avviso, ancora più importante riscoprirlo ora, in un’epoca di estremo spaesamento, crisi dei costumi, imbarbarimento con un portone aperto verso possibili futuri che richiedono capacità di ragionamento, approfondimento, inventiva e profondissima umanità.

Giovanni Boine si ammalò di tisi negli anni del liceo, a Milano, e non vide il chiudersi della guerra; la malattia lo costrinse all’inoperosità, all’indigenza e ad una morte precoce. Morì il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio.

A breve uscirà per la Fondazione del Museo della Storia di Trento, a cura del prof. Andrea Aveto, della sottoscritta e dello scrittore Claudio Di Scalzo, la riedizione dei suoi “Discorsi militari”, dalla prima edizione come approvata e voluta dallo scrittore.

A chi desiderasse conoscere l’autore e le sue opere mi sento di consigliare un inizio dal ricchissimo epistolario (G. Boine, Carteggio, 5 volumi, a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Roma, Edizioni di Storia della Letteratura) arricchito di recente dal prof. Andrea Aveto (Giovanni Boine – Adelaide Coari, Carteggio 1915 – 1917, Città del Silenzio, 2014), attraverso il quale è possibile ricostruire l’uomo e il suo tempo, quasi respirarlo e viverlo. Ed anzi di cuore io mi auguro che presto il piccolo cimitero di Porto Maurizio possa conoscere nuovi amici che, senza enfasi retoriche, desiderino posare un fiore sulla sua lapide.

Quanto segue è solo un breve assaggio della ricca produzione di prosa poetica boininana, raccolta sotto il titolo di Frantumi, qui assieme a due estratti (uno commosso, l’altro polemico-umoristico) da Plausi e botte. Ancora per certi tratti controversa è, in alcuni punti, la scelta editoriale della produzione poetica: Boine morì lasciando incomplete le sue carte e il suo primo curatore, l’amico Mario Novaro, scelse spesso con molta libertà tra i quaderni e diari dello scrittore cosa dare alla stampa. Sappiamo che lo stesso titolo Frantumi è una scelta postuma, e che Boine mai progettò un libro in tal senso.

Ciò nulla toglie all’estrema novità e forza di questa voce che continua a levarsi netta e distinta, benché spesso ignorata, di un autore che usa la carta come pentagramma e affila le parole sulla propria esperienza interiore, perché, per dirla alla Boine, di cos’altro si può parlare se non di se stessi.

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BISBIGLIO E VESPERO

– E che vuoi dire? È tutto detto ormai. – Andiamo accanto per la sera queti, zitti, come in una culla di bontà.

– Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

– Perché, se dici, è un po’ un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto ripunge il tormento.

– Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione… Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

– E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride infine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio.

– Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo agli uomini. – Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire!

– E dunque ormai che vuoi tu dire? È detto tutto. – Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

***

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

– Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.

– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

***gif-vulcano-e-citta

A TAGLIARE GLI ORMEGGI

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.

Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –

***

PROSETTE QUASI SERENE

Pignolo al mio lucarino

– Il lucarino che ora gli parlo nella sua gabbiuzza appesa, e spia coll’occhio di spillo così malizioso se ho fra dita il pignolo, quando dentro lo chiusi che fu un ottobre al tempo del passo e lo comprai da quell’uomo che lo fa di mestiere: li porta giù la mattina a dozzine in uno scatolone di tela;

– tu dicevi che ci sta bene colla sua scagliola da un canto, e dall’altro, proprio adatto a per lui, il coppettino bianco dell’acqua. Ma gonfiò a pallottola le piume arruffate sullo stecchino ritto della sua zampina, e stette per molto così… come assonnato sulla cannuzza a mezz’aria. Pareva ci facesse il broncio o si dovesse morire. Così tu non ci badavi più e te lo eri scordato.

– … Ma la mattina che poi si destò: su giù, su giù, il becco tra ferro e ferro a tutti i ferri lo ficcava un attimo! Innanzi indietro, a passi a voli, in ansia di febbre… parevano sbarre di galera.

– L’occhio fisso era grande come l’occhio umano; tutto cupo il corpo: su giù (cinque passi ha una cella, non di più!) non diceva nulla, cercava un varco.

– Era così chiuso, così nero il suo sonno la sera, monco-ravvolto! Pigliava forza, duro, per il suo cammino. Il domani non diceva nulla: su giù su giù, su giù… Quando immobile come in corruccio si rincantucciava, quel vagabondo così disperato, d’improvviso bocconi lungo la via, mi tornava la sua macchia sparsa, un braccio innanzi teso, e lo sgomento…

– Tu ogni giorno, perché non cantava mai, dicevi: “apriamogli!” Però io, non potevo più: – zitto gli davo lattughe, senza spiegarti. – Piano piano, allora cercò la verdura tenera che geme, e poi la lucertola del suo capino la tuffava ciuff! nell’acqua lustra: tutt’intorno se ne fa rugiada. Cominciò, anche, fra sé quei gorgheggi sotto voce e lunghi che parevano discorsi a qualcuno … e s’acquietò.

– Tutto il giorno lo passa ora sulla scagliola d’oro, e, la pula, stringe l’occhietto e la scartoccia svelto. La cannuzza liscia a mezzaria è come una frasca alta di olmo; lo spazio quadro, un cielo. Sta lì… salta là, frulla qui; che deve fare? i suoi ciccì ci gargarizza, tristi o lieti e guarda il vuoto.

– Quando improvviso batte l’ali in vertigine e si giù, su giù ricomincia, e su giù su giù ci s’affanna come se ricordasse, tu allora dici: “ma che ha? par pazzo!” Io gli sto attento, con non so che ansia… – Ma il suo piacere anche lì ce l’ha: cerca il pignolo che a volte gli mostro; mi chiama mi fa festa, corre incontro ansioso. E quando gli incastri tra i ferruzzi dritti la ciliegia gonfia, allora ci si affonda pronto con occhi di ghiotte risa.

***

VEGGO AL DI LA’

– Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

– Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

– Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

– in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

– Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

– Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti e veggo per lustro smeraldo, allora, al di là.

– Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

– Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

– Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

***

FRAMMENTI

1
Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: “Buonasera!”
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2
Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso d’ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’esser con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: “Non so chi tu sia!” Amico, in verità, non so chi tu sia…

3
Mi fermi per via chiamandomi per nome, col mio nome d’ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4
Tepido letto del nome, sicura casa d’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle lontane gioie: nave sul mare, zattera di naufraghi.
Ma l’oggi è, via, com’una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.

5
Tu resti saldo-piantato nell’ieri, specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

(…)

9
Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena il mattino su, faticoso, mi issa dalla nube varia del sogno, mia madre dice piano: “Giovanni!” alla porta socchiusa; e, quasi, io sono di nuovo.

10
Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. – Tra lo sbigottimento dell’oggi e l’ieri vissuto ho messo a ponte il mio nome.

(…)

25
Il mio nome è Oggi e la mia via si chiama Smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio, e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

(…)

30
S’io godo della mia gioia e dico “così ogni mia ora!” ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto come una nebbia da una nera palude.

31
E vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia “promessa”.

32
Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi, che bastò il giro d’un giorno!

da PLAUSI E BOTTE

  1. [Clemente Rebora, Frammenti lirici, ed. Libreria della Voce, 1913]

(…)

E poiché ho accennato di canzoni dantesche, dirò ch’io respiro in questa nuova poesia non so che di vigorosamente antico nel sentire e nel ritmo, nello strappo, nel piglio meravigliosamente robusto della frase, nell’interiore leoninità della mossa; (in questo suo vittorioso tormento fra la tremenda vastità del cosmo ed il dolore dell’effimera umanità,) dirò ch’io vi respiro qualcosa di nostro, di tradizionalmente, di virilmente e complessamente italiano, com’è italiana la lirica di Dante, di Michelangelo, di Campanella e di Bruno, (com’è italiano Leopardi.) E ch’io, anche qui, non oserò mai come i dominiddio della critica si permetton di fare, o chiudere o aprire l’avvenire a nessuno, perché l’intimo degli uomini si strafotte delle previsioni dei critici e vivaddio di ogni previsione. (Perché io dico con certezza: qui ciclopicamente vive, qui si dibatte, come un maglio, come un rosso ferro che strida e che suoni – che si lamenti tinnulo – in una fucina, un cuore, e non so affatto, non voglio sapere qual forma qual iridata incandescenza nuova sarà per pigliare all’ansito nuovo del nascosto mantice, quale ispirazione ispirerà il suo futuro canto); ma segno qui, mi vien voglia di segnar qui per parecchia di codesta poesia un anno durante inosservata, (per ciò che è e dentro quasi per echi vi posso auscultare, traudire, intuire,) mi vien voglia di segnar commosso qui la parola GRANDE.

