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Dalla disinformacija del mondo globale nasce la nuova sensibilità poetica, Poesie di Miroslav Krleža, Sergej Stratanovskij, Hans Magnus Enzensberger, Giorgio Linguaglossa, A cura di Vincenzo Petronelli

Foto manichino con vestiti su stampelle

Vincenzo Petronelli.

Il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, tra la pandemia e il riaffacciarsi di conflitti bellici in Europa, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo, consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, affermatosi a partire dall’edonismo degli anni ’80 del secolo scorso. Quest’interrogazione ci pone di fronte, in particolate, ad una riflessione cruciale per le sorti della poesia e segnatamente della poesia italiana, investita in modo pronunciato da questa stagnazione, finendo per essere relegata in buona parte, nelle sue forme dominati, ad arte da salotto o da festival, per quanto ciò non tolga, ovviamente, che anche in periodi di magra come questi ultimi anni, compaiano voci che tentino di fare poesia seria, ma è indubbio che l’orientamento prevalente sia andato in un’altra direzione.
Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non abbiano ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare nella poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, proprio questo è da considerare come uno degli aspetti maggiormente deleteri che la cosiddetta «poesia del quotidiano» ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto «velo» poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica, proprietà immanente alla lingua poetica, in quanto soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) in quanto più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino nei confronti della lingua tutta.

Il risultato di fatto, invece, è stato che anche la poesia ha abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di normalizzazione politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà anni’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
Sono stato condotto a questa riflessione dalla bellissima allocuzione del poeta russo Ilya Jashin – riportata nell’articolo dell’Ombra delle Parole del 9 dicembre dello scorso anno – reo di aver pubblicamente citato la parola “guerra” invece del travestimento buffonesco di «operazione militare speciale» – che trovo ci proietti direttamente al nocciolo del discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie.
L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla «macchina politica» che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.

A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep. Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad altre di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e deleteri come la storia ci ha del resto già insegnato.
La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.Antologia_poetry_kitchen_2023 Azzurra_web

È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche (in musica) più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare nel proprio limbo apparentemente indolore (riproducendo all’interno del proprio dominio i meccanismi dell’egoismo dominante) ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbatterglisi addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protagonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimonia, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza, di fronte alla cui scena, affida il suo disappunto ad uno slogan laconico: “Mangè mangè nu séi chi ve mangià” (“Mangiate, mangiate, non sapete chi vi mangerà”).

Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico–culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’“uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che hanno di fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia (poiché i modelli propinatici rappresenterebbero non solo una regressione democratica, ma un vero e proprio trionfo del più bieco autoritarismo, con il suo storicamente consueto, falso paternalismo bonario) ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea sottesa a tale concetto, rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo il messaggio – insieme ingannevole e pernicioso – per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali o alle varie frustrazioni sociali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi codici comunicativi, improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.

Cover Gino Rago Gallina NaninAppare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza, mettendole in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di contrastare libertà sociali ormai consolidate per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae uno dei suoi serbatoi di maggiore propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.

E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa, nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla loro tirannie.
Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa con uno straordinario anticipo temporale in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.

Agenda 2023 cover DEF

Miroslav Krleža

Notturno di San Silvestro millenovecentodiciassette
(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)
Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle strisce di tutti i meridiani.

Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terrore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro.

