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Poesia n. 42 di Marie Laure Colasson, da Les choses de la vie, Qualsiasi ierofania mi è estranea, Lettere di Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson ad un poeta, tutta la pseudoarte dei giorni nostri ha il valore dei colori che giacciono al fondo di un lavabo sporco, è pattumiera con del miele intorno per attirare le api, e i gonzi, Incisioni di Isabella Collodi

Isabella Collodi, acuaforte, Larga la foglia stretta la via

Isabella Collodi, acquaforte, Larga la foglia stretta la via

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Marie Laure Colasson

Qualsiasi ierofania mi è ostile ed estranea.

Penso che la mia poesia sia afanica, apatica, drasticamente materica, diafana e diafanica.
L’arte che attraversa tutti i suoi momenti senza poter mai giungere a un’opera che esprima il positivo/negativo è l’arte di oggi, giacché non può mai identificarsi con alcuno dei momenti del positivo/negativo. Nella mia poesia non troverete mai un momento in cui si dice il positivo/negativo di una affermazione e né il positivo/negativo di una negazione. Affermazione e negazione facevano parte di quella metafisica che intendeva le parole che contenevano una intenzionalità verso […] una direzione verso […]. Nella mia poesia non troverete mai le «parole verso», che assumono la «potenza» della negazione o la «potenza» della affermazione, che intendono il reale come Nulla, e così sono quindi Nihil, nichilismo. Il termine Nulla non è ovviamente hegeliano ma post-heideggeriano, come post-heideggeriana è la conclusione del concetto dell’arte nella surmodernità. Come intendere e raffigurare il Nulla del Nuovo Nulla? Ecco, questo è il problema. Il nuovo nichilismo della surmodernità è fatto di Cose piene, di azioni, di merci, di clic su di un computer, di I like. Oggi la nuova metafisica che è la Tecnica non ci dà alcun nichilismo, non ci consegna alcun Nihil ma ci fornisce il Pieno in grandissima quantità: il Pieno dei markettifici, il pieno del negotium che ha sostituito l’otium. Tutto ciò non coincide con nessuna essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino (hegelianamente inteso);  l’essere dell’arte si destina all’uomo come un qualcosa che non può essere pronunciato, chiamato, definito (come pronunciare il Pieno?). Probabilmente, finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo, un crepuscolo pieno di Cose piene, ovviamente, che altro non è che il modo in cui il Nulla si manifesta come Pieno di Cose, come Pieno.
La bella interiorità? Beh, mettiamo le cose in chiaro e guardiamo le cose bene in faccia: tutta la pseudoarte dei giorni nostri ha il valore dei colori che giacciono al fondo di un lavabo sporco, è pattumiera con del miele intorno per attirare le api, e i gonzi.

Lettera  di Giorgio Linguaglossa ad un giovane poeta sulla Musa (2018)

caro [Omissis],

penso che la Sua poesia riuscirà bene quando dismetterà qualsiasi postura neosperimentale, neometrica, neosonora o neoorfica e quando rinuncerà al gioco delle parole e tra le parole, quando rinuncerà a tutto, quando rinuncerà anche alla rinuncia… a quel punto soltanto potrà scoccare la poesia… la Musa, lo sa, è una Signora oltremodo timida, basta un nonnulla che si impensierisce e fugge, si sottrae, si scherma… del resto, tutti la guardano, tutti la bramano, la vorrebbero possedere… questa cosa del «possesso» è una vera barbarie, tutti i plebei dello spirito vogliono possedere la Musa, ma lei si trincera dietro il rifiuto, si rifiuta, ecco tutto, di apparire in pubblico, rigetta qualsiasi dono, qualsiasi impegno, qualsiasi obbligazione, è una fanciulla timida e solitaria, pallida, scarmigliata… vuole soltanto trincerarsi dietro una spessa coltre di silenzio e di oblio, rifugge la balbuzie dei letterati, la loro grassa ignoranza e supponenza, la loro triviale arroganza… e poi rifugge le poetiche di maggioranza, le trova triviali, ne è spaventata…

Marie Laure Colasson

“Baudelaire è il poeta che deve fronteggiare la dissoluzione della tradizione nella nuova civiltà industriale e si trova quindi nella situazione di dover inventare una nuova autorità: egli ha assolto a questo compito facendo della stessa intrasmissibilità della cultura un nuovo valore e ponendo l’esperienza dello choc al centro del proprio lavoro artistico. Lo choc è la forza d’urto di cui si caricano le cose quando perdono la loro trasmissibilità e la loro comprensibilità all’interno di un dato ordine culturale. Baudelaire capì che l’arte se voleva sopravvivere alla rovina della tradizione, l’artista doveva cercare di riprodurre nella sua opera quella stessa distruzione della trasmissibilità che era all’origine dell’esperienza dello choc: in questo modo egli sarebbe riuscito a fare dell’opera il veicolo stesso dell’intrasmissibile”.1

La situazione della poesia italiana alla fine degli anni sessanta, alla fine della rapidissima industrializzazione dell’Italia, era alquanto problematica, la poesia si trovava nella condizione di non poter contare sulla propria sopravvivenza, cioè la sopravvivenza non era affatto scontata nelle nuove condizioni di un paese industrializzato, la civiltà di massa era un dato di fatto inevitabile, e la poesia era diventata un manufatto evitabile, perituro, il suo linguaggio era diventato intrasmissibile (nell’accezione agambeniana). Montale tira le conseguenze di questo fatto storico e fa una poesia di piccoli choc quotidiani, utilizza il quotidiano per fare di esso un campo minato irto di mine-choc. Ma non porta fino in fondo questa idea che rimane nascosta dietro l’involucro dell’ironia e dell’autoironia, e dello scetticismo cosmico. Cioè fa un passo indietro proprio quando avrebbe invece dovuto fare un salto triplo mortale in avanti.

1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, 1970, p. 160

Isabella Collodi Incisione la femme 2019

Isabella Collodi, La femme, incisione, 2019
Isabella Collodi, acquaforte, topi di donna luna
Isabella Collodi, Topi di donna luna, incisione
Isabella Collodi, Mandala della stilita, china e acquerello, 40×40 cm.
Isabella Collodi mandala del virus china acquerello 40x40
Isabella Collodi, Mandala del virus, china e acquerello, 40×40 cm

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Questa è la mia ultima poesia… sulla situazione della poesia attuale… da Les choses de la vie

42.

Eredia la Pompadour et Madame Colasson
montent dans un cyclopousse conduit
par une girafe qui chante un lied de Haendel

La blanche geisha arrive de l’île d’Osaka
munie d’une petite malle en fer blanc
transportant Tristan Tzara à cheval

La Pompadour offre à André Breton
son “amour fou” au delà des mots

Eredia vole à Lucio Mayoor Tosi
son parchemin lézardé pour lui raser la barbe

Gino Rago et Mario Gabriele cherchent
des détritus aux couleurs chatoyantes
pour vacciner Madame Colasson

Hasard des hasards ils se retrouvent tous
au café des “Deux Magots” autour
d’un guéridon bancal et s’assoient sur
des chaises déraisonnables

Breton vêtu de son kimono à fleurs de lotus
s’altère avec Tristan Tzara descendu de son cheval
et proclame que le dadaïsme s’enfouit
dans la joyeuse poussière des temps

Gino Rago le critique Linguaglossa et leurs amis
assis sur des marmottes en rupture de métastases
interviennent et déclarent
que le surréalisme est dépassé
depuis que les zèbres ont perdu
leur merveilleuse géométrie générée par Malévitch

Désormais la poésie passéiste
est amplement remplacée par
l’indigeste cuisine de la poetry kitchen

Le cheval et la girafe pris au dépourvu
avalent des gélules électriques de toutes les couleurs
et vont se promener dans la rues de St. Germain des près

*
Eredia la Pompadour e Madame Colasson
salgono su un risciò guidato
da una giraffa che canta un lied di Haendel

La bianca geisha arriva dall’isola di Osaka
munita di un piccolo baule in ferro bianco
che trasporta Tristan Tzara a cavallo

La Pompadour offre ad André Breton
il suo “amour fou” al di là delle parole

Eredia ruba a Lucio Mayoor Tosi
la sua pergamena screpolata per radergli la barba

Gino Rago e Mario Gabriele cercano
dei detriti dai colori cangianti
per vaccinare Madame Colasson

Fortuna delle fortune si ritrovano tutti
al caffè dei “Deux Magots” intorno
a un tavolino traballante e si siedono su
delle sedie irragionevoli

Breton vestito con un kimono a fiori di loto
s’inalbera con Tristan Tzara sceso da cavallo
e proclama che il dadaismo se ne è fuggito
nella gioiosa polvere del tempo

Gino Rago e il critico Linguaglossa e i loro amici
assisi su delle marmotte in rottura di métastasi
intervervengono e dichiarano
che il surrealismo è superato
da quando le zebre hanno perduto
la loro meravigliosa geometria generata da Malevitch

Oramai la poesia passeista
è stata ampiamente rimpiazzata dall’indigesta
cucina della poetry kitchen

Il cavallo e la giraffa presi alla sprovvista
inghiottono delle capsule elettriche di tutti i colori
e vanno a passeggio per le vie di St. Germain des près

Pensare ad una essenza originaria della poiesis, l’abitare dell’uomo sulla terra, è quantomai fuorviante. Si può immaginare un’essenza della poiesis provenendo dal futuro, mai dal passato. Il compito urgente del nostro tempo è qui per Marie Laure Colasson quello di mettere in questione il «senso» stesso dell’opera poetica, che deve avvenire attraverso la «dimenticanza» della poesia della tradizione essendo essa intrasmissibile per eccellenza e contaminata dalla falsa coscienza; l’opera poietica torna così ad abitare il suo «luogo proprio», torna a parlare del luogo e dal luogo che conosce a menadito, con le persone, i sosia, gli avatar, e magari anche con le maschere, purché siano tutte «proprie» e non allotrie.
La poesia di Marie Laure Colasson abita il «proprio», e lo fa senza infingimenti e senza falsa coscienza. Per questo i suoi avatar sono degli Estranei familiari, sono i suoi doppi, i suoi sosia, i suoi fantasmi con cui l’autrice entra in colloquio familiare. L’opera autentica torna all’origine guardando al futuro, anzi no, provenendo dal futuro. Tornare all’origine significa qui andare avanti, fare una poiesis che abiti il futuro come luogo più proprio (e quindi il più estraneo). In tal senso, e solo in tal senso la poesia della Colasson è un’arte irrealistica in quanto realistica al massimo grado, in quanto inventa, trova il suo realismo a partire dall’irrealismo. Il realismo oggi è lo stato vegetativo permanente della poiesis. Oggi il realismo se vuole veramente assomigliare al reale deve diventare irrealismo al massimo grado, deve provenire dal futuro, non più dal passato. Deve dimenticare il passato.

(Giorgio Linguaglossa)

Isabella Collodi

Isabella Collodi è nata a Roma, dove vive e lavora, il 19 ottobre 1957. Dopo gli studi classici, si è laureata in Psicologia nel 1982.Nel 1980 iniziava lo studio dell’incisione su rame, dedicandosi prevalentemente all’acquaforte, pur avendo, fin dall’infanzia, disegnato e dipinto. Nel 1988 ha esposto per la prima volta, nell’ambito di una rassegna di giovani artisti, organizzata dal Comune di Roma mentre nel 1994 le è stato conferito il Premio per l ‘Incisione nella Biennale del Mediterraneo ( Alessandria D’Egitto ). Vive e lavora in Circonvallazione Clodia 21, 00195 Roma. Tel 0039  06  39728551  ; Cell. 3334645566.  Hanno scritto del suo lavoro diversi storici e critici d’arte tra cui : F. Di Castro, L. Trucchi, G. Giuffrè, A. Gerbino,  Erika Langmuir, Mans Holts – Ekstrom.

Marie Laure Colasson volto 1

Marie Laure Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica è coreografa di danza contemporanea

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Stanza n. 13, Poesia di Giorgio Linguaglossa, Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla 

foto Vopos

Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.

Giorgio Linguaglossa

Ingehaltenheit in das Nichts, mantenersi nel Nulla, per Heidegger è la condizione dell’EsserCi.
La nuova poesia, la nuova arte è questo periclitante mantenersi nel Nulla proprio in quanto mantenimento nei limiti e nella circonferenza del finito.

Costitutiva della verità dell’essere è per Heidegger la sua finitezza, o il fatto che l’essere è finito, il che ha sollevato un mare di discussioni sull’ateismo di Heidegger, sulla morte di Dio, come morte del Dio della metafisica tradizionale. Il che ha sollevato un mare di eccezioni. Che l’essere sia finito significa per Heidegger che la verità dell’essere si manifesta all’esserci dell’uomo solo sulla base del nulla. Se Dio fosse l’essere assoluto, sarebbe limitato dal nulla al quale si deve rapportare nella creazione del mondo. Occorre quindi ammettere che il nulla si manifesta come appartenente all’essere stesso. Ergo, l’essere è nella sua essenza finito in quanto si manifesta soltanto nella trascendenza dell’ esserci che si mantiene nel nulla.
La trascendenza dell’esserci rispetto all’ente nel suo tutto è radicata nella sua finitezza, che è al tempo stesso la finitezza dell’essere, cioè la coessenzialità dell’essere e del nulla.

L’esserCi non è semplicemente nel tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’esserCi. Le cose sono nel tempo, scorrono nel tempo, ma il tempo è intemporale. Le cose scorrono nel tempo proprio in quanto hanno un luogo dove stare, e questo luogo è il tempo.
La temporalità è la dimensione fondamentale dell’esserci, che è l’essere dell’uomo come esistenza, come essere gettato nel tempo e come progetto. L’esserci è il terreno su cui basare la domanda della ontologia fondamentale. 2

1 Cfr. Was ist Metaphysik?, trad. it. Che cos’è Metafisica, cit., p.15.
2 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927

*

Ecco l’ennesimo rifacimento di una mia poesia. Ho sostituito moltissime virgole con dei punti. Ho sbirciato nella Stanza n. 13.

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

…verso la libertà a bordo della BMW Isetta, una storia vera…

Stanza n. 13*

Agenti della Vopos con impermeabili scuri.
camminano rasente i muri.

Torrette di avvistamento. A sinistra, il muro. A destra, il muro.
Una scala a chiocciola. In ferro.

Prigionieri. Gendarmi. Hangar. Corridoi. Cancelli.
Uniformi. Celle. Sbarre. Cancelli.

Pavimento epossidico color ambra. Materasso. Tavolo.
Lampadina. Soffitti. Oblò. Cortili.

Cellule fotoelettriche. Torce elettriche. Riflettori.
K. con i tacchi a spillo fuoriesce dalla finestra

Ed entra dentro la cella del filosofo.
«Veda Cogito, i marziani hanno occupato lo stabilimento balneare.

Si arrenda. Non ha più scampo ormai».

[…]

Ma io sapevo che il filosofo avrebbe vinto la partita,
sarebbe andato fino in fondo.

Che cosa aveva da perdere ormai…

Ma scacciai subito quel pensiero. Lo sostituii con una sigaretta elettronica.
Per paura. Forse.

Per disperazione. Per dissipazione. Per distrazione.
Per dimenticanza.

[…]

Il Re di Denari bacia la dama in maschera.
Un quadro del Tiepolo. Il cicisbeo accenna un inchino che non avviene.

La dama con l’orecchino di perla manda un sms a Vermeer,
c’è scritto: «Voglio anch’io un ritratto come quello che ha fatto

A quella sguattera con l’orecchino di perla…».
Il pensiero impresentabile mi sorprese all’angolo di via Gaspare Gozzi.

Pietro Longhi ritrae la damigella col guardinfante
in posa col papà nello studio del pittore, al Cannaregio.

Mozart compila il 740, si reca al Caf per la denuncia dei redditi.
Mangia un gelato italiano alla panna. Ride.

Ma dimentica qualcosa, ordina al calessino di tornare indietro.
E si perde nel traffico della Vienna imperiale.

[…]

A destra, la scala a chiocciola. Di fronte, il vano dell’ascensore.
Rumori di ascensore. Ottusi.

Fantomas imbracciò il piede di porco e sollevò la saracinesca
«La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma».

I cristalli della vetrina splenderono di luce abbagliante.
Poi si pulì i guanti con lo spazzolino da denti.

E prese congedo.

*

*Ecco qui un «polittico» composto con spezzoni e frammenti di altre poesie distrutte dall’hacker e da me miracolosamente ripescati dalla memoria. Quindi, si tratta di duplicati di scarti e di frammenti che forse non hanno né capo né coda, o forse hanno una coda, ma senza alcun capo… Lo stile è nominale; ho eliminato tutti i verbi inutili e gli aggettivi esornativi. Ho lasciato i nomi e le immagini.
Il «polittico» abita la pluralità dei tempi e degli spazi. Più spazi e più tempi convergenti costruiscono la casa del «polittico», altrimenti non si ha «polittico». C’è un filo conduttore che unisce quei tempi e quegli spazi, ma non è neanche detto che ci sia. Molto probabilmente ci sono una molteplicità di fili conduttori che si dipanano dal «polittico», c’è un tessuto di fili che tiene insieme il «polittico». Ma, anche se non ci fosse, non importa, perché l’arte è finzione, finzione che qualcosa accada; e finzione significa rappresentazione.

«Vero è che la permanenza è propria del tempo considerato nella sua totalità. Come tale il tempo non scorre, non cambia. Cambia, scorre, ciò che è nel tempo».1]

1] V. Vitiello, op. cit. p. 203

Foto Karel teige collage 1

Karel Teige, collages

«Il trucco è l’arte di mostrarsi dietro una maschera senza portarne una», scrive Charles Baudelaire. Nel suo Éloge du maquillage (1863), indica, infatti, la necessità di utilizzare i mezzi della trasfigurazione per ricercare una bellezza che possa diventare artificio, mero artificio prodotto da un homo Artifex, ultima emanazione dell’homo Super Faber, Super Sapiens.

Il «polittico» è il nuovo, originalissimo, modo di pensare il «politico» oggi, cor-risponde agli «spazi interamente de-politicizzati delle società moderne» ad economia globale (Giorgio Agamben), è quindi una forma d’arte integralmente politica, che fa della politica estetica, che ritorna a fare della politica estetica, cioè un’arte della polis per la polis.

la globalizzazione è un processo ancipite, in cui agiscono vettori anche contrastanti: non vi è solo sconfinamento e apertura al globo, ma vi operano anche dinamiche di collocazione e localizzazione. Ci si muove nel quadro dell’Europa, che di per sé è uno spazio impensabile prescindendo da conflitti e polemiche: le assonanze, le linee di convergenza tra le varie tradizioni presentano la peculiarità di essere in se stesse complesse. Non esiste, in questo senso, «la filosofia europea». Non esiste, in questo senso «la poesia europea». Però. lo so, è paradossale, oggi può esistere soltanto una poesia europea, che abbia una cognizione del quadro storico-stilistico europeo.  Oggi può esistere soltanto una filosofia europea. Pensare ancora in termini di una «poesia italiana» che si muova nell’orbita: dalle Alpi al mare Jonio, permettetemi di dirlo, è una bojata pazzesca. La globalizzazione è un processo macro storico che attecchisce anche alla forma-poesia.

Oggi si richiede la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico operata da ottiche differenti e tuttavia caratterizzata da una comune o convergente fuoriuscita dallo schema classico: Avanguardia-Retroguardia, Poesia lirica- Poesia post-lirica. Oggi occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, Avanguardia-Retroguardia. Da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione pensante del poetico. Dopo Fortini, l’ultimo poeta pensante del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta pensatore, un poeta in grado di pensare le categorie del pensiero poetico del presente. Quello che oggi occorre fare è riprendere a ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico del presente. Dopo Fortini, la resa dei conti poetica è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

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Intorno alla generosità del Nulla, Una poesia di Giuseppe Talìa,  Lucio Mayoor Tosi, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Matteo Pietropaoli, Francesco Paolo Intini

Antology How the Troja war ended I don't remember

Giorgio Linguaglossa

Che dire intorno alla generosità del «Nulla»?

Caro Giuseppe Talìa,

ho ascoltato il famoso pezzo che hai postato, The clash. Nel passato l’ho sentito svariate volte con un po’ di noia. Non nutro di solito molta accondiscendenza verso la musica rock, anche se mi piace molto Vasco Rossi, per il resto la musica rock mi sgomenta e mi annoia, come tutta la musica che cerca l’intrattenimento, ma capisco che deve essere così, capisco che tutto quel rumore deve esserci per essere. Tuttavia mi interessa la funzione semantica e ultra semantica della musica rock. Mi interessa la funzione ultra semantica e semantica del rumore. Possiamo dire che la musica rock è musica del pleroma. In un mondo troppo pieno è difficile fare esperienza del vuoto e del nulla, e poi del nulla non si dà esperienza, se è questo che si cerca; il nulla ci accompagna, accondiscendente, in ogni istante della nostra giornata. Il nulla non lo si può afferrare, il nulla sfugge da tutte le parti perché è in ogni luogo e fuori da ogni luogo, perché è dentro ogni luogo. A pensarci bene, il nulla è ciò che rende significativo ogni istante delle nostre giornate, guai a chi mi togliesse il gusto della fagocità e dell’impermeabilità del nulla! Penso che una poesia che non mi rimandi al pensiero, al cospetto e al sospetto del nulla, non mi interessa, non cattura la mia sensibilità né la mia intelligenza…

Ma, come si fa a catturare il nulla? Semplice, rinunciando a volerlo catturare, facendo un passo indietro rispetto al linguaggio, facendo un passo indietro rispetto all’io plenipotenziario… questo Volere Potere di cui è piena la pseudo poesia e la pseudo arte dei giorni nostri, questo voler mettere delle «cose» dentro la poesia lo trovo puerile oltre che supponente, la supponenza degli imbonitori e degli stupidi; questo voler fare delle «istallazioni» del nulla lo trovo un controsenso, il nulla non si lascia mettere in una istallazione, non lo si può inscatolare e mettere sotto vuoto spinto. Il nulla non si può conservare in frigorifero, non lo si può mettere in lavatrice o nella centrifuga, non lo si può nominare, non ha nome, non ha un luogo, non ha un mittente né un destinatario, non è un messaggio che si deve recapitare. Il nulla non è Dio, non c’entra niente con Dio. Il Nihil absolutum non è ed è al contempo. È ciò che assicura la sopravvivenza dell’essere fin tanto che l’essere ci sarà. Il nulla non abita lo spazio-tempo, piuttosto è lo spazio-tempo che abita il mondo grazie alla generosità del nulla.