  1. (…)

“Egregio Signore,

Le invio con questa un plico di stampe (raccomandato); il mio nome è già comparso sulla “Riviera” una volta quale dedica a una delle liriche di Giannotto Bastianelli ecc. vedi R. L. 1 Novembre 1915. Con la speranza d’averla accontentata aspetto una risposta relativa all’eventuale pubblicazione della lirica speditale. Con ossequio Piazza Pitti 10 ecc. P. S. Del mio libro àn già benevolmente parlato in giornali e riviste, Paolo Buzzi, Titta Rosa, Emilio Settimelli, Remo Chiti, F. Meriano, Enrico Pessina, L’Iniziativa, ecc.”

Ah Signor Franchi (Raffaello Piazza Pitti 10) davvero lei ci ha messi in un bell’impiccio! E come diamine si fa ora, con tutti codesti nomi? Perché a noi viceversa queste sue faccende qua e là seminate per sti fogli così autorevoli d’ogni parte d’Italia, ci ricordan niente più di quelle caccarelle tonde e secche, di capra e pecora, su pei sentieri qui dietro in campagna, che stan lì tra’ sassi una qui due là quasi nere come una sementa spersa. I bimbi cittadini talvolta quando salgono si riempiono le tasche od anche le provano un po’ in bocca, come se fossero gustose bacche; e, giusto, lì accanto ci trovi spesso quei buffi maggiolini stercorari che contro puntateci le uncinose gambettine dal di dietro, su su faticano, spingono a ritroso, gamberi di terra ferma, così curiosamente! Ma bacche puah! non sono e subito si sputano; e sementa manco. Germogliare non germogliano, o se germoglian che mai si posson germogliare? sempre e sempre, nient’altro mai che aride caccarelluzze di capra.

Concludendo: onorati siamo che si riterrebbe, di alla Riviera collaborare onorato, e ci piace che la segua e proprio, infine le piaccia. Certo Pickwick, Forca, Fuoco, Iniziativa ecc. fan tutti insieme davvero una lodevole e nobile Eco della più propriamente italiana coltura e consideriamo dunque lei che dentro così rispettosamente v’è accolta quasi diremmo uno specimen ovverosia campione di essa medesima. Ci duole il cuore sa, Signor Franchi Raffaello! (…)

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Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi – Adam Vaccaro nota critica su Alfredo de Palchi: Dettami e Risorse del Paradigma (2006) con un Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

pittura-astratto49-digital-work-printed-on-canvas-130-x-100-cmAlfredo de Palchi, nato a Verona nel 1926, vive New York, dove dirige la Casa Editrice Chelsea Editions. Il suo lavoro poetico è raccolto in 8 libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; trad. inglese di I.L. Salomon, October House, New York, 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988); The Scorpion’s Dark Dance (trad. inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, California 1993); Anonymous Constellations (trad. inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California 1997, versione italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Minturno, 1998); Additive Aversions (trad. inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, California, 1999; Paradigma (Caramanica, Marina di Minturno, 2001). Paradigma, Tutte le poesie: 1947-2005, ripubblicato da Mimemis Hebenon, Milano, 2006; e Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, New York, I ed. 2013. nel 2016 pubblica in italiano Nihil (Stampa2009)

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Nota critica di Adam Vaccaro

Dettami e Risorse del Paradigma di de Palchi
Testo critico di Adam Vaccaro inserito nel volume antologico appena uscito, Passione Poesia, CFR Ed., Milano, novembre 2016

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Due nomi subito connessi alla scrittura di Alfredo de Palchi: François Villon e Arthur Rimbaud. Del primo troviamo anche sentenze poste in esergo – la prima, Ce monde n’est qu’abusion. E di Rimbaud, richiamato pure in qualche testo, ricordo che sottolineava l’importanza del punto di partenza, umano o creativo, infernale o no. L’età adulta di de Palchi inizia nell’immediato dopoguerra in modo orribile, con anni di carcere e sevizie, per accuse di crimini poi risultate infondate. Impossibile immaginare sofferenze e segni inferti al Soggetto Storicoreale (SSR) in quel cupo recinto di spazio-tempo. Abbiamo però i versi che vennero graffiati, prima su muri ignobili e poi trascritti su carta dal Soggetto Scrivente (SS). Versi de La buia danza di scorpione (1947-1951), parzialmente in Sessioni con l’analista (1967), interamente in The Scorpion’s Dark Dance (California 1993) e infine in Tutte le poesie 1947-2005 di Paradigma (Mimesi-Hebenon 2006), cit. PT, e in Selected Poems 1947-2009 di Paradigm (Chelsea Ed., 2013), cit. PA.

Scelgo, non solo per il titolo, la poesia Paradigma del 1964, testo esemplificante una scrittura che, se molto ha cambiato lungo il suo percorso – inevitabilmente, se si concepisce la scrittura come traduzione di quanto sperimentato fuori dalla pagina – rimane costante nel nucleo profondo di stile, innervato nella ricerca di adiacenza e/o di coinvolgimento della totalità del SS. Questa composizione lo evidenzia con efficacia e forza straordinaria attraverso la tessitura di una catena di immagini e suoni del senso – in O/U, occhio-uovo-uomo-uragano –, che compongono una circolarità aperta, spiraliforme. Chi sa penetrare il reale distrugge le sovrastrutture false o superflue e apre, crea. La serpe è fatta simbolo e “mano stupenda”, “paradigma”, che congiunge alto e basso di sé (piede e mano) col suo occhio freddo, che però non cade in deliri (raziocinanti) di onnipotenza o sbocchi nichilisti, perché coinvolge il (pro)fondo fragile: scrigno ignoto di sacro e lingua che apre a re-azioni (da re di sé) vitali e biologiche, territorio mobile emozionale da cui può scaturire nuova energia e possibile rinascita. Una tensione antropologica e civile, ma lieve di ideologia.

È una poesia trasparente e complessa che non basta a se stessa, germinata da storia, geografia, esperienze di gioie e dolori, pensiero, amori, giudizio e carne, insomma dalla totalità e unicità del SSR, tradotta dal SS in una forma nuova-antica, voce di senso umano, anche quando questo sembra perso senza rimedio.
La modernità della scrittura depalchiana sta nel suo intreccio fenomenologico, che non ha soluzioni e ci chiede perciò la responsabilità di direfare, qui e ora, rovesciando la morte della vita imposta da orrori e poteri: “Fra le quattro ali di muro/ circolo straniero a pugno/ serrato…la parola è nella bocca dei forti”; “Concluso tra vilipendio/ e menzogne/…non so chi e cosa dovrebbe/ capitare a un figlio come me/ un quaderno di scritture per testimonianza” (PA, p.22); “mi mangio maturando e sulla pietra/ raspo per una vita dissimile” (PT, p.82); “Pane è pietra/ la sete pietra/ ho metri di pietra/ mordo la pietra”, ma “C’è in me dello spazio”, ”muro lustro d’aria”, “di me che sogno di uccidermi” (PA, p.24); “Il pezzo di pane mi nutre/ in una putredine di patria” (PT, p.71); “la collera della mia età è uno strappo/…entro me lacerato.” (PA, p.160);

“ciò che non vorrei apprendere o ammettere/ fra un miscuglio incongruo di oggetti/ di gente senza direzione/ che precisi i punti di ‘partenza ‘arrivo’/…formando…una roccia/ di collera nel ventre e vulnera/ la pera del cuore” (PT, p.192).

