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Video di Gianni Godi, voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson, Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫metafisica☼? Nel mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso, Discorso della Montagna, poesie kitchen di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mimmo Pugliese

Video di Gianni Godi voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson

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Oggi, nel 2023, non si può porre mano ad alcuna ermeneutica dell’arte a seguito della Fine della poiesis, di quella che un tempo si chiamava «arte» nel tempo della storia lineare e progressiva; oggi, nel tempo della storialità (cioè della storia non-progressiva), la fine dell’«arte» trascina con sé anche la fine della critica d’arte. E qui il discorso si chiude. La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale»; ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situi all’interno tra le due cornici, nell’intercapedine tra le due cornici là dove si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis ovviamente priva di «essenza» e di qualsivoglia «interiorità».
Quelle interiorità ridotte a palline luminescenti, sfere che rimbalzano e galleggiano all’interno di una macchina celibe dove majorette in reggicalze ballano con scheletri redivivi il tutto accompagnato da spezzoni di triviali musichette marziali e acuti di un melodramma soporoso…

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(Giorgio Linguaglossa)

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Domanda

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della ♫ fine della storia ☼?
–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫ metafisica ☼?
–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi ♫ eventi epocali ☼?

Promenade notturna 1, Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage, 40×40, 2023

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Marie Laure Colasson

Rispondo in breve alla prima domanda di Giorgio Linguaglossa

perché è quella che ritengo fondamentale, le altre sono domande di contorno di cui mi sarà lecito rimandare ad altra occasione l’onere di una risposta.
Con la parola «♫metafisica ☼» di cui si parla nella domanda penso si intenda la legislazione del linguaggio a cui noi tutti storicamente sottostiamo: la grammatizzazione della voce orale che ha fondato la nostra civiltà occidentale con tutti i suoi innumerevoli tropi e figure retoriche. Ma la «metafisica» è l’opera di una gigantesca grammatizzazione, non è un corpo unitario e infrangibile, la si può infrangere togliendo alle parole la loro destinazione di legalità e di utilità, sospendendo, con un atto di deposizione, le parole dal loro significato ordinario.

Nel pensiero di Walter Benjamin la verità si dà solo nei «cocci del pensiero», nelle parole depositate sul fondale marino del dimenticato, sottratte al rimosso e all’oblio dalla rete del «pescatore di perle» e del «pescatore di stracci». Benjamin aveva escogitato una precisa strategia in grado di infrangere l’incantesimo di una tradizione che considerava alla stregua del «bottino di guerra» dei «vincitori della storia». Si tratta di una straordinaria collezione di citazioni, minuziosamente appuntate sui suoi taccuini e della quale il filosofo faceva il contenuto fondamentale della sua speculazione.
La citazione, come forma del nominare, se sradicata dal suo contesto semantico e sintattico originario, consente di ricongiungersi alla potenza del dire prima che intervenga la legislazione del senso e del significato. Le citazioni organizzate dalla tecnica del montaggio recidono i vincoli che le tenevano avvinte alla ♫metafisica☼ del «significato»; qui il principio di autorevolezza dell’enunciato viene soppiantato da quello di libera individualità delle parole liberate dalla sottomissione al significato ordinario socialmente condiviso.

Ha scritto Linguaglossa in un commento postato il 28 febbraio 2023:

“Oggi abbiamo a disposizione la «musica» e le «parole» ovunque: non solo nelle sale concerto, ma, nei teatri, nei cinema, nelle sale d’aspetto dei dentisti, nei negozi di alimentari, nei supermarket… come la «musica» anche le «parole»: siamo invasi da parole di tutti i conii, da quelle bicefale a quelle alto allocate, parole insulse, prometeiche, cafonesche, a quelle prive di significato, parole vuoto a perdere… così non solo negli aeroporti ma anche in spiaggia e finanche nel mare a bordo dei pedalò siamo assediati dalle musichette orripilanti e dalle parole dei bagnini… tutto questo ha cambiato il nostro rapporto con la musica e con le parole; innanzitutto, dobbiamo liquidare una volta per tutte l’ideologema mitico della «voce originaria», come se ci fosse una mitica «voce» nella mitica «interiorità» in grado di affiorare in superficie
(con tanto di duende) e di irrorare di bellezza composita il foglio bianco del poeta intonso. Tutto ciò è un mito! In realtà, non c’è nessuna «voce» originaria e tantomeno «narrante», non c’è nessuna «origine» e nessuna «autenticità» da salvaguardare e quindi non c’è nessuna «duende» originaria, nessuna «nostalgia», non c’è nessuna «autenticità» da liberare nella voce dispiegata. Tutti miti di un bel tempo che fu. E con la scomparsa della «voce» originaria del poeta, abbiamo i suoi sostituti: delle «voci» multilaterali che provengono da ogni dove.”

Il poeta di oggi agisce in modo analogo a quello del «collezionista» di Benjamin, le parole intimamente intrecciate all’origine del loro valore d’uso e di scambio si configurano presso la nuova fenomenologia del poetico, una volta liberate dall’origine, in guisa antisistematica; libere di agire in base al principio di libertà, le parole non sono più soggette alla legislazione di quella «metafisica» (la tradizione) che ne irrigidisce il senso e il significato.
Possiamo considerare il collezionismo di oggetti di Benjamin una procedura analoga al collezionismo di frasari nella poetry kitchen, una procedura che consente di sostituire il valore d’uso e di scambio delle parole con un valore dato dal mero piacere disinteressato del poeta. Così, gli oggetti liberati dalla schiavitù dell’utilità e del significato, vengono «riscattati». Si tratta di un’attività rivoluzionaria governata dal kairos che sconvolge l’ordine imposto dal passato e legittimato dalla tradizione.
Le citazioni anonime, i frasari anonimi costituiscono il nucleo centrale della tecnica compositiva della nuova fenomenologia del poetico, nella quale non vige il principio logico-causale ma un intento azionatorio-predicatorio insito nel linguaggio. Verrebbe da pensare, allora, che proprio il kairos rappresenti la categoria portante della poetry kitchen.
Il kairos che governa il rinvenimento di «perle e coralli» (dizione di Benjamin) perduti, il kairos che culla il passeggiatore, il flâneur, nel reticolo delle strade di Parigi.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”.1

1 Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti

Giorgio Linguaglossa
Discorso della Montagna

Il Presidente del Globo Terrestre alzò la cornetta del telefono
Urlò:
«Il misuratore dei bidet è andato a prendersi un caffè, ha attaccato un cartello alla vetrina del negozio di ortofrutticolo di via Pietro Giordani con su scritto:
“Torno subito”»
E continuò con questi frangenti:

«È in corso la denazificazione della poetry kitchen!
È in corso la saponificazione della formaldeide!
Non dimenticate di prendere un’aspirina, la sera, e una di Lexotan la mattina e dopo i pasti, vi toglie il mal di stomaco
È vietato fornicare con la vicina di ombrellone
Ai nani è vietato indossare gli shorts
È vietato pomiciare con un LGBT
È vietato chiudere i rubinetti del gas prima di uscire
È vietato chiudere i flow cash dei bancomat
È consentito indossare la canottiera solo d’inverno
Non è permesso immergere i savoiardi nel caffelatte
Non dimenticate di assumere il prolettico dopo pranzo
La penicillina è diventata astemica
La majonese è una combriccola milanese
L’alopecia è una torta Sacher con la Lichtung al centro
Il poliptoto è il nome scientifico della medusa mediterranea
Il maggiordomo Camembert ha deglutito per errore la créme caramel di propietà del poeta Michal Ajvaz
Madame Colasson usa sempre il filo interdentale Colgate Control»

Fu a questo punto che Papa Francesco dal Vaticano interloquì in modo appropriato:

«Spolverate più spesso la piramide di Cheope con lo spazzolino da denti Kukident e poi lucidatela con il lucido da scarpe Nugget
Non fidatevi del Mago Woland, è un malmostoso putleriano, un fidejussore, un profittatore
Ogni evento ha il suo contrario ope legis
Il periplo è analogo al peplo
Il contrattempo è in allestimento
Il contraddittorio è in allestimento
Il collutorio contiene la clorexidina
È in allestimento anche il futuro
Per il passato ci incontreremo domani»

Gli ofidi sono ventriloqui, parlano spesso con i T-Rex
Il Velociraptor ha deglutito il pesce Lavrov
Anassagora beve un bicchierino di vodka in compagnia di Prigožin
Il cateto di Pitagora litiga con l’ipotenusa di Aristarco

Così il Parlamento ha votato la fiducia al Governo di unità nazionale
La legge di stabilità contiene l’autorizzazione al termovalorizzatore dell’Urbe
Il pappagallo Totò ha augurato “Buongiorno!”
Achille ha raggiunto la Tartaruga
Un pesce in marsina si sta lavando i denti con Pepsodent anti placca quando il misuratore dei bidet, il Mago Woland, dopo aver masticato un würstel ha continuato con questi frangenti:
«Dio è diventato impotente! Questa è la migliore prova dell’esistenza dell’Essere e del Dasein, lo stigma della sua impotentia coeundi!»

Nel mondo capovolto Churchill va in bicicletta e Fausto Coppi è il primo ministro del Regno Unito
Lo scolapasta andò a picchiare contro la pentola di Chernobyl in ebollizione
Fa ingresso nell’ologramma il Corvo di Salaparuta il quale spedisce una cartolina alla papessa Giovanna con su scritto “Viva l’Italia!”
Nella circostanza, un nano esce da una poesia di Michal Ajvaz, bussa alla porta della abitazione del critico Linguaglossa e non trova di meglio che radersi la barba con una lametta Bic tripla lama
Si guarda allo specchio, sorride, fa dei versacci, dei cilecca e dei princisbecchi e dice:
«Caro Linguaglossa, Lei è il terrore dei poeti elegiaci!»

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken ha dichiarato al G7:
«We’re not going to tell the russians how to negotiate, what to negotiate and when to negotiate»,
con una postilla significativa:
«They’re going to set those terms for themselves»

Marie Laure Colasson

Das Ereignis ereignet (l’evento avviene, Heidegger), L’ultimo periodo della vita di Heidegger è stato dedicato alla nozione di Evento (Ereignis), ma il filosofo non è riuscito a cavare un ragno dal buco. Il concetto di Evento è sfuggente, imprendibile, se fosse prendibile non sarebbe un Evento. Per esempio, la nuova poesia. Bene, se fosse leggibile non sarebbe più un Evento. Per essere Evento non deve essere né leggibile né prevedibile.
La poesia di Linguaglossa è l’unico discorso che Gesù potrebbe pronunciare se tornasse sulla terra. Che altro potrebbe dire? Non c’è nulla da dire di significativo…
L’Evento è in se stesso una Enteignis, («espropriazione»), ciò che eravamo prima dell’evento ora non siamo più. L’Evento è ciò che rivoluziona il nostro «proprio», ci dispossessa delle nostre proprietà e ci restituisce alla espropriazione di noi stessi. L’Evento non è qualcosa di cui pensare ma qualcosa che avviene, che precede il pensiero e lo trasloca. II pensiero post-metafisico che prende dimora nell’evento, non è un atto di fede ma una presa d’atto, una presa di coscienza dinanzi a ciò che si presenta come irriconoscibile, infatti l’Evento è sempre irriconoscibile, si presenta come nuovo linguaggio di cui appropriarsi. Con lo svanire dell’essere nel rapporto di scambio nasce il «nuovo». Heidegger afferma che dell’Evento non si dà una teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’esperienza non è qualcosa che mistico […] ma è il raccogliersi che porta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimento che può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» è già esso stesso esperienza dell’evento.
Al di là dell’alone di mistico che aleggia nelle parole del filosofo tedesco, possiamo tradurre il concetto così: prima della Rivoluzione Francese non c’era nulla tranne l’ancien Régime, nessun Evento, dopo di essa il nuovo evento cambia la storia dell’Europa e del mondo occidentale e le coscienze degli uomini. L’imprevedibile (e l’irriconoscibile) è diventato realtà. Analogamente, una «nuova poiesis» all’inizio è sempre imprevedibile e irriconoscibile, ma dopo di essa la poiesis è cambiata per sempre. Prima del 1954, anno di pubblicazione del libro d’esordio di Tomas Tranströmer, 17 poesie, la poesia europea era diversa, pensava e scriveva ancora in chiave di mimesis, era neoverista nelle sue profondità; dopo quel libro la poesia europea è cambiata, per sempre. Certi Eventi che accadono non tutti li intercettano, e magari i suoi effetti risuonano a distanza di decenni, ma questo risiede nella struttura stessa dell’Evento che si presenta sempre con le caratteristiche della invisibilità e della impredittibilità.