Una poesia che non dialoghi con il nulla è una para-poesia o una pseudo-poesia, come ce ne sono a miliardi di esemplari qui da noi…

Giuseppe Talìa

Caro Germanico, lo stato di diritto è morto. Ucciso dall’interesse
Personale. Il vulnus della Legge lo trovi in ogni supermercato.

Nelle etichette che minuziosamente riportano frasi, simboli
e consigli per il mesencefalo: nato in… macellato in… confezionato
in…

Tu sei, mercato e supermercato. Sei domanda e offerta.
Anche il niente si vende facilmente. Il dolce far niente.

È il sottovuoto il vero problema. È l’involucro il vero esantema.
Mettici pure, caro Germanico, che il rovescio non è necessariamente

Il contrario di d(i)ritto: rovescio a due mani; rovescio della medaglia;
diritto di nascita e diritto di morte. Anche il nulla ha un suo diritto

e un suo rovescio. Il nulla ha un passaporto, una impronta lemmatica
e digitale. Riposa nella biometria del non-ente. Il nulla è parente

del niente, perché ciò che è nominato esiste, insiste e persiste.

Nell’Arena dell’industria della melodia, gli artisti più taggati fanno
da colonna sonora ai gladiatori che sono diventati in questi tempi
degli influencer di fama.

Beethoven è il compositore più punk che si conosca dalla Pannonia
alla Cirenaica; Chopin quello maggiormente pop assieme a Vivaldi;
Liszt, invece, è un autore beat, mentre Mozart, ah Mozart, un pomp rock.

Caro Germanico, non esiste ricetta per cucinare il nulla, ma si può condire.

[Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor supervisore di tirocinio all’Università di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Educazione Primaria. Pubblica le raccolte di poesie, Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; Come è Finita la guerra di Troia non ricordo, Edizioni Progetto Cultura, 2016. È uscita la raccolta Thalìa per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A., traduzioni di Nehemiah H. Brown, e suoi testi sono presenti nella Antologia How the Trojan War Ended I don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019]

 

Lucio Mayoor Tosi

Ukulele.

Nel debole pensare di un cervello dato
in beneficenza a un missile delle finanze,

uno dei tanti tra gli schierati a Hollywood.
Testata di segatura e ukulele in pancia.

Possono cadere come in Stranamore,
precisamente sul centrotavola di ogni famiglia.

.

Dichiarato il Vuoto di programma,
la macchina commerciale depenna

ogni notifica d’affari che interferisca
sulla partenogenesi della ricchezza.

Esplodono con rumore di conchiglia, mare
di ferragosto, o d’inverno le favole.

.

Ma un missile, cosa può pensare un missile,
un solo missile della finanza?

Non si combatte un sistema già avviato,
va solo ulteriormente svuotato di finalità.

Segatura e ukulele. Il resto si potrà fare
grazie a nuova programmazione.

.

Per questo la ditta NOE propone svariate
soluzioni.

Ottieni subito il tuo programma personalizzato
per sconfiggere il capitalismo.

Proteggi i tuoi cari.

(may – set 2019)

Giorgio Linguaglossa

Straordinaria composizione perché è un esempio di quello che dice Derrida quando afferma che bisogna ritrarsi dal linguaggio, e, aggiunto io, bisogna ritrarsi anche dall’io e dalle sue adiacenze. Lucio Mayoor Tosi è riuscito in questa impresa assai disperata, e gliene va dato atto, infatti, lo scrive lui stesso: «la ditta NOE propone svariate/ soluzioni», vale a dire che tutte le soluzioni sono equipollenti e interscambiabili, proprio come avviene nella meccanica quantistica. Se Dada cercava in via unilaterale il non-senso, Lucio l’ha trovato, l’ha incontrato lungo la strada, senza volerlo, senza crederci, con la differenza, rispetto a Dada che in lui non c’è nessuna volontà di potenza in gioco, anzi, c’è la non-volontà di non-potenza. Lucio scava in direzione di un linguaggio che non è né linguaggio né meta linguaggio, un linguaggio verosimile e vetro simile, lui si prende gioco di qualsiasi compostezza e di qualsiasi seriosità e di qualsiasi posizione ironica o sardonica o sarcastica perché ritiene queste posizioni conformistiche e già telefonate dalla «programmazione» del capitalismo, che la comunicazione pone in atto. E lo dice a chiare lettere:

Non si combatte un sistema già avviato,
va solo ulteriormente svuotato di finalità.

 

Giuseppe Talìa

Eccola qui, questa sì che mi piace. Sembra un annuncio pubblicitario che svela le carte del prodotto farlocco che vorrebbe vendere.

 

                                                            Lucio Mayoor Tosi

Il nulla è pieno essere, ed è alternativo all’essere parziale condizionato dall’esserci in quanto persona, ego e conseguenti implicazioni esistenziali e psichiche. Quindi sono pienamente d’accordo con Giorgio Linguaglossa,
quando scrive:

“La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica”.

Il nulla è pieno ascolto e silente attenzione – attenzione: è il nostro vedere interiore; in senso heideggeriano è componente della “cura” – .
Per il nulla, tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Se ogni cosa è bella e perfetta, in quanto naturale e in quanto ogni cosa “è”, per contrasto ne deriva chiarezza sul vivere naturale e innaturale. E qui troviamo l’angoscia, che giustamente Heidegger segnala come avvertimento dell’essere al cospetto del nulla, e prova filosofica della sua essenza.

Nulla pensiero, nulla desiderio, nulla speranza. Sono queste alcune tra le proprietà esistentive del nulla esserci. Ma queste sono anche qualità del pieno ascolto, e della piena partecipazione, quindi dell’esserci.
La contraddizione è solo apparente: si suppone infatti che vi sia la possibilità di un esserci nel nulla; le cui modalità, e l’efficacia, sono ampiamente dimostrate, in primo luogo dalle numerose pratiche ascetiche appartenenti alla religiosità orientale, particolarmente nel buddismo e nell’induismo. Si parla qui di ascetismo senza finalità ultraterrene, che ha valenze tout court di esercizio-per.

Infatti Giorgio parla di “meditazione poetica”. Che qui può essere intesa come pratica, o tecnica, per esperire il nulla: la sua pienezza, l’indifferenziabile perfezione. Momentaneo esserci nell’essere. In questo spazio collocherei la meditazione poetica. Il pieno e perenne conseguimento dello stato di ascolto, l’esserci costante dell’essere, per la religiosità orientale appartiene alla natura umana, a patto che si sia ben vista, vissuta e quindi superata l’angoscia di vivere; perché oltre l’angoscia si ha piena partecipazione a tutto ciò che è. Tutto è perfetto e ogni cosa è bella. Ivi compreso l’uragano Florence.

Matteo Pietropaoli

«La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica. L’esserci umano può rapportarsi nei confronti dell’ente solo se si tiene immerso nel niente. L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica stessa. Ciò implica: la metafisica appartiene alla “natura dell’uomo”. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadere fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondamento privo di fondo, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell’errore più radicale. Perciò nessun rigore d’una scienza raggiunge la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell’idea della scienza».3
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Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci, di Giorgio Linguaglossa, Trittico di Giorgio Stella,  Andrea Brocchieri, La desistenza dell’esserci

Botticelli polittico

Giorgio Linguaglossa

Il discorso poetico come percezione della nullificazione dell’esserci

C’è nella nuova ontologia estetica quello che possiamo indicare come una intensa possibilizzazione del molteplice.

Che cosa voglio dire con ciò? Nella nuova poesia ci sono indicate delle cose che possono avvenire, che potrebbero avvenire, o che forse sono avvenute. Mi spiego meglio. Se prendiamo La ragazza Carla di Pagliarani (1960) o anche Laborintus (1956) di Sanguineti, lì vengono trattate (rappresentate) delle cose che realmente esistono, l’impianto ideologico è ancora e sempre quello del realismo; se prendiamo un brano de I quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, lì si tratta di un tema ben preciso: la morte del fratello «aldo» e della conseguente j’accuse del «sistema Italia» che lo ha determinato al suicidio. Anche qui l’impianto ideologico è ancora e sempre quello del realismo, cioè mimetico. Voglio dire che tutta la poesia del novecento italiano, come quella di questi postremi anni post-veritativi, rientra nel modello del «verosimile». Ebbene, questo «modello» nella NOE viene castigato e rottamato, viene messo in sordina, la distinzione tra verosimile e non-verosimile cade inesorabilmente, ed entrano in gioco il possibile e l’inverosimile; si scopre che l’inverosimile è della stessa stoffa del possibile-verosimile.

Questa possibilizzazione del molteplice è la diretta conseguenza di una intensa problematizzazione delle forme estetiche portata avanti dalla «nuova ontologia estetica», prodotto dell’aggravarsi della crisi delle forme estetiche tardo novecentesche che ha creato una fortissima controspinta in direzione di un nuovo modello-poesia non più ancorato e immobilizzato ad un concetto di eternità e stabilità del «modello del verosimile».

Il concetto di «verosimile» della poesia lirica e anti lirica che dir si voglia di questi ultimi decenni poggiava sulla stabilità ed eternità del soggetto che legiferava in chiave elegiaca o antielegiaca, che poi è la stessa cosa…

In Essere e tempo, l’indagine sul nulla (Nichts) apre l’ente alla possibilità che nulla sia, che l’ente sia un nulla; l’incontro con l’esserci apre l’ente alla “dischiusura” (Entschlossenheit) del “mondo”, infatti, il mondo è il regno della possibilità – e non dell’istinto e dell’abitudine, come per gli animali i quali esistono nella «chiusura» del mondo animale.

Ma come l’uomo non sceglie il suo essere mortale, e piuttosto è consegnato a tale condizione, così l’uomo esiste «gettato», «immerso» nel nulla.

Infatti, non è un caso che la nuova poesia ontologica sorga nel momento della massima problematizzazione delle questioni estetiche e della intensificazione della problematicità dell’arte proprio nel momento della massima crisi della democrazia neo-liberale, anzi è la risposta della forma-poesia alla crisi del modello maggioritario fondato riflessivamente sulla presunta stabilità dell’io, su un io posto e presupposto in modo fattizio e acritico.

La NOE è sostanzialmente una meditazione poetica sul nulla dell’esserci. Con le parole di Heidegger: il significato dell’espressione «das Nichts nichtet» sta per il Nulla che nullifica, rende nullo l’esserci, lo nullifica. L’incontro (Ereignis) del nulla con l’esserci, produce il nuovo discorso poetico. Siamo qui all’interno di una particolarissima e modernissima sensibilità verso la parola e la parola poetica, quella parola che scocca dall’incontro tra il nulla e l’esserci. All’interno di quella particolarissima percezione del discorso poetico inteso come il discorso della nullificazione dell’esserci.

Trittico di Giorgio Stella                 

                                   McMarx                                                      

I

E poi diceva che quella fabbrica d’ali era fallita per i troppi scioperi
Che era sottile la lama sulla testa già calva

Ma impossibile stabilire una nozione temporale a quella scissione
La processione della vena di cardo la riabilitazione all’addizione

[…]

Una nenia per via pasticche come coriandoli insetti chiamati babbuini dai deficienti
E il taglio di prosciutto per favore fino al midollo dell’osso 

La figlia del cocchiere nuoce al cervello in controluce di fede
E quando dopo aver pulito le case dei padroni per arrotondare

[…]

Va a pulire i cessi dei poveri tra i bocchini africani della versione turca della Stazione Termini

Che volano i cocci delle birre rotte tra froci e il 24/H è il paesaggio del 12 notturno

Poi lo sapeva quando scolpiva la pietra anzi sciacallaggio di rose finte

Che accanto al nome e alla croce c’era la grande M gialla della McDonald’s la foto ovvio d’identità

[…]

II

Al b/1 era la stessa cosa la colazione brodo di gallina servita in piatti di plastica piani per pasta

E chi serviva il re serve pure la regina quelle sbarre modelle le sigarette contate

Tutto questo per aversi tirato le radici dalle fiamme delle vene e viceversa
La terapia servita in colonna corsara di bandiera battente SIDA

[…]

E lui scopava ugualmente scettri mirra di firmamenti monumenti in contenzione

I giorni dilatati dai sieri nessun ricevimento il bar interno gli ricordava il primo tempo 

Dei vecchi cinema dove madamadorè vendeva pop-corne e minilgelati e ventagli

Senza aria condizionata in pieno agosto Vallejo ci diceva che esiste l’uomo a vita di un giorno di galera e la galera della vita per un giorno

[…]

Ma il tacco era troppo alto lo sapeva che aveva il cazzo ma era [troppo] ubriaco ‘fedele alla linea!’

Un pompino in fondo è come un rospo salta dal trampolino lo sborro è biforcuto

E dalla scheda della clinica ci informa la luce elettrica abbassata

Che la luce eterna ci veglierà tutta la notte se porco dio la bibbia è stata persa

[…]

Dalla sottratta sferica a dorso del muro la poesia che scriveva in culo al cardo del buco del cazzo

[…]

III

Le medagliette le vende sugli scalini dei grandi Hotel e lui sul cantiere
Tirava la fiocina al ficco del tordo il tiro montato dal ponteggio di CRISTO 

E rotea betoniera facci capire quanto valga la sete della tanica comune
Quante bottiglie appese ai granelli dei deserti coltivati a falco di luce

[…]

Quel tozzo di pane del [pane] del padrone mentre Riccetto non abita più qua
Lei passa ti riconosce dalla maschera imburrata di pannocchia lattina Berlino est

Ma stira la stampella è già girata tu colpisci la mira ella è viva
Sulla porta accanto della frode di Pasqua marina era ridotta in fiore l’assenza

[…]

Puttica del puttanesimo cacato in grembo al ginocchio amputato di Rimbaud

Inginocchiato al ginocchio tumorale di Verlaine e tamburo muto caccia testicolo di medusa

Che il cancro che brucia la vista possa vedere questa corrida!

[…]

La desistenza dell’essere

Rilettura di

Che cos’è metafisica? [Was ist Metaphysic?] e Sull’essenza della verità di Heidegger. [Vom Wesen der Wahrheit ], conferenza tenuta più volte nell’autunno-inverno 1930 e nel 1932, pubblicata non senza una revisione del testo nel 1943 e poi nel 1949 con un’aggiunta.

Andrea Brocchieri
(dicembre 2007)

Scrive Heidegger:

“Che cos’è il nulla?”

sembra una domanda impossibile perché il niente (non-ente) è come tale inoggettivabile; la domanda è di per sé contraddittoria: “che ente è il non-ente?”

«Rispetto al nulla domanda e risposta sono ugualmente un controsenso. […] La regola fondamentale del pensiero, cui comunemente ci si richiama, ossia il principio di non contraddizione, la “logica” in generale, sopprime la questione, perché il pensiero, che è essenzialmente sempre pensiero di qualcosa, qui, come pensiero del nulla, dovrebbe agire contro la propria essenza. Poiché in questa maniera ci è impedito in generale di fare del nulla un oggetto, siamo già arrivati alla fine del nostro domandare sul nulla sulla base del presupposto che in tale questione la “logica” rappresenti l’istanza suprema, l’intelletto il mezzo, il pensiero la via per cogliere originariamente il nulla e decidere se è possibile scoprirne qualcosa».16

Se s’intende il nulla come “non-ente”, si determina il nulla a partire dall’ente tramite una semplice negazione; il nulla non risulta così come un contenuto positivo del pensiero (un concetto reale) ma è solo la negazione di esso (uno pseudo-concetto, come notava Carnap). Dunque non potrebbe essere che la presunta contraddittorietà e inconsistenza della domanda derivi proprio dal fatto che il concetto di nulla è stato costruito sul piano logico via negationis?17

E se invece ogni negazione fosse possibile proprio in quanto “si dà” (es gibt) il nulla? −
Questa è la tesi che qui Heidegger anticipa e che dovrà poi dimostrare: «Il nulla è più originario del non e della negazione».18

Se dunque, sulla base di queste supposizioni, si volesse procedere nell’interrogare il nulla, bisognerebbe che esso fosse effettivamente dato nell’esperienza; e se il nulla fosse comunque in qualche modo la negazione della totalità dell’ente, se cioè ci fosse dato come il risultato di tale negazione, occorrerebbe che preliminarmente ci fosse data la totalità dell’ente. Ma questo com’è possibile, visto che siamo “esseri finiti”?19

Tuttavia «noi ci troviamo posti nel mezzo dell’ente che in qualche modo è svelato nella sua totalità» − in quale modo? Per es. ciò avviene nella “noia profonda” oppure «nella gioia che nasce in presenza dell’esistenza (Dasein) − e non della mera persona − di un essere amato». In tale “trovarsi” ci sentiamo insieme alla totalità dell’ente (tutto è noia, tutto è gioia) ma proprio per questo il nulla lì non emerge.20

Solo l’angoscia − intesa come l’emergere della “tonalità di fondo” dell’esistenza (Grundstimmung) e da non confondere né con l’ansietà né con la paura − ci svela il nulla stesso; la paura o l’ansietà sono riferibili a un che di determinato, l’angoscia invece è “spaesamento” (Unheimlichkeit), uno sprofondare di tutto (noi compresi) nella precarietà:

«Nell’angoscia, noi diciamo, “uno è spaesato”. Ma dinanzi a che cosa c’è lo spaesamento? e che significa quel “uno”? Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi sprofondiamo in una sorta d’indifferenza [Gleichgültigkeit]. Ma non nel senso che le cose spariscano, bensì nel senso che proprio nel loro allontanarsi le cose si rivolgono a noi. È questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità che nell’angoscia ci accerchia, ci angustia. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente rimane soltanto e incombe su di noi questo “nessun”.

L’angoscia rivela il nulla. Noi siamo “sospesi” nell’angoscia. O meglio, è l’angoscia che ci lascia sospesi, perché fa dileguare l’ente nella sua totalità. Ciò comporta che noi stessi, questi esseri umani che siamo, in mezzo all’ente come siamo, ci sentiamo dileguare con esso. Per questo, in fondo, non “tu” o “io” ci sentiamo spaesati, ma “uno” si sente spaesato. Resta solo il puro esserCi che, attraversato dal turbamento di questo essere sospeso, non può tenersi [halten] a nulla».21

Tutto rimane “rivolto a noi” ma allontanandosi, in modo da non offrire più sostegno (Halt): l’angoscia ci lascia sospesi al niente e così ci rivela il nulla. Si deve notare che qui siamo in uno snodo decisivo dello sviluppo della ricerca, cioè nel punto in cui Heidegger sta oltrepassando l’obiezione per cui l’idea del nulla sarebbe uno pseudo-concetto in quanto mancherebbe di base “empirica”. Certo qui non viene esibita un’evidenza “sperimentale” ma una descrizione fenomenologica. Il che non significa che venga offerta un’evidenza minore, anzi al contrario. Infatti, dal punto di vista fenomenologico, è l’indagine fenomenologica a porre le basi per lo sperimentalismo scientifico e non viceversa.22

A questo punto, attestata la consistenza fenomenologica del “nulla”, Heidegger può riconfermare la sensatezza della domanda: “Wie steht es um das Nichts?”. La risposta alla domanda sul nulla.