L’importanza dell’origine e dell’alveo costitutivo è, per de Palchi, L’Adige: “il principio/…con l’abbietta goccia che spacca/ l’ovum/ originando un ventre congruo/ d’afflizioni”; “Mi dicono di origini/ sgomente in queste acque: qui sono erede/ figlio limpido – ed amo il fiume/ inevitabile” (Il principio, PA, p.4).

Ma il Sé non può dire di sé, se non viene oggettivato dall’Altro della Lingua, per cui è inevitabile il rischio di parole-suono appagate solo di se stesse e del fascino di intrecci di falsovero, che a volte oscurano la gioia di conoscere. Aiutano il Resto e le lingue del corpo: “Ti si offende…malmenato sulla cassa rovesciata/ e ti si sgozza l’intelligenza, mentre il sangue ti sballotta” (PT, p.82).

E se tra origine e corde in atto di falsità “Nessuna certezza/ dalla spiritualità arcaica del mare”, “conscia/ dell’inarrivabile bagliore” (PA, p.146), viene fatta fonte di vita la sua negazione, in una riversa clessidra di nuovo inizio: “Uovo che si lavora nella luce ovale/ nuovo adamo/ invigorisco nell’altrui simulazione”, seppure “anch’io sono, io/ mi credo” (PA, p.20).

Il punto fermo è che “In mano ho il seme/ nero del girasole –/so che la luce cala dietro/ l’inconscio…e ho questo seme/ da trapiantare” (PA, p.6), “Nel chiasso/ di germogli ed uccelle/…trebbie e cortili che alzano un fumo/ buono di letame”; “Estate/ frutto propizio seno biondo/ …calata di sensazioni// nel belato d’alberi…tutto scompiglia: il verde-/ verde” (PA, p.8); “Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana/ bellezza mi viene sui ginocchi//…la bruttura che possiede” (Carnevale d’esilio, PA, p.20).

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Dunque, tra canto e orrori, “Ciminiere fabbriche/ del concime e dello zucchero/ barconi ghiaia e qualche gatto/ lanciato dal ponte/ snaturano questa lastra di fiume/ questo Adige” (PA, p.10); “tra convulsioni di case/ e agguati…mentre scoppiano argini e barconi/ nuoto” con i “miei pochi anni”, mentre “Ad ogni sputo d’arma scatto/ mi riparo dietro l’albero e rido/ isterico” (da Un’ossessione di mosche, PA, p.12); mentre “Una madre sradicata del ventre geme/ per il figlio/…al palo del telegrafo penzola con me/ afferrato alle gambe (PA, p.14), sognando di “Non più/ udire il tonfo dei crivellati nel grano/…negli incendi e bui guazzi/ nell’Adige// vedere un branco di vili osservare/ chi s’affloscia al muro” (PA, p.16); mentre “Al calpestio di crocifissi e crocifissi/ sputo secoli di vecchie pietre/…e sputo sui compagni che mi tradirono”. (PA, p.18)

La guerra e le sue ignominie sono l’inferno da cui il SSR cerca possibilità di risalite. Trovate nella donna, centralità solare e energia vitale che consente di proseguire, anche se immersa nelle stesse contraddizioni irresolubili dell’uomo, tra tensioni di infinito e deliri di potere dell’Io. Dunque donna non idealizzata o spiritualizzata, ma corpo materno e fraterno, simile e diverso, unica nostra possibile prateria di liberazione: “accoglimi nella bocca materna/ soffice, nutriente di liquidi/ sorgenti dal vasto terreno che poco si adegua/ alla pochezza di me imbrattato”; “la chimica della mia materia/ precipita nella tua che si rinnova” (PA, p. 220); “sei l’acqua dell’origine che sporge/ la tetta gonfia di maternità/…uguale al serpe ti assorbo intera/ e tu da madre terraquea/ chiami alla nascita il mio ritorno all’aurora/ del grembo, la dimora/…per lo spirito in frammenti (PA, p.320).

La poesia di de Palchi scuote la nostra identità lacerata da modernità e post-modernità, per riproporre tra tanta inconsistente poesia di carta la disperazione e l’orgoglio di un paradigma di senso e di utilità antropologica della propria parola. Sapendo che ogni segno-parola (verde, uovo, uomo, serpe…) è su un crinale di sensi polisemico, e siamo solo noi a declinarlo in positivo o in negativo.

Il canto della vita che esplode contro “il mostro del vivere in mezzo/ al verde brutale, acido/ / il silenzio nel silenzio del silenzio” (PA, p. 290); “Dichiara il sistema del silenzio,/ sporca la pagina con la goccia di letame, / che ogni crescita spunti” (PA, p.288); Giallo// rosso cinabro// arancione/ il verde malato dell’autunno che trasgredisce” (PA, p.292);; “ Che dire di noi/…con quattro gatti/ che appiattiti sul tavolo/ seguono lo scorrere della penna/ su questa carta;/ nei loro occhi noto la lucentezza/ di te, di tutte le donne/ – forse solo questo volevo dire” (PA, p.210); “Sei: anagramma, motore/ ricettacolo, luce”; “sono: anagramma, asso/ asmatico, virilità” (PA, p.184); “Concepire l’assoluto naufragio….niente in vista/ eccetto un puntiglio rozzo/ nella corrente non ortodossa –/ ma la forza dell’errore compulsivo/ mi afferma/ per la controcorrente che conferma statica/ la posizione finché la mia totalità/ si esaurisce contro quella immune forza” (PA, p.170), “e la serpe che si sguscia/ abbietta, umana” (PA, p.252).

L’azione della scrittura di de Palchi è su una corda sensibile e vitale, necessaria quanto più è conscia che “il mondo è un abuso”. La poesia si fa arma estrema contro tale abuso, che tende a uccidere in noi orizzonti di speranza. Morire vivi, senso di “Contro la mia morte” (Padova, 2007 e PA, p.376).

Paradigma

L’occhio della serpe è un qualsiasi dio –
uragano che scopre fondamenta
travi chiodi
e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciando al raso
il reale più fecondo

Questa la serpe bella fredda
testa piatta a triangolo a stemma
di religione – l’amo perché strisciando
sibila con sveltezza la lingua
sulla centrifugazione degli oggetti
e nell’occhio centra stolidamente
le emozioni di chi non sa reagire

Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda – il paradigma.

(1964)

giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaAppunto critico di Giorgio Linguaglossa

Quando mi capita di riflettere sulla poesia di Sessioni con l’analista (1967) e, in generale, sull’intera opera poetica del Nostro, mi convinco sempre di più che l’originalità della sua poesia è in quel girare incessantemente intorno al suo oggetto misterioso, alla sua «Cosa». È la forza segreta della poesia depalchiana. Anche in questi ultimi due lavori: Nihil (Stampa2009, 2016), e Estetica dell’equilibrio (inedito), si può notare che de Palchi è infinitamente libero nel suo discorso, libero di divagare, di allontanarsi dal tema del discorso e poi di ritornarvi, e di contraddirsi, libero da condizionamenti di scuole, da precetti, da mode, libero di non seguire nessun modello proposizionalistico del discorso poetico, nessun modello eufonico o cacofonico della neo-narratività poetica oggi purtroppo di moda; de Palchi non cerca la dissonanza per la dissonanza, non cerca una presunta originalità, non insegue mai effetti speciali sta sempre piantato con i piedi per terra in agguato e lancia i suoi acuminati strali contro l’«antropoide» delittuoso. C’è una fortissima carica impolitica e impoetica in questa sua furia iconoclastica che si ripercuote anche sull’ordine del discorso e sul «modello» poetico che lo sottende e lo sorregge. È un modo di fare poesia senza rete. È una nuova e diversa visione del Logos poetico. Direi una visione ontologica del fare poesia. Per tutti questi motivi indico de Palchi come un antesignano di un diverso modo di intendere in Italia il discorso poetico. Sì, forse c’è dell’anarchismo, c’è della impolitica in questo suo modo di procedere e di intendere le finalità del discorso poetico, ma qui siamo in presenza del più vigoroso sforzo fatto dalla poesia italiana del secondo Novecento e contemporanea di abbattere il modello proposizionale del discorso poetico che si è fatto in Italia e, anche, in Occidente in questi ultimi cinquanta anni. E questo a me è sufficiente per portare la poesia di de Palchi come un esempio di grande coraggio intellettuale.