Due parole sul bellissimo video di Gianni Godi. Questo è per me un Evento, inatteso e imprevedibile in quanto Evento. Che Gianni Godi abbia preso lo spunto dalle mie «strutture dissipative» mi dà soddisfazione… le nuoveopere camminano, gli eventi sono in cammino… La nuova poesia è difficile, problematica, irriconoscibile molto più facile è fare le poesie della interiorità e della bellezza sfregiata. Sull’amore non saprei che dire, io che ho molto amato, dinanzi all’amore resto senza parole. E forse questo è la migliore poesia: una poesia senza parole, come una musica senza note… l’ideale per ogni poeta o musicista.

Marie Laure Colasson

da Un masque rouge fait de pétales de coquelicot

1.

Un masque rouge fait de pétales de coquelicot
empeste d’opium les bouches d’égouts de Paris

Un crâne étiré en pain de sucre
boit assidûment le sang des aigles

Un nain et un géant mongol
détectent l’oreille au sol les confessions d’un merle

La blanche geisha cachée derrière un écran de soie noire
entrevoit l’orifice hideux d’un boa chansonnier satirique

Eredia embrasse à coups de poings
et de mitraillette une monstrueuse ventouse

D’une voix timbrée le siège du bus
écrase une meute survoltée dans un étau de charpentier

Des petits riens s’échappent en tous sens
les couronnes des rois flirtent avec le temps

(inedito)

Una maschera rossa fatta di petali di papavero
impesta d’oppio i tombini di Parigi

Un cranio a forma di pane di zucchero
beve con assiduità il sangue delle aquile

Un nano e un gigante mongolo
percepiscono con l’orecchio al suolo le confessioni d’un merlo.

La bianca geisha nascosta dietro uno schermo di seta nera
intravede l’orifizio schifoso d’un boa chansonnier satirico

Eredia bacia a colpi di pugni
e di mitraglietta una mostruosa ventosa

Con una voce altisonante il sedile dell’autobus
schiaccia una muta esasperata nella morsa di un falegname

Piccoli niente scappano in tutte le direzioni
le corone dei re flirtano con il tempo

Mimmo Pugliese

La barca

La barca è finita in cielo
gli elefanti in salopette stordivano tarocchi

Zigomi e seni quadri marciavano in cassaforte
una ruga di cortisone abbraccia pupazzi di neve

Le lampade della sera si inginocchiano alle tonsille
ha fatto boom il promemoria del gelsomino

Le schiene delle bottiglie dirigono il traffico
dalla tana il dentifricio scavalca la cresta dei galli

Sabbia e sale avevano scarpe intrise di occhiali
bighe contromano masticavano aghi

Posacenere demodè inseguivano molluschi
portapenne a transistor affilavano rasoi

Le trame dei tappeti erano aloni di bocche
dal bagnasciuga spuntava la gobba delle piramidi

Il petto sudava tricicli
sulla cima del ventaglio pioveva

Cornicioni resettano metri di caffè
la catapulta diventa dirigibile

Al centesimo mese dell’anno il sirtaki vomita inchiostro
vetri distopici scarnificano la risacca

Gianni Godi  è nato a Monte Porzio nel ’37 (Pesaro-Urbino). GG è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. In un momento di debolezza ha pubblicato a proprie spese il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia.  (Date le dimensioni da lui richieste, 160 x220 cm, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia. È convinto di fare cose bellissime e complicate dalla confusione ed è per questo che da un po’ di tempo ha deciso di dare un taglio sferico alla sua vita museale dove ha finora esposto tutte le sue opere. Alcuni eventi trascorsi: 1985 – Lavatoio Contumaciale – Roma – Sorrisi e Canzoni non stop………2009 – Onishi Gallery – New York – XX WOMEN MADE IN SOUTH OF ITALY- Video e Foto di Donne di San Luca (RC)…2012 Roma – RO.MI. – Videoart – Contamination 5. 2006 FESTA NAZIONALE DELL’UNITÀ – Pesaro – Arti Elettroniche a cura di MM Gazzano – Video-installation Piciedroquadro per single. 2007 Danon Gallery – NY, – THE FLOWER OF BUDDHA Silk and metal carpets from the Forbidden City. Proiezione su parete scura del videoclip Fiore di Loto. 2012 Castelvecchio di Monte Porzio – Pu – 3 GIORNI DI CENERE – rassegna di parole e forme – agosto 2012 – Installazioni e performance in piazza –

2014  Teatro del Lido – Ostia Lido – Con l’Associazione Spazi all’Arte – Proiezione del Cortometraggio TRASH SPLENDOR – https://youtu.be/Y3dswdnVfTM
2015. Un Video inserito nella rappresentazione TEATRALE dell’opera RED ROSES AND DOMESTIC ACID,  di Pilar Castel (Quarzell) andata in scena  nell’agosto 2015 a New York.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e del volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Le radici della poesia di Marco Tabellione, Poiesis o Dichtung?, Il concetto di poesia da Giambattista Vico ad Heidegger attraverso Jaspers, Derrida fino ai giorni nostri

foto Un abito della collezione autunno inverno 2011 2012 The Rodnik Band intitolato Venere in paillettes che ha reso omaggio a vari artisti ha fatto riferimento alla Fountain di Marcel Duchamp del 1917

Foto della collezione autunno-inverno 2021 che rappresenta Venere in paillettes

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Le radici della poesia

di Marco Tabellione

Studiare la poesia rappresenta sempre un’avventura della mente, ma anche dello spirito e dell’emotività, come se l’arte delle parole riuscisse da sé a dare vita ad un universo globale e complesso, come se la poesia potesse davvero assurgere ad essere tra le arti la più capace a testimoniare l’integrità dell’essere umano, e il significato più profondo di ciò che è precipuamente umano. Del resto l’esaltazione di cui essa gode presso tutte le civiltà, ma anche il blasone che continua a conservare nella contemporaneità testimoniano appieno la sacralità di cui spesso l’arte poetica è rivestita. Per comprenderne le ragioni si può cercare di individuare alcuni autori che hanno tentato di evidenziare il percorso della poesia dalle sue origini, e di chiarirsi i motivi della sua nascita.-

Definire l’arte poetica è impresa a dir poco titanica, perché essa fa parte dei misteri dell’essere umano, in quanto ha accompagnato l’origine e lo sviluppo della civiltà. Giambattista Vico nella sua immensa opera La nuova scienza, tra le facoltà culturali umane pone la sapienza poetica al primo posto in ordine di nascita, molto prima delle altre discipline umanistiche o addirittura delle scienze esatte. L’idea di Vico è che il linguaggio poetico nasca contemporaneamente alla facoltà verbale dell’essere umano, o meglio ancora che il linguaggio nasca con caratteristiche poetiche. Lui immagina i primitivi, che chiama giganti (ma il riferimento è probabilmente alla mitologia greca, ad Esiodo per esempio che indica giganti e titani tra i primi nati dall’unione di Urano e Gaia) alle prese con i misteri e le paure del mondo, li immagina mentre fantasticano su dei e divinità per spiegare i pericoli e le difficoltà delle vite, mentre inventano svariate divinità attraverso cui sentirsi protetti, dalle quali anche farsi punire, nel tentativo di dare vita alle prime forme di organizzazione comunitaria e dunque di legge (Vico nota che Iovis il genitivo di Iuppiter, Giove in latino, ha la stessa radice di ius-iuris cioè legge o giustizia presso i romani). Li immagina passare dal linguaggio gestuale ai primi monosillabi, e successivamente alle prime parole con cui nominare le cose del mondo, sia esistenti sia non esistenti, li vede infine mentre fantasticano e creano l’idea di una trascendenza che possa indirizzarli e guidarli. Ed ecco il miracolo, il passaggio alla base delle culture: dall’ignoranza dei primitivi al sorgere delle prime curiosità, dalla paura e dal mistero suscitati dal mondo naturale alle prime idee di oltre, dimostrate dalla pratica della sepoltura, fino alla creazione delle prime religioni e delle prime cosmogonie. Nasce così non tanto la religione o la metafisica, quanto la poesia, e la poesia nasce come conoscenza, come prima forma di conoscenza che spalanca il campo appunto alla religione e alla metafisica.   

È evidente in questa ricostruzione vichiana la presenza di una particolare idea di poesia, ciò la poesia come creazione, come fare, come dare vita dal nulla. Il linguaggio umano cioè diventa per i primitivi la dimensione dei primi significati da attribuire all’esistenza. Le idee sorgono innanzitutto come parole; è, cioè, il linguaggio, nella sua origine poetica, che dà vita ai significati, i quali non preesistono al linguaggio; e ciò diversamente da come sosterrà Husserl, padre della fenomenologia, secondo il quale invece i significati sarebbero indipendenti dal linguaggio, come dimostra il caso ricorrente in cui sosteniamo che abbiamo l’idea ma non ci viene la parola. Altri filosofi, al contrario di Husserl, proseguiranno sul solco di Vico, fino al caso estremo di Jacques Derrida che sosteneva che “tutto è linguaggio”. Per Vico indubbiamente se non tutto è linguaggio, sicuramente vale il principio espresso nel vangelo di san Giovanni, secondo il quale come è noto “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio”. Sappiamo che per Vico tale impostazione (di significato primariamente teologico) vale nel senso del carattere iniziatico che il linguaggio avrebbe nella sua origine appunto poetica, tanto che la lingua costituirebbe lo scopo stesso del pensare umano, o meglio pensiero e linguaggio sarebbero in sostanza la stessa cosa, come è anche nell’idea dei greci che utilizzano la parola logos per indicare entrambi.

Gli stessi greci inoltre ci offrono etimologicamente la parola che noi utilizziamo per indicare poesia, cioè poiesis, che vuol dire appunto creare, e che ci permetterebbe di vedere nel poeta soprattutto il creatore, come creatori di linguaggio e pensiero furono i primi parlanti. Il poeta, cioè, secondo questa visione sarebbe un creatore, e creatori di linguaggio e dunque di poesia furono gli arcaici uomini preistorici che diedero vita alle prime forme verbali, probabilmente per costruzione onomatopeica.

Vico, a questo proposito, addirittura sostiene che le idee non nascono prima del linguaggio, sarebbero piuttosto conseguenti al linguaggio, perché la concretezza fisica, a cui i giganti primitivi erano legati, li avrebbe portati a creare prima il verbo fisico e poi le idee spirituali, i concetti. Va detto però che tale idea di poesia non è la sola avvallata dalle tradizioni e dalle civiltà che si sono susseguite nei secoli. Il romanticismo, ad esempio, ha sì mantenuto l’esaltazione della creatività del poeta, ma lo ha considerato come una specie di invasato, di posseduto dal linguaggio poetico, che sorge nella sua mente per servirsi di essa quasi come strumento, secondo una visione che tende a considerare il poeta come un mezzo della lingua e non viceversa. In base a questa interpretazione, la visione del poeta muove sempre da una ispirazione; è il sorgere misterioso e spontaneo dell’empito creativo che determina il primo germe del fare poetico, e l’ispirazione non nasce dalla individualità cosciente del poeta, da una sua volontarietà, piuttosto gli viene regalata.

Non per niente, Dante nel primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di ispirarlo, di offrigli una sorta di apporto divino, la vocazione profonda dell’arte delle parole di cui Apollo è protettore. Lo invoca perché Dante sa che da solo non è affatto in grado di dare un resoconto seppur sommario della sua estatica esperienza paradisiaca, poiché, dice in sostanza l’Alighieri, con le sole armi della poesia come arte, come tecnica (l’un giogo di Parnaso) non si potrebbe dare inizio a questo, per altro inutile e fallito in partenza, tentativo di dire l’esperienza del divino. A monte della creatività poetica, c’è dunque l’ispirazione, non sono l’abilità creativa, anzi la sorgente stessa dell’afflato poetico non è che in questo monito linguistico e immaginativo che sembra nascere indipendentemente al di fuori.

Ma che cos’è allora questo originario germoglio poetico? Difficilissimo dirlo, a meno che non ci si rivolga ad Heidegger, il quale, come ha ricordato Massimo Cacciari in molte conferenze dedicate all’unicità del linguaggio poetico, per le ragioni sopra esposte non utilizza il termine di origine greca poesie, ma quello latino di Dichtung, che potremmo tradurre con “dettato”. Il poeta cioè ubbidisce ad un dettato interiore, e ciò è lo stesso Dante ad affermarlo quando, dopo aver incontrato nel Purgatorio il poeta pre-stilnovista Bonagiunta Orbicciani, che gli chiede da dove derivi il suo “dolce stil novo”, risponde facendo proprio riferimento ad un dettato interiore “Io sono uno che come detta il cuore scrive” (alla lettera: “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”).