Heidegger riprende l’indagine dal risultato fenomenologicamente raggiunto sinora: «Il nulla si svela nell’angoscia, ma non come ente, e tanto meno come oggetto. L’angoscia non è un cogliere il nulla. Tuttavia il nulla si manifesta in essa e attraverso di essa benché, daccapo, non nel senso che il nulla appaia separatamente “accanto” all’ente nella sua totalità, quale si presenta nella spaesatezza. Dicevamo invece: nell’angoscia il nulla viene incontro insieme [in eins mit] all’ente nella sua totalità».23

Il nulla non “annienta” l’ente (al posto dell’ente non c’è più niente), né siamo noi a negare l’ente per “guadagnare” alla fine il nulla (per elisione dell’ente). Su questo punto possiamo sottolineare la differenza tra la futura concezione sartriana del nulla e quella che qui viene formulata: per Heidegger il nulla non può essere un prodotto della libertà dell’uomo perché nell’angoscia noi stessi sprofondiamo assieme a tutto l’ente. Nell’angoscia l’ente nella sua totalità diventa hinfällig (“caduco”, vacillante, precario). 24

Note

16 M. Heidegger, Che cos’è metafisica? [Was ist Metaphysic?] p. 49
17 Ivi, p. 44 (107-108). Il concetto di “nulla” è uno pseudo-concetto se è costruito via negationis , cioè negando l’ente nella sua totalità. Si tratta di uno pseudo-concetto (come protestava Carnap) perché la totalità dell’ente non è mai empiricamente data e la sua negazione è un’operazione meramente intellettuale (o di fantasia). Un esempio di ripetizione acritica delle obiezioni di Carnap, per giunta strumentalizzate per propalare una forma di spiritualismo cattolico si trova nel recente libretto di Roberta DE MONTICELLI, Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Bollati Boringhieri 2006, pp. 45-85. Contro la tesi apologetica della De Monticelli si può però osservare che anche l’idea di Dio della “teologia negativa” è raggiunta via negationis – dunque tale idea di Dio rischia di valere tanto quanto uno pseudo-concetto.
18 Che cos’è metafisica?, pp. 44-45 (108).
19 Ivi, pp. 45-47 (109-110); cfr. anche il § 46 di Essere e tempo.
20 Ivi, pp. 48-49 (110-111). Sulla “noia profonda” cfr. il corso
Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit
[1929-30], GA 29-30, a c. di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, 1983 (tr. it. di Paola Ludovica Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il melangolo, Genova 1992); utile sarebbe un confronto fra questo tema heideggeriano e la “nausea” sartriana.
21 Che cos’è metafisica? , ed. cit., pp. 50-51 (111-112).
22 La fenomenologia poi non è ovviamente un “punto di vista” qualsiasi ma un’impostazione metodologica che ci si dovrebbe impegnare a smontare prima di criticarne i risultati.
23 Che cos’è metafisica?, pp. 52-53 (113).
24 Ivi, pp. 53 (113-114). In Heidegger l’impostazione fenomenologica si congiunge con una speciale sensibilità per le parole della lingua che usa, per cui ne deriva la capacità di esperire in maniera rinnovata ciò che la tradizione gli ha consegnato sotto forma di concetti ormai astratti (e questo era uno dei tratti che rendevano “magico” l’insegnamento di Heidegger per i suoi giovani studenti degli anni ’20, ai quali sembrava che lì la filosofia ridiventasse viva). In questo passo occorre saper scorgere nella “Hinfälligkeit” (caducità) dell’ente l’esperienza fenomenica della tradizionale e astratta “contingenza” (Zufälligkeit)

https://www.academia.edu/5305113/La_desistenza_dellessere_Che_cos%C3%A8_metafisica_e_Sullessenza_della_verit%C3%A0_di_Heidegger?email_work_card=view-paper

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Massimo Donà sul pensiero del filosofo Andrea Emo (1901-1983) – dio è nulla, perciò il mondo è –  Il passato e la memoria sono il regno di Dio – Nel passato… è l’unica sede dell’assoluto…

 

Andrea Emo fu un filosofo che scelse la via della “clausura” e dell’auto-esclusione dal mondo civile, un pensatore di grande profondità ed acume, oggi riscoperto e valorizzato, anche per la sua fibra “teologica”. Nato il 14 ottobre 1901 a Battaglia Terme in provincia di Padova, Andrea Emo fu il primogenito di un’antica e nobile famiglia di origine veneziano-patavina da parte di padre, e calabro-napoletana per parte materna. Nel 1938, Andrea sposò Giuseppina Pignatelli dei principi di Monteroduni, da cui ebbe due figlie, Marina ed Emilia. Allievo di Gentile, riuscì a costruire una sua figura di pensiero addensando appunti e note filosofiche e teologiche su centinaia di quaderni, che volle tenere rigorosamente inediti, una vera summa philosophiae ricca e sofisticata. Morì, dopo lunga malattia, a Roma, l’11 dicembre 1983. Al centro della filosofia di Emo campeggia quanto affermato in queste righe:

Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo moderno; quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell’attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all’assoluto? Ogni uomo ha bisogno dell’assoluto e pertanto il suo problema è questa partecipazione all’assoluto”.

In questo quadro teoretico, si inseriscono alcuni snodi filosofici che dilatano lo spazio del pensiero di Emo fino a farlo implicare con l’Incarnazione di Cristo e la “religione dell’individuo”. La persona è uno dei rovelli filosofici del filosofo e la critica radicale alle religioni secolari fondate su una falsa mistica del Collettivo, il comunismo in testa, fa da pendant a questa assunzione di partenza. Emo ha una mistica del rovesciamento del Sacro, da figura collettiva e socialmente stabilizzante, a sostanza della religione dell’individuo. Non esiste niente fuori di questa unicità soggettiva ed individuale, l’unica realtà da difendere, contro le chimere collettivistiche (qui Emo scaglia dardi acuminati anche contro lo Stato etico di Gentile), è il soggetto, l’individuo, ultimamente la persona (termini che il filosofo spesso usa come sinonimi). “L’individuo non può essere un dato; esso può essere solo un soggetto cioè una resurrezione”. “Ogni rinascita è spirituale”, dunque l’età moderna, secondo la prospettiva indicata da Emo, o sarà nuovamente religiosa, per parafrasare Malraux, o non sarà. Ci vuole una fede, questo è certo, osserva il filosofo, ma quale fede? Quale sarà la fede dei laici? Non potrà essere quella collettivistico-sociale, fallimentare e violenta; ma anche quella cristiana rischia di essere contraria alla libertà di coscienza, in special modo nell’alveo cattolico. “I cristiani sono nati sotto il segno dello scandalo”; ed oggi, nella Chiesa, che fine ha fatto questo scandalo originario? A questo punto, compiendo uno scarto evidente, Emo introduce il tema della libertà individuale, sganciandola completamente da qualsiasi legame, anche religioso-sacrale. L’uomo potrà essere finalmente libero solo uscendo da qualsiasi vincolo di fede e da qualsiasi forma di obbedienza ad ogni autorità ecclesiastica. Altrimenti siamo ancora nel pieno del totalitarismo collettivista, dal Leviatano comunista al Leviatano cattolico, ma cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. L’idea filosofica della libertà personale vive e cresce solo nell’intimo della coscienza. Ogni coartazione morale nei confronti della coscienza potrà soltanto essere, nel tempo, l’anticamera del totalitarismo. Nella fede ciò che è irriducibile è l’amore, poiché quest’ultimo si rivolge all’individualità personale, al “singolo”. Leggiamo un passaggio filosofico veramente importante:

Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l’elemento vergognoso è l’individualità pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione; l’individualità è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l’uniforme della società. Invano l’uomo (e la donna) credono di distinguersi con le vesti; e credono che la nudità sia uniformità. In realtà le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita di una nudità. La veste è orgogliosa della nudità che essa socializza”.

Emo rappresenta certamente uno scenario filosofico originale e seccamente interno ad una tensione teoretica che fa della persona la polarità positiva del mondo. Poi è anche vero che in Emo, almeno in questi quaderni del 1953, non troviamo una compiuta filosofia del Sacro né una teologia in nuce. E’ pur vero, in ogni caso, che un pensatore così vada seguito, con curiosità ed attenzione; è proprio da alcuni marginali individualisti che il novecento ha spesso ricavato nuova linfa vitale e lucida apprensione al vero.

Homo homini lupus si deve intendere nel senso che l’uomo è il lupo di se stesso.

foto ombre sfuggenti

I poeti riconducono le parole al loro valore primitivo

Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 359, 1973)

Nel passato… è l’unica sede dell’assoluto… (ché) il passato e la memoria sono il regno di Dio… e (solo) nel passato si manifesta l’assoluto che siamo

Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927-1981 (Quaderno 348, 1972)

Ognuno di noi ha continuamente bisogno di essere liberato da tutte le servitù a cui soggiace senza saperlo, a cominciare dalla servitù sotto il giogo del suo stesso io.

Andrea Emo, Quaderni di metafisica 1927-1981 (Quaderno 348, 1972)

Vi è una musicalità nelle idee, una musicalità nelle parole e nei versi, vi è perfino una musicalità nella musica (ma non già in tutte le musiche); una musicalità congiunta e diversa dai suoni e dalle melodie che gli strumenti esprimono e annunciano. Così vi è nelle parole, nei versi dei poemi (talvolta nelle prose) una musica sovrana e insieme tacita, che nessuno strumento musicale può riprodurre, che non può essere trasposta nella musica delle note, nella musica che si esprime senza parole. Essa è il ritmo con cui procede il secondo senso della poesia, quel senso che si diversifica dal senso grammaticale della poesia, dal suo discorso.

Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 238, 1961)

I poeti riconducono le parole al loro valore primitivo; le sottraggono ai banali riferimenti, sottraggono loro ogni fondamento. Gli assurdi fondamenti con cui tentiamo di giustificarle. Anche la parola, come l’immagine, trascendenza e insieme diversità, non può essere riferimento che al nulla, non può essere che la gloriosa coscienza del nulla.

Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 260, 1963)

Raramente si può tradurre in parole una musica o una pittura. Non si può tradurre in parole nemmeno una poesia; nemmeno una bella prosa si può tradurre in parole. La parola stessa è intraducibile in se stessa; essa vive e si illumina del proprio mistero. Noi traduciamo tutto nell’intraducibile.

Andrea Emo, Quaderni di metafisica (Quaderno 372, 1975)

Le più belle frasi sono le frasi musicali; forse le più belle fantasie amano diventare realtà come musica. Ma quale verità intraducibile in parole e concetti è narrata dalla musica? Né noi né la musica potremo mai saperlo. La musica ignora la propria verità, quanto più apertamente, potentemente, profondamente la dice. La verità emigra sempre in tutto ciò che la cela. Continua a leggere

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Paolo Valesio STORIE DEL TESTIMONE E DELL’IDIOTA (poesie inedite) con una interpretazione di Giorgio Linguaglossa

 

foto Le biglie [Paolo Valesio nasce nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia, 1979, La rosa verde, 1987, Dialogo del falco e dell’avvoltoio, 1987, Le isole del lago, 1990, La campagna dell’Ottantasette, 1990, Analogia del mondo, 1992, Nightchant, 1995, Sonetos profanos y sacros, 1996, Avventure dell’Uomo e del Figlio, 1996, Anniversari, 1999, Piazza delle preghiere massacrate, 1999, Dardi 2000, Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo, 2002, Volano in cento, 2002, Il cuore del girasole, 2006, Il volto quasi umano, 2009 e La mezzanotte di Spoleto, 2013. È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan, 1978, e Il regno doloroso, 1983; di racconti: S’incontrano gli amanti, 1993; di una novella, Tradimenti, 1994, e di un poema drammatico, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato nel 1993 e a Salerno nel 1997]

Premessa di  Paolo Valesio

  Approfitto della generosa ospitalità per presentare una breve sequenza di poesie tratte da una delle mie raccolte inedite (quella più vicina al completamento), il cui titolo per il momento è Esploratrici solitarie. Non è certo insolito il fenomeno per cui uno scrittore evoca l’apparizione improvvisa, fuori di ogni sua volontà e calcolo, di uno o più personaggi già essenzialmente formati. (È vero che queste apparizioni hanno luogo prevalentemente nei momenti genetici di opere narrative e teatrali —ma forse ciò accade perché l’idea del personaggio ha senso soprattutto in quei generi letterari; d’altra parte, per me come per altri poeti, una raccolta di versi comincia a prendere forma accettabile solo quando si struttura come un vero e proprio libro, cioè quando emerge in essa qualche cosa di affine al dramma o alla narrazione: dei personaggi dunque, e una trama; o anche solo l’uno o l’altro di questi elementi.)

 I due personaggi di questo libro non s’incontrano mai. (Se questo significhi che l’uno sia il “doppio” dell’altro, non so; ma so che questa idea mi ispira un sottile senso di paura.) I due sono apparsi lentamente (emergendo da una sorta di nebbia in cui è immersa la poesia che apre la serie, e il cui sottotitolo inglese non è gratuito: la sintassi di “dream poem” lascia ambiguo il legame fra i due sostantivi — sogno/poesia, poesia sorta in sogno, sogno di una poesia?). I personaggi sono venuti fuori da quella nebbia così lentamente e timidamente, che all’inizio sono stati respinti; ma essi hanno insistito, con parole sempre più chiaramente udibili, con caratteristiche sempre più riconoscibili nelle loro differenze, fino a rendere abituale, e in effetti indispensabile, la loro presenza.

 Per quel che posso giudicare, il Testimone è dei due il più austero e intenso, mentre l‘Idiota è più indifeso, poroso — più portato a esaltarsi in modo quasi ingenuo. Un paio di lettori del manoscritto in corso mi avevano esortato a lasciar perdere questo appellativo di “Idiota”, che troppo facilmente avrebbe potuto ritorcersi contro l’autore. Risposi che effettivamente all’inizio avevo sentito un certo disagio; ma con questo nome lui sì era presentato, e non mi sentivo di cambiarglielo per forza. Forse l’Idiota si aspettava che io riconoscessi in lui una genealogia letteraria — il personaggio che dà il titolo al grande romanzo di Dostoevskij (letto nell’adolescenza, esso influì sulla mia visione della vita, ma non lo rilessi più); dubito comunque, dato il suo temperamento, che egli abbia voluto coinvolgermi in qualche gioco letterario. Un altro lettore preliminare ha opinato che Idiota si riferisca piuttosto al suo etimo greco: l’uomo “privato”, singolo, semplice in opposizione all’uomo socialmente rilevante e agguerrito. E potrebbe anche darsi; ma tali speculazioni hanno senso solo fino a un certo punto. Il fatto è che queste due persone si chiamano così come si sono presentate, sono quello che sono, e si muovono a loro imprevedibile piacimento fra (per il momento) New Haven, New York e Bologna — le città del mio destino.

foto Il_settimo_sigillo

 Interpretazione di Giorgio Linguaglossa

  Nell’aforisma 30 del 1954, Andrea Emo scrive:

«Nessun principio è definibile e oggettivabile»1.

Il pensiero non può cogliere il principio, pena porlo come non-posto, dissolto nell’infinita catena delle mediazioni. L’Inizio è l’immediato. La dialettica paradossale e aporetica di Emo mostra l’inconcepibilità dell’Assoluto tramite le categorie logico-ontologiche non-contraddittorie, ma è anche una «chiave» che consente l’accesso ad un pensiero metafisico in grado di cogliere l’Assoluto attraverso il paradosso. L’Assoluto non è ponibile perché qualsiasi posizione di esso lo capovolge istantaneamente in altro, secondo una dialettica contraddittoria che può avere un antecedente significativo nella peritropè («capovolgimento» o «inversione») damasciana.2 Nel Principio, che Emo denomina anche «atto», o «attualità», tutto è identico perché tutto è Nulla: «nell’attualità l’essere e il nulla coincidono assolutamente»,3 nel senso che sono non soltanto simultaneamente uno, ma anche simultaneamente non-uno; si identificano, sono uno e non-uno, e,  in questo stesso atto, si distinguono e si oppongono.

Nel Nulla è il principio in quanto il principio è il Nulla che appare e si fa figura.

Il mondo per Emo «non è che il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto»;4 il quale, poi, a considerarlo più profondamente, si scopre anch’esso come un auto-negarsi nel suo stesso porsi, e come un porsi nel suo stesso negarsi.

Ecco un tratto nichilistico di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?».5

  Per la visione teologica cristiana invece il mondo

 è il risultato di un inverarsi dell’Assoluto, e la storia ha un senso, pur se occulto e nascosto, che si dispiega nel tempo lineare. Ed è qui che si situa la sorprendente interrogazione della poesia valesiana.

Per Paolo Valesio, un evento accade all’improvviso: un «testimone» e un «idiota» dialogano ciascuno sepolto nella propria solitudine. Una manifestazione che sorprende, che scuote, che appare «altra»; un evento oscuro, che fa subito luce. Ciò che fa intensamente pensare all’azione di una «potenza», di un «numinoso» . Ognuno di noi ne ha fatto esperienza e ne fa continuamente nell’ambito della vita quotidiana, ognuno di noi può testimoniarlo.

 Il Dio cristiano ha sostituito la tyche-dèa dei pagani, intesa come evento che rimanda sempre ad «altro». Il Dio cristiano è un evento che rimanda a sé. Nella concezione cristiana l’evento non è nudo ma ha il vestito che Dio gli ha consegnato. Scopo del poeta è quello di scoprire il vestito di Dio per il tramite del linguaggio umano. Particolarità e contingenza sono inscritte nell’evento per eccellenza che ha dato la svolta alla storia degli uomini: la crocifissione del Cristo e la sua resurrezione.

 Con il che il tempo ciclico si è aperto per introdurre l’uomo nella prospettiva escatologica e messianica dell’avvento del regno di Dio. Direi che entro questa cornice soteriologica si svolge il pensiero poetico di Paolo Valesio.  

Luigi Fontanella, Paolo Valesio Adriano Spatola

Primo piano, da sx, Adriano Spatola, Paolo Valesio, Luigi Fontanella anni Settanta

 Nel pensiero poetico di Valesio

 la facoltà discorsiva della poesia celebra il suo rito stilistico: nuda scarnificazione della frase e della parola e sfiducia nelle qualità estetiche della retorica.

L’unico modo per sfuggire a questa pesante ipoteca che inficia il pensiero discorsivo è che esso si faccia portavoce del mistero e del supplizio degli uomini, l’esistenza dei quali si inscrive tra la nascita, la morte e la resurrezione, dove la morte è bandita dal decreto individuale della fede.

 È entro questo quadro teologico-salvifico che si situa la poesia di Valesio. Il viaggio dell’uomo contemporaneo dunque non può essere altro che quello del «testimone e dell’idiota», con la «e» disgiunzione e congiunzione, «anello» debole della creazione tra il Tutto e il Nulla, il Nulla e il Tutto, essendo il nulla nient’altro che una labile intercapedine del Tutto. Continua a leggere

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LA NUOVA POESIA, Poesie inedite di Mario Gabriele, Mariella Colonna, Adeodato Piazza Nicolai, Giorgio Linguaglossa con Dialoghi e Commenti tra Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero, Mario Gabriele, Mariella Colonna, Giorgio Linguaglossa

foto selfie

Pinterest, foto pubblicità

Mario M. Gabriele
Un inedito

da http://mariomgabriele.altervista.org/inedito-mario-m-gabriele-2/#comment-26

Evelyn non svelò mai l’ultima carta,
e chi le chiese della sua vita rispose:
-everybody cries,
(tutti piangono)
-everybody hurts, sometimes-,
(tutti soffrono qualche volta).
Mancando il bersaglio per accecare la vita,
la Signora Timberlaine credeva che standomi accanto,
tornasse il sole. –Come Here!-,
disse Miss. Swedenborg, la principessa dei sogni.
-Solo con me puoi tornare alle notti di luna-.
-Ho timore, Madame, che tutto questo non basti-.
Settantasette volte sette fummo abbattuti dal vento.
Oh come è lontana la giada di Dalia!
L’eclissi copre New York,
aggiunge nero al nero su Edmund Wilson
chiuso nel suo sonno eterno.
Carolina ha cambiato epitaffio
da quando ha letto Spoon River.
E’ venuto Arturo con l’amuleto contro i woodoo
Il dottor Caronte traghetta con il Targin le anime
disabituate alla vita.
Profumi esalano dai comignoli.
Welcome agli anni che vengono e vanno
in questa Long Island di ricordi:
delicatissimo plumage nel sonno di primo rem,
quando come su un volo charter resti a metà respiro
e ti racchiudi nel sedile e bye bye,
si scende nel profondo, si va in libero volo
tra paure recidive e aritmie
e giù, giù, lo starter è pronto per l’ultimo embarquement.
Parigi dall’alto della torre Eiffel è vertigine e incanto.
À la maison de madame Gachet c’è l’Art Nouveau
con clocks, zodiac, calendar prints,
un berretto della rivoluzione d’ottobre,
vicino all’edizione di Fetes galantes di Pauvre Lilian
pubblicata da Lemerre, e poi pintores y escultores,
impressionist masterpieces
e un pezzo di Muro della Berlino di Willy Brandt.
Parigi è uno specchio del mondo:
un lungo racconto da Boule de suif di Maupassant.
Ma se passa di sera Margot,
t’accorgi che è un profumo di fresca fontana
dai boulevards a Saint –Martin-des Champs.

foto Adesivo-da-parete-Pop-Art-con-ritratto-femminile-LacucksGiorgio Linguaglossa
24 agosto 2017

Un giorno mi farò coraggio e chiederò a Mario Gabriele come inizi di solito una sua poesia. Sono convinto che lui proceda a random, come usava fare Mallarmé. Del resto, Mallarmé – confidò Valéry a Scherer – usava iniziare alcune poesie gettando delle parole sulla carta, qua e là, come il pittore getta dei tocchi sulla tela. Mallarmé in sostanza isolava una serie di parole-chiave sulle quali apprestava una sovrapposizione di messaggi semantici tali da fondere insieme il grammaticale, il sintattico, il lato metafisico, e perfino l’aspetto tipografico che assumeva, a volte, un ruolo determinante.
Nella poesia di Mario Gabriele le immagini sostituiscono le parole-chiave di Mallarmé, in quanto le immagini sono già delle «tavolozze» iconiche e semantiche già pronte all’uso e perché permettono una quasi infinita possibilità di giustapposizioni e di sovrapposizioni. Le immagini diventano così metafore, le quali garantiscono una semantica senza il bisogno di ricorrere ai giochi di rime e agli accoppiamenti fonosimbolici. In questo modo, la poesia diventa una serie continua di immagini-metafore dotate di intrinseca capacità semantica e fonologica, sono insomma dei significanti che consentono la «inserzione in una catena significante di un altro significante, per mezzo del quale quello ch’esso soppianta cade nel rango di significato, e come significante latente vi perpetua l’intervallo in cui un’altra catena significante può esservi innestata».1]

In tal modo, nella poesia di Gabriele si manifestano e si intrecciano due piani semantici, uno latente ed uno evidente, che entrano in competizione reciproca. Si manifesta, insomma, una vera e propria sintassi delle immagini, o delle serie di immagini, in competizione tra di loro con un andamento ondulatorio che vede ora il prevalere di una serie di immagini, ora il prevalere di un’altra serie, generando nel lettore un effetto continuo di sorpresa e di straniamento, una sorta di perpetua mobilità semantica delle icone allo stadio zero della significazione in quanto la sovra determinazione che si innesta sulle continue sovrapposizioni iconiche genera sul lettore un effetto moltiplicato…

Una poesia-tipo di Mario Gabriele, si presenta come una ininterrotta sequenza cinematografica di immagini che ingenerano nel lettore un sorprendente effetto labirinto, di sospensione e di interrogazione sul senso complessivo della poesia e del mondo. Sono le sfaccettature, i riflessi delle sfaccettature di quei polinomi iconici, i fuochi ellittici delle immagini che costituiscono il motore nevralgico della poesia di Gabriele che, condensata all’estremo, diventa un luogo di intersezione, giustapposizione e sovra determinazione di catene significanti, di fonemi, di sensi interrotti, di ritmi sincopati e deviati; vi si ritrova anche la dislocazione di metafora in metafora, altro procedimento tipico del linguaggio dell’inconscio, la sostituzione dei sostantivi ai verbi, lo spostamento del soggetto, la moltiplicazione dei soggetti, l’ellissi, passaggio dal fonologico al semantico, repentini cambi di marcia e di immagini etc. Ci troviamo, per la prima volta nella poesia italiana del novecento e di questi ultimi anni, di fronte al più vistoso e sorprendente effetto di deragliamento e di dislocazione di materiali iconici e semantici in febbrile omeostasi.