Ecco la ragione per la quale io adotto la poesia di de Palchi ad avamposto (non utilizziamo più la parola avanguardia ormai destituita di senso nel mondo di oggi) di una diversa organizzazione frastica di un discorso poetico libero da schemi e da pregiudizi formalistici e di scuole.

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Luigi Celi sull’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18). “lo smarrimento delle grandi narrazioni”; “La dis-locazione del Soggetto”; “La perduta primazia del Linguaggio”; “Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”

L’Antologia di Poesia Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, pubblicata per le Edizioni Progetto Cultura, Roma 2016, si distingue per i testi antologizzati e per l’introduzione acuminata, per certi versi Unheimlich (perturbante), del curatore. Linguaglossa volge la sua attenzione in prevalenza al Ground, al Fondamento per lui ormai franto, della Kultur.

L’Antologia include nomi importanti. Dirò solo di quelli di cui conosco, almeno in parte i testi, gli altri non me ne vogliano.

Nell’ampio recinto della poesia novecentesca e contemporanea per la sua storia e per la qualità della sua opera spicca Alfredo De Palchi, sempre sorprendente nei suoi versi, poeticamente tagliente, soprattutto nelle invettive, c’è molta realtà e pensiero nella sua poesia.

Altri emergono per il prestigio dei loro curricula o sono poeti della cui bravura non si può dubitare, a iniziare da Carlo Bordini, che si impone con la sua lieve autoironia e ci offre una poesia d’“anima piena di microfratture”, compiuto esito di una scrittura moderna di frammento; Guglielmo Aprile, invece, sembra essere il più «antico» tra i poeti presentati.

Irraggiano luce le policrome immagini in versi di Renato Minore che cerca “l’invisibile punto di convergenza di tutti i colori”; in dialogo con suggestioni provenienti dall’Oriente si muove sull’onda dell’impermanenza verso “un vuoto pieno di vuoto” come piuma che cade nel fondo… Minore rende mercuriali, inafferrabili, soggetto e oggetto, focalizza “anelli” di luce “nella sfera del piccolo”, mobili biglie colorate, pixel in danze casuali, ciechi sciami sapienti accucciati sulla punta di uno spillo.

Steven Grieco-Rathgeb è poeta capace di veicolare nelle sue poesie suggestioni e apporti di una cultura planetaria: “accostando le labbra al bicchiere” ottiene “in dono per breve la visione/ che varca il punto di fuga”…; dalla sua esperienza vissuta in Oriente, dall’India al Giappone, attinge il sentimento dell’“evanescenza di tutte le cose”, e trasferisce in un parlare lieve, in un sussurrare dialogico, cadenze, intonazioni, respiri e fluttuazioni su cuscini di mare, memorie di incontri, anche ricordi in frantumi, armonie inudite, vuoti oscuri di “un’impervia, ubriaca pienezza”… è la filosofia dell’ ukiyo-e !

Fanno eco in un Occidente mitico, che si dibatte tra archetipi e memorie omeriche e tragiche, i versi di Gino Rago che rivisitano la “guerra di Troia”, la sua caduta e il dolore estremo di ogni madre di cui è archetipo Ecuba … “il grembo è tutto” (…) “amammo il greto asciutto di madri remote” cantava Rilke; Rago ci s-vela “la verità del tragico suggello”, cioè, appunto, “come è finita la guerra di Troia”, in una articolazione poematica di largo respiro, che risponde seriamente all’ironico verso di Brodskij, che dà il titolo all’Antologia. Anche la poesia di Francesca Diano rilegge il mito ma non per attualizzarlo quanto per consegnarci una nuova lettura di esso.

Maria Rosaria Madonna offre una poesia di qualità in altalena tra storia e mito. Adam Vaccaro oscilla anch’egli con grande perizia tra “poesia di pietra” e “poesia di carne”. Anna Ventura ci stupisce con versi eccentrici, fuori del tempo e dello spazio, con le sue rappresentazioni, di Torquemada e altri personaggi, che sembrano sculture all’aperto. E poi i testi straordinari di Stefanie Golisch.

Lucio Mayoor Tosi scrive come dipingendo un irrappresentabile Koan, dialoga mentre medita… e infrange il senso sull’ombra dura dei suoi quesiti, ombra che gli viene incontro.

Antonella Zagaroli ha una poesia di leggerezza graffiante… orge di stelle e versi fuori dal recinto, mentre Flavio Almerighi introduce nel verso una drammatica e graffiante leggerezza.

Abbiamo poi la poesia barocca, sensuosa e puntuta di Antonio Sagredo. Sagredo danza sui suoi versi come uno Zaratustra su carboni ardenti e con lui danza chi legge. Versi accaldati di sesso, raggi libertini, non manca di coniugare a un acceso lirismo la poesia di pensiero.

Porta in sé il tragico, la poesia di Edith Dzieduszycka, con una versificazione asciutta, puntuale, chiara e distinta, rispondente almeno in ciò alla tradizione francese, per quanto in questa Antologia la scelta della poetessa sia orientata su testi di metapoesia, di riflessione in versi sulla propria scrittura.

La scelta del curatore non tiene molto in conto la poesia civile. Il recupero della dimensione sociale avviene (se e quando si dà) su altri piani, primo tra tutti quello della ri-mitologizzazione dei miti. Oltre il già citato Gino Rago, abbiamo la poesia al femminile, più classica nella forma che nel contenuto, di Rossella Cerniglia. Letizia Leone spicca con la sua poesia della crudeltà degna di un Artaud: il “supplizio fossile”, l’“estasi della macellazione” del satiro Marsia ad opera di un Apollo che rivela i limiti ermeneutici di chi vede nell’apollineo soltanto aspetti estetizzanti, Apollo è in realtà il double inquietante di Dioniso. Incalzante… tambureggiante nel verso, estrema e raffinata, Letizia Leone edifica cattedrali risuonanti che s-pietrificano, organi e orchestre di archetipi… e sangue.

Non è assente, nell’Antologia, la poesia di pensiero, a cui almeno per alcuni testi mi inscrivo anch’io, insieme a Linguaglossa, rivendicando le differenze, com’è giusto, nello stile e nell’intento. Questo tipo di poesia ha un minimo comun denominatore basato su una scommessa: fermentare i versi con i semi di domande abissali, quelle che la stessa filosofia moderna ha cessato di porre da quando ha preteso di aver ridotto a “non senso” ogni proposizione che non sia scientifica.

Insieme a Linguaglossa diversi poi sono gli autori che mostrano una forte propensione all’innesto, alla poesia colta. La qualità della poesia è più che evidenziata in questa Antologia dal lavoro scaltrito sul linguaggio, dalla capacità di articolare conoscenze, di operare innesti in osservanza a quel criterio o spirito della scrittura moderna, che si è imposto a livello planetario a partire dal “modernismo” di Pound ed Eliot. Così operano Ubaldo De Robertis, Giuseppina Di Leo, Mario M. Gabriele, Giuseppe Panetta Talìa, e certo non si escludono i poeti citati, tutti molto abili, convincenti. Ci sono alcuni che hanno cercato di recuperare la struttura poematica, come Rago e Giulia Perroni.

Giulia Perroni antologizza testi lontani tra loro; gli ultimi, tratti dal poema La tribù dell’eclisse,  denotano una luminosa/oscurità – “una complessità fatta ragione”, “una complessità fatta Babele” – per l’uso insistito, sguincio, dell’ossimoro e della metafora: “Per metafore un mondo in sé complesso”. Sebbene la scrittura sembra frangersi in “titoli di capitoli mancanti” o in “arpeggi di un incessante divenire”, ciò è a “custodia dell’infinito perdersi”, “in un viavai” d’immagini sonore teso a “un punto irraggiungibile” di cui “ogni vibrare è specchio”.