Scrivere o meglio ancora poetare, secondo questa visione non vuol dire tanto creare, cioè plasmare, mettere in atto un’abilità, un fare (poiesis appunto), ma vuol dire seguire un dettato, ubbidirgli addirittura, e non per niente il temine Dichtung etimologicamente si ricollega anche a quello di dictator, che a Roma designava la carica temporanea di sei mesi assunta in caso di pericolo per le istituzioni, termine dal quale poi deriva quello spregiato di “dittatore”. Per Heidegger la Dchtung è innanzitutto linguaggio, linguaggio però che si detta, si dà all’ascolto del poeta, per cui essere poeta vuol dire primariamente ascoltare e non parlare, vuol dire cioè ascoltare un linguaggio interiore. L’idea di linguaggio interiore fu formulato tra i primi da Vygotskij, linguista russo vissuto durante la dittatura staliniana e affidato allo studio di bambini problematici, il quale mise in relazione l’acquisizione dall’ambiente culturale di stimoli linguistici, da rielaborare individualmente, con i progressi dell’apprendimento. Su un versante ancora più misterioso e ovviamente metafisico Heidegger giunse ad individuare addirittura una completa identità tra il linguaggio interiore e l’essere stesso, vedendo nel linguaggio “la casa dell’essere”.

Nella visione di Heidegger il linguaggio, e ancor più il linguaggio poetico, non sarebbe solo uno strumento di comunicazione o espressione, ma sarebbe la fonte stessa delle idee, la forma materica che permette la nascita delle idee, le quali non preesistono al linguaggio e, rappresentando la fonte stessa della coscienza, sarebbero collegate con l’essere profondo dell’uomo fino ad influenzarlo radicalmente. Poetare dunque non vorrebbe dire solo fare, creare (poiesis) vuol dire innanzitutto immaginare il linguaggio, cioè rispondere alla Dichtung che abita ognuno di noi, e dunque in ultima istanza poetare vuol dire essere contattando l’essere. È probabilmente lo stesso tipo di identità tra linguaggio ed essere che spingeva Rimbaud ad affermare “io non penso ma sono pensato”. Come è noto Rimbaud appena adolescente paragonò il poeta ad un veggente, sottolineando la necessità di un’azione poetica che fosse innanzitutto aperta all’ascolto, e successivamente dialogo della ragione con questa matrice profonda dell’essere umano. Le Illuminations già dal titolo sottolineano questa specie di accensione di luce che la poesia comporta, in un senso che non coincide ovviamente con l’amissione razionalistica dell’illuminismo, il quale utilizzò la metafora già religiosa della luce, in un’accezione laica se non addirittura ateistica, per indicare la funzione totalizzante della ragione. In Rimbaud torna il significato mistico dell’illuminazione, nella quale però la ragione non è abolita, ma dialoga con le profondità dell’essere umano.

Dunque Poiesis o Dichtung? Entrambi si dovrebbe dire, nel senso che, essendo artista, anche il poeta si muove in un ambito di abilità, linguistiche o metriche o musicali, le quali abilità richiedono talento ed estro. Pur tuttavia è evidente che senza l’ispirazione originaria l’arte diventerebbe ben poca cosa; in fondo è lo stesso Dante a riconoscerlo, quando nel citato primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di assisterlo con entrambi “i gioghi del Parnaso”, perché ora l’autore della Divina Commedia confessa di aver bisogno soprattutto dell’ispirazione per poter proseguire.

L’esistenza di un monumento linguistico letterario nel profondo di ogni essere umano, per cui essere poeti e scrittori vuol dire appunto attingere da questo spazio di ricchezza, può essere comprovata dalla teoria di Jung sull’inconscio collettivo. Jung chiama in causa gli archetipi, e li riprendi da quelli che Freud invece tratta come simboli arcaici. Si tratta di componenti psichici collettivi, derivati da sedimenti che non interessano le individualità in quanto tali, ma in quanto individualità appartenenti al genere umano. Il modo che l’inconscio ha di rivelare tali archetipi assomiglia moltissimo al linguaggio simbolico della poesia, tanto da autorizzare a dire che si tratta dello stesso tipo di meccanismo psicologico e linguistico.

Jung sostiene che molti simboli onirici, i quali si rivelano nei sogni delle persone, non possono essere spiegati solo con le vicissitudini del singolo, ma rimandano ad un sostrato collettivo, dal quale il nostro inconscio attinge per le sue formazioni simboliche. Questa comune radice linguistico-simbolica, che risiede nell’uomo un po’ come gli istinti che agiscono negli animali – istinti il cui sorgere misterioso è utilizzato da Jung per motivare il sorgere altrettanto misterioso degli archetipi umani – questa radice archetipica, si diceva, non solo ha anche fare con le formazioni mitologiche dei popoli arcaici, ma appare vicina alla radice stessa della poesia. In un certo senso Vico anticipa Jung, quando descrive la nascita della propensione linguistica nell’essere umano definendola poetica a priori, e probabilmente il filosofo napoletano si riferisce inconsapevolmente ad un motivo arcaico, una tendenza simbolica e immaginativa, non lontana dalla dimensione psichica in cui si formarono gli archetipi collettivi junghiani.

Fase generativa, misteriosa e arcana, la quale ha a che fare con esperienze che Vico definisce divinatorie, e che investono le prime due età della storia umana individuate dall’autore della Scienza nuova, vale a dire quella sacra e quella eroica, dominate rispettivamente dalla percezione sensoriale e da quella sentimentale e passionale, mentre raziocinio e consapevolezza logica sarebbero state acquisite dall’uomo solo durante un terzo stadio. In definitiva nel secondo periodo quando l’uomo è già immerso in una configurazione passionale e sentimentale della propria visione del mondo, la necessità relazionale avrebbe spinto i nostri antenati ad elaborare la dimensione linguistica grazie alla quale sarebbero giunti a nominare e a significare la realtà, a determinare la coscienza – cioè una consapevolezza sempre più progredita sul mondo – e a produrre quell’incredibile creazione affabulatoria che darà vita alla mitologia e alle religioni, che a loro volta contribuiscono a rimpinguare la coscienza stessa.

Ma, lo ripetiamo, questa straordinaria sequenza sorge da un atteggiamento iniziale e iniziatico che è già poetico, è già poesia. Ecco perché Heidegger sosterrà che la poesia prima di creare ascolta; dal silenzio, come direbbe Ungaretti, essa tira fuori le parole e i loro connotati simbolici per offrirli alla collettività, e riesce a farlo perché attinge da un tesoro che è a sua volta collettivo, se ha ragione Jung quando parla di inconscio collettivo e va a riscoprire i miti antichi per avere conferma delle sue intuizioni. Scrivere poesia, adagiarsi sul linguaggio interiore, farlo parlare, non vuol dire solo dare vita ad un’esperienza artistica o estetica, o peggio semplicemente culturale, vuol dire contattare l’essere nella sua forma più pura, secondo quelle coordinate che Karl Jaspers, forse più di Heidegger, ha proposto. In Metafisica Jaspers sostiene che se l’esser-ci, la nostra sola sola possibilità di vivere l’essere, cioè essere qui e ora, viene vissuto nella consapevolezza della resa al mondo, cioè nella forma della contemplazione, allora l’essere, che è trascendenza ma anche immanenza, può davvero rivelarsi a noi, possiamo davvero cogliere “la meraviglia dell’essere” nonostante la nostra condanna alla consunzione, cioè al vivere per morire, ciò che il filosofo tedesco chiama “naufragio”. Ma questo cammino finale, questo incontro con l’essere è appunto la grande tentazione della poesia e del linguaggio, è la sua finalità fin dagli albori linguistici; è l’obiettivo di “dire l’essere”, che la poesia continua a perseguire da sempre, fallendo ogni volta e ogni volta ricominciando, come “Adamo che dà il nome alle cose”.

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Marco-Tabellione-2021Marco Tabellione (5.5.1965), laureato nel ’91 in lettere moderne all’università “G. D’Annunzio” di Chieti, con una tesi sulle avanguardie poetiche degli anni Sessanta, specializzato alla LUISS di Roma in giornalismo. Collabora con quotidiani e riviste letterarie nazionali e insegna materie letterarie. Vincitore a Perugia nel 1990 del premio di poesia intitolato a Sandro Penna, nel 1998 ha vinto il premio “Giovani autori” curato dalla Fondazione Caripe di Pescara, mentre nel 1999 il premio “Palazzo Grosso” di Riva presso Chieri (Torino) con il volume di poesie Incanti. Nel 2003 con la raccolta Tra cielo e mare è stato tra i vincitori del concorso “Adottiamo uno scrittore” indetto dalla provincia di Pescara, e nel 2004 si è classificato secondo al premio abruzzese Sant’Egidio indetto dalla cooperativa Tracce di Pescara. Per le edizioni Tracce di Pescara ha pubblicato nel 1995 la raccolta di poesie Gli uni e gli altri bui e il saggio sul giornalismo televisivo L’immagine che uccide. Nel 1998 è stata pubblicata la raccolta di poesie InCanti, sempre per le edizioni Tracce, mentre nel 2000 le edizioni Samizdat di Pescara hanno curato la raccolta di versi, L’alba e l’ala. Nel 2001 è uscito il suo primo romanzo Il riso dell’angelo per le edizioni Tracce, mentre risale all’anno 2002 il saggio di letteratura La cura dell’attimo edito da Samizdat di Pescara. Nel 2003 è uscita l’ultima raccolta di poesie intitolata Tra cielo e mare e pubblicata anch’essa da Tracce. Nel 2009 è uscito il romanzo L’isola delle crisalidi per le edizioni Runde Taarn, che nel 2010 ha vinto il premio Zenone riservato alla narrativa. Lo stesso romanzo L’isola delle crisalidi nel 2010 è risultato finalista al premio Lamerica e ha vinto il premio speciale della giuria al premio De Lollis. Nel 2011 ha vinto il premio di poesia Spinea e nel 2012 è giunto secondo al premio “Liliana Bragaglia” con il racconto inedito La bottega del libraio. Infine nel 2013 ha vinto il premio di giornalismo sezione ambiente “Vivi l’Abruzzo”. Nel 2015 è uscito il suo ultimo libro, il saggio Il canto silenzioso, viaggio nei segreti della poesia (edizioni Solfanelli) premiato nello stesso anno al premio di saggistica Città delle Rose di Roseto e finalista al premio Roccamorice. Nel 2016 il racconto L’uomo che decise di morire sulla Maiella ha ottenuto il premio speciale della giuria al premio sulla Letteratura paesaggistica. Nel 2017 è giunto terzo al premio nazionale di poesia di Civitaquana e la raccolta inedita Ogni voce si è classificata seconda al premio Pablo Neruda. Nel 2018 il volume di versi L’eternità dell’acqua (2017) è risultato vincitore del primo premio per la poesia alla rassegna dell’editoria abruzzese e nel 2019 ha conseguito il premio Maiella per la poesia, con la raccolta inedita Ogni voce il primo premio al concorso Il parco di Antonino. Nel 2021 è uscito il suo ultimo romanzo La vita che non muore per le edizioni Il viandante.

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Poetry kitchen di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Marie Laure Colasson, Dialogo della Redazione con Giorgio Linguaglossa: La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis? La riforma della Forma-Poesia ereditata da Satura (1971) di Montale?, Risponde Giorgio Linguaglossa: Il giudizio estetico è un atto accusatorio, una sorta di ontologia applicata: non si dà alcuna «bellezza», né alcuna «certezza» nella poiesis

Francesco Paolo Intini

VENERE O MOLTO MENO

La faccia dell’idrogeno è scura. Dà brividi il ciano.
Il bambino nato nel letto sbagliato piange per tutto il giorno.

Una lanterna mangia insalata di carne
Ma non s’accorge della stella nana nel soggiorno.

Venere conferma la sua identità con un green pass
Tutti liberi i quark in cambio di un rossetto all’aragosta.

Calde entità dell’Ade invadono i tuoi occhi
Lasciando libero lo spazio tra i canini.

Lo schermo è a posto. Perché dici universo
Se si tratta di un cartellone?

Da qui è scappata persino la donna delle calze a rete
E gli angoli tristi diventano punti luce senza ritegno.

Vietata la crema da barba ci si rade alla carte,
nessuno ricorda dove è la taverna dei granchi.

S’accende la dea all’aprirsi della Borsa
Fa un tuffo e nella fodera allatta un cent.

Dal fiore di scarafaggio, cola mercurio
sulle vie di Bari.

Per frittura mista s’intende il Sud,
Giusto per somigliare a una stella del girarrosto.

Oh paura, mater generatrice d’ universi
Spasmo di parto che dissolvi cosa?.

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  Natomaledue è in preparazione. 