Linguaggio dei comics, tumblir, gif, pinterest, foto di scena di dive, spari di gangster, lacerti strappati e violentati della cultura alta e fotogrammi di fotoromanzi da telemarket, tutto commisto in una fantasmagoria del nulla e del vuoto della nostra civiltà…
È qui in azione il linguaggio dell’inconscio, se prendiamo per vero che la composizione della psiche umana è un qualcosa di stratificato, la poesia di Gabriele è una sorta di sonda immersa tra questi piani del linguaggio del subconscio e dell’inconscio. I compromessi, le collisioni iconiche e i paradossi sono tutti giocati sugli effetti a sorpresa, le ellissi, le elisioni, le omissioni, tutti spie di una grammatica inconscia: un vero e proprio inventario inesauribile. La poesia di Gabriele è arte del tempo, ma di un tempo senza direzione, il tempo dell’attualità, il tempo del presente esteso che agisce però in un modo differente dal tempo della poesia di Donatella Costantina Giancaspero, diversissime sono le procedure, ma entrambe si dirigono verso la cancellazione del verbo, l’azione verbale viene delegata ad un aggettivo con funzione verbale o ad un avverbio. Il participio svolge qui un ruolo importantissimo perché insieme al presente viene come spogliato del passato e ricondotto ad una modalità del presente…

«La funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione sull’asse della combinazione», dirà Jakobson.2] La poesia diventa diplopia di identità, reiterazioni, contrasti, riflessi iconici, entanglement, si sposterà dall’asse della metaforizzazione a quello della metonimia, tutti indizi retorici di un procedimento che sostituisce il tempo lineare unidirezionale della poesia italiana con un tempo che abita l’estensione del presente esteso, la durata dell’effimero, il tempo dell’attualità pura, il tempo dell’inconscio. Sarà la Persona dell’inconscio che «parla», non più un soggetto governatore e ordinatore del tempo. Gabriele tratta il significante come tratta il sogno o il motto di spirito o le sue metafore, come zattere che consentono lo scorrimento delle icone a velocità supersonica: il messaggio non figura, non si trova in nessuna «icona» ma in tutte quante messe assieme, suggerisce che non c’è messaggio, in primo luogo perché il messaggio si assottiglia e scompare lungo la via di fuga della catena significante, e poi perché la questione del messaggio è stata derubricata dal pensiero critico del novecento a semantema sospeso nel vuoto tra un significante e l’altro, quel vuoto occupato dal soggetto.

Il poeta con quel suo gioco alle tessere del mosaico in perenne costruzione, ci riconduce a quel luogo mitico, fuori della storia, dove nacque il linguaggio, in cui gli elementi significanti dis-connessi, diventano suscettibili di interventi modificatori seguendo la legge di condensazione e di dislocazione che abita nel preconscio…

1] J. Lacan Scritti, I Einaudi, 1974 p. 431
2] R. Jakobson, Saggio di linguistica generale trad. it. Einaudi, p.220

Gif Roy Lichtenstein POP Art

Roy Lichtenstein pop art

Giorgio Linguaglossa

Io, Cassandra

«Uomini, ascoltate, ve ne dò il segreto.
Io, la verità, parlo».

Lei, Cassandra, disse queste parole. Disse proprio
queste parole quando entrò nel bar;
ma nessuno le diede retta, anzi, nessuno
se ne accorse…

Voltò le spalle al muro e salì su uno sgabello.
«Uomini, ascoltate, ve ne dò il segreto.
Io, la verità, parlo».

Con meraviglia e stupefazione Cassandra
notò che nessuno le aveva dato retta.

«Wo Es war, soll Ich werden», disse in fretta,
sottovoce,
come per liberarsi di un peso; ma ormai era fatta,
si era liberata la coscienza di quel peso: l’aveva detto.
In qualche modo, l’aveva detto.

Roma, 25 agosto, 19.04

I, CASSANDRA

«Listen, men, I will give you a secret.
I, the truth, speak».

She, Cassandra, said these words. She spoke
these very words
when she came into the bar;
but no one listened to her, indeed, no one
saw her …

She turned her shoulders to the wall and climbed on a stool.
«Listen, men, I will give you a secret.
I speak the truth».

Surprised and stupefied Cassandra
noticed that no one had listened to her.

«Wo Es war, soll Ich werden», she quickly said,
sottovoce,
as if to free herself of a weight; but already it was done,
she had freed her conscience of that weight: she had said it.
In some way, she had said it.

[ Rome, August 25, 19.04]

 

© 2017 for the American translation by A. P. Nicolai of the poem
IO, CASSANDRA of Giorgio Linguaglossa. All Rights Reserved for the original and the translation

Mario Gabriele
24 agosto 2017

Caro Giorgio,

il vuoto poetico si placa solo recuperando i frammenti linguistici e fonosillabici, con tutti i “vari deragliamenti di materiali iconici e semantici in febbrile omeostasi”, che si aggregano e si annullano, come giustamente fai notare tu. Non è compito facile: è l’estrema risorsa per ridare alla parola un momento di riflessione e di ricostruzione, anche se alla fine la poesia è un’arte verbale in continuo movimento. Proprio oggi, con la pubblicazione della poesia dall’incipit Evelyn, apparsa qui su l’Ombra e su Altervista, assieme alla tua nota e al mio riscontro, ho voluto inserire alcuni testi di poesia civile, che sembrano spariti dai negozi linguistici, troppo affollati di iperplasia fonocellulare. Questo perché non si può dimenticare il passato nei suoi eventi storici, tanto da far dire a Claudio Magris e a Barbara Spinelli che il Novecento è stato il secolo ”ammalato di amnesia” e, che ha portato nel campo della poesia allo svilimento dei valori e alla parcellizzazione dei linguaggi, a uso e consumo dell’IO. Ci sono tanti motivi nazionali ed extranazionali che stanno veramente rivoluzionando il mondo e che possono essere presi ad esempio, senza fare retorica, anche con un linguaggio nuovo.

Lucio Mayoor Tosi
24 agosto 13.30

Evelyn: qui siamo alla maestria. Si riconoscono le campate dei versi, nati antichi ma come vintage. E la critica: abbiamo un bel dire che servirebbero altri criteri, ma intanto una cosa sappiamo: che la critica NOE può nascere solo all’interno della NOE. Può sembrare un estremismo, eppure com’è che ci capiamo anche nelle cose più complesse, nelle ricerche più azzardate, scientifiche e filosofiche? E’ una malia, un assoggettamento? No, basta notare l’ingresso di una poesia di Mario Gabriele; e sembra di essere in un bar, altro che in un salotto letterario! Un caffè? e la giornata scorre nel lungo inizio.

Gif Marilyn Monroe (1996) Roy Lichtenstein

Roy Lichtenstein Marilyn pop art

londadeltempo
24 agosto 2017

Mario Gabriele: una vera rivoluzione espressiva compiuta con “passo felpato”, con andamenti eleganti da felino del linguaggio, sempre con l’abituale classe dello stile mitteleuropeo con sfumature di american style!
Grande Mario Gabriele, hai ispirato un pezzo di critica a Giorgio altrettanto grande!!! Siete fantasmagorici, cari maestri di NOE, MERAVIGLIOSAMENTE DENTRO LE VOSTRE IDEE! Non posso non riscrivere la poesia di Mario, commentandola, mi ha emozionato perché, nella sua eleganza equilibrata e incandescente, da parola a parola, riesce a velare le emozioni attingendo a quella che chiamerei “la vera classe nel fare poesia”, creando con le parole una sorta di imprevedibile fiore cosmico: (e la stessa cosa penso del commento critico di Giorgio a Mario Gabriele, poi ne parlerò).
Quindi:

“Evelyn non svelò mai l’ultima carta,
e chi le chiese della sua vita rispose:
-everybody cries,
(tutti piangono)
-everybody hurts, sometimes-,
(tutti soffrono qualche volta).
Mancando il bersaglio per accecare la vita,
la Signora Tiimberlaine credeva che standomi accanto,
tornasse il sole. –Come Here!-,
disse Miss.Swedenborg, la principessa dei sogni.
-Solo con me puoi tornare alle notti di luna-.
-Ho timore, Madame, che tutto questo non basti-.
Settantasette volte sette fummo abbattuti dal vento.”

ECCO due splendidi ritratti di signore e uno visto sullo sfondo: Evelyn pallida, vestita in grigio pallido, che non rivela indirettamente il proprio doloroso sentire (il poeta prova tenera ironia), ma teneramente vuol essere compatita e lo è, ironicamente; Miss Swedenborg (come si sente la cultura vasta e ben assimilata nella scelta dei nomi!) “principessa dei sogni” (come fai, Mario, a realizzare questi perfetti MIX di tenerezza e ironia?. ..la principessa dei sogni traccia rapida il ritratto sullo sfondo: quello della signora Timberlaine, che sente, nella solare Miss Swedenborg, un’energia vitale capace di riscaldarla, di farla rinvenire da uno stato di tedio e di malinconia, ma lei, la principessa, pensa alle notti di luna (e continua a sognare).

Purtroppo un impeccabile freddo cavaliere la risveglia alla realtà: il vento abbatte i sogni con una percentuale di probabilità alta, la cui misura è tratta dal linguaggio del Vangelo.
Poi si legge di tutto, con una progressione “meteorica” e post-emblematica che va dall’ “eclissi sopra New York” a “Parigi specchio del mondo…con il profumo serale di fresca fontana quando passa di sera Margot. C’è Carolina che cambia epitaffio da quando a letto l’Antologia di Spoon River, Caronte che traghetta le anime “disabituate alla vita”, il poeta dà il benvenuto agli anni che vengonoevanno come in un volo charter quando restiametàrespiroeti racchiudintestesso e byebyesiscendenelprofondo. Il volo pindarico (ehi…è Mario Gabriele!) passa dal volo charter alla Torre Eiffel, da dove Perigi è vertigineincanto. Rileggete: una vera meraviglia di sequenzesensazionievocazionieventipercezioni!

“Oh come è lontana la giada di Dalia!
L’eclissi copre New York,
aggiunge nero al nero su Edmund Wilson
chiuso nel suo sonno eterno.
Carolina ha cambiato epitaffio
da quando ha letto Spoon River.
E’ venuto Arturo con l’amuleto contro i woodoo
Il dottor Caronte traghetta con il Targin le anime
disabituate alla vita.
Profumi esalano dai comignoli.
Welcome agli anni che vengono e vanno
in questa Long Island di ricordi:
delicatissimo plumage nel sonno di primo rem,
quando come su un volo charter resti a metà respiro
e ti racchiudi nel sedile e bye bye,
si scende nel profondo, si va in libero volo
tra paure recidive e aritmie
e giù, giù, lo starter è pronto per l’ultimo embarquement.
Parigi dall’alto della torre Eiffel è vertigine e incanto.
À la maison de madame Gachet c’è l’Art Nouveau
con clocks, zodiac, calendar prints,
un berretto della rivoluzione d’ottobre,
vicino all’edizione di Fetes galantes di Pauvre Lilian
pubblicata da Lemerre, e poi pintores y escultores,
impressionist masterpieces
e un pezzo di Muro della Berlino di Willy Brandt.
Parigi è uno specchio del mondo:
un lungo racconto da Boule de suif di Maupassant.
Ma se passa di sera Margot,
t’accorgi che è un profumo di fresca fontana
dai boulevards a Saint –Martin-des Champs.”

E adesso una parola sul commento di Giorgio Linguaglossa, vero capolavoro d’interpretazione creativa di un testo altrettanto sorprendente. Non posso aggiungere una parola in più a quanto ha detto Giorgio L., forse avrei fatto meglio a tacere, ma l’entusiasmo è stato travolgente. Risentiamolo:
“Ci troviamo, per la prima volta nella poesia italiana del novecento e di questi ultimi anni, di fronte al più vistoso e sorprendente effetto di deragliamento e di dislocazione di materiali iconici e semantici in febbrile omeostasi.
Linguaggio dei comics, tumblir, gif, pinterest, foto di scena di dive, spari di gangster, lacerti strappati e violentati della cultura alta e fotogrammi di fotoromanzi da telemarket, tutto commisto in una fantasmagoria del nulla e del vuoto della nostra civiltà…” Tanto di cappello.
Anche gli altri poeti che oggi hanno pubblicato: il postmoderno e originalissimo Gino Rago:

le parole che negano
“…Sensazioni e idee della durata eterna.
I cenci e gli stracci. Le velature.
Gli impasti. Le ombreggiature. I merzbilder.
I sacchi vuoti. Ma più pieni degli uomini vuoti.
Il ritorno an den Sachen selbst del poeta nuovo
Lascia in eredità l’arte del no finalmente libero
Contro il sì obbligato di Ferramonti e Belsen.”
E in Lucio Mayoor Tosi
“l’inquietudine dell’universo-leggedell’entropia” come dice Linguaglossa?:
nell’ “Apocalisse” di Lucio Mayoor Tosi?:
Apocalisse.
Come si sta nell’universo al mattino? Che si fa?
Il grigio tormento di un verso attraversa il cortile.
Inossidabile. Giace la rana sepolta dai diserbanti
le spire del vecchio serpente si rilasciano nell’acqua
tiepida di agosto. Il tempo precipita nelle cave
su Andromeda. Segnali di luce, mattini come perle
quando passa l’onda sui frammenti. E mancano i volti.
Il tempo precipita nelle cave su Andromeda: poesia del futuro.
“Segnali di luce, mattini come perle
quando passa l’onda sui frammenti”: poesia dell’anima, di sempre.
Complimenti, Lucio!
Molto intensa e nuova anche “Mattino d’origine” di Gabriella Cinti!!!!
Un abbraccio a tutti.

(Mariella Colonna)

Gif pop art tumlir

Mario Gabriele
24 agosto 2017 alle 18.52

Carissima Mariella,
conoscevo il tuo carotaggio critico sul mio testo “La casa degli anni Quaranta”, dove hai esposto, rigo dopo rigo,il percorso poetico. Ora con la mia Evelyn hai raggiunto l’Everest, come lo sherpa Giorgio Linguaglossa che conosce vette vicine all’ecosfera. Mi piace il termine che usi, ossia l’American Style, corpo e anima dei miei testi, dove la onomastica, già citata da Letizia Leone, recensendo “L’erba di Stonehenge”, e la toponomastica, sono riferibili ad un trapianto linguistico di tipo anglosassone, con la semiologia della ritrattistica di altre culture negli ambiti extraletterari: scultura, pittura, cinema e tante altre scheggiature del nostro tempo. Tu sai scardinare dalla metafora le figure femminili dando il giusto transfert, e lo fai con l’acquisizione di estrazioni psichiche tipo Freud e Jung. Ma ciò che mi sorprende è la costanza nello scavare a fondo la traccia occulta di ogni poeta. Noto con piacere che anche tu hai un tempo anglosassone e uno legato alle tue esperienze esistenziali. E questo è già un dono,una proiezione del divenire poetico, che certamente avrà un ruolo nella NOE. Con l’occasione, ringrazio anche Lucio, sempre sulle corde critiche di ampio sound.

londadeltempo
24 agosto 2017 alle 23.56

Ho dimenticato di citare queste parole dal commento di Giorgio Linguaglossa
“…In tal modo, nella poesia di Gabriele si manifestano e si intrecciano due piani semantici, uno latente ed uno evidente, che entrano in competizione reciproca. Si manifesta, insomma, una vera e propria sintassi delle immagini, o delle serie di immagini, in competizione tra di loro con un andamento ondulatorio che vede ora il prevalere di una serie di immagini, ora il prevalere di un’altra serie…”
I due piani semantici “uno latente ed uno evidente” racchiudono il segreto di ogni poesia che sia poesia: è dal gioco dei due piani che si sviluppano metafore, allegorie, analogie, contraddizioni segniche, effetti-specchio, costellazioni di significati: ed è l’ambiguità della parola a permettere questo magico gioco che afferra frammenti e schegge di realtà ancora sconosciuta e ci avvince nella ricerca e scoperta degli universi della parola..
Grazie Giorgio!

londadeltempo (Mariella Colonna)
24 agosto 2017

E adesso tocca a me:
Luce bambina sulle colonne del tempio
e cielo azzurro come gli occhi di Dio.
Questa è la patria del poeta.
Mille cavalli neri nel deserto d’ambra.
E un cavallo bianco per me,
voglio tornare all’infanzia.
Questa è la patria del poeta!
Einstein passeggia sopra una nuvola rosa
il mio cuore galoppa insieme ai cavalli
ma invece del deserto ora c’è il mare.
Il cavallo bianco esce dalla finestra:
(sullo sfondo c’è il mare)
Evelyn, personaggio di Mario Gabriele
adesso entra nella mia poesia
“perché” dice “non è opportuno
che una signorina resti sola nella poesia di un uomo…
sì, sola, io a tu per tu con il cuore di un poeta!
Miss Swedenborg e “la principessa dei sogni” mi hanno lasciato
sola, sono andate…ad un concerto di Vasco Rossi!”
poi si rivolge a me: “Mario ci ha presentate
nella sua ultima creazione poetica, ricorda?”
“Sì, certo! E’ un vero piacere, Evelyn, io sono Mary”
“Grazie…però senti…preferivo entrare
in quella poesia di Giorgio Linguaglossa
dalla finestra aperta…quella poesia
Mi piace di più della tua…e poi
questa volta voglio essere io il corvo!”
“Ma sì, vai…sei libera!” “Allora vado”
Evelyn tace, volta le spalle, apre le ali nere,
esce dalla finestra. “Sono contenta che Evelyn sia volata via”
dice una sopravvenuta bella donna
vestita cn una tunica bianca. Prendo io il suo posto”
“Ma prego, entra pure, entrate tutti: questa è casa vostra!”
“Hai ragione, questa è casa mia!”
Ma tu chi sei?” le chiedo. Non risponde.
Denuda i turgidi seni. “Nutriti qui”
Si avvicina, mi attacco ad un capezzolo.
“Ambrosia è il tuo nutrimento, Poesia!”
Sotto un candido arco, leggera, passa una nave bianca.
Questa è l’Arca della NOE, la patria dei poeti!
gridano Gino Rago e Lucio Mayoor Tosi.
Sulla nave c’è tutto quello che resta del passato:
reperti archeologici, rovine di Roma antica, Aristotele
“I promessi sposi” e la scatoletta di Manzoni
gli stracci e i pneumatici usati.
Questa, oggi, è la Patria del poeta,
in versi liberi! E io sono tornata bambina.
(sullo sfondo c’è il mare)

*

And now it’s my turn:
Light little girl on the columns of the temple
and a blue sky like the eyes of God.
This is the homeland of the poet.
A thousand black horses in the amber desert.
And a white horse for myself,
I wish to return to my childhood.
This is the homeland of the poet!
Einstein is walking above on a rosey cloud
my heart gallops besides the horses
but instead of the desert now there is the sea.
The white horse exits from the window:
(the sea is in the background)
Evelyn, personage belonging to Mario Gabriele
also enters my poem
“because” he says “it is not right
that a miss stays alone in a man’s poem…
yes, alone, you and I face to face with a poet’s heart!
Miss Swedenborg is “the princess of dreams” they left me
alone, they went … to a concert by Vasco Rossi!”
Then he turns to me: “Mario had introduced us
In his last poetic creation, remember?”
“Yes, sure! It is a real pleasure, Evelyn, I am Mary”
“Thanks . but listen … I preferred to enter
inside that poem by Giorgio Linguaglossa
through the open window … that poem
I liked more than your own … and then
this time I want to be the black crow!”
“Ok, go ahead…you are free!” “So I will go”
Evelyn shuts up, turns her shoulders, spreads the black wings
goes out of the window. “I am glad that Evelyn flew away”
says a justly arrived noble lady
dressed in a white tunic. “I will take her place”
“But please, come on in, all of you come in: this is your home!”
“You are right, this is my home!”
“But who are you?” I ask her. She does not answer.
She offers her swollen breast. “Drink here”
she comes near, I suck from one of her nipples.
“Ambrosia is your nourishment, Poetry!”
Light under a candid arch passes a white ship.
That is the ark of NOE, homeland of the poets!
Howl Gino Rago and Mayoor Tosi.
On the ship there’s all that is left of the past:
archelogical reperts, ruins of ancient Rome, Aristotle
the “Promessi sposi” and Manzoni’s tiny box
rags and used car tires.
This, today, is the Homeland of the poet,
In free verses! And I became again a little child.
(the sea is in the background)

© 2017 American translation by A. P. Nicolai of the poem LONDADELTEMPO of Mariella Colonna. All Rights Reserved by the original author and by the translator

 

Gif Malika Favre 2

Giorgio Linguaglossa
25 agosto 2017 alle 15.03

Cara Mariella,
leggevo questi tuoi versi:

Evelyn, personaggio di Mario Gabriele
adesso entra nella mia poesia
“perché” dice “non è opportuno
che una signorina resti sola nella poesia di un uomo…

E poi questi altri che rivelano una forza fantastica straordinaria:

“Mario ci ha presentate
nella sua ultima creazione poetica, ricorda?”
“Sì, certo! E’ un vero piacere, Evelyn, io sono Mary”
“Grazie…però senti…preferivo entrare
in quella poesia di Giorgio Linguaglossa
dalla finestra aperta…quella poesia
Mi piace di più della tua…e poi
questa volta voglio essere io il corvo!”