Torniamo adesso alla Prefazione di Giorgio Linguaglossa. Essa costituisce una qualificata componente di questo libro bifronte, ha un tale spessore filosofico da dover essere onorata, problematizzata. Si sostiene una tesi estrema, che nel mondo contemporaneo, accentuatamente nella poesia italiana, a sfaldarsi non siano solo le poetiche tradizionali, ma proprio il linguaggio come possibilità di conoscenza onto-logica; con il crollo del nesso essere/logos è stata compromessa la relazione tra soggetto e oggetto. Dopo Derrida e Lacan, per Linguaglossa è stata distrutta la possibilità di attingere il Fondamento, al punto che l’arbitrarietà dei segni, in poesia, si è mutata in “lallazione” di un falso “io”. Giudizi drammatici, frustate anche per gli autori dell’Antologia. Un cumulo di rovine si accresce come di fronte all’Angelo di Klee trascinato a rovescio dal vento mentre si copre il volto con le ali.

Ci soffermiamo sulla negazione del binomio soggetto/oggetto. La psicoanalisi di Lacan ci ha insegnato che “Esso”, l’ “Inconscio” parla; “l’io non parla, è parlato”; “noi siamo parlati”, “non parliamo”…; non è chi non veda la consonanza tra lo psicoanalista e il critico, ma non so se su questo limaccioso, abissale limen Linguaglossa intenda accamparsi senza riserve. Il “principio di indeterminazione” di Heisemberg, certo, ci dimostra che nella fisica subatomica lo strumento che si adopera per l’osservazione delle particelle subisce una pur minima modifica nel momento stesso in cui cerca di determinare l’oggetto; si darebbe cioè una sorta di biunivoco contraccolpo: l’oggetto modifica il soggetto e viceversa. Generalizzando, è come dire che né oggetto né soggetto valgono assolutamente. Mi domando se ciò che ha rilevanza nella fisica sub-atomica valga comunque in filosofia o nel mondo sociale o nella fisica non subatomica. Per Giorgio Linguaglossa i linguaggi della poesia si sono “de-territorializzati”: ciò equivale al “rotolare della X verso la periferia”, di cui parlava Nietzsche, quale idea del soggetto che “si andava a frangere nella periferia”; la cosa non attiene quindi solo l’uscita del pianeta poesia dall’orbita di ogni sistema planetario dei linguaggi sensati. Potrei dar forza storico-critica all’argomentazione di Linguaglossa, aggiungendo che il processo in questione ha due poli, il primo attiene all’affermazione della centralità del Soggetto, almeno da Cartesio a Fichte, il secondo segue il movimento opposto di dissoluzione della soggettività, cosa che può essere connessa con la morte di Dio, come annunciata nella Gaia Scienza. Foucault a sua vota proclamava, all’interno del suo rigido strutturalismo, che anche l’uomo è morto. Non è stato Nietzsche ad aver contestato per primo il “soggetto” quale sorgente e termine della filosofia?.

Si apre nel tempo moderno una parabola che sembra voler giungere ora a tragica conclusione. Il Moderno per molti versi nasce dalla Rivoluzione scientifica e dalla “rivoluzione copernicana” operata (in filosofia) prima che da Kant, da Galilei e da Descartes. Quest’ultimo ha posto rigorosamente il problema del metodo scientifico e filosofico della modernità, ha dettato le regole ad directionem ingenii e attraverso il superamento del “dubbio metodico” è approdato al Cogito, al Soggetto che pensa e perciò esiste. Questo Soggetto recupera la conoscenza della realtà attraverso le idee di Res cogitans e di Res extensa; non si procede dalla realtà alla conoscenza, ma si segue il percorso opposto. Attraverso un cogitare metodicamente matematizzante sarebbe possibile la “certezza” del conoscere, anche in metafisica.

La centralità moderna del pensare “soggettivo” sul piano di ogni operatività, anche nell’arte, nella poesia, non equivale ancora a quel totale arbitrio che poi nel tempo – sul crollo di questa premessa cartesiana – si è sviluppato, ben oltre le divaricazione tra arte e scienza, fede e scienza nella deriva postmoderna che giunge alla frantumazione dei canoni in arte, poesia e nel tracollo dell’etica. Quando una pluralità non è riconducibile all’unità, non c’è più forza gravitazionale, i molti diventano un coacervo caotico. Queste mie osservazioni, mi chiedo, rinforzano o indeboliscono la tesi di Linguaglossa? Subito dopo Cartesio l’attacco empirista, pre-illuminista e illuminista al Soggetto, viene condotto, e più radicalmente, in Hume, fino alla contestazione dell’esistenza di un “io sostanza”. L’io individuale per Hume è solo un’identità fittizia e l’essere è ricondotto alla percezione dell’essere. Kant chiamerà fenomeno ciò che possiamo conoscere, l’oggetto è fenomeno, non noumeno, cosa in sé. Nel XVII e nel XVIII secolo dunque si opera una svolta cruciale si sfalda la vecchia visione del mondo, le idee stesse di soggetto ed oggetto vengono rielaborate più volte.

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordoPsicoanalisi, Sociologismo e Neoempirismo nel XX sec. hanno dato il colpo di grazia ad una concezione unitaria del Soggetto, nonostante che la Critica kantiana avesse recuperato a livello trascendentale il primato del Soggetto (“L’io penso” legislatore), smontando la critica humiana come affrettata e incauta. Non si tratta più del soggetto individuale ma di una Soggettività trascendentale. Le forme del conoscere (e poi dell’agire) sono a priori, operano indipendentemente dall’esperienza e ne costituiscono la precondizione universale e necessaria. Il trascendentale (da non confondere con il trascendente) della Soggettività è un modo di conoscere gli oggetti, i fenomeni, grazie alle intuizioni di spazio e di tempo e a categorie (attività a priori) comuni a tutti gli individui. Il Soggetto si rivela ancora una volta, dopo Cartesio “legislatore della natura”, una Volontà, un “Volo”, più che un “Cogito”. Da questa radice, cioè a partire dalla Rivoluzione scientifica, nasce quindi il carattere impositivo della tecno-scienza e della cultura occidentale tout court. Cosa che, se pure in altri termini, è stata evidenziata da Heidegger, con il concetto di Gestell, da Nietzsche con la “volontà di potenza”.

Hegel rappresenta il tentativo estremo e più sistematico di recupero dell’ontologia: “il reale è razionale e il razionale è reale”, vuol dire per Hegel che la Ragione appartiene all’universo, come un’anima al corpo, ne è la Legge immanente di sviluppo in termini dialettici, e la soggettività diventa un momento del processo di autocoscienza dello Spirito del Mondo. Anche l’oggetto non esiste se non come momento di una dialettica universale. Marx rovescerà in senso materialistico la Weltanschauung hegeliana, conservando alla realtà socio-economica, che egli considera strutturale, un carattere dialettico, ma il termine soggettività e tutto ciò che si possa riferire al soggetto verrà depotenziato. Se vogliamo l’unico soggetto della storia a cui riconoscere un qualche peso strutturale (non sovrastrutturale) è la classe operaia vista all’interno delle contraddizioni sociali quale unico motore della rivoluzione.

La critica al Soggetto ha avuto ripercussioni drammatiche in politica. I totalitarismi hanno elevato da una parte monumenti all’arbitrio del Capo, quale personificazione dello Stato Assoluto, e dall’altro hanno ridotto, nella loro Statolatria, i singoli a escrescenze callose della collettività.

Della colpevolezza della Ratio, del Cogito nel mondo moderno ha piena consapevolezza Linguaglossa. Anche in poesia egli trasporta la sua tesi: il moderno non si è liberato dalla sua colpa ma l’ha istituzionalizzata; certo “il signor Cogito” ha distrutto il “quaderno nero”, ma “la polizia segreta” lo cerca; “il sole si è inabissato”, e “la Lubjanca ha convocato il violinista” (il poeta, il musicista, l’artista), ma infine “C’è un solo colpevole”… è “il signor Cogito”…

La progressiva emarginazione della poesia nella modernità, in Occidente, ha dato luogo al canto consolatorio, sommesso, di una umanità dolente, ripiegata liricamente su se stessa, che vive un’esistenza scissa tra pubblico e privato; essa si autocomprende ed esprime nell’ottica del frammento. Anche nelle versioni più elegiache del poetico c’è il tentativo di dare respiro al singolo, aria pura dove s’addensa inquinamento culturale, recupero di bellezza in un mondo di brutture. Questo ambivalente ripiegamento comporta lo smarrimento delle grandi narrazioni della poesia epica, ancora vitali ed efficaci nel seicento, nel settecento, in quei contesti in cui la rivoluzione della modernità non aveva portato a maturazione i suoi frutti. Anche questo è un modo di dare rilievo agli aspetti più inquietanti dell’esistenza. “Gli alberi erano rossi: di frutta o di sangue non importa”…, nota con versi efficaci e incisivi, Alfredo Rienzi.