Mauro Pierno

Altra cosa la morte
dal discorso sulla morte e oggi

Un’anima abita
e custodisce il bosco.

a pochi millimetri
dal nostro presepe

Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?

il fendente che non prende
la colla essiccata

Non sappiamo che aver tempo
significa non aver tempo per tutto?

Compostaggio

Calze rete Moulin Rouge
Tre-per-tre come eravamo
Dolores

Ci sembra un cielo senza tempo e
la stella che si dipana

Ogni mattina qualcuno ruba il mio pensiero
Qualcuno ferisce il mio cuore ogni giorno

Come Sharon Stone, indimenticabile in Basic Instinct

Portavo la mia immagine per la città
come un retrattile vessillo

Nell’orma del piede
giace un dinosauro

C’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”

E cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.

Il tema si avvicinò al fico suggerendogli
di appendere pipe

Facciamo silenzio per i prossimi vent’anni.
Facciamo rumore per i prossimi diecimila.

La verità della creazione ha uno sbuffo,un tuffo
senza sigillo

Una Olivetti 32 vuole
riscrivere la storia
dice di averla tutta nei tasti

Cara signora Schubert, mi capita di vedere
nello specchio Greta Garbo.

Ma la cravatta era ancora un destino
e la camicia di sicuro bianca

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(compostaggio di versi di Guido Galdini, Raffaele Ciccarone, Gino rago, Ewa Lipska, Tiziana Antonilli, Francesco Paolo Intini, mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mario Gabriele, Duska Vrhovac, Lucio Mayoor Tosi, Luciano Nanni)

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Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”

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Poetry kitchen di Marie Laure Colasson

Dialogo con Giorgio Linguaglossa

La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis?

Domanda: Secondo Agamben il giudizio estetico come viene teorizzato da Kant (e che sta alla base della nostra nozione di estetica) è una sorta di “teologia negativa”, che fonda la bellezza sul negativo: piacere senza interesse, universalità senza concetto, finalità senza fine, e normalità senza norma. Ciò determina l’arte a partire da quello che essa non è. La conseguenza è che il giudizio estetico fa della non-arte il contenuto dell’arte.

Risposta: Il giudizio estetico è una sorta di ontologia applicata: non si dà alcuna «bellezza» né alcuna «certezza» nella poiesis. La poesia è un enigma che non può essere sciolto da un atto padronale dell’ermeneutica, mettiamo fine a questa vulgata buona per adescare i normologi. Il giudizio estetico deriva dal primordiale atto accusatorio, rimanda in origine alla pubblica accusa, vuole interdire ed escludere. L’atto della poiesis come noi l’intendiamo esprime una singolarità che non ha alcun interesse verso l’interesse, alcun concetto se non verso il fuori-concetto, alcun significato se non verso il fuori-significato e il fuori-senso. Il giudizio estetico come verdetto che pende sulla poiesis è una categoria poliziesca che respingo con decisione.

Domanda: La crisi del giudizio estetico coincide con la crisi della poiesis?

Risposta: La crisi della poiesis pone alla medesima l’assunzione come “propria” della crisi stessa.

Domanda: Ritieni che sia giunto il momento di dichiarare a chiare lettere l’esigenza di una rottura con la tradizionale forma-poesia del recente minimalismo europeo e italiano?

Risposta: Giunti al punto in cui è giunta oggi la poesia maggioritaria, ritengo che una semplice Riforma della forma-poesia maggioritaria, ovvero, il minimalismo romano-lombardo, sia del tutto insufficiente. Quello che c’è da fare è una drastica dis-missione della tradizione del secondo Novecento, ovvero, quell’area che va dalla Antologia di Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975) ai giorni nostri. Una vera riforma linguistica e stilistica della poesia italiana comporta la «dis-missione» del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di «dis-missione» determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica per chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di ostilità. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica di oggi, una «dis-missione» è non solo auspicabile ma necessaria.

Il mio libro monografico sulla poesia di Alfredo de Palchi si situa in questa linea di pensiero: la necessità di aprire dei varchi nelle commessure degli studi accademici sulla poesia del secondo Novecento, correggere le macroscopiche omissioni e, fatto ancor più grave, le distorsioni dei valori poetici del secondo Novecento, indicare che è possibile e auspicabile individuare un diverso Novecento. Occorre un po’ di coraggio intellettuale.

Domanda: Tu parli di «dis-missione» della poesia italiana così come si è costituita dagli anni Settanta ad oggi, ne prendo atto. È un compito arduo quello di riscrivere la storia della poesia italiana del secondo Novecento, da Satura (1971) di Montale fino ai giorni nostri, non credi? Ritieni che i tempi siano maturi?

Risposta: Scrivevo in un post del 13 ottobre 2015:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18847

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È la condizione di emergenza che produce nuova poiesis, Lo statuto aporetico della poiesis, Poesie inedite di Jacopo Ricciardi, La poiesis è un porre in luce la traslocazione della significazione a partire da presupposti che restano in ombra, Struttura dissipativa di Marie Laure Colasson 2020, Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo

Marie Laure Colasson ZZX Struttura dissipativa, 2020
[Struttura dissipativa 50×50 cm, 2020 – «Io dipingo gli oggetti come li immagino, non come li vedo»]
Sulle Strutture dissipative di Marie Laure Colasson, acrilici, 2020
È lo stato di emergenza che produce l’immagine. È l’immagine che produce lo spazio.1 L’immagine fa lo spazio, fa spazio per altro spazio, rende possibile allo spazio di farsi spazio. Di più: l’immagine è la configurazione con cui si dà lo spazio nei linguaggi artistici, come avviene per le composizioni spaziali dei quadri di Marie Laure Colasson. Provate a togliere l’immagine dei colori dai quadri della Colasson, e tutto cade di colpo nella insignificanza amorfa.
La pittura della Colasson non è pittura astratta ma figuralità dello spazio, figuralità delle forme nello spazio, ricerca dello spazio mediante delle forme che emergono da un luogo di cui non sapevamo nulla. Delle forme abnormi, raccapriccianti sono sorte da uno stato di emergenza. L’inconscio che vive in un continuo stato di emergenza. Forme abrupte insorgono e lacerano il tessuto delle relazioni spaziali dello spazio che precedeva l’istante del loro insorgere distruggendo i fragili equilibri architettonici sui quali si reggeva la precedente costruzione spaziale. Queste Strutture dissipative indicano una emergenza, raffigurano questo insorgimento di forme abrupte che non conosciamo, di cui non ne sappiamo nulla e di cui non sospettavamo neanche l’esistenza. L’insorgenza dell’Estraneo è la tematica di questa pittura. Di qui il dis-equilibrio, il dis-formismo, il cataclisma, l’apocatastasi. Queste Strutture dissipative sono la raffigurazione dell’istante in cui una forma estranea irrompe nel nostro ordinato universo percettivo e ne diffrange il lessico e la sintassi, producendone l’implosione, la erogazione di un dis-servizio che viene ad infirmare la struttura di forme in equilibrio che preesisteva all’atto dell’insorgimento dell’Estraneo. Accade il trauma. L’insorgere dell’abrupto ci respinge, volgiamo lo sguardo altrove. Non possiamo guardare più oltre, cerchiamo inavvertitamente il corrimano della distanza, siamo costretti a prendere le distanze dall’abrupto. Ci accorgiamo di essere prigionieri di una contraddizione. Non possiamo avvicinarci a qualcosa che deve, per ora, rimanere a distanza, e non possiamo anelare alla latenza di ciò che vorrebbe manifestarsi nella illatenza. Mettiamo in atto istintivamente un distanziamento sociale.

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Giorgio Linguaglossa

Lo statuto aporetico della poiesis di Jacopo Ricciardi

È la condizione di emergenza che produce nuova poiesis. La massima di Freud «Wo es war, soll Ich werden» (dove c’era l’Es, deve subentrare l’Io) riconosce il fatto che l’Io deve prendere il posto dell’Es, non indica una eliminazione delle pulsioni o dell’Inconscio, piuttosto il tentativo di prendere una posizione in quanto istanza decisionale. Un soggetto autonomo non è un soggetto che si fonda una volta per tutte, che si assume interamente il peso delle proprie scelte e dei propri desideri, ma un soggetto che si fonda volta per volta. Non si diviene Io una volta per tutte sbarazzandosi vittoriosamente dei propri fantasmi, ma si tenta di conoscerli, di dominarli, di conviverci, di circoscriverli. Entrano allora in gioco due corollari: che la verità del soggetto non gli appartiene, che la verità del soggetto è la verità dell’altro, che il discorso dell’altro è ineliminabile; ne risulta che non esiste un discorso totalmente «mio».

Nella poesia di Jacopo Ricciardi c’è l’indagine sulla biplanarità dell’io, sulla sua evanescenza e sulla sua impotenza a dominare in toto il mondo delle cose e quello delle parole. Il soggetto di Jacopo Ricciardi scopre che «non è più padrone in casa propria», che i pensieri sfuggono, si muovono indipendentemente dalla volontà della «mente», e che questo ininterrotto peregrinare  è nient’altro che il destino della soggettività. L’itinerario della soggettività risiede nella distanza tra a) il percetto di una immagine; b) l’immagine; c) la rappresentanza dell’immagine nel pensiero; e infine d) l’atto del pensiero.1

La poiesis non è un dire, ma un fare, un operare concreto. La poiesis mette in atto una pratica del non dire i significati noti e acclarati, infatti non dà luogo a significati già noti, ma deve essere intesa come un gesto performativo, un esercizio «inoperoso», un fare inoperoso, un fare ricco di «inoperosità» (nel senso in cui lo intende Agamben), quando si riferisce a «un operare che, in ogni atto, realizzi il proprio shabbat e in ogni opera sia in grado di esporre la propria inoperosità e la propria potenza».2

Torniamo un momento all’inizio del discorso. Il modo in cui il pensiero può ancora distinguersi dal comune opinionare è fare ciò che né la doxa né la scienza possono fare. Questo è il compito proprio della poiesis: menzionare l’ombra (la distanza tra il percetto e l’atto del pensiero) che sempre accudisce la forma della luce. Non accontentarsi dei significati consolidati significa indagare la distanza tra il percetto e la mente, volgere l’interrogazione all’orlo, al limite, alla condizione di possibilità della significazione. Tale interrogazione è un esercizio etico, un fare che si indirizza sulle tracce del punto cieco di ogni conoscenza per mettere in luce il limite dei suoi presupposti.

Questa pratica è un abitare il mondo delle parole senza adottare i significati consolidati che corrispondono storicamente a quel mondo di parole. Questa pratica, questo esercizio quotidiano implica e richiede una «torsione» delle parole per rivelare la loro ombra, quell’ombra che infirma i significati consolidati.

Il «detto» a cui la poiesis non può rinunciare, in quanto pratica discorsiva, gli è necessario per compiere il proprio gesto performativo, deve essere sempre aggirato e compreso come equivalente al non-detto o all’altro-detto. In tale esercizio linguisticamente sisifeo consiste il peculiare rigore della poiesis e, nei modi in cui è volta a volta declinato, si misura l’efficacia del suo procedere. Non c’è nessun orlo, nessun limite, nessun punto cieco, nessun fondo che va a fondo, tutti i significati sono nell’apparire contemporaneo del dis-apparire; l’«evocazione» è però funzionale alla pratica della poiesis, affinché il non-detto non resti soltanto presupposto e non sia ideologicamente assunto come un indicibile su cui, da ultimo, si dovrebbe attestarne l’evidenza. Questa pratica discorsiva implica la eliminazione di tutte le figure dell’Evento e anche dell’Evento stesso, che scompare nel gesto che lo ha figurato.

Ciò che resta lo fondano i poeti, appunto. Ciò che resta è un non-detto che non può mai essere detto con le parole adulterate del mondo amministrato. In ciò si pone e si può misurare tutta la differenza tra una poiesis consapevole del proprio statuto aporetico e una poiesis tradizionalmente acritica e inconsapevole.

La poiesis è un porre in luce la traslocazione della significazione a partire da presupposti che restano in ombra, le conclusioni che essa mette in luce, proprio in quanto messe in luce, sono evidentemente un significato «altro», il cui fondamento, retrocedendo sullo sfondo, non può essere esibito. Anche l’attività ermeneutica accade a partire dall’ombra e anche laddove essa volesse far luce dietro di sé, sulla propria zona in ombra, di nuovo, illuminando, proietterebbe l’ombra dietro di sé.

Le conclusioni a cui giunge l’ermeneutica si trovano catturate entro la stessa dinamica che vorrebbero indicare e chiarire. Questo paradosso del circolo ermeneutico è la sfida che la poiesis aporetica pone al pensiero contemporaneo con cui si trova a doversi confrontare con la riflessione teoretica successiva a Heidegger. In tale paradosso ne va del senso della filosofia stessa: il logos del mondo amministrato procede per luci e ombre, non si distingue più dal mito e dalla doxa, sicché la sua battaglia contro l’oscurità sembra franare sotto i suoi stessi colpi.