Qui di straordinario c’è che tu «confondi» personaggi reali (io, Mario, tu) con i personaggi delle loro poesie (Evelyn, Miss Swedenborg, il «corvo»), con certe situazioni che si trovano in altre poesie («la finestra aperta»), a generare un senso di comunanza fratellanza e anche di coappartenenza, tu prendi tutto da tutti perché hai una dote rarissima: quella di non pavoneggiarti mai nel narcisismo dell’io e nella sostenutezza dei poeti letterati i quali sono notoriamente stitici ed alieni dall’ ammirare le opere altrui. Tu, invece, hai questa dimestichezza con la leggerezza e un altruismo che ti rende poeta unica. Nella tua poesia c’è aria di libertà, una sfrenata libertà, la leggerezza della ingenuità (solo i veri ingegni sono ingenui!), c’è quella ironia che non vuole canzonare nessuno, che non si ammanta di un’aria di superiorità ma che vuole accompagnare il teatro del mondo con tutte le sue commedie, risibili e grottesche e tragiche…

25 agosto 2017 alle 8.37
Adeodato Piazza Nicolai
COHELET e VERMEER

Oh, la nera bellezza del tuo cantare, Qohelet!
Piove e piove ininterrottamente da giorni
e questa è una notte ancora più cupa,
tutto inghiottito da compatta tenebra:
annuncio e figura dell’altra Notte che viene? [1]
Mostro della luce, Vermeer, sempre nella stessa stanza
dove invita le sue modelle, le posiziona, mette a fuoco
la luce che filtra dalle tre finestre, poi dipinge, dipinge.
Il pennello fotografa soggetti, i suoi occhi accarezzano
gli altri occhi, la pelle ruvida, rosata, incarnadina. Oggetti
e soggetti con sfondi creati dalla sua mente. Non mente
il pennello. Guarda, apprezza, riscopre se stesso nei suoi
personaggi riconosciuti da altre vite, da vecchie e cancellate
forse sublimate situazioni. Vermeer, jazzista di luci e colori
sfiorati nel ghetto e depositati con tenera-ruvida bellezza
sulle ragnatele del tempo/non tempo ora sbiadito. Ecco
la sua folle magia. Qualche critico moderno ha dichiarato
che i suoi dipinti peccano di staticità. Forse intendeva
di elettricità: ogni scatto fissato su tela, su carta su cera
pecca di staticità, mio caro signore! Nei suoi ritratti
le donne fanno le cose quotidiane e lui le dipinge, dipinge.
Passano gli anni, lui se ne va nell’oltranza forse mai prima
svelata o dipinta. Negli atelier, musei, pinacoteche, nelle
stanze private dei collezionisti vivono ancora le sue colorate visioni.
Qual è il segreto,
il suo mistero? Indescrivibile, irriproducibile la qualità di
quella luce. Fotografi e pittori moderni hanno tentato, cercato
sognato di riprodurla ma senza fortuna. La luna resta sempre
la luna: lo scatto matto non la ricrea, la copia solamente.
“La ragazza con gli orecchini di perla” e quella con il cappellino
rosso forse con lui hanno affossato una relazione amorosa?
Nessuno lo saprà. Amore sbocciato con la prima pennellata…
Lei guarda un po’ persa fuori dalla finestra, lui entra dentro
quegli occhi grigio-verdi e lì ci resta assopito per tanto tempo,
possibilmente per sempre.
Luce è vita raccolta su tela anche se fuori sfarfalla la neve …

Gif Malika Favre 1

Donatella Costantina Giancaspero
25 agosto 2017 alle 14.25

Non posso che associarmi a quanto hanno egregiamente detto Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Lucio Mayoor Tosi sul testo di Mario Gabriele, che, a mio parere, rappresenta un importante esempio di scrittura per tutti noi. Difatti – come rileva Giorgio – in questi versi “Ci troviamo, per la prima volta nella poesia italiana del novecento e di questi ultimi anni, di fronte al più vistoso e sorprendente effetto di deragliamento e di dislocazione di materiali iconici e semantici in febbrile omeostasi”. Mario Gabriele adopera le tecniche usuali in maniera estremamente innovativa, “con una inventiva senza eguali e un giudizio semantico irripetibile”. A volte, c’è da restare sbalorditi di fronte a tanta (invidiabile) perizia.
Ora, entrando nel merito del testo in senso stretto, vorrei esprimere una mia piccola opinione: può darsi che non sia necessario tradurre i versi “everybody cries” e “everybody hurts, sometimes”… Io credo che stiano bene solo in inglese. Ad ogni modo, sarà l’autore a decidere.
Grazie a tutti per i commenti!! A presto…

Mario Gabriele
25 agosto 2017 alle 15.52

Cara Donatella Costantina,
ho letto con molto piacere il tuo commento, ma non per sentirmi sull’altare. Hai recuperato dalla lettura di Evelyn ciò che nasconde e propone il sottofondo della mia scrittura, assorbita con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016), e con molte altre geografie poetiche da Le finestre di Magritte. I versi “Everybody cries” e “every hurts, sometimes”, possono stare bene anche da soli. Ma lasciandoli così, i lettori non vi si riconoscono con “tutti piangono” e “tutti soffrono qualche volta”. Certamente mi sarebbe piaciuto, come ho fatto in altri testi, lasciarli nella lingua inglese. Ma qui ho voluto dare un tocco umano più istantaneo. Linguaglossa nel suo ampio commento critico scrive: ”Un giorno mi farò coraggio e chiederò a Mario Gabriele come inizi di solito una sua poesia”. Bene! Non mi propongo di esercitare il copyright e tenere il mio segreto.

Tutto sta (e qui mi avvicino a quanto successivamente scrive Giorgio), ad una procedura a random. Il primo verso deve avere una struttura ad effetto. Poi mi capita di lasciare il tutto e girare per la casa. Stare sul balcone osservando l’esterno, mentre passano le sirene dell’autoambulanza e un down fa fatica a manovrare la carrozzella. Memorizzo. Ritorno al computer, rileggo il primo verso. Lo arricchisco di nuovi strati, tra tempo presente e passato, immagini, resurrezioni di fantasmi La mente poi si ferma. Allora leggo il giornale. E se poi nulla trasale spengo il computer, per riaccenderlo subito dopo per chissà quale oscura manovra da parte dell’ inconscio. E qui, una volta che divento sua pedina, trascrivo e riporto ciò che ho imparato dopo 44 anni di esercizio poetico. Non è tutto, anche perché gli strumenti operativi sono moltissimi e di diversa provenienza. Non so se sono stato esauriente, ma la tecnica credo sia questa. Un cordiale saluto e buon lavoro dentro l’Ombra e nei Caffè letterari.

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Per una ontologia relazionale – Poesie di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mariella Colonna – Dialogo tra Franco Campegiani e Giorgio Linguaglossa – La verità ha valore posizionale, il nichilismo è la posizione delle posizioni della nostra epoca – La nuova poesia ontologica è riflessione sul nulla – La verità è diventata posizionale

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mario M. Gabriele
2 agosto 2017 alle 12:23

Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz, e I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze all’Harmattan.

Entra nel mio cuore e restaci come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare, né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares con il cane,
e Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.

Lucio Mayoor Tosi
2 agosto 2017 alle 12:33

Be’, allora io ne metto una breve breve:
Caroline.
Io e te siamo specchi riflettenti emozioni diverse
e fuori sincrono.
Per un po’ saltiamo nello stomaco dell’altro.
L’altro che si sta genuflettendo.
Così trascorriamo il tempo nella stazione orbitale
Caroline.

Mariella Colonna

Carolyn è una creatura perfetta:

alta, mora, carnagione compatta, aria sognante.
Gli alberi si piegano al suo passare,
la sfiorano con i rami, lei, occhi profondi
guarda lontano il mare e il mare guarda lei…
i sospiri delle onde richiamano il vento.
Rintocca il mezzogiorno con il suono delle campane
a Beaulieu sur mer.
Carolyn non sa che nel lontano Afghanistan
un soldato americano sogna il suo corpo
le lunghe gambe, la vita sottile, gli ondosi capelli.
Il soldato non sa che, dentro quel corpo perfetto,
gravitano mondi e ampi spazi sono attraversati
da neutrini e microparticelle.
Neppure Carolyn lo sa. E ignora che il suo cuore
ha un numero molto molto grande ma limitato
di battiti e che un giorno, come tutti,
anche lei dovrà morire.
Per questo Carolyn è felice di esistere
e il soldato felice di sognarla
anche se non la conosce. L’ha immaginata
e non sa che esiste davvero…
Troppe cose si sanno, troppe non si sanno.
Chissà, forse le sa Marianita, la cubana
che fa le carte per 50 centesimi.

foto Birra

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Giacomo Leopardi – Il pensiero filosofico e poetico del recanatese nelle letture della nuova ontologia estetica e di Emanuele Severino – a cura di Giorgio Linguaglossa

Congresso di Vienna

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Digital art (l’ente)

Giacomo Leopardi nella lettura della «nuova ontologia estetica»

Non c’è dubbio che il pensiero e la poesia di Leopardi siano usciti fuori dell’orizzonte di lettura delle ultime quattro decadi della cultura poetica italiana. La poesia italiana si è mostrata reticente e restia ad affrontare l’eredità poetica del recanatese e a ricollegarla alla sua filosofia critica; il recanatese è così diventato un grande estraneo, uno scomodo e ingombrante poeta pensatore, ad avviso di Severino il più grande pensatore degli ultimi due secoli. Addirittura, di recente una poetessa alla moda lo ha inserito tra i poeti «minori».
La «nuova ontologia estetica» ritiene invece che occorra al più presto rimettere Leopardi nel posto che gli spetta, come il primo e più grande poeta pensatore europeo che pensa la crisi come un complesso di enti dileguantensi nel nulla. Il pensiero poetante che si esplica in una poesia è l’ente dotato di autocoscienza. La nuova poesia europea dunque parte da Leopardi. La «nuova ontologia estetica» si è occupata a più riprese del «problema Leopardi», e ha rimesso al centro della propria ricerca la questione dell’ente, e quindi la questione del nichilismo nella sua fase attuale di sviluppo e del peculiarissimo «stato psicologico» proprio della nuova poesia ontologica. In questa accezione, la NOE non poteva non occuparsi della critica del recanatese alla civiltà del suo tempo e si è mossa in direzione della fondazione di una nuova poesia ontologica che ripartisse da una critica radicale dell’economia estetica e filosofica degli istituti stilistici del secondo novecento e dei giorni nostri. Ma già parlare di «istituti stilistici» significa dimidiare e fuorviare la impostazione che la «nuova ontologia estetica» dà dell’ente. La «nuova poesia» è quell’ente che designa lo stadio attuale degli altri enti ricompresi nell’orizzonte della crisi che quegli enti impersonano e prospettano. Direi che l’apertura prospettica verso gli altri enti è l’aspetto fondamentale della «nuova poesia ontologica», ente prospettico per eccellenza.

Occorre porre un alt all’economia curtense delle ultime decadi del pensiero poetico italiano. La «nuova ontologia estetica» col suo rimettere in piedi la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia intende riprendere, per reinterpretarla in base alle mutate esigenze della odierna età della tecnica, la lezione del grande recanatese.

Testata azzurra

grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Porre la poesia sullo zoccolo di una nuova ontologia,

è questa la chiave di accesso che usa Leopardi per attraversare i linguaggi petrarcheschi degli ultimi secoli della poesia italiana e ristrutturarli in un linguaggio poetico integralmente espressivo che nulla concedesse alle sinapsi petrarchesche della tradizione italiana.
Concordo con quanto sostenuto da Emanuele Severino sul «pensiero» di Leopardi. Il filosofo italiano legge il recanatese come il primo poeta filosofo del nichilismo, colui che si è posto come critico radicale dell’«età della tecnica». Il recanatese scopre che l’assunto fondamentale dell’età della tecnica è il nichilismo, quel pensiero soggiacente, non detto, dell’Occidente, quel «solido nulla» che costituisce il reale inteso come esito transitorio, passaggio di un ente dal nulla al nulla. Cioè nichilismo.
Leopardi nel Dialogo della Natura e di un Islandese, scrive: «La vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento».1]

Leopardi pensa il divenire in termini ontici e ontologici,

poiché fa coincidere il divenire con la storia degli uomini e la loro infelicità nel dolore. Il pensiero poetante per sua natura non ha semplicemente il ruolo di rilevare il senso ultimo dell’ente e di porgerlo all’uomo, il pensiero poietico è un pensiero fondante, un pensiero che dà la misura del mondo, fonda gli ambiti di comprensione dell’ente visto nel divenire come permanente produzione e distruzione dell’ente. Leopardi affida alla poiesis un compito arduo ed estremo, quello di porgersi in posizione di ascolto dell’ente.
È ovvio che un pensiero così abissale non poteva e non può essere accettato dalla poesia italiana del tardo novecento, rimasta sostanzialmente petrarchesca, scettica, acritica, conformistica e priva di un pensiero filosofico.

Testata politticoIl problema è che «Non si dà la vera vita nella falsa»,

così hanno sintetizzato e sentenziato Adorno e Horkeimer ne la Dialettica dell’Illuminismo (1947), in un certo senso contrapponendosi nettamente alle assunzioni della analitica dell’esserci di Heidegger, secondo il quale invece si può dare l’autenticità anche nel mezzo di una vita falsa e inautentica adibita alla «chiacchiera» e alla impersonalità del «si». Il problema dell’autenticità o, come la definisce Kjell Espmark, l’«esistenza falsificata», è centrale per il pensiero e la poesia europea del Novecento. Oggi in Italia siamo ancora fermi al punto di partenza di quella staffetta ideale che si può riassumere nelle posizioni di Heidegger e di Adorno-Horkeimer i quali, nella loro specularità e antiteticità, ci hanno fornito uno spazio entro il quale indagare e mettere a fuoco quella problematica. La poesia del Novecento europeo ne è stata come fulminata, ma non per la via di Damasco – non c’era alcuna via che conducesse a Damasco – sono state le due guerre mondiali e poi l’ultima, quella fredda, combattuta per interposte situazioni geopolitiche, a fornire il quadro storico nel quale situare quella problematica esistenziale. Quanto alla poesia e al romanzo spettava a loro scandagliare la dimensione dell’inautenticità nella vita quotidiana degli uomini dell’Occidente.

«Il secol superbo e sciocco»

Il pensiero filosofico di Giacomo Leopardi mette a nudo la realtà dello stato di cose presente in Europa scaturito dal Congresso di Vienna (1815). Il problema intravisto dallo sguardo acutissimo di Leopardi è il fondamento minaccioso del «nulla», del «niente» che sta alla base della costruzione della civiltà europea. Questo pensiero, sconvolgente per la sua acutezza e per l’anticipo di settanta anni con il quale viene formulato prima di Nietzsche, ci fa capire la grande potenza del pensiero filosofico di Leopardi, il suo aver percepito con estrema chiarezza, in anticipo sul proprio tempo, che il presente e il futuro dell’Europa sarebbe stato il Nichilismo. È un risultato sconvolgente quello cui giunge il pensiero di Leopardi se pensiamo che ancora oggi siamo all’interno delle determinazioni che l’età del nichilismo riserva al pensiero europeo dopo Heidegger. Il pensiero debole di Vattimo e il pensiero parmenideo di Emanuele Severino si muovono nell’orbita tracciata a suo tempo dal filosofo di Recanati. E, probabilmente, la civiltà europea dovrà anche nel futuro fare i conti con il pensiero filosofico di Leopardi, d’altronde espresso con una chiarezza e precisione lancinanti.

Rispetto al pensiero dell’Illuminismo, Leopardi fa un passo indietro, ritorna al pensiero dei greci, mette a punto l’apparato categoriale che gli serve per scoprire e mettere a nudo la vera essenza della civiltà europea. «Il secol superbo e sciocco», che credeva a quell’800 romantico ed idealista, e credeva nelle «magnifiche sorti e progressive», viene irriso dal poeta di Recanati il quale si cimenta in un pensiero che riparte dal punto zero, dal pensiero di un «corpo» che si muove nel «nulla», fonda il modo di pensare ontologico della civiltà europea. Il paradiso della civiltà della tecnica è destinato all’angoscia, in quanto la logica della scienza sulla quale esso è fondato è una logica che poggia la sua costruzione su ipotesi auto evidenti, sprovviste però di fondamento nell’épisteme su una verità immutabile e definitiva. Questa suprema felicità che il paradiso della tecnica può dare all’uomo sarebbe quindi, in ultima istanza, una felicità effimera, precaria, falsa e falsificabile. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa Appunti sul Nichilismo – con due poesie inedite: Il bacio è la tomba di Dio, di Giorgio Linguaglossa e Frammenti per Sally, di Lucio Mayoor Tosi, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Foto di Evgenia Arbugaeva, Weather man, Siberia, la Torre

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

Giorgio Linguaglossa

Appunti sul Nichilismo

Nietzsche definiva il nichilismo il processo di «svalutazione dei valori finora supremi»,

i quali soli  conferiscono all’ente il suo «valore». «Unospite inquietante» lo definiva Heidegger. Diceva del nichilismo, che ormai è impossibile «metterlo alla porta», e invitava a «guardarlo bene in faccia». Nietzsche osava affermare di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé».

Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzitutto Heidegger. Dalla metà degli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente Nietzsche (1961), Heidegger individua nel nichilismo la traiettoria dell’Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari ottocenteschi, ma fin dalle origini greche.

Il concetto di nichilismo assurge dignità di elemento portante nella filosofia in Nietzsche. Ne La gaia scienza, infatti, il filosofo tedesco annuncia la «morte di Dio» e la vacuità di ogni valore, auspicando l’autosoteria dell’Übermensch, dell’Oltreuomo, unico modello in grado di sottrarre l’uomo europeo dalla decadenza in cui l’ha precipitato la religione cristiana.

Heidegger individua la causa del nichilismo nella metafisica,

sostenendo che: «La metafisica in quanto metafisica è l’autentico nichilismo. L’essenza del nichilismo si dà storicamente nelle vesti della metafisica. La metafisica di Platone non è meno nichilistica di quella di Nietzsche. In quella l’essenza del nichilismo resta solo celata, in questa giunge interamente alla comparsa», dove per «metafisica» egli intende quella tradizione di pensiero che pone il problema dell’essere dell’essente, andando oltre (metà) l’essente stesso, in una irrealistica dimensione trascendente.

L’inizio del Novecento È caratterizzato dal fenomeno delle avanguardie che porteranno a compimento la rivoluzione delle arti plastiche, letterarie e figurative in un impeto di distruzione del vecchio mondo volto alla realizzazione di uno nuovo (proprio come sosteneva Turgenev nel romanzo Padri e figli!). Da questo punto di vista, le due guerre mondiali devono essere ricomprese nel quadro ideologico-psicologico  del compimento della potenza detonante del nichilismo e della progressiva perdita dei nicciani «valori» orientativi di «scopo», «unità» e «verità».

Laboratorio 4 NuoviIl fenomeno delle post-avanguardie letterarie

e artistiche del secondo Novecento rappresenta la stigmatizzazione del riposizionamento combattivo di gruppi artistici e soprattutto letterari che cercano  di ritagliarsi un posto e una funzione nell’ambito del dispiegamento universale della forma-merce e del mercato globale che non contempla più alcuna funzione di «valore» all’arte e alla letteratura nel sistema società. È la reazione della nuova letteratura di fronte ai cambiamenti epocali che la relegano al di fuori del sistema mercato e delle nuove istituzioni culturali. La metafisica ha prodotto il mercato globale, e il mercato globale è il compimento (Vollendung) della metafisica. È qui che si apre la nuova stagione del nichilismo come «stato psicologico» del mondo contemporaneo. Il nichilismo, dirà Heidegger, viene concepito come «stato psicologico», «ciò significa allora: il nichilismo riguarda la posizione dell’uomo in mezzo all’ente nel suo insieme, riguarda il modo in cui l’uomo si pone in relazione con l’ente in quanto tale, in cui configura e afferma questo rapporto e quindi se stesso; ciò non significa altro che il modo in cui l’uomo è storicamente.»1]

«Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore» , così recitava il nono punto del manifesto programmatico del Futurismo di F.T. Marinetti e soci, pubblicato il 20 Febbraio 1909 su Le Figaro. O più ‘nichilisticamente votate soltanto alla distruzione: questo È il caso di Dada, definito dagli stessi dadaisti come: «un fenomeno che scoppia nella metà della crisi morale ed economica del dopoguerra, un salvatore, un mostro che avrebbe sparso spazzatura sul suo cammino. Un sistematico lavoro di distruzione e demoralizzazione… che alla fine non è diventato che un atto sacrilego».

Del resto come preannunziarono nel loro manifesto: «Dada non significa nulla. È solo un prodotto della bocca».

Laboratorio lillaScrive Heidegger: «Forse l’essenza del nichilismo

consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente. In effetti la si lascia inesplicata, si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale. Con l’approvazione generale si dice: o il Niente “è” “qualcosa” senz’altro nullo oppure deve essere un “ente”. Poiché però, evidentemente, il Niente non può mai essere un ente, non rimane che l’altra possibilità, cioè che il Niente sia l’assolutamente nullo.