Ne La nascita della tragedia di Nietzsche viene rivendicato il primato del dionisiaco sull’apollineo sotto la scia del “pessimismo” di Schopenhauer – pessimismo ontologico, presente anche in Leopardi -, il che equivale a cogliere nel tragico la cifra più propria dell’esistente, per quanto nel dionisiaco si affermi anche una visione istintiva, fino alla sfrenatezza, della soggettività. Il tragico è una categoria assoluta che non riguarda solo il passato, esso è rappresentazione, prefigurazione e presentimento di ciò che avverrà nel mondo con due spaventose guerre mondiali e che continua ad evenire sulla soglia dell’autodistruzione del genere. La tecno-scienza coniugata alla logica di mercato non è solo fonte di progresso, ma comporta rischi mortali. È quotidiana la scoperta di un’esistenza umana deprivata di essenza, mercificata, radicata nella struttura socio-economica della storia, divorata dalla frenetica ricerca del “profitto”, dall’onnivora invadenza dei media, del virtuale che ci confonde di irrealtà. Il marxismo aveva denunciato il carattere autodistruttivo della Ragione borghese soggettivista, la incontrollata libera iniziativa, il primato dell’arbitrio mercantile e ad essa aveva opposto la Ragione oggettivata (scientifica) della Rivoluzione comunista, che doveva passare per la lotta di classe e la dittatura del proletariato. L’arte e la poesia dovevano diventare “politiche”, collaborare a questa rivoluzione.

Per ritornare all’Antologia un verso in uno dei testi antologizzati di Ubaldo De Robertis recita: “La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine/ più misteriosa e lieta”….

L’esinanirsi della forma-poesia, certo, è una minaccia che Linguaglossa ha ben focalizzato. Accade alla poesia ciò che si è verificato in filosofia: all’ottica del sistema, di Spinoza ed Hegel, è subentrata l’esigenza di affrontare motivi legati al “particulare”, all’esistenza; ciò è avvenuto in Kierkegaard, Nietzsche, Jaspers, Marcel, Heidegger; ecco allora Ungaretti, Caproni, Montale, Luzi, Penna, Campana, o altrove, rispetto all’ Italia, Rilke o Celan che del tragico assapora il calice delle rovine nel frammento non consolatorio. La cultura moderna volge al problematicismo, allo scetticismo, al nihilismo. Vengono sollevate questioni di confine, sui rapporti tra filosofia e scienza, scienza e fede, politica e arte, e la poesia ha dovuto slittare verso la prosa. Filosofia e poesia convergono sulle domande perenni: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo; non ci si accontenta di scrivere sull’amore, la vita, la morte, la bellezza; i poeti non accettano che la ragione matematizzante e strumentale della tecnica riduca l’uomo a mero ingranaggio di un sistema economico, finanziario o politico. Rispetto alla poesia civile, più prosasticamente aggressiva degli ultimi decenni, tuttavia anche in alcuni testi di questa Antologia, ritroviamo un’esigenza di conoscenza che fa superare alla poesia il ristretto ambito estetico, a cui molti – non certo Giorgio Linguaglossa – vorrebbero inopinatamente circoscriverla.

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

 

 

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Giuseppe Talìa (pseud Giuseppe Panetta) DODICI POESIE INEDITE – Con un Commento dell’Autore: “Biografia delle Vocali Vissute” e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “scrittura della ritrascrizione parodica di testi stilisticamente stabilizzati al fine di tellurizzarli e destabilizzarli. Una procedura ironico-parodica struttivamente in endecasillabi da hilarotragoedia o da hilarocommedia”

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.

Giuseppe Talia: Biografia delle Vocali Vissute

Un pomeriggio del 1992 ho acceso una miccia ed ho fatto esplodere il Logos nelle Vocali Vissute. Non so quanto quel gesto iniziale fosse consapevole. Come un bambino che sfrega lo zolfanello sulla superficie ruvida per accendere un petardo, così, quel pomeriggio in Calabria, io capii, o forse solo percepii, che le strade erano due: l’epigono, “la morta gente, o epigoni, fra noi…(Carducci), oppure il sommovimento dell’Io, la ribellione.
La creta della poesia era nel bivio, bisognava solo plasmarla, darle forma. Gli ingredienti c’erano tutti, letture, studio, poeti conosciuti, allora altisonanti pubblicati dallo Specchio, circoli letterari viziosi e viziati, premi letterari con tasse di lettura (allora come ora), antologie sciatte e furbe. C’erano tutti gli ingredienti, bisognava solo shakerarli e versare nelle coppe un nuovo cocktail, “Se giro e mi rigiro/mimando le correnti /Se mi rannicchio a nuvola/ o mi distendo carico di pioggia/.
Lo scoppio del Logos non poteva non avvenire senza la polvere da sparo del recente passato, polvere da sparo umidiccia, bagnata dall’ideologia morta e dall’archeologia post-industriale. Così nel dopo il disastro di Chernobyl, Rimbaud e Rodari messi insieme, un pomeriggio asciugano le polveri e danno luogo all’atomismo semantico delle Vocali Vissute, “Che forma hanno/ le particelle atomiche/ del nucleare?/ Perché mi è sembrato/ di averne visto una.”
Come ogni scoppio rivoluzionario, l’ironia, amara, la libertà dalle catene del perdurante modus operandi della poesia italiana di allora, stretta tra un esistenzialismo esautorato e miriadi di stelle doppie e false, tra un’oggettistica quotidiana (Natura e Venatura, Magrelli), la pianta dai fianchi stretti e il cactus (Chissà che corpo avrai/ magro come sei), hanno aperto scenari nuovi nell’asfittica poetica, almeno per me, di quegli anni.
E anche il corpo, spremuto nel suo sperma si fa parola e immagine, “realismo solare fino a generare dalla crisalide del fallo la farfalla a mano libera e liberata” (Cristiano Mazzanti).
Le Vocali Vissute sono state pubblicate da Ibiskos Editrice di Empoli nel 1999. Non senza aver avuto una storia travagliata prima, a causa di un editore, Edizioni Terrasanta di Palermo, che indicatomi da amici (?), mi fregò dei soldi per la stampa mai avvenuta. Le cicatrici vanno esposte.
E come ogni bambino che dopo una birbonata nasconde la mano, allo stesso modo io ho nascosto per anni, dall’uscita delle Vocali Vissute, il cerino dello scoppio del Logos. Oggi, però, con maturità, con una Musa Last Minute che mi dice “prendimi se puoi, acchiappami”, cerco di ricostruire dalle macerie un edificio che non ha più fondamenta (Thalìa), popolato solo da gechi (Salumida) e che guarda al cosmo come una nuovissima risorsa. In fondo è solo questione di Logos.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrivevo nella prefazione alla Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016 pp. 252 € 18), un concetto importante:

«La questione centrale non è più la questione dei linguaggi, al di sotto dei quali si intravvedevano altre questioni. La verità è che non siamo più dentro la problematica dei linguaggi, per via del fatto che i linguaggi non fanno più testo, si sono extra territorializzati, sono diventati delle zattere significazioniste che restano in auge fin quando producono segni adatti alla lallazione del «reale».
Autori molto diversi tra loro (…) sanno, o intuiscono, che non sarà più possibile ripristinare le fratture che l’epoca del Moderno ha inferto alle categorie un tempo ritenute stabili quali il soggetto, il linguaggio e il reale. Lo sperimentalismo si basava sulla convinzione rassicurante che introdurre la casualità e il caos nei linguaggi, operare una manipolazione di essi, era una operazione dotata di un forte significato critico; oggi non è più così, sono venuti meno i presupposti sui quali si basava quella filosofia della prassi artistica.