Ma allora, chiedo, dove si viene a collocare la parola del filosofo, che statuto può ancora rivendicare, che senso può ancora avere la sua prassi?, dove si deve collocare la parola del poeta se il luogo del logos non si distingue più dal mito e dalla doxa?

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1 Cfr. https://www.academia.edu/36179508/Arte_e_linguaggio_Il_problema_dellesperienza_estetica_visiva,  Felice Cimatti: «Il punto chiave della questione del “cambiamento d’aspetto” è nella contemporanea  presenza di continuità (è sempre lo stesso oggetto) e di discontinuità (il cambiamento di aspetto). In questo senso si tratta di un fenomeno, cioè di qualcosa che si mostra. Ma si mostra in modo affatto peculiare, perché il «cambiamento d’aspetto»  non si percepisce, così come invece si può percepire il volo di un gabbiano nel cielo. Non è qualcosa che si vede. Ma non è nemmeno qualcosa che si pensa: “il ‘vedere come…’ non fa parte della percezione. E perciò è come un vedere e non è come un vedere”.3 Il “cambiamento d’aspetto” è un peculiare fenomeno logico, nel senso che si presenta, ma non si presenta né allo sguardo né al pensiero. O meglio, si presenta sulla soglia  fra sguardo e pensiero: «e perciò è un balenare improvviso dell’aspetto che ci appare metà come un’esperienza vissuta del vedere, metà come un pensiero» ( Ibidem). È importante ribadire che non si tratta di una situazione che abbia a che fare con un indicibile intuizione interiore. Il «cambiamento d’aspetto»  non rientra nel campo della fenomenologia. Al contrario, è qualcosa che può essere ‘sentito’ solo da qualcuno che sia in grado di ‘vedere come’, cioè appunto da un animale linguistico. È come se, nel «cambiamento d’aspetto», l’essere  umano facesse esperienza del fatto del linguaggio, cioè del fatto che il vedere è appunto un ‘vedere come’ . Infatti il “cambiamento d’aspetto”  è un (apparentemente) impossibile sostare  fra i diversi ‘veder e come’, cioè appunto fra i diversi modi di darsi del linguaggio attraverso i diversi ‘vedere come’  (perché “il nome, è l’immagine  del portatore”,4 cioè il nome appunto mostra, rende visibile, ciò a cui si riferisce, il suo «portatore»). È come se chi parla riuscisse  –  per un istante senza tempo –  a tirarsi fuori dal linguaggio.
2 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, 2004, p. 376.
3 L. Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, Rouledge, London (trad. it. Tractatus logico-philosophicus e quaderni 1914-1916  Einaudi,Torino 1995, p. 124.
4 Ibidem
.

Jacques Rancière (1940), in La parola muta (1998) propone di leggere gli sviluppi della letteratura contemporanea a partire da una ‘rivoluzione’ poetica intervenuta durante il XIX secolo che ha trasformato radicalmente il modo d’intendere ed intendersi della produzione letteraria. Gli effetti di questa «parola muta», secondo Rancière, non riguardano esclusivamente il mondo delle arti. Nel suo breve testo intitolato L’inconscio estetico (2001) la tesi centrale è che la scoperta dell’inconscio da parte di Freud sia stata resa possibile proprio da quel regime estetico di pensiero che ha spodestato il precedente sistema «rappresentativo» vigente, per esempio, nel teatro del periodo classico francese.

Poesie inedite di Jacopo Ricciardi

Si tengono per mano in cerchio
i bambini di cinque e sei anni
fanno un girotondo intorno a un commissario
vestito con un impermeabile beige.

Egli si vede centro di una rotazione
che sfugge verso destra e poi verso sinistra
senza poterlo prevedere. Corrono
a perdifiato in là poi in qua. Cantano
una filastrocca tutti insieme
di un uomo che non incontra mai nessuno
nel mentre le parole lo attraversano tangibili.

Lo stesso cerchio di cerchi in rotazione inversa
toglie il respiro in un respiro
che non appartiene. Ecco l’indagine.

Inizia scalando una montagna
di asperità di pietra acuminata
poi scende portato dal peso di una caduta
gradini d’aria affianco alla stessa parete
più in basso avvertendo distintamente un mondo
di cose non raggiungibili. L’indagine
continua. Ascolta senza capire
dei rumori in lontananza.

Una sedia che si sposta
contro un albatro che vola.
Una cerniera che scivola sul mare
incantando lo stormo che passa di là.
La donna che parla in un bisbiglio di campana.
Un treno che deraglia sotto la scarpa.
Il frinire delle cicale adulte
che rovescia le coperte.
La buccia di banana che affranca
una sinfonia Fantastique di Berlioz.

L’indagine prosegue ben oltre.
Cani che saltano per leccargli il mento.
Segugi a turno che lo trovano
mentre cammina e si ferma in un punto.
Deve rinascere nella morte per proseguire a raggiera.

La foresta è abbattuta dal cielo.
Saltella sui ceppi cammina tra i ceppi.
Capisce che ogni passo è un orizzonte
e lì davanti e dietro ci sono mal di testa.

Strette di mani senza corpi
sentono l’ardere di falò.
Nascosto come tutti dietro un gatto
si dissimula a saltelli dietro le fiamme
apparentemente nevrotiche sul dorso a riposo.

Lì sotto si cala – sente ancora un rumore
di voci lontane – nelle acque solforiche di una terma
per poi uscirne e indagare ancora.

*

Un podista va e dietro di sé trascina
l’intera storia oppure in avanti
spinge l’intera storia: automobili
e cani mesopotamici rivoltati con impeto
l’uno sull’altro contadini egiziani
in tenuta guerresca nuvole di quel giorno
l’interno di mulini studiati da Rembrandt
clave e lave primordiali telefonini
ammassi di molte lingue albicocche
davvero gialle e sempre splendide
insenature. Il tutto avvolto dalle polveri
delle storie. La marcia del podista

disperato non avrà fine e lui lo sa –
la sua fascia spugnosa sulla fronte
entra nel turbine i suoi occhi
i vasi sanguigni sgarbugliati
i suoi piedi la marcia i suoi peli uno a uno
dispersi nella baraonda che mescola
tritura confonde e rigenera –

dalle carote si formano cani da guerra
da alcune ossa di volpe sgorgano onde marine
braci calde ali di insetto – il mondo
rigenerasi volenteroso roteando in uno spazio
perso nei cerchi successivi di un respiro
e di altri di molti altri per intervalli
di lingue di cane e segugi altrove –

cade il piede nella fossa d’acqua
dopo l’ostacolo e l’acqua si inghiotte
in quel dinamismo sottomesso
ma anche il piede è inghiottito
e l’altro piede in altre pozze d’acqua
rettangolari – sui molti brandelli
di fili lasciati senza attenzione
sul pavimento della sartoria. Lo
slancio sull’ostacolo fa volare
il corpo incontro ai miliardi
di uncini dell’aria
e cade sull’aria coi miliardi
di uncini del corpo.

Un gruppo di uncini è un ceppo
pressato dal piede sulla terra
in un luogo estraneo al pavimento
della sartoria ma dentro quell’universo.

La rimanenza del podista si chiede
se la caviglia reggerà a tanto infinito
andare se l’anca per quanto lo sorreggerà o
verrà frantumata prima ma già lo è
presa nel turbine dove volano falò
come frammenti intatti e popolazioni
di gatti che contagiati dalle fiamme
passano da un’esplosione all’altra
legandole in nuovi mondi di storie
parallele per altre trasformazioni
di mal di testa in podista
che sbatte il piede nell’acqua
poco fonda al di là dell’ostacolo
schizzandosi le tibie coperte e le scarpe
con acqua maleodorante e calda piena di bolle
sorgive di una terma assente
risucchiata assente in una baraonda
che risale al caseggiato portato via
in un risucchio della storia.

*

Un mal di testa è di pietra
una roccia nella corsa – pesa
il piede nel falò allagato
nel respiro fermo che dilaga solo
soffiando via o insaccandosi
diffusa aria in aria
e condotta nella miriade interna di un corpo
mentre un numero fissato di licenze
arriva sul tavolo in fogli gestuali
parti di ceppi caduti dal cielo
nelle orecchie troppo morbide
sparse dappertutto e i segugi
che leccano ogni cosa
fino alla pianta del piede
nel gatto morbida tra le fiamme
che lo decorano vive – i polpastrelli
esposti dal riposo languido felino
esposto alle scintille del falò
parente della roccia del mal di testa
che affonda tra grappoli di bolle sorgive
e l’odore impregna l’aria con l’acqua
calda minerale –

intorno è consumato un gruppo murario
inservibile – un vortice
percorre le radici della Terra
fino all’ultimo confine delle particelle
dell’aria prive di gravità
lungo la faccia che inghiotte
ciò che mostra senza espressione.

*https://twitter.com/i/status/1405867460029554695

Un passo poggia e sa e poi non sa più –
senza fermarsi corre in ogni spazio.
Degli occhi portati in giro
vedono meraviglie meno importanti.

La vista sbatte nel proprio fondo
lì resta intrappolata
non può muoversi e non incontra mai nessuno
e pure la cosa continua ad apparire –
l’immagine è una pellicola
sopra concentriche ondulazioni circolari pulsanti.

Resta la forma dell’impronta
tra la pianta del piede e la polvere compressa.
Una lingua frenetica di cane cerca di infilarsi
in quell’interstizio avendo fiutato con esattezza –
l’impronta può essere soltanto odorata e cercata.

I recettori del segugio raggiungono la scorza ruvida
saporita dei ceppi e la resina che s’imbolla
riflettendo l’ardere di falò non distanti –
bruciano fieri in una notte vasta e chiara
popolata di gatti che mandano una luce bianca
di fiamme mosse in un movimento di spazio
di terme frantumate e isolate disperse
per orecchie disseminate in rilievi di paesaggio
sotto ogni passo in un mal di testa che guarda.

Jacopo Ricciardi

Jacopo Ricciardi, poeta e pittore, è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn. Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), Quarantanove Giorni  (Il Melangolo, 2018), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il melangolo, 2015). Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste PoesiaL’immaginazioneSoglieResine, Levania e altre. Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Ha collaborato con Il Messaggero in una rubrica di letteratura a lui dedicata: Passeggiate romane. Ha scritto di arte su Flash Art onlineArt a part of cult(ure) e Espoarte. Ha al suo attivo diverse mostre personali, E fiorente e viva e simultanea, Galleria WA. BE 190 ZA (Roma, 2001),  Nella nebbia dell’esistente, Area 24 (Napoli, 2010), Materie senza segno, Lipanjepuntin (Roma, 2010), Dialoghi d’arte, L’originale (Milano, 2011), Una stanza tutta per sé. Visioni da Shakespeare, Casa dei Teatri (Roma, 2012), Paesaggio terrestre, Area24 (Napoli, 2015), e diverse collettive Epifania, Galleria Giulia (Roma, 2000), Maestri di oggi e di domani, Galleria Giulia (Roma, 2001), Biennale del Mediterraneo, interno Grotte di Pertosa (Salerno, 2002), XXIX Premio Sulmona, Ex Convento di Santa Chiara (Sulmona, 2002), Segnare / disegnare Accademia di San Luca (Roma, 2009), ADD Festival 2011, Macro (Roma, 2011), 90 artisti per una bandiera, Chiostri di San Domenico (Reggio Emilia, 2013), Accademia Militare (Modena, 2013), Vittoriano (Roma, 2013), Ex Arsenale Militare (Torino, 2014), Tribù, Area24 (Napoli, 2014). Ha pubblicato due cataloghi d’arte delle sue opere: Jacopo RicciardiNella nebbia dell’esistente, prefazione di Nicola Carrino, Area24 Art Gallery, 2009; Jacopo Ricciardi, Paesaggio Terrestre, opere 2008-2014, a cura di Sandro Parmiggiani, Grafiche Step Editrice, 2015.