[…]

E se il Niente, in verità, non fosse un ente, ma non fosse nemmeno mai ciò che è soltanto nullo? E se la domanda dell’essenza del Niente non fosse, sulla scorta di quell’aut-aut, nemmeno posta in termini sufficienti? E, ancor di più, se la mancanza (Ausbleiben) di questa domanda dispiegata che chiede dell’essenza del Niente fosse la ragione (Grund) del fatto che la metafisica occidentale deve cadere vittima del nichilismo? Il nichilismo sarebbe allora esperito e concepito in modo più originario ed essenziale, quella storia della metafisica che spinge a una posizione metafisica di fondo nella quale il Niente, nella sua essenza, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito. Nichilismo significherebbe allora: il non pensare, per essenza, all’essenza del Niente. (…) Nietzsche riconosce, sì, il nichilismo come movimento soprattutto della storia occidentale, ma non è capace di pensare l’essenza del Niente perché non è in grado di cercarla domandando, egli deve diventare il nichilista classico che esprime la storia che sta accadendo ora. Nietzsche riconosce ed esperisce il nichilismo poiché pensa lui stesso in modo nichilistico. Il concetto nietzschiano del nichilismo è esso stesso un concetto nichilistico. Nietzsche non è capace, nonostante tutte le intuizioni, di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin dall’inizio e soltanto in base al pensiero del valore come il processo della svalutazione dei valori supremi. Egli deve concepire il nichilismo in tal modo perché, mantenendosi nella traiettoria e nell’ambito della metafisica occidentale, pensa quest’ultima fino in fondo.»2] Continua a leggere

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ANTOLOGIA BREVE della Nuova Ontologia Estetica: Poesie di Raymond Carver, Francesca Dono, Steven Grieco-Rathgeb, Ubaldo de Robertis, Petr Král e collage di Commenti vari di Giorgio Linguaglossa – Siamo dentro la tematica del nulla. Siamo nel mezzo del nichilismo.

Raymond Carver: Tre poesie

Compagnia

Stamattina mi sono svegliato con la pioggia
che batteva sui vetri. E ho capito
che da molto tempo ormai,
posto davanti a un bivio,
ho scelto la via peggiore. Oppure,
semplicemente, la più facile.
Rispetto a quella virtuosa. O alla più ardua.
Questi pensieri mi vengono
quando sono giorni che sto da solo.
Come adesso. Ore passate
in compagnia del fesso che non sono altro.
Ore e ore
che somigliano tanto a una stanza angusta.
Con appena una striscia di moquette su cui camminare.
.
Attesa

Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. E’ quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. E’ quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino ad ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
.
La poesia che non ho scritto
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 9:52

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/16/poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-gino-rago-edith-dzieduszycka-letizia-leone-lucio-mayoor-tosi-mario-m-gabriele-anna-ventura-vari-stili-varie-scritture-poetiche-della-nuova-ontologi/comment-page-1/#comment-20937

cari amici,
in un articolo degli anni Dieci intitolato Sull’interlocutore, Mandel’stam, fa una notazione geniale, dice questo: che uno non si sognerebbe mai di accendere una sigaretta dalla fiamma della lampada ad olio in quanto, molto più semplicemente siamo abituati ad accendere la sigaretta dalla fiamma di un accendisigari. Questo Mandel’stam lo dice per far capire che noi nella vita di tutti i giorni seguiamo delle abitudini gestuali e linguistiche senza che ce ne avvediamo, che diamo per scontate, seguiamo in maniera inconscia certi gesti e usiamo certe frasi in maniera inconscia in base a «credenze» (Ortega y Gasset) e a quelle che Heidegger definisce «precomprensioni».

Analogamente, avviene in poesia. Noi scriviamo in base a delle «credenze» linguistiche e a delle «precomprensioni» di modi di scrivere che abbiamo già letto e digerito nella memoria; si tratta di atti memorizzati che compiamo «naturalmente».

Quando una poetessa come Elena Schwarz (1948-2010) scrive:

Secondo l’orario delle stelle lontane

(da Così vivevano i poeti, Thauma edizioni, 2013 trad Paolo Galvagni), ci avvediamo che qui noi abbiamo un esempio chiarissimo di come la poetessa russa mette in atto uno shifter, un cambio di abitudine linguistica, un cambio di abitudine iconica, mnemonica, passa da “secondo l’orario dei treni” a “secondo l’orario delle stelle”, aggiungendo il lemma “lontane”. Il risultato estetico è vivissimo, efficacissimo. Semplice, no? Anzi, semplicissimo. A volte è sufficiente uno scambio di abitudini mnemoniche e linguistiche per creare un verso efficacissimo.

Ora, ad esempio, tutta la poesia di Mario Gabriele è basata sulla puntualità e la ripetizione di questi «scambi», una miriade di «scambi» iconici che si susseguono a ritmi vertiginosi che creano una serie continua di effetti spaesanti e stranianti che raggiungono vertici di rarissima capacità iconica e mnemonica…

La NOE è anche questo, tratta una serie di espedienti retorici che già esistono da tempo nella poesia migliore del novecento europeo, espedienti che vengono utilizzati in modalità intensive. Tutto qui.

Quando Claudio Borghi e Salvatore Martino dichiarano di non riuscire a comprendere la poesia della nuova ontologia estetica, non si rendono conto che essa è nuova solo nella misura in cui impiega una serie di retorizzazioni e non altre, e le impiega in maniera intensiva. Si tratta di una intensificazione di alcune figure retoriche. È questo che fa la NOE.

Quando un poeta come Lucio Mayoor Tosi scrive:

Dalla stampa giapponese si alza un volo di pettirossi.
Ora stan li, affacciati alla finestra. Guardati dalla luna.

qui abbiamo l’impiego di un noto luogo retorico: il capovolgimento: è la luna che guarda i pettirossi che si sono alzati in volo da una «stampa giapponese». È sufficiente questo «capovolgimento» a creare l’effetto di un «mondo all’incontrario» (Bachtin), un effetto spaesante, di meraviglia…

Francesca Dono

Due poesie da Fondamenta per lo specchio (Progetto Cultura, 2017)

– estemporanea75 –

in cucina la mia camicia
dentro lo scalda latte di alluminio.
Il latte sotto la schiuma fredda
delle tue minuscole scarpe.
Ore 6,35. La penombra è prima del cielo.
Mescolo un cucchiaino nella tazza
di porcellana. Gabriella si ferma davanti
allo specchio. Un po’ di zucchero. Di là forse
la sera del 14 agosto. Un uomo e due biscotti
con tre briciole eburnee. Risalgono i gradi
dei circoli velati.
Lascio un albero alla finestra.
Poi mi ritraggo esattamente.

– la bicicletta –

la bicicletta sotto un sole basso.
Qualche soffio di vento.
Strati di polvere a
seconda dei giri. Strappi nel momento.
Scorro dentro quel telaio
quando si solleva o si appiattisce. È la pancia della strada.
Lavoro patetico
dell’unto e tra una gomma e l’altra.
Ore dodici. Un gatto s’infila
dietro le transenne del cantiere. Il miagolio della fame che non riposa.
C’è una curva.
La bicicletta barcolla col freno austero.
Poi l’ultimo fanale.

Steven Grieco Rathgeb 

Una poesia da Entrò in uno specchio (Mimesis Hebenon, 2016)

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

agli stormi di piccioni in volo

agli aquiloni che danzano più su

alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»

*

La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.

E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006

Onto DeRobertis

Ubaldo de Robertis (un inedito)

Nella dimensione di Jung

Il rampollo del caos scorre in cerchio.
Una fanciulla si sporge in piedi sulla fontana.
Le lancette girano in circolo.
Nessuno si occupa più dell’orologio da almeno sette decenni.
Sulla torre si specchiano immagini suoni remoti
echi che tornano del lungo roteare
[si riflettono forse in un gioco di specchi].
Nessuno conosce la vera posizione.
Altalenante.
In funzione dell’apparente rotazione degli astri
intorno alla sfera rosso fuoco
talvolta troppo vicina
talvolta troppo distante.

Al morire della luce
la fanciulla sconosciuta spiega lo scialle di seta
nel luogo di cui nessuno ha voce per chiedersi:
dov’è?
[come risulterà chiaramente in seguito]

Da strani fiori a sette petali salgono essenze.
Presentimenti.
Congetture si fanno sul sognatore
nel dire che si è trattato di allucinazioni:
La torre
[dislocazione verticale- verso l’alto la seduzione degli astri].
L’orologio.
Gli specchi
[sul lato contrapposto al riflettente giace il sottile strato d’argento].
Il bel giardino dai fiori a sette petali.
Il corpo condiscendente di quella fanciulla.
Lo châle volteggiante al minimo estro di vento.

Costantina Donatella Giancaspero Teatro dell'Opera

Donatella Costantina Giancaspero

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 15:51

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/16/poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-gino-rago-edith-dzieduszycka-letizia-leone-lucio-mayoor-tosi-mario-m-gabriele-anna-ventura-vari-stili-varie-scritture-poetiche-della-nuova-ontologi/comment-page-1/#comment-20945

Per esempio, tanto per restare nella linea della nuova ontologia estetica, proviamo a leggere alcuni versi, prendiamo una poesia apparentemente innocua di Donatella Costantina Giancaspero. Sembra quasi una poesia lirica di stampo tradizionale, sembra di leggere una poesia di Cristina Campo o di Fernanda Romagnoli, e invece qui si ha qualcosa di molto diverso, di molto più avanzato:

Decisa, te ne vai già
da questa nostra estate. In fretta.
Tra il letto e l’appendiabiti.
Lungo il corridoio, le pareti fanno ala
a un ottuso serpeggiare.

Di che si tratta? Chi è la persona che se ne va? La poesia non lo dice. C’è una persona che se ne va. Da notare che l’andar via della persona è reso da due oggetti disposti ortogonalmente rispetto alla persona che se ne va: «il letto e l’appendiabiti», «lungo il corridoio». Dunque, siamo in un interno, tra «le pareti» che «fanno ala» alla azione di cui trattasi: «a un ottuso serpeggiare». Dunque, c’è un indietreggiamento di una persona o di una Cosa, diciamo che si ha una personificazione di una Cosa, che la Cosa ha preso la sembianza di una persona. Ma allora sorge l’interrogativo: Chi è la persona che se ne va? Qui abbiamo a che fare con il «fantasma», con quella «mancanza a», dice Lacan che contrassegna il «fantasma», il quale si dà e nell’atto del darsi produce un cedimento strutturale a livello ontologico dell’io, cedimento che produce la sostanza immaginaria del fantasma, il quale si dà solo e soltanto in presenza del venir meno dell’io come soggetto. Insomma, qui siamo nel pieno centro della nuova ontologia estetica, qui si tratta del venir meno della Cosa, del venir meno di un personaggio che si allontana e si assottiglia tra gli oggetti consueti e consunti di una abitazione, oggetti ben noti, dunque. Al contempo, il «fantasma» rappresenta il limite interno dell’ordine simbolico, è quel qualcosa senza il quale non si dà ordine simbolico, e quindi è un attrezzo necessario e indispensabile nell’officina della poesia che stiamo esaminando… per dar vita alla Cosa che si allontana e che tende a scomparire. Ma ciò che non può scomparire, pur se attecchito da un cedimento strutturale, è l’io il quale non può che continuare a macchinare il suo desiderio affinché vi sia una macchina desiderante che metta in moto questo complesso meccanismo qual è questa poesia che narra, come apparirà chiaro, un assottigliarsi, una mancanza della Cosa, del «fantasma», uno scomparire nel nulla. Ecco, siamo dentro la tematica del nulla. Siamo nel mezzo del nichilismo.

Inoltre, il pronome personale «io» che parla, è, vistosamente, un espediente retorico e nient’altro, è una custodia vuota. È un enunciato linguistico e nient’altro.

“L’enunciazione è l’istanza linguistica, logicamente presupposta dall’esistenza stessa dell’enunciato […] che promuove il passaggio tra la competenza e la performance linguistica […] l’enunciazione è chiamata ad attualizzare lo spazio globale delle virtualità semiotiche, cioè il luogo delle strutture semio narrative […] allo stesso tempo è l’istanza di instaurazione del soggetto (dell’enunciazione). Il luogo, che si può chiamare l’ «Ego, hic et nunc», è prima della sua articolazione semioticamente vuoto e semanticamente (in quanto deposito di senso) troppo pieno: è la proiezione (per mezzo delle procedure di débrayage) fuori da questa istanza degli attanti dell’enunciato e delle coordinate spazio temporali, a costituire il soggetto dell’enunciazione attraverso tutto ciò che esso non è”, A.J. Greimas, J. Courtes, Sémiotique. Dictionaire raisonné de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979; a cura di Fabbri P., Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Mondadori, Milano 2007, pp. 125-126. – E. Benveniste Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Problemi di linguistica generale, Saggiatore Economici, 1994. Si veda in particolare il saggio dedicato alla funzione dei pronomi pp. 301-8.

Petr Král, con Jana Bokova

Petr Král, con Jana Bokova

Donatella Costantina Giancaspero
17 giugno 2017 alle 16:42

Al commento precedente vorrei aggiungere alcuni versi di Petr Král (tra i poeti che prediligo).

Caduta

E in ogni bottiglia vuota
c’è ancora una goccia. Col tuo pettine e il sapone

dalla valigia rovesciata cadono anche le spille nere
della forcina, che vedi per la prima volta. Da quale tasca
[persino
segreta

del cosmo deserto – L’esile forcina non toglie
o aggiunge nulla, appena un trattino di ferro tra il giorno e la
[notte,

tra la pelle morbida e la pelliccia minacciosa
del mondo. Senza di essa però qui manca

una virgola per la redenzione. Pace con lei e con te.
Tu e la forcina nella stessa giornata vuota.

(Petr Král, Tutto sul crepuscolo, ed. Mimesis
trad. di Antonio Parente)

giorgio linguaglossa

17 giugno 2017 alle 18:05 Modifica

Nella poesia di Petr Král, uno dei maggiori poeti europei viventi, è presente un sistema semi automaico di scambi sinestesici e metonimici, la poesia procede in una modalità quasi automatica mediante un sistema del tipo pilota automatico ma non in funzione della rappresentazione quanto della mera presentazione di eventi.

Noi sappiamo che il sistema Inc si differenzia per caratteristiche peculiari che lo pongono in una dimensione di assoluta estraneità tanto dal sistema
Prec che da quello percezione-coscienza: assenza di contraddizione e di negazione, intemporalità, mobilità degli investimenti, nonché una relativa indipendenza dalla realtà esterna, sono i tratti salienti dell’inconscio.
Il nucleo dell’Inc., scrive Freud, è costituito di rappresentanze pulsionali che aspirano a scaricare il proprio investimento, dunque da moti di desiderio. Questi moti pulsionali sono fra loro coordinati, esistono gli uni accanto agli altri senza influenzarsi, e non si pongono in contraddizione reciproca. […] In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto dal lavoro della censura fra Inc. e Prec.
.
L’Inc dunque non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco. Esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, che consistono “ nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini ” .

L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto. Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo
Freud:

«La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc. contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec. nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali».1]
.
In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di “farsi sentire ” nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung. Questa operazione svela la natura dell’apparato psichico e del suo funzionamento, in particolare il ruolo del linguaggio nella sua strutturazione.

Nella poesia di Král viene in piena luce questo processo psichico tipico di quello che noi abbiamo chiamato «nuova ontologia estetica», dal vivo, in diretta, apparentemente senza le mediazioni dell’«io», ma come in un universo metonimico in libera uscita pulsionale… Incredibile.

1] Sigmund Freud, Metapsicologia, § L’inconscio, in Gesammelte Werke; trad. it. a cura di Musatti. C., in Opere vol. 8. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917), Bollati Boringhieri, Torino 1976 (2000), Metapsicologia (1915), pp. 49 e segg.

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DIBATTITO A PIÙ VOCI: NON LA POESIA È IN CRISI MA LA CRISI È IN POESIA – ALCUNE QUESTIONI DI ONTOLOGIA ESTETICA – LA QUESTIONE MONTALE-PASOLINI – ALLA RICERCA DI UNA LINGUA POETICA: TOMAS TRANSTRÖMER 

locandina antologia 3 JPEGGiorgio Linguaglossa

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/10/salvatore-martino-autoantologia-di-poesia-e-racconto-del-proprio-percorso-di-poesia-dagli-anni-sessanta-ad-oggi-poesie-scelte-relazione-tenuta-al-laboratorio-di-poesia-de-lombra-delle-parole-del/comment-page-1/#comment-19226

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi
*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.
*
Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
a quello che IO sono, quello che IO sono.
Ma non appena sono riuscito a vedere IO
IO è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice
*
Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
*
Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
*
Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota
*
… una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…
*
… e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
su una macchina che non ha nastro solo una linea
d’orizzonte
sicché la parole battono invano e non resta nulla
*
Io sono attraversato dalla luce
e uno scritto si fa visibile
dentro di me
parole con inchiostro invisibile
che appaiono
quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!
*
Leggevo in libri di vetro…
*
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!
*
…la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento

Sono versi di Tranströmer… il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto non lo metterà mai nella propria arte… il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina bianca. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la NOE, c’era già prima della NOE.

Salvini Il governo che intendo guidare non farà sbarcare neanche un clandestino o richiedente asilo in Italia Dal primo all'ultimo, tornano da dove sono partiti

quando le parole vengono svuotate del loro significato

Giorgio Linguaglossa

SU ALCUNE QUESTIONI INTORNO ALL’ESSERE E AL NULLA, LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19052

Vorrei tornare ai miei spunti e appunti spersi su questa Rivista intorno alla questione del Nulla, del Vuoto e dell’Essere ai fini di una corretta impostazione metodologica della N.O.E. – Il tratto caratteristico e per me fondante, il tratto di distinguibilità io lo rinvengo nella percezione del Nulla, del concetto filosofico e scientifico che il termine Nulla ha. La N.O.E. recepisce questa gigantesca problematica di oggi, comune anche alla filosofia recentissima.

La questione del Nulla non è stata inventata dai redattori dell’Ombra, ma è da più di un secolo che la filosofia e la scienza pensano questa “Cosa”.

Si dice comunemente che «Il Nulla non è» e che «l’Essere è», ponendo il Nulla come originario e fondante l’essere; ebbene, questa impostazione ha il sapore di vecchia scolastica, oggi noi ipotizziamo l’indistinguibilità del Nulla e dell’Essere come dato di fatto filosoficamente inconcusso. Il Nulla significa e, in quanto positivamente significa è equiparabile alla significazione vuota del non-essere, il suo darsi è «vera e indeterminatissima negazione dell’essere»1] – È paradossale che la negatività assoluta, il Nulla, significhi anche qualcosa, proprio come l’Essere il quale significa anch’esso qualcosa. Ovvero, il positivo significare e il negativo significare sono su un piano di assoluta parità ontologica, nessuno dei due riveste un ruolo di priorità ontologica: «la positività del significato ‘albero’, non è assolutamente più originaria di quella predicabile dal nulla».2] Ovviamente, parlando di positività del nulla noi intendiamo la sua assoluta indeterminazione che non assume alcun ruolo prioritario nella individuazione di un qualunque essere dal punto di vista ontologico.

Questo «è» consiste nella SUA assoluta mancanza di determinazione e dunque costitutivamente connaturato con il Nulla. Così, Prima dell’Inizio, il nulla che è e l’essere che non è, si danno simultaneamente la mano.

Con le parole di Severino: «pensare “quando l’essere non è“, pensare cioè il tempo del suo non essere significa pensare il tempo in cui l’essere è il nulla, il tempo in cui si celebra la tresca notturna dell’essere e del nulla».3]

Lo stesso Severino afferma che il principium firmissimum riesce a strutturarsi «solo in relazione con il negativo, e l’incontrovertibilità può esser posta solo in quanto originariamente implicante una relazione con il nulla». Il Nulla di cui il filosofo italiano parla «non è il non-essere determinato ma il nulla in quanto «nihil absolutum», l’assolutamente altro dall’essere».

Ciò significa che anche l’Originario è auto contraddittorio, esso si dà quando non si dà, cioè quando non è Principio di alcunché: di qui la natura intimamente antinomica e paradossale dell’Originario. L’Originario non è un ente che si costituisce in ente ma è qualcosa connaturata al suo non-essere e, quindi alla sua stessa inconsistenza dal punto di vista dell’ente…

Da quanto precede, è ovvio che leggere la mia poesia Preghiera per un’ombra, presuppone il porsi nella dimensione esistenziale di accoglimento del Nulla e del non-essere (e quindi del tempo) sullo stesso piano ontologico di parità indistinta. La Nuova Ontologia Estetica non poteva sorgere che in questo nuovo orizzonte di pensiero filosofico. Questo mi sembra incontrovertibile.

Il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il solido nulla del nostro nichilismo…

La positività del nulla è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia con la mente sgombra, facendo vuoto sul prima della poesia, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare la progressiva nullificazione del vuoto che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo appunto di cui tratta la Nuova Ontologia Estetica, prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica… e quant’altro…

1]Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Milano-Udine 2008 p. 183
2] Ivi, p.199
3] Emanuele Severino “Ritornare a Parmenide”, in Essenza del nichilismo, Milano 1982, p.22
4] Emanuele Severino, La struttura originaria, Milano 1981, pp.181-182 e p. 209

Mario Gabriele Maurizio Ferraris

Scrive Maurizio Ferraris:

«A livello ontologico, il quadridimensionalismo come iscrizione della traccia (perché questo, in ultima istanza, è il quadridimensionalismo: che insieme al lungo, al largo e al profondo ci sia anche il passato) assicura l’evoluzione, ossia lo sviluppo delle interazioni. in secondo luogo, a livello epistemologico, quello in cui la memoria ricorda, il quadridimensionalismo permette la historia, la ricostruzione dello sviluppo temporale degli individui. Se Proust ne avesse avuto il tempo, avrebbe potuto scrivere la storia dell’universo. Provo a spiegare questa affermazione magniloquente.