Oltre all’ambientazione, che per la situazione di guerra potrebbe farla apparire una poesia composta oggi (e fa riflettere il fatto che siano trascorsi più di cento anni dai fatti descritti), trovo che alcuni passaggi, come: «Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong/e non ascolto le sirene delle navi ancorate./Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,/ e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione»;
o come:
«L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte/e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice./La luna è sanguigna/e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte /con coltello piombo e gas/e unghie, e calcio del fucile, e pugno/la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok/pure questa è notte di San Silvestro.”
evidenzino mirabilmente lo straniamento che si impossessa dell’intellettuale realmente calato nell’osservazione e nel tentativo di decifrare la realtà di un tempo così desolante come quello dell’epoca cui si riferisce il brano, che richiama in modo impressionante la nostra.
Il compito della poesia e dell’arte in genere in tale contesto, dovrebbe essere da un lato appunto, lo scrutamento e la denuncia e dall’altro l’approfondimento e la ricerca dei “moti profondi”, delle connessioni sotterranee che sottendono la crosta di superficie, per comprendere a fondo le logiche ontologiche, destrutturandole e proponendo un nuovo possibile paradigma.
Proprio la poesia russa – ed è quindi un incrocio emblematico rispetto all’attualità – ci offre degli esempi straordinari della capacità della poesia e dell’arte in generale di trovare – nelle varie epoche storiche, attraverso le sensibilità più spiccate ed in grado di sottrarsi ai condizionamenti delle correnti dominanti che riflettono, tramite le lobbies che controllano la produzione intellettuale, le impostazioni dei poteri costituiti – la capacità di proporre una visione poetica ed un indirizzo per la storia dell’umanità soteriologici, catartici.
Un poeta significativo in tal senso (ma è uno dei tanti) oltretutto di straordinaria attualità, è Sergej Stratanovskij, attivo nell’ambiente dei Samizdat, fenomeno sociale, politico e culturale sviluppatosi in Unione Sovietica e con varie modalità anche nel resto del blocco socialista, consistente nella diffusione clandestina di scritti considerati illegali, in quanto avversi al regime e propugnatori di idee libertarie. La tecnica consisteva nell’uso di riprodurre in proprio i testi e di diffonderli (da cui il nome che tradotto dal russo si potrebbe rendere in autopubblicare), divenendo uno dei vettori fondamentali di diffusione delle idee di opposizione al regime.
La poesia di Stratanovskij è un esempio mirabile di come anche una poesia realmente impegnata nel senso della proposta di un rinnovamento sociale e politico, non possa prescindere da un modello di scomposizione del lessico, della semiologia e della semantica poetiche, per ricomporle in una visione cosmologica alternativa.

Poetry kitchen cover

Sergej Stratanovskij

In morte di utopia
Chi è mai Utopia?
È l’annegata, l’inghiottita
Dall’acqua torbida, sporca,
dal gorgo dell’oggigiorno
Ed eccola deposta in una cassa
Rozza, di quercia.
Divinavergine, ma, forse, Libro
Tondo-purpureo,
in veste ferroviva.

Si affretta la guardia:
di notte, come fanno i ladri, di soppiatto
Verrà portato via il suo corpo
E inumato tra scorie di fabbriche
Gioia dei popoli.

Sia pure, beh, non piangerò, basta
Senza di lei in fondo non si soffre
Si sta benino, anzi
E i guardiani hanno abiti passabili

Riscossosi, dirà qualcuno:
ma Ella dov’è mai finita?
Domina discesa a noi dal cielo
L’abbiamo sepolta, scordata
E sì che l’amavamo un tempo
Senza di lei come facciamo
ad affinare la tecnica del vivere? Continua a leggere

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Archiviato in critica della poesia

Discorso di Vincenzo Petronelli, Lasciamo il 2022 l’anno della guerra in Ucraina ed entriamo nel nuovo anno. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua, La posizione della NOe e della Poetry kitchen nel contesto internazionale, Poesie di Miroslav Krleža e Giorgio Linguaglossa