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Umberto Eco, Manlio Sgalambro, Franco Fortini, Erminia Passananti, Giorgio Linguaglossa commenti sulla poesia nell’età della tecnica, Poesie di Antonio Sagredo, Giuseppe Talia, Raffaele Ciccarone, Francesco Paolo Intini, Al mondo ridotto a mondo artificiale della tecnica corrisponde una poiesis diventata un manufatto artificiale interamente tecnico, che della tecnica ne impiega il lessico e l’orizzonte mondano, il che equivale a dire che l’orizzonte della poiesis tende ad identificarsi con l’orizzonte della tecnica, La poiesis odierna dell’età della tecnica non può che oscillare tra metafisica e giornalismo

Scrive Umberto Eco:

«I Poeti assumono come proprio compito la sostanziale ambiguità del linguaggio, e cercano di sfruttarla per farne uscire, più che un sovrappiù di essere, un sovrappiù di interpretazione. La sostanziale polivocità dell’essere ci impone di solito uno sforzo per dar forma all’informe. Il poeta emula l’essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostruire l’informe originario, per indurci a rifare i conti con l’essere».1

Commento di Giorgio Linguaglossa

Nel nuovo mondo di oggi dominato dalla tecnica, la filosofia tende a diventare un discorso antropologico e la poesia tende ad un discorso sulla storia celata e indecifrabile (indecidibile) della mutazione antropologica.
La tecnica, prodotto della interazione sociale, cessa di essere un problema filosofico perché è diventata un dato di natura, è essa stessa il problema principale perché modifica irrimediabilmente le strutture categoriali e antropologiche, così come i nessi tra le varie ontologie regionali. Questo per tre motivi principali, in primo luogo, perché il mondo in cui oggi viviamo è un mondo interamente tecnico, costituito da immagini, protesi, oggetti tecnici; in secondo luogo, perché lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha radicalmente mutato la nostra esperienza percettiva del mondo trasfigurando il cosiddetto mondo reale in immagini già date, già elaborate dalle emittenti mediatiche e non; in terzo luogo, lo stesso concetto di «esperienza» subisce una radicale modificazione: se l’esperienza era un tempo il risultato intellettuale di una elaborazione di dati sensoriali, la tecnica  interviene modificando le strutture concettuali e psicologiche e i limiti, la qualificazione della nostra percezione sensibile: l’esperienza tende a diventare una abreazione di pressioni inconsce che pulsano alla coscienza e chiedono udienza, trattasi di una mera registrazione inconscia di un processo di abreazione inconscia. L’esperienza artistica tende così a diventare anch’essa inconscia, tende a sottrarsi alla coscienza e la poiesis tende a trasformarsi in (mi si passi il termine) antiprassi inconscia in rotta di collisione con le ragioni del conscio. Al mondo ridotto a mondo artificiale della tecnica corrisponde una poiesis diventata un manufatto artificiale interamente tecnico, che della tecnica ne impiega il lessico e l’orizzonte mondano. Il che equivale a dire che l’orizzonte della poiesis tende ad identificarsi con l’orizzonte della tecnica. La poiesis odierna dell’età della tecnica non può che oscillare tra metafisica e giornalismo senza poter mai trovare un abito proprio ed è così costretta ad indossare abiti e lessici presi in prestito dal vocabolario della tecnica e adottati per l’occasione, per le festività dell’occasione. La poiesis tende a diventare un interludio delle festività.

Scrive Manlio Sgalambro:

«Oggi il filosofare non ha più la possibilità di seguire una linea dritta, perfetta, precisa, perché altrimenti diventa geometria – e non ci sono filosofie geometriche, adesso. Questa parte iniziale del Duemila non ha filosofie, o ha filosofie meramente accademiche. E quindi non resta che accentuare il capriccio, accentuare la variazione. E richiamarsi all’epifania joyciana. Ho fatto una specie di piccolo duello con questo altro tipo di filosofare, privilegiando il non-senso, il non-significato. E’ come se a un tratto il cavallo si fosse sbrigliato, avesse perso le redini – ma volontariamente – e se ne andasse al galoppo cercando di entrare e di uscire, qua, là… Un pensiero “sbrigliato”»2

Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966)

«La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con “martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine economico che le sostiene».

Commenta Erminia Passananti

Nei saggi sparsi poi raccolti in Verifica dei Poteri appare chiara la visione critico-dialettica che Franco Fortini aveva della poesia. Per Fortini la forma-poesia deve stabilire un rapporto marxisticamente dialettico con il lettore, spingerlo ad assumere una posizione di critica del testo (e del reale), sollecitarlo a prendere una posizione di opposizione alla forma-poesia del genere lirico. L’«opposizione» che Fortini richiede al lettore è di tipo transitivo, dialettico, svolge una funzione insostituibile perché soltanto nell’esercizio continuo del mestiere dell’«opposizione» marxisticamente orientata si può affinare il senso estetico-politico di critica dei prodotti culturali e della poesia nelle condizioni avverse delle società di massa. C’è in Fortini l’idea marxista propria del suo tempo secondo cui la poesia deve essere capace di esercitare un ruolo di guida e di educazione dialettica dei lettori di poesia verso i prodotti di poesia nella prospettiva escatologica della lotta di classe (del conflitto finale) e del rivolgimento totale dei rapporti di produzione esistenti tra forze produttive antagonistiche. Quel «conflitto» ben attivo e rinvenibile anche all’interno della forma-poesia. Di qui il rifiuto della poesia elegiaca (che prevede il ruolo passivo del lettore e dell’autore).
Quindi, si tratta di un compito marxisticamente inteso come educazione attiva del lettore, dei lettori, della «massa». In attesa della modificazione delle condizioni esterne alla forma-poesia, si tratta di far convergere nella forma-interna della poesia quelle tensioni e quelle stratificazioni stilistiche antagonistiche che conferiscono al genere lirico quella sua inconfondibile forma di «resistenza dei materiali poetici» alla fruizione acritica e passiva del testo poetico (in opposizione alla letteratura come snobismo al servizio del privilegio borghese «che perpetua la ricostituzione di un’ideologia per dirigenti», «aroma spirituale», «vino di servi»).

1 Eco U., Kant e l’ornitorinco (1997), Milano, La nave di Teseo, 2016, p. 51.
2 Da un’intervista di Maurizio Assalto tratta dal sito del filosofo Manlio Sgalambro: http://sgalambro.altervista.org/

Commento di Antonio Sagredo

De Sausure non è invocato invano dal Linguaglossa, anzi ha una sua giustificazione specie quando l’oggetto principe della POESIA è il montaggio, il suo montaggio da parte dei poeti, ma poi bisogna dare atto che la POESIA si “automontaggia”, e i poeti sono straniati, nel senspo anche che non sono più capaci di sostenere la caduta della parola stessa a causa della gravità
che la rovina.
La POESIA è una creatura che usa spesso lo specchio affinchè si realizzi il proprio montaggio. De Saussure, uno delle basi fondanti del formalismo russo, sapeva che ” l’ immagine verbale non si confonde col suono stesso” , negando allo specchio la “riflessione” più che la visione “altra”… lo specchio che riflette soltanto il suono della parola nega alla parola stessa qualsiasi significato e significante, e l’entrata in scena dei “tratti distintivi” (Roman Jakobson) che sono prima della parola e oltre la parola hanno la funzione di sospendere tutto ciò che rappresenta il mondo della parola… che oggi non esiste più… e allora altri mondi si affacciano per sostenerla, per sostenere infine l’inconsistenza, l’assenza di gravità fa crollare tutti i riferimenti a cominciare dal fatto che qualsiasi suono che apparteneva alla parola, non esiste più. E come dare alla parola un nuovo suono se il suono stesso è crollato? E dire ancora qualcosa sul montaggio della parola poetica (ma anche di tutte le parole altre”) è vano se assente o mancante è qualsiasi suono! Bisogna abituarci a una poesia priva di suono. Come a una orchestra che non emetta alcun suono, perchè questo è tutto assorbito dalla partitura! Che suona di per se e non bisogna di alcun strumento.
Riccardo Muti direbbe: fandonie! Questo è il punto.

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare

assomigliare a San Carpoforo.
Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele

sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.
Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.

Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.
Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

(poesia postata il 26 novembre 2018)

Raffaele Ciccarone

set 1


gli era difficile trattenere
il taglio delle mezze lune
il sauro montato da Holden
saltava senza posa
il ritmo market movers
gli permetteva di schivarle tutte

Adalgisa senza ombrello
incontra una pioggia
vestita d’argento fuligginoso
il cappello a punta nero
montava piume di struzzo
omaggio del suo pappagallo Continua a leggere

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 Il mattino dell’acmeismo  – Nel 1919 viene pubblicato il terzo manifesto dell’acmeismo scritto da Osip Mandel’štam (1891-1938). Prima traduzione integrale in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

osip mandel'stam

   Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908  entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938  viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja  rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

Mandel'stam, Cukovsky, Livshiz, Annenkov 1914 Karl Bulla.

Mandel’stam, Cukovsky, Livshiz, Annenkov 1914 Karl Bulla

Il mattino dell’acmeismo

     I

Di fronte alla enorme concitazione emozionale, legata alla creazione artistica, è desiderabile che i discorsi sull’arte siano caratterizzati dalla massima compostezza. Per la stragrande maggioranza l’opera d’arte è appetibile solo perché in essa si intravvede la concezione del mondo dell’artista. Tuttavia, la concezione del mondo è per l’artista strumento e mezzo come il martello nelle mani del muratore, solo ciò che è reale – è opera di per sé stesso.

Esistere – è il sommo amor proprio dell’artista. Egli non vuole altro paradiso ad eccezione dell’essere e quando gli parlano della realtà, egli sorride soltanto amaramente perché sa che è infinitamente più persuasiva la realtà dell’arte. Lo spettacolo di un matematico che, senza pensarci su, eleva al quadrato un numero a dieci cifre ci riempie di un certo stupore. Ma troppo spesso perdiamo di vista il fatto che il poeta eleva il fenomeno alla decima potenza e che la modesta apparenza dell’opera d’arte non di rado ci inganna rispetto alla realtà mostruosamente fitta che essa possiede. In poesia questa realtà – è la parola, come tale. Adesso, ad esempio, formulando il mio pensiero secondo la possibilità in forma precisa ma assolutamente non poetica, io parlo con la coscienza non con la parola. I sordomuti si capiscono perfettamente l’un l’altro e i semafori ferroviari assolvono un compito assai complesso senza ricorrere all’aiuto della parola. In tal modo, se dobbiamo considerare il senso come contenuto, tutto il resto che è nella parola, deve essere considerato una semplice aggiunta meccanica che ostacola soltanto la veloce trasmissione del pensiero. Lentamente è nata la parola “come tale”. A poco a poco, uno dopo l’altro tutti gli elementi della parola si sono inseriti nel concetto di forma, solo il pensiero cosciente, il Logos, finora falsamente ed arbitrariamente è considerato il contenuto. Da questo inutile rispetto il Logos ci rimette soltanto; il Logos ha bisogno soltanto della parità con gli altri elementi della parola. Il futurista, che non si è confrontato con il pensiero consapevole, così come sul materiale della produzione artistica, con leggerezza lo gettò fuori di bordo e, sostanzialmente, ripetette il terribile errore dei suoi predecessori.

Per gli acmeisti il significato cosciente della parola, il Logos, è la stessa meravigliosa forma come la musica per i simbolisti.

E se per i futuristi la parola, in quanto tale, ancora gattona, nell’acmeismo essa per la prima volta assume una posizione verticale più rispettabile e fa il suo ingresso nel secolo di pietra della sua esistenza.

II

La lama dell’acmeismo non è uno stiletto e nemmeno il pungiglione del decadentismo. L’acmeismo, per quelli che sono inebriati dal fuoco della creazione, non rinuncia vilmente al suo peso ma lo accoglie con gioia per suscitare ed utilizzare in modo architettonico le forze in esso dormienti. Un architetto dice: – costruisco – significa – ho ragione. La consapevolezza della nostra ragione ci è molto più cara in poesia e, gettando via con disprezzo la futilità dei futuristi, per i quali non c’è piacere maggiore dell’agganciare con un ferro da calza una parola difficile, noi introduciamo il gotico nella relazione delle parole esattamente come Sebastian Bach lo ratificò in musica. Quale folle darà il suo assenso a costruire se non crede nella realtà del materiale, la cui resistenza egli deve vincere. La selce sotto le mani di un architetto si trasforma in sostanza ma non è nato per costruire, colui per il quale il suono dello scalpello che frantuma la pietra non è una dimostrazione metafisica. Vladimjr Solov’ëv ha provato un particolare profetico sgomento davanti a dei grigi macigni finlandesi. La muta eloquenza di un masso di granito lo inquietava come una malvagia magia. Ma la pietra di Tjutčev che “staccatasi dalla montagna, giaceva nella pianura, precipitò da sola o fu spinta per opera di una mano pensante” – è parola. La voce della materia in questa caduta inaspettata risuona come un discorso articolato. A questo invito si può rispondere solo con l’architettura. Gli acmeisti raccolgono con venerazione la misteriosa pietra di Tjutčev e la collocano alla base del loro edificio.

La pietra sembrerebbe anelare ad un’altra vita. Ha scoperto in sé stessa una capacità dinamica in essa potenzialmente celata – come se chiedesse il permesso di partecipare “nella volta a croce” alla felicità di azioni ad essa consone.