La domanda ontologica “che cosa c’è?” può allora venire articolata in due domande distinte: da una parte “che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spazio tempo?”; dall’altra “che cosa ci sarebbe per un osservatore privilegiato, che osservasse lo spaziotempo dal di fuori?”.»

Cari amici Claudio Borghi e Mario Gabriele,

io sono profondamente convinto che la poesia che dobbiamo scrivere è quella che apre degli spiragli sulla quadri dimensionalità. Come farlo sta al talento di ciascun poeta, al proprio bagaglio di esperienze storiche, la NOE non pone alcuna recinzione a questo compito, tutte le strade sono possibili e percorribili, quello che a noi della NOE sembra indiscutibile è che in questo modo si aprono per la poesia possibilità ed esiti inattesi e potenzialmente ampi per l’espressione poetica. Io penso (ma è solo un mio pensiero) che per far questo sia indispensabile costruirsi un proprio metro, il cosiddetto «libero», che poi non è libero affatto, l’importante è abbandonare la visione monoculare della poesia pentagrammatica e fonetica che dà luogo ad un verso unilineare e temporalmente condizionato da una mimesi filosoficamente ingenua. In questo modo si mette in archivio la impostazione unilineare del tempo e dello spazio. Quel tipo di poesia lì si è fatta per secoli e per tutto il novecento, adesso è venuto il momento di cambiare registro.

Annamaria De Pietro Stefanie Golish

Claudio Borghi 

9 aprile 2017 alle 13:54 

Questo è il punto critico, Giorgio. Tu sostieni (coerentemente parli di un tuo libero pensiero, che non pretendi imporre) che “l’importante è abbandonare la visione monoculare della poesia pentagrammatica e fonetica che dà luogo ad un verso unilineare e temporalmente condizionato da una mimesi filosoficamente ingenua”, ecc. Ma in che senso la poesia novecentesca è monoculare? In quanto interpreta il tempo come unilineare e non lo sente appartenere a una struttura quadridimensionale? L’esperienza del tempo psicologico, in quanto prolunga la mente nella memoria, è per tutti quella di una quarta dimensione vissuta dall’interno: ritenere di fondare su questa consapevolezza una rivoluzione estetica è a mio avviso ingenuo, soprattutto laddove si ritiene di caratterizzarla sul verso libero, sul metro vario in antagonismo con la presunta statica “unilinearità” dell’endecasillabo. Il novecento è stato il secolo delle sperimentazioni linguistiche, il verso libero e la poesia in prosa sono, come sai, un portato ottocentesco, del simbolismo francese in particolare (Aloysius Bertrand, Baudelaire, Rimbaud…), ma il problema non è tanto questo. Tu ribadisci la necessità di andare oltre, lasciarsi indietro Bertolucci, Bacchini, ecc., come si trattasse di esponenti di una poesia che ha esaurito le sue potenzialità in quanto legata a una concezione ingenua del tempo lineare. In che senso il tempo interiore è non lineare? Forse che si ritiene psicologicamente di poter sperimentare il tempo come legato a una struttura quadridimensionale? Non è chiaro questo aspetto (lo stesso Ferraris in sostanza non ha risposto laddove la Giancaspero l’ha sollecitato su questo punto, ha fornito un’analisi impeccabilmente fenomenologica in quanto, credo, ha sentito il pericolo del possibile anomalo legame tra ontologia ed estetica, che dovrebbero restare sempre separate), sembra una volontà e una dichiarazione di intenti confusamente quanto suggestivamente legata alla scienza. La relatività è costruita su una varietà quadridimensionale, lo spaziotempo, ma il tempo relativistico nulla ha a che fare col tempo della coscienza o con la memoria. Dal mio punto di vista, e a questo è orientata la mia ricerca sia in fisica che in poesia, il problema è come avvicinare la scienza e l’arte o la scienza e la filosofia, dopo che le rivoluzioni della fisica teorica hanno stravolto la rappresentazione che del mondo gli uomini si sono fatta fino all’ottocento. E’ questo che, in particolare nelle sezioni in prosa di Dentro la sfera, ho cercato di fare, e mi sono sentito dire (incredibile, vista una realtà che a me pare piuttosto oggettiva) di essere legato all’unilinearità novecentesca, quindi, in un certo senso, a una percezione ingenua del reale. L’arte, Giorgio, è il portato di un’esperienza spirituale profonda: non si supera l’arte del novecento, in ispecie quella dei suoi esponenti più ricchi di forma immaginativa e di pensiero, sostenendo che hanno indagato il mondo alla luce di una “mimesi filosoficamente ingenua”, in quanto nessuna visione del mondo è ingenua se nasce da un’esperienza di vita spiritualmente autentica. Per far dialogare arte e scienza occorre conoscerle entrambe, non lasciarsi guidare da suggestioni teoretiche tentando esperimenti di quadridimensionalità di cui, almeno così a me pare, non è chiaro lo scopo, a parte l’intenzione esplicita di “cambiare registro”. Oltre allo spazio in cui nuotano i nostri sensi c’è il tempo in cui nuota la memoria e più in generale la mente, di cui la memoria è una componente necessaria. L’arte è grande se riesce a sondare questa profondità non spaziale, a innescare luce in un baratro scuro in cui l’io, cerino acceso, riesce a vedere ben poco con le sue povere forze, ma ugualmente tenta sintesi, cerca contatti, indaga forme, inventa armonie, elabora teorie.

Osip Mandel’stam Georg Trakl

Giuseppe Talìa

9 aprile 2017 alle 19:54 

Il maestro Hoyko riversò per terra un sacchetto pieno di monete d’oro e disse agli allievi: “prendetele e usatele”. E gli allievi, come scalmanati, si accapigliarono fra di loro per procurarsene il più gran numero.
Quando non rimase più alcuna moneta il maestro Hoyko disse: “C’è tra di esse una moneta falsa ma non la riconoscerete dal tinnire del metallo, né dal suono fesso, né dal modesto brillio, né dal peso in sé, né dalla grandezza della moneta, né dall’effige del re”.
“Oh, maestro” chiese il migliore tra gli allievi “come potremo allora noi discernere il grano dal loglio se non c’é differenza alcuna?”

G. Linguaglossa, La Filosofia del Tè, 2015

Steven Grieco Rathgeb Donatella Costantina Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero

 13 aprile 2017 alle 20:54

gentile Inchierchia,

le rispondo semplicemente trascrivendo due poesie di Transtromer che hanno tutti i requisiti di una nuova ontologia estetica (e non “estetica ontologica” come da lei erroneamente riportato). Come vede la nuova ontologia è abbastanza vecchia considerando che queste poesie sono state scritte diversi decenni or sono.

SULLA STORIA (PARTE V)

Fuori, sul terreno non lontano dall’abitato
giace da mesi un quotidiano dimenticato, pieno di avvenimenti.
Invecchia con i giorni e con le notti, con il sole e con la pioggia,
sta per farsi pianta, per farsi cavolo, sta per unirsi al suolo.
Come un ricordo lentamente si trasforma diventando te.

MOTIVO MEDIEVALE

Sotto le nostre espressioni stupefatte
c’è sempre il cranio, il volto impenetrabile. Mentre
il sole lento ruota nel cielo.
La partita a scacchi prosegue.
Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
Il sole ruota lento nel cielo.
La partita a scacchi si interrompe sul pari.
Nel silenzio di un arcobaleno.

Cesare Pavese Gino Rago

Lucio Mayoor Tosi

13 aprile 2017 alle 21:31

A proposito di realtà percepita nella realtà stessa:
«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?».

Tratto da un articolo di Andrea Cortellessa.

Alfredo de Palchi W.H. Auden

Giorgio Linguaglossa

NON LA POESIA È IN CRISI MA LA CRISI È IN POESIA 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19042

Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia. Il mondo è andato in frantumi. È andato in frantumi il principio di identità, quella identità si è poi scoperto che era una contraddizione e il soggetto non può che percepire gli oggetti in frantumi come altamente contraddittori e conflittuali. Lo stesso Severino, il filosofo per eccellenza della identità, ha rilevato che porre A=A è ammettere che A sia diverso da A. che cioè l’identità implica in sé la diversità e la non-identità. Anche Derridà invocava a pensare l’orizzonte della rimozione come dell’accadere di un evento, secondo «una nuova logica del rimosso». L’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede alla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date, pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione…

Gli oggetti esterni sono percepiti frantumati, al pari degli oggetti interni. Anche il metro della poesia ne è uscito frantumato, il metro della nuova ontologia estetica, per eccellenza. Per il fatto di avere questa relazione doppia con se stesso, il soggetto è sempre intorno all’ombra errante del proprio «io», ci gira intorno dall’esterno, lo circumnaviga, sospettoso e distratto. Quello che nella nuova poesia ontologica si presenta è l’allestimento di una scena, di varie scene nelle quali il soggetto e l’oggetto sono irrimediabilmente separati da se stessi come in preda di una diplopia, figura essi stessi della loro schisi, della loro deiscenza all’interno del mondo – quell’oggetto che per essenza distrugge l’«io» del soggetto, che lo angoscia, che non può raggiungere, in cui non può trovare alcuna riconciliazione, alcuna aderenza al mondo, alcuna complementarità. Tra «oggetto» ed «io» si è instaurata una scissione, una Spaltung.

La poesia della Nuova ontologia estetica eredita tutta questa frantumazione del frammento, questa polverizzazione dell’«oggetto», e non potrebbe essere altrimenti. E questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone semantiche ridotte ai minimi termini dell’azione semantica.

alcuni poeti della NOE

Donatella Costantina Giancaspero

5 aprile 2017 alle 20:36 

NON LA POESIA È IN CRISI MA LA CRISI È IN POESIA 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19044

Grazie a Gino Rago per questo suo excursus critico sull”ars poetica” di autori che ritengo fortemente innovativi nel Novecento. L’accostamento che ne fa mi pare senz’altro appropriato: Clemente Rèbora, l’ “espressionista” Rèbora, annoverato tra i cosiddetti “vociani”, anche loro (come noi oggi) spinti verso la ricerca di un nuovo linguaggio (una Nuova Ontologia Estetica diremmo noi) dall’esigenza di abbandonare gli schemi tradizionali del secolo precedente; Aldo Palazzeschi, confluito nella rivista La Voce dopo l’esperienza futurista: uno scrittore e poeta controcorrente, nei cui versi Marinetti leggeva «un odio formidabile per tutti i sentieri battuti, e uno sforzo, talora riuscitissimo, per rivelare in un modo assolutamente nuovo un’anima indubbiamente nuova». Intellettuale fervido e lungimirante, mi pare giustamente accostabile a Pier Paolo Pasolini: «insoddisfatto del linguaggio e della forma-poesia del suo tempo – così analizza Gino Rago – già avvertiva in sé l’aspirazione di far muovere i suoi versi in un’area espressiva più vasta di quella fino ad allora esplorata e attraversata». Dopo di lui (e dopo il Montale di Satura), “la crisi nella poesia”, il “mondo in frantumi”, come scrive Giorgio Linguaglossa: quarto e ultimo autore citato, col quale Gino Rago ci conduce alla contemporaneità. La sua «febbrile ricerca poetica» lo pone senz’altro un passo in avanti, oltre la linea consunta di tanta poesia letta e riletta. È il passo in avanti richiesto dai tempi, dall’epoca in cui viviamo. Lo ripeto con le parole stesse di Giorgio Linguaglossa: «l’epoca in cui la crisi è in crisi, richiede dalla poesia risposte nuove, che si affranchino dalle risposte che sono già state date, pensare l’orizzonte della parola come un orizzonte del rimosso, una parola che anche quando la riusciamo a profferire, risulta in sé divisa in schisi, solcata dalla scissione…».
Per questo e per molto altro ancora, la nostra poesia deve procedere con i tempi verso una Nuova ontologia estetica: “Nuova” perché in grado di accogliere tutta la “frantumazione del frammento”, la “polverizzazione dell’«oggetto»”. Ancorché indebolirsi, di questo la poesia si fa forte: «questa è la sua forza, la forza percussiva delle sue icone semantiche ridotte ai minimi termini dell’azione semantica».

Helle Busaccca Roberto Bertoldo

giorgio linguaglossa

7 aprile 2017 alle 8:57 

NOI NON SIAMO SACERDOTI DELLA POESIA, SIAMO DEI POETI CHE VOGLIONO RICOMINCIARE A SCRIVERE POESIA. (LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA).

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/05/gino-rago-arte-dello-scrivere-due-frammentisti-vociani-a-confronto-clemente-rebora-aldo-palazzeschi-e-pier-paolo-pasolini-un-contributo-alla-rilettura-del-novecento-poetico-italiano-e-un-c/comment-page-1/#comment-19072

Quanto scrive Gabriella Cinti mi conforta e mi spinge ad andare avanti nella riflessione sulla Nuova poesia, giacché la poesia deve rinnovarsi altrimenti rimane prigioniera e subalterna di impostazioni concettuali che appartengono ad altre stagioni spirituali e stilistiche.

Quello che tento e tentiamo di fare è costruire una base (anche) filosofica per la nuova poesia, dimostrare che c’è già in atto una nuova filosofia. Citare i filosofi contemporanei, quelli che si occupano dei problemi di cui, su un altro versante, si occupano i poeti di oggi, significa esplicitare che qualcosa di essenziale è cambiata rispetto alle impostazioni di cento anni fa, quelle reboriane e anche quella di Pasolini, il quale non ha potuto portare a compimento il suo progetto di riforma radicale del linguaggio poetico per intervenuta cessazione della sua vita ad opera di assassini di cui ancora oggi sconosciamo nomi e identità. E mi sia consentito dire una cosa molto semplice, anche Montale, con la poesia “Lettera a Malvolio” si è reso corresponsabile del linciaggio di Pasolini. Diciamolo con schiettezza: Montale non avrebbe mai dovuto scadere così in basso e additare l’equazione Pasolini=Malvolio. Era vero il contrario: Montale=Malvolio.

Lo dico e lo ripeto ancora una volta: Montale con Satura (1971) e poi con il Quaderno dei quattro anni del 1971 e del 1972 (1973), mette la poesia italiana in discesa, apre il rubinetto della falsa poesia in discesa, apre alla demagogia di una forma-poesia che si adatta e si arrende alla nuova barbarie mediatica. Si trattava di una resa intellettuale, di una smobilitazione generale, di un rompete le righe e di un si salvi chi può. Quella poesia era una poesia in minore, una pseudo poesia. E questo sia sempre detto con la massima chiarezza e sia ripetuto per i più giovani. Era una falsa sirena ammaliatrice perché Montale metteva in circolo i virus della disintegrazione della poesia a fronte della civiltà mediatica. Montale chiudeva la poesia non in una nicchia ma nel passato remoto. E questo atto di resa intellettuale risulta ormai chiarissimo a circa 50 anni di distanza da Satura.

Mariella Colonna Edith Dzieduszycka

Montale pubblica il Diario del ’71 e del ’72 due anni dopo Satura, mentre le raccolte precedenti avevano visto passare tredici-quattordici anni di pausa tra l’una e l’altra. Nel febbraio del 1971 Montale aveva dichiarato: “Non si tratta di intervalli programmati […]. Non credo sia possibile che appaia un mio quinto libro. Ciò dovrebbe avvenire nel 1985. Non è augurabile né a me né agli altri”[1].

Quanto dichiarato in questa auto intervista, all’uscita di Satura, non è un depistaggio perché in effetti l’autore, che spesso aveva espresso dubbi sulla prolificità della propria ispirazione, compose il Diario, tranne otto poesie, a partire dalla primavera del ’71 e già a fine luglio la prima metà della raccolta (45 poesie), l’intero Diario del ’71, era pronta, tanto che Scheiwiller la pubblicò in occasione del Natale dello stesso anno. Anche il Diario del ’72 ha una genesi breve, divisa in due tempi: il primo da gennaio a marzo; il secondo, dopo una malattia, da settembre a fine ottobre.

Nel Diario del ’71 e del ’72, Montale si allontana dal tono polemico che aveva trovato posto già nelle prose degli anni ’50 e ’60 per poi mostrarsi a pieno in Satura. I temi di cui si compone l’opera spaziano da riflessioni dell’autore sulla poesia stessa (A Leone Traverso, L’arte povera, La mia musa, Il poeta, Per una nona strofa, Le Figure, Asor, A caccia), alla polemica contro l’opportunismo dei suoi tempi, espressa nel genere della lettera in versi (dalle Botta e risposta di Satura a, soprattutto, la Lettera a Malvolio, uno dei componimenti fondamentali dell’opera, polemicamente indirizzato a Pier Paolo Pasolini), i testi che Montale popola di piccoli eventi quotidiani osservati dalla finestra del suo appartamento milanese e quelli di argomento metafisico-teologico. Esistono anche precisi luoghi del Diario che richiamano Satura e la restante produzione del poeta, come dimostra chiaramente soprattutto Annetta, per esempio con la citazione, tra le altre, de La casa dei doganieri.

«La mia voce di un tempo – si può sempre paragonare la poesia a una voce – era una voce, per quanto nessuno l’abbia detto, un po’ ancora ore rotundo diciamo così; anzi dissero che era addirittura molto prosastica, ma non è vero, riletta ora credo che non risulti tale. La nuova invece si arricchisce molto di armoniche e le distribuisce nel corpo della composizione. Questo è stato fatto in gran parte inconsciamente; poi, quando ho avuto alcuni esempi, diciamo, di me stesso, allora può darsi che io abbia seguìto degli insegnamenti che io mi ero dato. Ma all’inizio no, è stata veramente una cosa spontanea»[1].

Nelle prime tre raccolte Montale aveva utilizzato un linguaggio a volte criptico, con molte allusioni. A partire da Satura, le sue poesie diventano più facilmente comprensibili anche per un lettore che non conosca l’evento biografico che sta dietro il testo poetico.

Angelo Jacomuzzi ha parlato di “elogio della balbuzie”[2], in riferimento alla fase della poesia montaliana iniziata con Satura. Da allora tutta la restante poesia italiana ha parlato il linguaggio della balbuzie. Dobbiamo dirlo con franchezza: tutta la poesia posteriore a Satura parlerà un linguaggio dimidiato, balbuziente, affetto da impotenza. Non credo che c’entri nulla la questione della perdita di fiducia di Montale nei confronti della poesia, forse nessuno come noialtri della Nuova Ontologia Estetica ha più s-fiducia di Montale, io personalmente non ho alcuna fiducia nella poesia, molto meno di quella di Montale, ma la sfiducia, come anche la fiducia, sono atti di fede e io non sono un credente: non devo fare nessun atto di fede verso nessuna deità, tanto meno verso la Musa. Montale è ancora un poeta legato ad una cultura che vedeva nella poesia un luogo «sacro» in cui inginocchiarsi e pregare, io e i miei compagni di strada pensiamo che il «sacro» della poesia non ha nulla a che fare né con i miei (NOSTRI) atti di fede né con la fede purchessia. Io (NOI) non faccio (FACCIAMO) poesia perché sono (SIAMO) dei sacerdoti della poesia. Dio ce ne scampi e liberi dai sacerdoti della poesia! Questo era ancora il concetto che aveva Montale della poesia. Che non è il nostro. Noi non abbiamo alcuna fiducia verso alcuna cosa, tanto meno verso quella cosa chiamata poesia. Non scriviamo poesia per un atto di fiducia o di s-fiducia ma per un disegno intellettuale preciso.

Gezim Hajdari  Kjelll Espmark

SIAMO DEI POETI CHE VOGLIONO RICOMINCIARE A SCRIVERE POESIA

Montale scrive: «Incespicare, incepparsi / è necessario / per destare la lingua / dal suo torpore. / Ma la balbuzie non basta / e se anche fa meno rumore / è guasta lei pure. Così / bisogna rassegnarsi / a un mezzo parlare»[3]

Montale scrive una «poesia del dormiveglia» come è stata battezzata ma con l’animus di chi ha perduto la fede nel suo dio:

La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.[5]

Io (NOI) invece scrivo (SCRIVIAMO) una «Preghiera per un’ombra», nella quale, e voglio dirlo, con un «pieno parlare» rimetto (RIMETTIAMO) in piedi la poesia italiana del dopo SaturaLa Nuova Ontologia Estetica è questo: per chi non l’abbia ancora compreso: rimettere in piedi la poesia italiana, Noi non siamo i sacerdoti della sacra Musa, fare i sacerdoti non è il nostro mestiere,

E su questo punto sarei curioso di conoscere i punti di vista degli interlocutori della rivista (Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago, Letizia Leone, etc.) e dei lettori tutti.
Grazie.

[1] Montale, Il secondo mestiere: arte, musica, società, p. 169.
[2] a b c Jacomuzzi, La poesia di Montale. Dagli “Ossi” ai “Diari”, pp. 146-73.
[3] a b c d e f Montale, Diario del ’71 e del ’72, p. 194.
[4]. Montale, Satura, 1962-1970.
[5] Montale, Diario del ’71 e del ’72, pp. 75-6.

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ROBERTO BERTOLDO da La profondità della letteratura (Mimesis 2016 pp. 330 € 24) Estratti dal libro:  il Bello, il Vero, Leopardi, Autenticità, Coscienza, Metafisica, Poesia, Essere, Tempo, Verità, Sperimentalismo,  Surrazionalismo,  Nullismo,  Nichilismo assiologico, Postcontemporaneo. Le categorie del nostro tempo, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011; Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016.

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, La profondità della letteratura, Mimesis 2016.

«Oltre la verità cartesiana, e i suoi effetti, non c’è alcuna verità che sia al contempo empirica e logica, senza appigli analitici, quegli appigli che portano all’altro tipo di verità, che va per la maggiore: quella ipotetica.