di Vincenzo Petronelli

Promemoria per l’anno 2022 che ci lasciamo alle spalle

Senza dubbio, quest’articolo [ https://lombradelleparole.wordpress.com/2022/12/09/ilya-yashin-il-testamento-di-un-oppositore-russo-colpevole-di-aver-detto-la-parola-guerra-giunti-alla-fine-della-seinsvergessenheit-adesso-sappiamo-da-massimo-cacciari-krisis-d/comment-page-1/#comment-80210  ] ci pone di fronte ad una riflessione cruciale per le sorti del sapere e della poesia odierni, dato che il crocevia rappresentato degli avvenimenti succedutisi in questi ultimi anni, ci ha fatto comprendere l’inevitabilità di interrogarci sui modelli gnoseologici, ontologici e di rappresentazione del mondo consolidatisi nei decenni scorsi, a partire dal riflesso individualistico, sfociato nell’edonistico dagli anni’80 del secolo scorso. Sappiamo peraltro come in Italia, questa stagnazione abbia investito in modo particolare la poesia, in buona parte, nelle sue forme dominati, relegata ad arte da salotto o da festival; ciò non toglie, ovviamente, che anche nel periodo suddetto ci siano state voci che abbiano tentato di fare poesia seria, ma indubbiamente l’orientamento prevalente è andato in un’altra direzione.
Le vicissitudini di questi ultimi anni hanno dimostrato anche a coloro maggiormente adagiati sul senso di un falso benessere ed acquiescenza proprio della società occidentale, come gli schemi siano ormai saltati completamente e che le false certezze su cui tale senso si è basato non hanno ormai più alcuna valenza. La poesia ed i linguaggi della cultura in generale, nelle loro versioni addomesticate agli interessi dominanti (che in particolare poesia italiana coincidono con i modelli prevalenti della produzione poetica) si sono trasformati in una sorta di nullità reazionaria, svilita completamente della componente rigeneratrice che dovrebbe sottendere l’uso della parola letteraria, piegatasi in questo caso all’uso della concezione quotidiana della lingua. Probabilmente, è da considerare questo come uno degli aspetti più deleteri che la cosiddetta “poesia del quotidiano” ha comportato come riflesso non solo sulla prassi, ma sulla stessa espressività poetica: non tanto l’introduzione nella poesia di temi tratti dal quotidiano (che anzi, trattati con il giusto “velo” poetico hanno rappresentato un’estensione del dicibile o del rappresentabile in poesia), quanto l’idea di ridurre la lingua della poesia a quella del quotidiano, appiattendone e svilendone la potenzialità filosofica, antropologica, soteriologica immanente alla lingua poetica, soteriologica (o se vogliamo taumaturgica nei confronti della lingua in generale) perché he più di altre forme d’arte, i canoni linguistici della poesia hanno la possibilità di agire come un bulino, nei confronti della lingua tutta.

Anche la poesia ha invece abdicato a tale ruolo, contribuendo così alla grande semplificazione che caratterizza la comunicazione del nostro tempo, funzionale al progetto di “normalizzazione” politica cui ormai la società occidentale è sottoposta dalla metà ann’80 del secolo scorso e che è ormai giunto al livello del parossismo delle coscienze.
La bellissima allocuzione di Ilya Jashin ci conduce direttamente al nocciolo di questo discorso, con il suo tentativo di rischiarare le menti obnubilate dalla propaganda russa a proposito dell’intervento armato in Ucraina ed in generale del liberticidio che contraddistingue sempre più il regime politico dello zar di tutte le Russie. L’esempio russo è particolarmente calzante nella misura in cui ci troviamo di fronte alla “macchina politica” che in questo momento ha probabilmente portato al massimo livello la propaganda tramite l’informazione digitale, divenendo il burattinaio che muove i fili di gran parte degli attuali movimenti demagogico – populisti che minacciano la nostra democrazia, che per quanto imperfetta, è pur sempre un valore da difendere, pena il regresso dell’Europa e della società occidentale ad epoche nefaste del nostro passato.
A partire dagli ultimi anni, gli effetti di tale manipolazione politica della comunicazione sono emersi in maniera drammatica e siamo di fronte senza dubbio, ad uno dei problemi principali della nostra società in questo momento; le storture operate da questo sistema di controinformazione populista, con le varie declinazioni operate in Ungheria, Polonia, Rep.Ceca, Serbia, ma anche in Grecia, in Spagna ed in Italia, sono sotto gli occhi di tutti, con politiche ammiccanti ora ad istanze di una destra nazionalista, xenofoba, fondamentalista cristiana, ora ad istanze di sinistra troppo sbrigativamente pauperiste e classiste, assolutamente fuori tempo massimo o che, per meglio dire, di fronte al rischio di una nuova polarizzazione della ricchezza, propongono soluzioni legate al comodo sbandieramento di slogan di sicuro effetto, solo perché consolidati nei vecchi proclami storici, ma che rischiano in realtà di trasformarsi in pura propaganda con possibili esiti imprevedibili e nefasti come la storia ci ha del resto già insegnato.
La semplificazione, l’appiattimento del linguaggio è stato naturalmente lo strumento privilegiato di questo rimescolamento delle coscienze, in un progetto in cui la parola si avvizzisce nel suo potere creativo, producendo una lingua scialba, incolore, amorfa, monocorde, di facile presa popolare e di grande “resa” politica.