III

I simbolisti erano cattivi pantofolai, amavano viaggiare ma non si sentivano a loro agio sia nella gabbia del loro organismo sia in quella gabbia mondiale che costruì Kant con l’aiuto delle sue categorie.

Per tale motivo per costruire con successo, la prima condizione è la sincera venerazione per le tre dimensioni dello spazio – guardare al mondo non come un fardello ed una sciagurata casualità ma come un palazzo donato da Dio. Effettivamente, cosa direte di un ospite ingrato che vive a spese del padrone di casa, usa la sua ospitalità e nel contempo lo disprezza nell’animo e pensa soltanto a come potrebbe metterlo nel sacco. Si può costruire solo in nome delle “tre dimensioni” dal momento che esse sono le condizioni di qualsivoglia architettura. Ecco perché l’architetto è un buon pantofolaio e i simbolisti sono stati dei cattivi architetti. Costruire – significa lottare col vuoto, ipnotizzare lo spazio. La bella guglia gotica di un campanile gotico – è malvagia, poiché tutto il suo significato è pungere il cielo, rinfacciargli il fatto che è vuoto.

IV

L’originalità della persona, quello che ne fa un individuo, è da noi sottintesa e rientra in un concetto molto più ampio di organismo. Gli acmeisti condividono l‘amore per l’organismo e l’organizzazione con il filosoficamente geniale Medioevo. Nella caccia alla raffinatezza, il XIX secolo ha perduto il segreto della autentica complessità. Quello che nel XIII secolo sembrava il logico sviluppo della comprensione dell’organismo – una cattedrale gotica – adesso ha valore dal punto di vista estetico come qualcosa di mostruoso.  Notre Dame è la festa della fisiologia, la sua baldoria dionisiaca. Noi non vogliamo svagarci in una “passeggiata” nel “bosco dei simbolisti” perché noi abbiamo un bosco più intatto, più impenetrabile – la divina fisiologia, la infinita complessità del nostro oscuro organismo.

Il Medioevo, determinando a suo modo il peso specifico dell’individuo, lo sentiva e determinava per ciascuno in modo assolutamente indipendente dai suoi meriti. Il titolo di maestro si applicava volentieri e senza esitazioni. Il più modesto artigiano, l’ultimo scrivano possedeva una solida e misteriosa importanza, un valore religioso tanto caratteristico per questa epoca. Sì, l’Europa passò attraverso il labirinto di una cultura finemente ricamata, quando l’astratta quotidianità, l’esistenza individuale in alcun modo abbellita veniva apprezzata come una impresa eroica. Da lì l’aristocratica intimità, che unisce tutte le persone, così estranea allo spirito “uguaglianza e fraternità” della Grande Rivoluzione. Non è uguaglianza, non è competizione, è la complicità degli esseri nella flotta contro il vuoto e la non esistenza.

Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e la vostra vita più di voi stessi – ecco il massimo comandamento dell’acmeismo.

V

A=A: che meraviglioso tema poetico. Il simbolismo soffriva, aveva a noia la legge della identità, l’acmeismo ne fa la sua parola d’ordine e lo propone al posto della discutibile: “a realibus ad realiora”*:

La capacità di stupirsi – è la principale virtù del poeta. Ma come non stupirsi allora di fronte alla più fruttuosa delle leggi – la legge dell’identità. Chi sarà pervaso da uno stupore pieno di venerazione di fronte a questa legge – è un indiscutibile poeta. In tal modo, accettando la sovranità della legge della identità, la poesia riceve vita natural durante tutto l’universo senza condizione e limitazione. Pensare in modo logico, significa meravigliarsi ininterrottamente. Noi ci innamorammo della musica della dimostrazione. Il legame logico non è per noi una filastrocca per bambini ma una sinfonia con organo e canto così difficile ed ispirata che al direttore tocca raccogliere tutte le sue capacità per farsi obbedire da tutti gli esecutori.

Come è convincente la musica di Bach! Che potenza di dimostrazione! Provare e provare senza fine: credere nell’arte non è degno dell’artista, è futile, noioso… Noi non voliamo ma  saliamo soltanto su quella torre che noi stessi possiamo costruire.

Vi

Il Medioevo ci è caro perché possedeva ad alto livello il senso del limite e della barriera. Non ha mai confuso piani diversi ed ha fatto capo all’ultraterreno con enorme ritegno. Il magnanimo miscuglio di ragionevolezza e mistica e la percezione del mondo come equilibrio vivo, ci accomuna a questa epoca e ci stimola ad attingere le forze nelle opere, generate nel campo romanico intorno all’anno 1200. Dimostriamo la nostra ragione cosicché in nostra risposta tremi tutta la catena di cause e conseguenze dall’alfa all’omega, impariamo a portare “con più facilità e libertà le mobili catene dell’esistenza”.

* La formula del simbolismo, dettata da V. Ivanov. “Pensieri sul simbolismo” nella raccolta “Solchi e limiti”.

mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

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Gino Rago, Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La forma-polittico della nuova ontologia estetica

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[Un Nemico intelligente, un Estraneo, si aggira per le nostre città, per le nostre metropolitane, per le strade, ovunque… si chiama Covid19, ovvero, Coronavirus. Si tratta di un micro organismo intelligente, scaltro, rapace che si mimetizza in alcuni umani non manifestando alcun sintomo della sua presenza, sono i cosiddetti asintomatici, è aggressivo, mutante, subdolo, è stato creato dal modo di produzione capitalistico. Paradossalmente ciò è avvenuto in un paese che si auto definisce “comunista” ma che è governato con polso di ferro da una autocrazia. Il Covid19 può prosperare soltanto in una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi escrementi; una natura che si conosce, mediante l’accumulazione degli escrementi, dei profiterol dell’immondizia, delle merci invendute e obsolete, del trash, dello spam. La natura infatti è benigna, ci propina dei profiterol, ci prende sul serio, crede che all’homo sapiens piacciano gli escrementi e ci ha propinato l’Ebola, la Sars, il Covid19. La natura fa sul serio. Infatti, non agisce per paradosso ma per contiguità e coerenza della parte con il tutto, e delle parti con altre parti]

 

Gino Rago
Poesie da I platani sul Tevere diventano betulle, Progetto Cultura, Roma, 2020 pp. 176 € 12

 

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Il poeta vede ciò che il filosofo pensa

“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre.
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,

La copia della Gioconda, il lilla
E la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,

Abbiamo altro da fare, per esempio
Ascoltare il canto degli uccelli

O il ronzio della Storia
Nei  bassifondi di Vienna,

Ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
E quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo

La smettano di fare baccano,
Coprono il canto delle allodole di tutto l’occidente.

Anche gli dei imparino a tenere il becco chiuso,
Sono sull’Olimpo grazie alla poesia.

Cara M.me Hanska,
Dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria

il poeta vede tutto ciò che il filosofo pensa”.

Strilli Rago

Il liquido reagente

Cara Signora Jolanda W.,

Il mio Amico di Istanbul
dice che possediamo il Liquido Reagente.

Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma
[dell’Occidente

e il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno

[della Felicità,
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.

Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF

non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle
[scarpe

che si toccano sotto il tavolo.
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia

sempre nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”

perché se ne infischia delle nostre domande.


Il bacio

Cara Signora Lipska,
oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.

Il tram ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka,

è in polemica con Schiele per« ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta.

Il mio amico* ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,

illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
Il vuoto dentro lo specchio è assenza o cruna nell’ago

verso la più alta conoscenza?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.

Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo

è già luce dello sperma siderale».
La Paradeplatz non ricorda più l’Impero, né Sissi.

Francesco Giuseppe. A  Trieste, a Piazza dell’Unita,
fin dall’alba lascia il Castello di Duino,

tracanna Campari e spritz al Caffè degli Specchi.
A Vienna la principessa balla con un uomo senza qualità.

*È Giorgio Linguaglossa

Strilli Rago1

10 – Le città

Cara Signora Jolanda,
ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta.

Passa da qui ogni mercoledi,
mi fissa negli occhi e prosegue:

«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
«Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino

per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.

Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.

Nei caffè di Cracovia ora tutti mi chiamano
“il-poeta-santo-bevitore”.

Questo nome ora è il mio destino».

[…]

Se non a Lei a chi potrei dire
che le città che lasciammo ci inseguono. Continua a leggere

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Poesia all’Epoca del Covid-19, Ulisse? Un bugiardo inglese, Poesia inedita di Gino Rago, Il reale è duplice, triplice, quadruplice, Riflessioni di Jean Baudrillard, Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa Y 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Y, acrilico 50×70, 2020

Gino Rago

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.”

Propongo un mio tentativo di Poesia all’Epoca del Covid-19

Ulisse? Un bugiardo inglese

Una vita di seta gialla, un abito con crinolina color lilla.
Un cappellino, una rosa nei capelli.

Con un’amica al Caffè Tommaseo.
Sotto i portici un uomo, forse l’ombrellaio delle favole.

La testa fra le mani, legge un libro di Joyce,
non si accorge neppure chi gli siede accanto.

È la donna della sua vita, ma lui non lo sa, esce dal caffè
e viene inviato sul fronte occidentale, sulle Ardenne.

Lascerà Trieste, andrà a Parigi, dipingerà.
È innamorato della danzatrice francese, ma lei non lo sa.

Ma Achamoth gioca con gli scacchi. Invia una lettera a Marie Laure,
C’è scritto: «Guardati dalle idi di marzo».

E la Colasson parte per Roma. Abita sopra la statua di Giordano Bruno.
Poi Madame Tedio, il tempo, sbroglia le carte,

Si pente e torna indietro.
Sul molo Audace i bersaglieri con le piume al vento.

D’Annunzio inneggia alla guerra.
[…]
Von Karajan al Bolshoj dirige un’orchestra di piatti e di posate.
C’è il mago Woland che dirige l’orchestra, ma lui non lo sa.

La Signora Schmitz s’è invaghita del musicista,
ma neanche lei lo sa. Scoppia la Grande guerra. Joseph è un pacifista,

Scrive un biglietto a Madame Schmitz: «Non sparerò un colpo»,
e invece gli sparano un colpo al cuore, e muore disperato.

Alla biblioteca civica in Piazza Hortis
Svevo scrive La coscienza di Zeno.
[…]
Il Signor L. tiene una conferenza sull’Odissea,
alla Berlitz School.

«Ulisse? Un bugiardo inglese».

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa X 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa X, acrilico 50×70, 2020

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

ecco alcune considerazioni.

La poesia NOE è nient’altro che una «rappresentazione prospettica», e precisamente una rappresentazione priva di funziona simbolica. La prospettiva come forma simbolica (1924) di Erwin Panofsky è una utilissima guida perché ci mostra come funzione simbolica e rappresentazione siano legate da un cordone ombelicale che è dato dal linguaggio e dall’uso del linguaggio. Ma mentre le opere del passato erano portatrici di una funzione simbolica, le opere moderne, a cominciare da Brillo box di Warhol, non sono provviste di alcuna funzione simbolica, sono dei dati, dei fatti, dei ready made. Invece, la tua poesia, quella di Intini, di Mario Gabriele, di Giuseppe Talìa per fare qualche nome di poeta che è maturato nell’officina NOE, è del tutto priva di funzione simbolica, sembra la registrazione di dati di fatto, di elenchi statistici, elenchi cronachistici; si va per giustapposizione e ri-composizione, per salti e per peritropè. In più, qui si ha una molteplicità di prospettive che convergono e divergono verso nessun fuoco, nessun centro prospettico, le linee ortogonali non portano ad alcun centro che non sia eccentrico, spostato, traslato; inoltre, lo sguardo che guarda è uno sguardo che si sposta nello spazio e nel tempo, è diventato diplopico, diffratto, distratto. È uno sguardo che si muove all’unisono con l’orizzonte degli eventi.

La tua «poesia-polittico» può essere ragguagliata ad una matassa, ad un groviglio. Tu ti limiti ad aggrovigliare i fili, li intrecci gli uni con gli altri e tiri fuori il percorso degli umani all’interno del labirinto, del tuo labirinto. La tua è una «poesia-labirinto», uno Spiegel-spiel. I tuoi personaggi sono gli eroi, prosaici, del nostro tempo, vivono in un sonno sonnambolico, tra chiaroveggenza e inconscio, guidati e sballottati come sono dalla Storia (Achamoth) e dalle loro pulsioni inconsce (Von Karajan, la Signora Schmitz, Joseph il pacifista, Madame Colasson); c’è «poi Madame Tedio, il tempo,[che] sbroglia le carte» e sdipana i destini individuali; c’è l’intellettuale, il Signor L., il quale denuncia la Grande mistificazione dell’Occidente: che l’«Ulisse è un bugiardo inglese». Questo Signor L. mi piace, è una sorta di Baudrillard per antonomasia, l’intellettuale che ci mette in guardia contro la mitologizzazione di certi prototipi umani come Ulisse, progenitore e prototipo del politico imperialista che avrà discendenti di tutto riguardo ai giorni più vicini a noi, da Giulio Cesare a Napoleone e giù fino ai pazzi sanguinari Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot, etc.