Mirare alla comprovazione dativa degli oggetti esterni è stato l’obiettivo diciamo ontologico. L’esito purtroppo è, al di là di ogni dubbio, solo ontico, cioè “ti penso dunque esisti”. Sì, se guardo o tocco la matita, cioè un dato esterno, la matita esiste e, se guardo e tocco, io, cioè il dato interno, non solo esisto ma sono, al di là di ogni dubbio. E se avvaloro l’io, se gli comprovo come causa effettiva dell’io funzionale ma la natura di questo io, per me materiale, è solo ipotetica), avvaloro anche il suo pensare, vedere, toccare. Di più non ci è dato avere come prova verace dell’ipotesi».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 319

Il Niente

«La dialettica è tra niente ed entizzazione: è il Niente, ovvero l’essere, che vuole entizzarsi; in questo impasse dialettico si trova la condizione ontologica degli enti». «L’essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo NiEnte è, per postulato, la Materia».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 25 e 27

Leopardi. Il Bello. Il Vero.

Riguardo all’affermazione che «tutto il vero», che in base agli assunti leopardiani è il presente, «è brutto», perché infelice, è evidente che se il futuro è più bello del presente, ossia del vero, per via dell’immaginazione e il passato per via del ricordo, l’operazione di immaginare e di ricordare si compie nel presente, che quindi è per forza il momento in cui si vive il piacere, ed inoltre «allo sviluppo ed esercizio dell’immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente o momentanea».1 E ancora: «Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».2 È vero che leopardi distingue tra ciò che si chiama piacere e ciò che è piacere e poco dopo aggiunge che il piacere provato nel presente non soddisfa ed è solo un accenno del piacere che si ritiene di poter provare in futuro, è tuttavia innegabile che il piacere se lo si proverà sarà un vissuto giocoforza presente: «l’attività, massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile».3

Poi Leopardi sostiene, contraddittoriamente, che l’uomo è infelice senza il vero, che è il presente; e, pur giudicando il presente brutto, o comunque non bello, dice spesso che il bello e il brutto sono relativi, connessi alla convenienza, alle abitudini, ecc. Il fatto è che la conclusione sillogistica «tutto il vero è brutto» si compone su una ambigua dissociazione tra bello e piacevole. Dice Leopardi in modo chiaro che suoni, voci, sapori e odori appartengono «al piacevole o dispiacevole ma non mica al bello né al brutto»,4 però spesso questa chiara distinzione viene da lui trascurata, al punto che gli oggetti belli dell’immaginazione e del ricordo non sono proprietà solo della vista, sino a consistere anche in qualche cosa di astratto e addirittura di piacevole. 5

1 Zib., 28 febbraio 1821 [1703]

2 Zib., 20 gennaio 1821 [532]

3 Zib., 12 febbraio 1821 [649]

4 Zib., 30 settembre 1821 [1748-1749]

5 R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 227

La bellezza

«Il bello è un obiettivo irraggiungibile, come l’anarchia, l’amore, ecc., e l’arte è uno strumento come l’anarchismo, l’innamoramento, ecc. Sono gli strumenti ad essere concreti, gli obiettivi sono utopici o generici e comunque modellabili».

«La ricerca del bello da intendersi come resa della datità… è più importante della sua realizzazione (…) La bellezza quindi non è inutile anche se è un’invenzione. In fondo, tutte le invenzioni dell’uomo sono utili, magari non l’utilità che può avere un piatto…» 1

«La bellezza, considerata intrinseca o dipendente da forma o da funzione, proporzione, simmetria, armonia, verità, autenticità, purezza, perfezione morale, commozione, anche profondità, ecc., è sempre un abbaglio».2

1 R. Bertoldo op. cit. p.287

2 Ibidem p. 313

Autenticità

«La solitudine di uno scrittore è determinata proprio dalla sua autenticità, ossia dalla sua singolarità».1

«La verità corrisponde all’autenticità».2

 1 R. Bertoldo op. cit. p. 291

2  Ibidem. 297

 Coscienza

«Certo: la coscienza si nutre di inconscio, ma ciò che più conta è che l’inconscio si nutre di prodotti della coscienza e li reimmette, rivestendoli di sé, all’interno della coscienza. Ci sono pregiudizi nella coscienza, c’è un circolo vizioso che complica il giudizio quanto è complicata ogni creazione. La separazione tra inconscio e coscienza non è netta, né chiara, non si riesce a sapere dove inizia l’uno e dove inizia l’altra».1

1 R. Bertoldo  op. cit. p. 228

Metafisica

«Quando si critica la metafisica, si tende a dimenticare che la sua natura è tanto ontologica quanto fenomenologica (metafisiche dell’infinito), fenomenica (metafisica del tutto) e trascendente (metafisica della totalità). L’Essere rappresenta il campo ontologico, il darsi dell’Essere o darsi ontologico il campo della fenomenologia materialistica, il darsi dativo, il solo non metafisico, costituisce nel suo aspetto sensoriale il mondo fenomenognomico».1

Poesia

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni». «La poesia sorge, come ogni arte e ogni dato, in questo luogo dell’autenticità, dove il mondo fenomenologico e il mondo fenomenico… si incontrano e fondono la materia circoscritta…»

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni. La poesia è l’arte più elevata…».2

Essere

«L’Essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo Niente è, per postulato, la Materia. Ma anche il Nulla è, a maggior ragione, assenza dell’Ente, quindi NiEnte. In base a queste due premesse, risulterebbe, per via del sistema di equazioni, che l’Essere, ovvero, la Materia è Nulla. Si può negare questa conclusione sostenendo che il NiEnte non è propriamente Nulla, in quanto nel NiEnte c’è comunque la sostanza dell’Ente, però in base all’assunto leopardiano che l’Infinito è il Nulla, un materialista che consideri appunto la Materia infinita – sappiamo che ci sono anche materialisti esclusivamente empirici come molti illuministi – non può che constatare la Materia, sostanza dell’ente, come Nulla, sia che si annulli sia che non si annulli. Così il Nulla ontologico coinciderebbe con il Nulla ontico ovvero il NiEnte. L’annullamento di ogni valore trascendente derivabile dal particolare nichilismo ontologico leopardiano determina tra l’altro la vita fenomenica come valore imprescindibile. In sostanza, poiché per Leopardi l’infinito è uguale al nulla, che la materia non s’annulli mai (materialismo metafisico) o che si annulli (chiamo questo materialismo ‘afisico’) non c’è differenza riguardo gli effetti assiologici. La vita che vale nulla, per via del niente a cui gli enti sono destinati, è in pratica tutto ciò che si ha, l’unica cosa che si possiede, da questo discende il suo estremo valore».3

Tempo

«Riguardo il tempo, la sua natura ontologica è percepibile fisicamente. Ciò vale anche per la materia ma non per lo spazio, la cui acquisizione è puramente logica».4

«La certezza è l’esito di un accertamento, quindi riguarda solo ciò che può essere accertato, dunque la realtà, ossia tutto ciò che viene recepito».4bis

Verità

«La verità è un’ipotesi perché non ci può essere verità obiettiva».5

1 R. Bertoldo La profondità della letteratura Mimesis, 2016, p. 17

2 Ibidem, p.23

3 Ibidem, p. 27

4  e 4bis Ibidem, p.32

5 Ibidem, p.37

 Sperimentalismo

«Lo sperimentalismo è fallimentare proprio per questa sua ansia di novità, esso può essere indipendente dalla propria epoca, manca quindi di contenuto. Una novità prettamente formale non può attecchire e se la si applica in modo posticcio denuncia tutta la pacchianeria del suo autore». «Gli orizzonti di attesa sono l’emblema del vitalismo artistico mal riposto. Creare per la massa significa aderire all’ottusità». 1

«Le opere d’arte, per Adorno, non coincidono però con ciò che manifestano, ossia la verità, sia perché sono qualcosa in più di essa, e mettiamoci pure la pretesa bellezza e il piacere che ne consegue, sia perché ne sono la velatura. Quindi il godimento estetico non può essere l’unico fine dell’arte». 2

«L’opera d’arte, malgrado i fenomenologi, non è un numero ma “un constructum“, cioè un “artificio psicologico”, per usare le parole di Derrida quando rileva l’originalità di Husserl. L’opera ha senso, come tutte le espressioni che prediligono quello che gli psicologi chiamano “linguaggio interno”. Questo linguaggio deriva dalla trasformazione del linguaggio esterno, personalmente ritengo che l’interiorizzazione sia favorita dalla delusione verso la collettività e dal grado di autismo presente nella persona. La caratteristica iù interessante del linguaggio interno è la “predicatività assoluta, in quanto la predicatività genera suggestione. Nel linguaggio interno, quindi, il senso predomina sul significato. E “il senso della parola, come ha mostrato Paulhan, rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola”. Il senso è allora al di là delle singole parole e anche al di là dell’espressione concettuale che le riunisce». 3 «”Proprio nel significato della parola sta il centro di questa unità che chiamiamo pensiero verbale”». (cit. Lev S. Vygotskij)                                                                        

1 op. cit. p. 175

op. cit. p. 172

3 op. cit. p. 163

Surrazionalismo e surrealismo

«La cultura borghese, razionalistica sin nelle sue irrazionalità, ha prodotto il nichilismo al posto delle divinità nobiliari e, con esso, la letteratura fenomenologica in sostituzione di quella ontologica. La gnoseologia, avvalsasi nel medioevo dell’ontologia e nell’età moderna della fenomenologia… oggi, a farsi garante della borghesia, scade in prodotto predeterminato» 1

Nel simbolismo i sensi deragliano ma la ragione è vigile, nel surrealismo a deragliare è l’immaginazione (la freddezza creativa di molti epigoni ha poco a che vedere con certe creazioni di Eluard, Breton o Aragon, ma pure  in questi istitutori è evidente l’autoimposizione onirica e dell’automatismo), nel surrazionalismo non si deraglia ma ci si lascia coinvolgere dai sensi e dalla ragione.

Quando per la prima volta parlai di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intuizioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena postsimbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi […] Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva.

La poesia surrazionale, che è  magari anche di altri ma è difficile dirlo da fuori in quanto riguarda più il produrre che il prodotto, non ha niente di divino e di magico, è invece l’esito di una concentrazione razionale ed emotiva di carattere, posso dire, filosofico […] Sono approdato a quella che ho chiamato ‘fenomenognomica’, una filosofia scettica che concede all’uomo solo, ma è tanto, l’immanenzione, cioè questa forma di attraversamento che produce una sorta di comprensione fisica che la poesia… esprime, almeno in me, mediante ciò che ho chiamato ‘tonosimbolismo’ […] Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale»2  

Sul nullismo come avversario del nichilismo «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico»

«Il nulla non è un vuoto, non è un annullamento, in quanto il vuoto e l’annullamento lasciano un’attesa o un ricordo. Il vero nulla è il mai. L’altro nulla, quello che da sempre in un modo o nell’altro trattiamo, è relativo, secondo prospettiva: è il contrario del nostro obiettivo. Per il materialista il nulla è uno scopo eterno, eternamente posticipato […]

Ciò che è divertente, è che noi spesso sosteniamo la non pensabilità del nulla nello stesso tempo che giudichiamo le parole un semplice simbolo delle cose. Se una parola non è mai il suo referente come si può sostenere che il solo pensarlo rende il nulla un qualcosa? Se la simbologia sostanziasse i referenti allora dio esisterebbe davvero e non solo verbalmente. In realtà non è così, le idee sono semplicemente metareali e si può parlare del nulla senza ipostatizzarlo «Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.

Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.

Di fronte al mondo, date le spalle al nulla […] Il nullista non crede alla possibile percezione della pura oggettività, neppure a ben vedere può credere sicuramente al nulla. Il nullista, che è tale solo dopo aver attraversato, e portato con sé, il nichilismo, s’adegua alla propria percezione della verità, non alla verità.

Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

Per il nullista il mondo è autosufficiente, non così per il nichilista che ancora fa subire al mondo la sua provvisorietà […] Il nullista si è emancipato dalla delusione per il nulla trascendente e da punto di vista ontologico il nulla è per lui l’indefettibilità dell’essere (ovvero della materia come sostanza), il nulla è che non ci sarà mai annullamento ontologico.

Sul Postcontemporaneo

La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e che indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età moderna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».3

Non dobbiamo liberarci solo dalla metafisica ma anche e soprattutto, in quanto la fonda, dal linguaggio metafisico. Il concetto di ‘senso’, per esempio, legato a finalità, almeno intenzionali, è un concetto teleologico. In realtà tutto ha senso, ogni cosa ha senso in sé, grazie a sé. Il senso del mondo è il mondo. Avere senso non è un rimandare ad altro da sé ma un essere sé, essere. Il nostro senso è esserci».4

«Le categorie di Moderno, Postmoderno e Postcontemporaneo sono da me intese come categorie esclusivamente storico-scientifiche. Il moderno ha come modello la scienza di Newton, il postmoderno grosso modo quella di Einstein. Non avrei usato il brutto termine postcontemporaneo se non mi fossi accorto che il postmoderno descritto dai filosofi veniva ad identificarsi in pratica col decadentismo filosofico, che è la cultura tanto dei nostalgici quanto dei detrattori del moderno… Il postcontemporaneo… corrisponde almeno alla luce delle attuali idee scientifiche, al nullismo e ai suoi sviluppi».5

«L’Io è frammentato, ma i suoi frammenti sono interattivi e trovano la loro unità individuale nel progetto e collettiva nella storicità dei metodi. L’Io non può rinunciare a questa unità progettuale ed epistemologica se vuole dare un senso alla sua vita senza scopo, se vuole difendere – in una difesa titanica, e questa è la sua grandezza etica – le forme dal fluire inarrestabile della materia. Questo è il suo senso: resistere il più possibile e aiutare le altre forme a resistere il più possibile contro l’inevitabile nulla ontico e l’indifferente materia (la ‘natura matrigna’), smettendola di rinviare ad un dopo e oltre (il mondo metafisico) o di farsi sedurre, alla stregua dei nichilisti attivi, da una indebita appropriazione e distruzione del mondo fenomenico».6

1 Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura Mimesis, 2011 p. 137

2 Ibidem pp. 250, 251

3 Ibidem pp. 26-29

4 Ibidem p.31

5 Ibidem p.236

6 Ibidem p. 240

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Il Vuoto

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Questa riflessione di Roberto Bertoldo viene a porsi nel momento in cui la credibilità della letteratura e della poesia toccano il punto più basso, è proprio in questo punto che il poeta piemontese rilancia con forza il pensiero di una poesia e di una letteratura che sappiano farsi carico della loro responsabilità estetica. Il mondo frammentato, o ridotto  in frammenti non è una invenzione dell’Ombra delle Parole, è dall’inizio del secolo breve che la problematica era nell’aria e che coinvolgeva altri problemi filosofici e politici.

A proposito dei «frammenti», ecco quanto scrive Mario Praz in ordine all’opera di esordio di Eliot: «Nel 1922, in The Waste Land, Eliot aveva dato espressione al consapevole disorientamento di un’epoca che, iniziatasi colla prima guerra mondiale, può dirsi duri tuttora e non si saprebbe meglio definire che col titolo di un volume dell’Auden, The Age of Anxiety, l’epoca dell’ansia. The Waste Land chiudeva il suo barbarico edificio con alcuni frammenti di poeti del passato, vestigia di una nobile e secolare tradizione di cultura, e con la dichiarazione: “Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine“. The Waste Land voleva essere insomma un edificio di bassa epoca deliberatamente eretto sull’Ultima Thule del pensiero europeo, proprio al limite della desolazione incombente che minacciava di travolgere ogni traccia d’una cultura secolare».

Nel mondo post-metafisico dell’“organizzazione totale” fondata sulla tecnica, ogni cosa ha un posto definito, coincidente con la funzione strumentale assolta all’interno del sistema. Anche il linguaggio assolve questo compito, tecnicizzandosi. L’uomo interroga gli enti come oggetti esterni da cui determinare il senso dell’essere: il loro e il proprio. Ma la metafisica, così intesa, conduce all’oblio dell’essere, che si nasconde anziché rivelarsi, e all’utilizzo strumentale degli enti nell’orizzonte del mondo tecnicizzato. Anche l’uomo, segue la stessa sorte, diventa “ente”, oggetto, cosa, strumento. Il pensiero si riduce a servizio del sistema: strumento fra gli altri per la soluzione di problemi interni alla “totalità strumentale” in atto nelle società contemporanee. Occorre dunque ripristinare il contatto con le sorgenti dell’essere.

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927)

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927) aveva individuato l’ontologia come destino e compito dell’uomo. Noi siamo l’ente che si interroga sul problema dell’esserci dalla prospettiva opaca del Dasein, la “deiezione” dell’esser-ci, dell’essere gettati in mezzo al mondo. Un modo per superare l’impasse di una metafisica che, per consunzione di principio, tradisce il proprio andare “oltre”, è fare dell’esistenza umana una manifestazione dell’Essere, che in essa si rivela e insieme si nasconde. L’Essere è la totalità che emerge da ogni singola cosa del mondo. È l’origine fondante che regge gli enti all’interno, e ne apre la soglia ontologica, cioè la luce entro cui l’ente si fa visibile in quanto è. L’Essere è il bordo non aggirabile della comprensione. Non spetta all’uomo cercare l’Essere, o tentare di conoscerlo. L’uomo non può far altro che abbandonarvisi e accettare le rivelazioni di cui l’Essere stesso prende iniziativa. L’Essere si manifesta per illuminazioni che accadono e, accadendo, si consegnano all’uomo. Tali rivelazioni avvengono attraverso il linguaggio poetico.

In questi ultimi anni la poesia italiana

In questi ultimi anni la poesia italiana ha mostrato segni di un cambiamento, di rinnovamento, si sono verificati dei ripensamenti sulla eredità che il secondo Novecento ci ha lasciato. Questo lo ritengo un fatto positivo. Personalmente, mi ritengo coinvolto in questo processo di rinnovamento della poesia italiana, forse certe mie affermazioni possono suonare apodittiche e eccessivamente taglienti, ma credo che sia necessario, in questa contingenza stilistica della poesia italiana, essere ed apparire categorici, anche con il rischio di essere fraintesi.

Il richiamo a Tranströmer era necessario, la prima opera di Tomas  Tranströmer, 17 poesie, risale nientemeno al 1954 e da noi quelle poesie sono state tradotte dall’encomiabile Enrico Tiozzo soltanto da pochi anni. Il fatto è che un ritardo così cospicuo di un libro così rivoluzionario ha determinato e contribuito alla provincializzazione della poesia italiana sempre più chiusa entro i suoi asfittici recinti. Credo che sia necessario, oggi, riproporre il problema del «cambio di paradigma», ritrovare i nostri progenitori di una poesia «diversa»; sono convinto che cercare strade nuove sia un dovere imprescindibile per la nuova poesia italiana. I poeti nuovi ci sono, basta cercarli e saperli leggere: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Antonio Sagredo ed altri che non nomino, la loro poesia è da tempo indirizzata in nuove esplorazioni e direzioni di ricerca, ed è talmente «diversa» da quella cui siamo abituati che rischia di passare inosservata.

Ad esempio, la «sospensione della temporalità», l’accelerazione e il rallentamento del tempo interno di una poesia» (secondo la teoria espressa in questa rivista da Steven Grieco-Rathgeb) che la «nuova poesia» persegue è una condizione preliminare della praxis poetica. In tal senso, la poesia occidentale può e deve far propri alcuni assunti di posizione poetica presente negli haiku giapponesi e, conseguentemente, nei tentativi di scrivere haiku «occidentali». La sospensione, il rallentamento e l’accelerazione della temporalità sono dei modi per introdurre una «rottura» della stabilità temporale e introdurci in una condizione di instabilità. Una condizione di disequilibrio che apre un varco nella memoria profonda e consente di riallacciarci alla condizione primaria della nostra psiche, agli «oggetti profondi» (le «posate d’argento» di Tomas Tranströmer) che giacciono e si depositano nel fondo della condizione stabile del nostro sottosuolo, una dimensione libera da quella illusoria credenza nella stabilità e nella continuità spazio temporale della nostra vita quotidiana. Leggiamo due versi fulminanti di Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è più nero.

Il nuovo concetto di «tempo» di cui Prigogine dà il trionfale annuncio nell’opera From Being to Becoming (1978), ci dice di un «secondo tempo», non più parametro (come nella fisica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica, il «tempo interno». Continua Prigogine: «la giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha ancora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio». L’obiettivo polemico è dato dalla critica alla tradizione occidentale «centrata sul tempo» e l’immagine «senza tempo» della fisica classica irretita dal modello platonico della Verità eterna e atemporale. Non a caso la storia della filosofia da Kant a Whitehead sarebbe segnata dallo sforzo di rimuovere questo ostacolo mediante l’introduzione di un’«altra realtà», il «mondo noumenico», gli «oggetti eterni» etc.. Tuttavia la meccanica quantistica e relatività generale sono portatrici di «una negazione radicale dell’irreversibilità temporale».

Ora, sta di fatto, che ciascuno di noi nella esistenza quotidiana sperimenta in sé un «tempo interno» che è diverso dal tempo interno di un altro essere vivente. Il «tempo interno» quindi è una realtà ontologica che non può essere dimenticata in sede di ontologia, perché ciascuno di noi lo sperimenta quotidianamente, ed esso esiste, pur non esistendo un tempo sovrano e unidimensionale. Il «tempo», per Prigogine, rappresenta il «filo conduttore» che consente di articolare a tutti i livelli le nostre descrizioni dell’universo. Resta però oscura la sua origine: «Come potrebbe sorgere da una realtà essenzialmente atemporale questo tempo creatore che costituisce la trama delle nostre vite?».
Si ripropone così il tema agostiniano del «prima» della Creazione. E il problema della ragion sufficiente dei processi unidirezionali come il tempo nel quale viviamo.
Ecco, io direi che la «nuova poesia» ci costringe a riparametrare il nostro «tempo interno» con il «tempo esterno» e a rimodulare la nostra sensibilità nei confronti del «mondo».

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