È stato questo, in realtà, un punto d’arrivo di un processo avviato già con il dissolvimento della parabola del mondo socialista e l’assurgere di un padrone unico sullo scenario politico mondiale, percorso che recava con sé la necessità di limitare la complessità del confronto dialettico, tendenza abbinata all’edonismo che ha caratterizzato la cultura occidentale di quegli anni di ripiegamento sull’individualismo e di tramonto delle utopie collettive. Una delle testimonianze più significative di questo nuovo ordine venutosi a creare in quegli anni, l’abbiamo avuta in Italia con una delle voci poetiche più alte della nostra storia del secondo dopoguerra, che ha scelto la musica come campo d’espressione per veicolare la sua poesia e cioè Fabrizio De Andrè, che nel suo album Le nuvole, apparso nel 1990 ritrae questo mondo caratterizzato da un potere sempre più ammorbante, soverchiante, annichilente nei confronti della società, il cui controcanto è dall’altra parte quello di un popolo sempre più rintanato sui fatti propri e che, nella misura in cui il potere glielo consente, continua a vivacchiare facendosi i fatti propri, ignorando (o fingendo di ignorare) la sciagura che sta per abbattersigli addosso. Un brano particolarmente rappresentativo di questa fotografia che il disco riprende è ‘A çimma, scritto in genovese con Ivano Fossati e Mauro Pagani, il cui protgonista è un cuoco – alle prese con la preparazione per una cerimoni, dell’omonimo piatto tipico della cucina genovese – circondato da un mondo prossimo allo sbando, che racchiude tutta la sua vita nella sua cucina, trovando motivo di indignazione solo nella riprovazione del comportamento degli astanti che mandano in fumo il suo lavoro dopo aver consumato la pietanza.

Il disagio indotto da questa situazione di monopolio politico – culturale, ha però prodotto delle conseguenze, dalle pretese palingenetiche, che però già a partire dagli anni ’90, si rivelano essere peggiori del male che intendevano curare, dando vita – sempre nel nome dell’illusione di poter trovare scorciatoie per problemi complessi – a pericolosi intrecci populistici, estrinsecati tramite una politica divisiva il cui unico effetto è la creazione di slogan imbonitori, che racchiude la retorica nazionalistica e xenofoba delle piccole patrie egoiste delle regioni europee più ricche, la paradossale politica dell’antipolitica, altro inganno di facile presa, che ha sdoganato nell’arengo della discussione politica le chiacchiere da parrucchiere di fronte alle quali un tempo persino chi le esprimeva provava pudore, con le loro derive dell’ “uno vale uno” e della totale elisione della competenza: posizioni politico-ideologiche che hanno di fatto assunto naturalmente come elemento distintivo culturale l’isterilimento del linguaggio, in quanto meccanismo di controllo dal basso, per avvalorare l’inganno della pretesa democrazia.
Questa falsa, subdola idea di democrazia prêt à porter, organica in realtà a questo disegno destabilizzante per la vera democrazia, ci ha condotti in questi ultimi anni ad assistere alla formulazione di teorie farneticanti che, deformando il concetto di controinformazione alla luce di queste categorie annichilenti del pensiero, hanno ribaltato l’idea della stessa controinformazione rendendola strumento di questo progetto demagogico, molto semplicisticamente partorendo un modello per cui sarebbe sufficiente sovvertire la realtà di fatto per dar prova di un esercizio di vaglio critico che vada a scovare, in un presunto altrove – identificabile con le proprie pulsioni, frustrazioni, aspettative – le spiegazioni profonde della contemporaneità.
È sottinteso che in tale contesto ognuno possa ritagliarsi il nemico che meglio risponda ai propri fallimenti personali, grazie alla duttilità delle parole d’ordine coniate e contenute in questi messaggi improntati appunto ad una semplificazione scarnificante del linguaggio, che consente di trasformare i messaggi in veri e propri slogan, volutamente eclettici proprio per il loro minimalismo.