Tutto sommato lo sperimentalismo era una pratica rassicurante, pacificatrice, introduceva delle certezze, delle comodità. E così tutte le ipotesi di poetica che emanavano un editto, un verdetto, tutte crollate con il crollo del Fondamento e della de-territorializzazione dei linguaggi. E questo nichilismo, questo rotolare della “X” verso la periferia, come diceva Nietzsche, altri non era che il soggetto che si andava a frangere nella periferia. Questo, appunto, oggi è diventato nuda evidenza».

Ecco, Giuseppe Talìa è un poeta dell’età della stagnazione, fa parte di quella pletora che sa di non poter più contare su situazioni conciliatrici e pacificanti, su procedure stilisticamente riconosciute e riconoscibili.

È ormai ampiamente noto che l’unità metrica, o meglio, la metricità, è stata dissolta dalla intervenuta invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica; parlare ancora di unità metrica in poesia è diventato problematico. L’unità metrica pascoliana è morta, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1956). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana ha cercato altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato è stato che la poesia italiana ha perduto per sempre l’unità metrica e si è aperta sempre di più ad una metricità diffusa. Dagli anni Settanta sono saltati tutti gli schemi prestabiliti. I poeti dell’epoca, i maggiori, hanno scelto di cavalcare la tigre: Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà (il risultato terminale dello sperimentalismo) e Montale nel 1971 pubblica Satura (il risultato iniziale della nuovametricità diffusa). Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.

Oggi c’è ancora chi pensa in termini di unità metrica stabile. C’è chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Probabilmente, la stabilità della stagnazione politica e spirituale di questi ultimi due tre decenni ha favorito le derive conservatrici anche in poesia e nel romanzo, oltre che nelle altre arti; si è continuato a riproporre ricette pacificatrici e omologate dalla motorizzazione civile con tanto di bollino blu (vedi la poesia di Jolanda Insana e di Vivian Lamarque). Questo è un fatto che è sotto gli occhi di tutti.

Per fortuna, ci sono poeti che pensano in termini di unità metrica instabile, anzi, mi correggo, di metricità diffusa e di diversità metrica instabile in tutti i registri linguistici. Questo è, per l’appunto, il caso della poesia di Giuseppe Talìa, per il quale vale il principio che è il materiale metrico-tonico che fornisce i binari della costruzione a metricità diffusa. Per Talìa tutti i registri linguistici sono sullo stesso piano, in essi c’è una equivalenza di tonicità, e quindi tutti, a buon diritto, possono entrare nel discorso poetico con parità di diritti. Non c’è in Talìa una metricità stabilita o una eufonia prestabilita, ma un sistema seriale che inserisce automaticamente il principio disautomatizzante. Ad esempio, nella prima composizione, il primo verso ricalca la scrittura surrealista («Astro notturno come in filigrana»), il secondo introduce una deformazione grottesca («Tra gobba di ponente e di levante»), per poi continuare con il terzo verso a ricalcare la scrittura surrealista («Nell’ardesia celeste il Nettariano»), e così via. Si tratta di una scrittura della ritrascrizione parodica di testi stilisticamente stabilizzati al fine di tellurizzarli e destabilizzarli. Una procedura ironico-parodica struttivamente in endecasillabi da hilarotragoedia o da hilarocommedia. Questo è il ruolo storico della parodia poetica, la cui funzione è quella di rendere il linguaggio poetico altamente instabile e infiammabile. Dopo di ciò si potrà procedere con minori remore. Come ogni procedimento parodico, Talìa segue l’acustica del verso, la reiterazione al fine di sgonfiare e profanare le unità foniche mostrandone la funzione, appunto, fonica, e quindi strumentale alla ideologia del bel verso fonicamente posizionato ad illustrare il «bello». Ecco, c’è in Talìa questa operazione portata fino alle estreme conseguenze di una parodia che si converte in auto parodia, di un linguaggio che si deautomatizza parodicamente in modo, diciamo, automatico. La poesia innesta da sé la guida automatica. Al lettore il compito, arduo, di deautomatizzare il verso.

Giuseppe Talia foto, Il buco nero

Poesie inedite di Giuseppe Talìa

Astro Notturno come in filigrana
Tra gobba di ponente e di levante
Nell’ardesia celeste il Nettariano
Piazze di maree e lande deserte
Con isotopi di dolori e canti
A Te le nostre invocazioni:
Mare Anguis
Mare Crisium
Mare Fecunditatis
Mare Humorum
Mare Ingenii
Mare Marginis
Mare Nectaris
Mare Vaporum
(…)
*

Quando a notte soffia il sistro
Una nicchia spettrale di visus
Dall’adeano sale in collisione
E frange zirconi di nessun valore
Col sangue ossidato dell’Apollo 11
Sonda la transfuga corona degli Eoni
Nella cronozona dell’eratema
Psoriasi di stelle marce & merce
Come un abbozzo nell’intervallo
Temporale d’un paio di occhiali nuovi
Lenti di Hubble e tratta di Nane Brune
Nella brughiera del cosmo lottizzato
Tra orci rotti alla Luna e sistole
Che strizzano limoni senza confini
Pour homme pour femme pour bébé
Pour ancienne – meccanica celeste
Di rotazione e rivoluzione d’orbita
Del perielio d’Icaro ticchete e tacchete
Nell’apogeo del balbettio d’afelio
O nel pareo del perigeo dal poco spazio
Delle carcasse dei missili vettori

.
*

Ogni stanza è un universo parallelo
E ogni universo ha la sua stanza
Così tra corridoi di materia
Solo il pulviscolo della supernova
Odora di basilico nell’espansione
Quantica degli arti intergalattici
E zero è uguale a zero anzi lo zero
È il ventre espanso la costante
Fisica che trita stelle e galassie
Come tartufi di luce della via lattea
Zero è la bulimia del buco nero
Incorporato nel redshift del moto
Relativo delle cose di natura
Un principio d’inerzia sul sofà
E quel piccolo ammasso di roccia
Carnica dal moto ballerino in TV

.
*

L’asteroide impatta in un frontale di larve
Dai pedicelli statici nello spaziotempo
Dei fondali sabbiosi duri come rocce
Cosmiche fatte in Cina.
Scaffali ambulacrali di Starlette
Divorano il dermascheletro
Delle spore madreporiche al plenilunio

.
*

Se s’aprissero gli archivi segreti
Dell’universo si saprebbe di stragi
Di stelle pianeti galassie asteroidi
Come schegge impazzite da cumuli
Galattici e di satelliti di neutroni
Che come bombe cosmiche nello scoppio
Allargano i limiti dello spazio e creano
Anelli vorticosi di luce e nebulose
Ma così come in cielo anche in Terra
Il macrocosmo pensa e il microcosmo
Agisce nel silenzio fragoroso del cosmo
*

Giuseppe Talia Nunzio Pino. La Grande Madre.

Chissà se al pari nostro il cielo agisce
E nell’espellere l’indesiderato colma
Di maestrie di luce l’ascia dell’agglomerato
Dell’unica moneta lo smeraldo bianco
E senza profferir parola di popolo
Decide lo StarExit l’unica via atomica
Del colpo del razzo di Méliès in clinex
Selene firma con chimica gli assegni
Dei cargo orbitali che trasportano
Derrate criogenetiche e combustibili
Cespi di straccetti di nubi Veggie
Estratti a fratturazione di infrarossi
Così quando questo Nostro pianeta
Sarà totalmente crivellato ed ogni
Antro remoto distillato con pompe
A vuoto di memoria solo un quanto
D’un bosone un’antiparticella chiarirà
L’ampiezza vettore del probabile

.
*

Dalle propaggini di Wallops Island
Come una regina vergine la sonda
Caravella Ladee coglie l’aria effimera
Acque ricche d’ammoniaca delle terme
Sublunari che sbiancano lo spirito
Gravido di granito ionizzato e nella
Insalubre atmosfera di Nettuno
I fanghi Spa certificati squamano
La dura coscienza di Widia il diamante
Nero dell’antroposfera strutturata
D’echi d’oscurità distesa della galassia
Gorgonzola del quaglio cosmico
Che la luce dei tuoi occhi vede
Come spettri e membrane d’ombra
Della costellazione di Poppa
Un doppio prospettico d’ammasso
Nella via lattea tra giovani giganti
Blu rosse rarefatte come braci
E vecchie giallognole pronte
Ad esalare un ultimo respiro
Cosmico avvolte nel prosciutto
*