Appare così evidente l’intento destabilizzante per la democrazia insito in tale disegno, capace di spacciare misure di carattere puramente assistenzialistico, da sempre serbatoio di clientelismo politico, per politica progressista; di ribaltare conquiste storiche della scienza vengono messe in discussione nel nome di un’interpretazione nichilistica del senso della libertà personale, in cui è assente qualsivoglia attenzione per il bene collettivo; di mettere in discussione libertà sociali ormai consolidate, per il tramite di nuovi predicatori dell’integralismo religioso; di esaltare uno dei peggiori despoti della storia contemporanea, re-incarnazione delle figure più sinistre della storia passata e già autore di vari episodi di genocidio ed annientamento di popoli, come liberatore del neo-nazismo, paradossalmente pur essendo movimenti che spesso e volentieri strizzano l’occhio a quell’eredità e che hanno nello stesso despota il loro punto di riferimento. Proprio gli eventi della guerra di aggressione russa all’Ucraina, costituiscono una sorta di apoteosi di questo processo, momento culminante di questa politica che proprio dalla disinformacija russa trae la sua maggior propulsione, funzionalmente agli interessi del neo zar di ridefinire le parabole della storia, alimentando i propri disegni imperialistici.
Un corollario inevitabile di questo atteggiamento è la creazione di un bacino di divulgatori politici, culturali, di un’intelligencija di riferimento (influencers come si sogliono definire nel vocabolario dei nuovi media), il più delle volte costituito di una pletora di intellettuali del tutto improvvisati, pronti ad approfittare della possibilità di salire sullo scranno donato loro, il cui compito (come sempre avviene con i regimi illiberali) è di arruolare uno stuolo di volontari carnefici pronti ad immolarsi per qualunque causa venga loro affidata dai leaders, non più agghindati in uniforme e stivali militari, ma in giacca, cravatta e valigetta ventiquattr’ore, avendo nel frattempo provveduto a cambiarsi d’abito.
E la poesia cosa fa in questo contesto? Nella maggior parte dei casi si è ritagliata il suo spazio, la sua fetta di torta nella grande partizione e chi naviga nell’aura mediocritas di questi ultimi decenni, evidentemente non si scompone più di tanto di fronte alla situazione in atto, perché l’importante, dal loro angolo visuale è continuare a crogiolarsi ed a raccogliere consensi (mediatici o attraverso il ridicolo mercimonio dei premi) e mentre questi ambiscono ai “ricchi premi e cotillons”, fuori l’umanità compressa nelle terre dove si concentrano gli appetiti dei nuovi imperatori del mondo, combatte solitaria la sua battaglia per l’affrancamento dalla nuove tirannie.
Trovo che questa situazione venga straordinariamente riflessa questa condizione in anticipo sul in questa poesia di Miroslav Krleža, poeta tra i più straordinari nel ritrarre la società europea del ‘900 (in particolare dal suo laboratorio, per molti versi privilegiato, del mondo balcanico) lontano da qualsiasi tentazione di poesia dell’egolalia e che meriterebbe senza dubbio una maggior fama.

Miroslav Krleža

NOTTURNO DI SAN SILVESTROMILLENOVECENTODICIASSETTE
(Silvestarski nokturno godine hiljadu devet stotina sedamnaeste)

Promemoria a coloro che osserveranno tutto ciò da un’altra prospettiva

La luna è un tondo sanguigno,
e gli alberi soffrono eroici nel morto silenzio,
e la notte del santissimo vescovo Silvestro placida, placida, respira.
L’astrale semi riflesso verde della nera notte nebbiosa,
quando nel cosmico gioco il globo gira per una logora cifra,
e quando sul calendario
l’Anno Vecchio dal Nuovo è scannato.

Oh, a Nuova York, a Genova o a Hong Kong
ora le sirene di tutte le navi ancorate
ululano,
e tutte le antenne ora, in questo momento, spargono manciate di scintille blu
sulle strisce di tutti i meridiani.

Ma io non mi trovo a Nuova York, a Genova o a Hong Kong,
e non ascolto le sirene delle navi ancorate.
Io sullo Smrok2 guardo la luna sanguigna che sorge dietro il cimitero,
e di nuvole la colonna danzante nella lugubre e grigia illuminazione:
martiri in fila, sciagurati, crocifissi.
E pantere ululano accompagnate dal piffero dell’ebbro Bacco,
scorpione e serpente e granchi neri,
sono loro quest’anno sovrani del pianeta.

Malate e gialle sono forme sanguigne di questa notte di San Silvestro,
e tutti i colori squallidi e smunti.
Su, ch’io canti sul cadavere della Vecchia stagione, donna morta:

«Che cosa ci hai dato, decrepita meretrice?
Manicomio, caserma, cannoni e imperatore,
musiche e incendio, funerali e terrore.
L’Europa si ubriaca sulla mina di questa lugubre notte,
e Scheletro Grande versa lo spumante nel calice.»
La luna è sanguigna,
e la gente con pensieri combatte, con libri e stampa. La gente combatte con coltello piombo e gas,
e unghie, e calcio del fucile, e pugno,
la gente si scanna, e gufi ululano sullo Smrok,
pure questa è notte di San Silvestro. Continua a leggere

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