Ma che storia è? Che tappe sono queste
Che lasciano macchie solari sul pastrano
Dell’esosfera cocktail d’ozono e di vapore acqueo
Nelle migliori distillerie del planetario
E ad ogni goccia una sorgente di conoscenza
Che sgorga nell’umana coscienza del profitto?
Rivoli di artrite cosmica o come per gli Apaches
Nel buio sottile disco giallo siede un barbuto
Piccolo uomo “Colui che vive al di sopra”

.
Epitaffio

Di giorno è tutto un brigare
di notte è tutto un disfare
Al cimitero di Ramacca
i putti affrescati come falene
circondano i sogni di gloria
Rose di silicone evanescenti
Granchi tagliati a buona luna
Nessun blog a nostra misura
Nessun www. miserere
Nessuna camera ardente
Né pietre tombali da cesellare
Moriremo forse inascoltati
nel Mare Cognitum di cenere
disperse?

.
Eau de Cygnus

Un fine settimana con una scocca altisonante
Nella moderna costellazione del cigno di cuoio
Base gelsominica d’avvento e fresca acqua marina
Una mise en place di piume e biancheria abbacinante
Gourmet di mitili ignoti boreali nel germinatoio
Un fresco cicalino a metà mattino e una canzoncina

Eau de Orion

Centinaia di stelle visibili ad occhio nudo
Come nuda lepre sopra la cintola di Orione
Tre re tre magi tre mercanti tre bastoni a crudo
E due cani da caccia a difesa dallo scorpione
Meccanica dello spruzzo a sprazzi di magnitudo
Di mito meticcio e del tridente di Poseidone

.
Eau de Andromedae

Nel triangolo invernale l’asterismo flatulente
Di stelle variabili con i selfie di Pegaso
Su instagram e lobby labili di milioni d’anni luce
Spiccioli di spaccio amaro di manga irriverente
La vanitosa Cassiopea a Giaffa sul sasso abraso
Vende la dominatrice d’uomini al mostro truce

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Edith de Hody Dzieduszycka POESIE da Cellule (Passigli Editori, 2014) “La questione del senso della vita”  “Unheimlich, il perturbante” “Un punto omega”; “Il treno che porta i deportati nei campi di sterminio nazisti” – Commento di Luigi Celi

cinema fotogramma

fotogramma film anni Settanta

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015,Trivella, Genesi, 2015, Come se niente fosse Fermenti, 2016; La parola alle parole Progetto Cultura, 2016. Dieci sue poesie sono state pubblicate nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016, pp. 352 € 18.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

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Commento di Luigi Celi

Cellule, di Edith Dzieduszycka, edito da Passigli, prefato da Stefano Gallo e Franҫois Sauteron, è un testo di poesie e un campo memoriale in cui, nota Sauteron, “non è necessario introdursi con effrazione”. Tuttavia nella sua scarna limpidezza, con versificazione verticale, dura, icastica, a cui non pone rimedio iconico l’enjambement, il testo scolpisce nel marmo delle pagine la drammaticità dell’esperienza, dominato, com’è, a monte, dal ricordo della morte del padre a Mauthausen, da quello della madre imprigionata e, certo, dal lutto per la perdita del marito. L’opera trascende l’esperienza del poeta e ci coinvolge. Ferite non rimarginabili partono dall’infanzia e governano, per freudiana “coazione a ripetere”, l’insistita rivisitazione allegorica del trauma, in uno sguardo sbarrato sulla storia e sul mondo. “L’ora del bivio” (p.63) è l’evento temuto e sempre rievocato della Weltanschauung di Edith – prospettiva e Ground luttuoso di ogni sua esperienza di relazione – crudamente comunicato con “Voglia di raccontarsi e desiderio di nascondere” (p.87). “Ianus” è “il doppio gemello obliquo” che crea maschere e trasparenze” (ivi), e come ogni double è Unheimlich, perturbante.

A partire da questo nucleo esperienziale e proiettivo, mnesicamente luttuoso, ma ambivalente nel suo porsi positivamente all’origine della scrittura, la poesia mostra il suo scenario tragico così che ogni elaborazione, ogni tentativo di convincersi del contrario è nuova trafittura dell’anima che fa sanguinare. Parlare della tragedia, a proposito di Cellule, non è andare fuori tema, ma cogliere il perno di tutta l’opera, la sorgente e la foce della versificazione. Tutto converge ad alimentare l’esperienza traumatica e quest’ultima, a sua volta, sta alla radice inconscia della tragedia. Parleremo dunque del tragico, perché non si può intendere questo libro se non si riflette sul tragico e perché, nella cultura contemporanea se ne è persa consapevolezza storica e filosofica. La poesia tragica e il teatro greco hanno posto alcuni cardini al tragico: uno è Ananke, la Necessità. Ananke non può essere oggetto di preghiera, perché non muta, essa governa uomini e dei. L’altro cardine è l’invidia degli dei per la felicità dei “mortali”; ancor più è castigo ineludibile la morte violenta e il dolore per la tracotanza (ybris) di coloro che “non stanno ai limiti”. La letteratura moderna, tranne in alcune eccezioni altissime – penso tra tutte all’opera di Shakespeare – non ha quasi mai inteso riproporre il tragico, se non nel “corpo cavernoso” del grottesco, gli ha preferito la commedia, e ancor più la parodia.

Oggi assistiamo alla volgarizzazione del tragico nel noir di cassetta, nel cinema horror, o all’insensata tracimazione di violenze esibite dalla televisione e dal cinema. In tutto ciò manca la Coscienza e il Pensiero del tragico. La poesia e i poeti come la Dzieduszycka possono farci recuperare questa coscienza, costringerci a riflettere. Se nel mondo greco il tragico ha fondo metafisico, nell’orizzonte ebraico cristiano, se pensiamo all’inferno, la tragedia è trasferita nell’eternità di Dio. Dove infatti starebbe l’inferno se tutto è in Dio?, “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”(Atti degli Apost. 17,28), e se fuori dalla sua volontà ogni esistente cade nel nulla da cui deriva? Tuttavia il Dio creatore, onnipotente e onnisciente, non prova invidia, è un Dio d’amore e di giustizia. Per la Cabbalàh luriana la creazione nasce dal volontario ritrarsi di Dio, il Tzimtzum; Dio, così facendo, fa il vuoto e da quel nulla crea. L’esistenza degli enti è ex nihilo e anche la libertà dell’uomo è possibile grazie al Tzimtzum. Ma è l’abuso della libertà, il tradimento del suo intrinseco tendere al bene, che rende fattibile il peccato e il male; anche questo è tragico, che il bene della libertà possa comportare il suo rovesciamento assoluto…  “Per invidia del diavolo, la morte è entrata nel mondo – scrive il libro della “Sapienza” -; Dio ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap. 2,23-24).

La questione del senso della vita – oscillante “tra un punto interrogativo/ e un altro punto interrogativo” (p. 117), scrive Edith – è ricorrente quando ci imbattiamo nel male. Si impongono da sé le domande: perché il male? Il mondo è creato da un Dio buono e onnipotente, o da un “regista/ oscuro/inafferrabile (…)/ dalla sua torva regia”? (p. 21). Qui ritroviamo un’eco Cartesiana: il “dio malvagio”, metodologicamente ipotizzato da Descartes nel “dubbio iperbolico”, che comporta la riflessione metafisica sull’idea di Dio da parte del filosofo e che lo conduce a rovesciare il dubbio nella certezza del Cogito, per cui Dio diviene il garante della Ragione matematizzante. Invece Edith canta il tormento metafisico dell’uomo tout court che “Si stupisce di non sapere/ si arrabbia di non capire/ piange/ si sente abbandonato/ perché Dio/ perché?”(p. 55). Il mondo è prodotto da un’evoluzion