La tua «poesia-polittico» è un esempio mirabile di come si possa oggi scrivere una poesia moderna, appassionata e dis-patica, raffreddata e ibernata, patetica e algida, serissima e ilare. Una poesia che, finita la lettura, ci lascia sgomenti e ammirati.

Leggo alcuni libri di poesia Einaudi e dello Specchio e ci trovo il lessico e i polinomi frastici che ci parlano del corpo, della psicologia dell’io, rime intontite, rime finte, rime maleducate, ambasce e patemi del cuore, descrizioni di oggetti statici, immobili nello spazio e nel tempo etc. Leggo i risvolti di copertina e li trovo impeccabili quanto a personalità partecipativa e ipocrisia esornativa.

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Cesare Viviani, Ora tocca all’imperfetto, Einaudi, 2019 pp. 130 € 11.00, Commento di Giorgio Linguaglossa, Il frammento si fa negozio e negazione della totalità

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage 2016

Giorgio Linguaglossa

il frammento si fa negozio e negazione della totalità

«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…».

(T.W. Adorno, Minima moralia)

 Che un oggetto si lasci raffigurare in una rappresentazione priva di fratture è una supposizione della petizione dell’identità. La petizione di una continuità rotonda e conchiusa dell’oggetto, con tanto di armonia protesa verso l’infinito, è una idea vaga e indistinta che aggiunge vaghezza all’oggetto e genericità al soggetto. Ecco perché la parte più considerevole dell’arte di oggi e della nuova poesia in particolare si presenta nella veste del frammento, in quanto la petizione di principio di una rappresentazione rotonda e conclusa dimentica la natura opaca del soggetto e dell’oggetto. Ecco che a partire da un rilievo puramente formale, l’ideale della rappresentazione di un contenuto, siamo giunti ad un dato contenutistico che costituisce al tempo stesso il suo telos nascosto: essere la nemesi della falsa coscienza dell’idea di una rotondità dell’espressione artistica. Quelle intermittenze, quelle interferenze, quelle discontinuità, quei disallineamenti frastici quei disallineamenti temporali e spaziali del narratum sono invece il luogo proprio della poiesis. Il  proprium della scrittura poetica non è quindi un ininterrotto monologo del soggetto ma richiede delle pause, il «riprender fiato», come diceva Benjamin, le interferenze, i rumori di fondo. Gli interstizi della scrittura poetica sono dunque come le pause musicali, ben più che vuoto e morto silenzio: sono pregne di «senso», momenti del suo tessuto stilistico, della sua procedura. Caratteristica del frammento è proprio quella di non partire da zero ma di iniziare sempre di nuovo in medias res e di non puntare all’esaustività di una espressione rotonda e conchiusa.

 Della chiusura dell’oggetto non può decidere il pensiero, anzi. L’oggetto appare chiuso proprio in grazia delle sue «zone d’ombra», proprio in quanto non trapassa totalmente nella poiesis.

 Se  la filosofia è la coscienza di questo inconscio, come afferma Adorno, la poesia è l’inconscio della coscienza, il substrato soggiacente nella cultura che si è positivizzata. Come il contenuto del pensiero anti-sistematico non può che esprimersi in forma frammentaria, così il frammento ha la propria ragion d’essere nell’espressione di questo contenuto critico.

 Il frammento non è mera mimesi impotente della disgregazione del reale, della morte che si frapporrebbe ad una conciliazione con il reale, esso è espressione di ciò che ancora vive in e attraverso tale disgregazione, cioè dell’unica modalità nella quale è possibile parlare di vita senza trasformarla in ideologia.

 Il pensiero filosofico moderno  che si esprime nella forma del frammento si trova per Adorno in rapporto riflesso, negativo, critico rispetto al sistema del «mondo amministrato». Dal lato della forma il frammento filosofico prende di mira l’idea di totalità. Adorno dimostra non solo la  falsità della pretesa del pensiero di volgersi positivamente alla totalità ma, al tempo stesso, anche la necessità che spinge il pensiero inconsapevolmente verso di essa. È nel dissolvimento di questa necessità e non nel suo semplice – quanto illusorio – rifiuto che il sistema viene effettivamente «superato» (aufgehoben) e si realizza quella  Logik des Zerfalls (logica della disgregazione) che rende necessario al pensiero di assumere la forma del frammento. Quello di Adorno vuole essere, come è detto in  Dialettica negativa, un anti-sistema che si oppone cioè tanto al pensiero sistematico quanto a quello semplicemente a-sistematico. Rispetto alla forma, un pensiero anti-sistematico si oppone all’idea di una sistematica esposizione del suo oggetto. Esso riconosce nell’idea di una continua ed ininterrotta argomentazione anzitutto una esigenza di sicurezza soggettiva. Ma che l’horror vacui del sistema sia un presupposto necessario e indispensabile della comprensibilità di un asserto filosofico è, per Adorno, tutto da dimostrare. «Testi, che tentano apprensivamente di indicare senza interruzioni ogni passaggio,cadono perciò anche immancabilmente nella banalità e nella noia, che affetta non solo la concentrazione della lettura ma anche la loro stessa sostanza».1

Adorno punta ad una contraddizione latente dell’idea di sistema. Un testo, infatti, in cui ogni passaggio concettuale venga oggettivato, una totalità in cui lo sviluppo dell’argomentazione fosse fissata in modo rigoroso, renderebbe superfluo il pensiero.

Nell’ideale del suo pieno dispiegamento il mondo globale mostra che ciò che sembra appartenere alla mera «tecnica» spinge verso l’esautorazione del pensiero. Allo stesso tempo, tuttavia, l’esigenza sistematica muove verso la dissoluzione dell’oggetto, della sua natura opaca e altra rispetto al pensiero.

 Il sistema filosofico e l’idealismo in particolare, si costituiscono storicamente, per Adorno, come corrispettivo nella sfera del pensiero di un movimento di integrazione totalitaria degli individui che si impone con la società moderna. Ad esso corrisponde da un lato una forma di oggettivazione, cioè autoestraneazione, del pensiero e dall’altro una mutilazione dell’esperienza che volatilizza l’oggetto nel soggetto: in questa processualità ad agire è la struttura oggettiva, il sistema della ratio strumentale, il quale fa le veci del soggetto e dell’oggetto, sostituendosi ad essi  e mascherando la loro dissoluzione reale. La costituzionale discontinuità in cui si muove il frammento nella poesia e nel romanzo più evoluto oggi è il sintomo delle profonde fratture che attraversano longitudinalmente il reale.

 «La decostruzione [ Demontage] dei sistemi e del sistema non è un atto gnoseologico-formale»,2. Il pensiero che sceglie la forma aperta e priva di potere del frammento è animato, dice Adorno, dalla denuncia del dominio sulla natura e sugli uomini. È soltanto in rapporto a questa denuncia che il termine «negazione» assume un significato contiguo a quello di «negozio», che dunque è possibile comprendere in che senso il frammento si fa negozio e negazione della totalità. Negativo è sintomo di critica, critica di un  positivo  secondo il concetto hegeliano della bestimmte Negation. Critico è il pensiero che si esercita in un «dopo», in seconda battuta, contro qualcosa che già accade, interviene come momento reattivo nei confronti di un reale che si è solidificato. Il negativo è espressione di un negozio nei confronti di ciò che è oppresso e rimosso, schiacciato e negato dal dominio.

 Cesare Viviani parte dal principio che il reale si dà nella forma ipoveritativa e non è rappresentabile se non nella forma di frammento, ma in lui il frammento è a monte dell’opera che verrà, non è un risultato ma una petitio principii. Già prima di nascere la poesia del terzo periodo di Viviani viene alla luce nella forma di frammento pieno di fermento. Per questo motivo la causa agente della sua poiesis è il dubbio programmatico, lo scetticismo che tutto aggredisce come una ruggine il metallo, il dubbio che il tutto non sia in quel che appare e che anche la migliore poesia è un epifenomeno del nulla. La sua poiesis afferma perentoriamente: «ingannare il tempo». E di qui prosegue la sua corsa a dirotto tra le stazioni del nulla (parola che inutilmente cercherete nella sua opera), cioè l’indicibile e l’impensabile. Ecco perché la veste formale di questa poiesis è l’aforisma e il pensiero «imperfetto», per amore dell’onestà intellettuale verso quella cosa, la poesia, che, come recita il titolo di uno dei suoi libri di riflessione di poetica: «la poesia è finita», che, esattamente non è un enunciato negativo, perché nel pensiero di Viviani la poesia può anche finire, può assentarsi per anni o per decenni, per poi magari, all’improvviso, ripresentarsi senza alcuna ragione apparente con una nuova veste formale ed espressiva, senza che fosse stata richiesta o cercata.

 La poesia per Viviani non è un «falso» né un «vero», né un «positivo» o un «negativo», è semplicemente l’evento di un assentarsi dai luoghi frequentati dalle parole scostumate del nostro tempo. Lo scetticismo ipoveritativo della poiesis di Viviani dà luogo a una poesia che fa della imperfezione e della provvisorietà il proprio punto di forza, capovolgendo in tal modo la propria debolezza in forza. Parrebbe che la logica della disgregazione del mondo amministrato sia giunta a tal punto di profondità da non lasciare alla poiesis alcuna chance di ripresa. Il frammentismo trascendentale di Viviani si nutre proprio di quella disgregazione (Logik des Zerfalls) del mondo divenuto globale, ne è ad un tempo, riflesso e prodotto, «mosaico dorato» che è «fuori dalla natura». Quel dubbio e quello scetticismo radicale giunge, alla fin fine, a ristabilire un qualche valore alla poiesis, anche se in modo transitorio e periclitante. Un dispositivo destituente sembra in opera in questo tipo di scrittura, un abbassare il livello comunicazionale per adire un sublivello, una subcomunicazione. La cultura che si è positivizzata dà luogo all’anti positivo dell’arte, sembrerebbe questa la conclusione cui è giunto Cesare Viviani. Quindi, il non-chiudere è per definizione l’ultima possibilità che resta alla poiesis. L’ultima chance.

1 Th. W. Adorno,  Minima moralia, cit., p. 90

 2 Th. W. Adorno,  Negative Dialektik, cit., tra dita. Dialettica negativa, Einaudi, p. 32

da Ora tocca all’imperfetto, Einaudi, 2019

Quelle riproduzioni
che sembrano ritratti di familiari e di amici,
invece che marionette e bambolotti
quali sono.
Sculture o quadri sono la stessa cosa.
Accompagnano le ore vuote
del pomeriggio.
Creati per dire cose
che non riescono a dire, richiedono
una preparazione
per accoglierli come si deve.
Si resta confusi nell’incertezza
tra questo e quel mondo,
si posa lo sguardo
sul fondo verde
punteggiato di grumi rossi:
le pendici di un monte
o campi coltivati.

*
Oh la distanza che c’è tra la regina
e il combattente che si inerpica
per le valli alpine ad affermare
non si sa quale causa.
Fu una questione estetica che mosse
la guerra: qualcuno, molto in alto, disse
che la carta geografica del territorio
così stava male, andava completata,
era come se mancasse un pezzo
dell’arco alpino.

*

Baciare la mano, inchinarsi
di fronte al boss,
lo facciamo tutti, ma in privato,
in segreto,
in piazza procediamo dritti
senza salutare.

*

Fu una voragine la bontà
e noi precipitammo
e niente riusciva a fermarci,
né uno scatto d’ira,
né uno sprazzo di verità.

*

Il segreto che tutti sanno:
dietro ogni cosa che vediamo
ce ne sta una invisibile
che la sostiene.
Dietro questo mondo
ce ne sta uno invisibile
che lo sostiene.

*

Se ci cadesse addosso il cielo,
che bella morte!
*

Dicono: è mancato, è scomparso,
ma no, è diventato tempo,
quel tempo che ci circonda,
ci tocca, ci assilla,
ci seduce,
ci corteggia ogni giorno,
finché non cediamo.

*

Per ingannare il tempo
si fa di tutto,
anche scrivere un romanzo
o le poesie.

*

Le parole vanno a finire a contatto
col corpo di chi ascolta
e smettono di uscire quando toccano
il corpo di chi ascolta. Signore,
proteggi le parole e il corpo
dell’ascoltatore.

viviani volto

Cesare Viviani

Cesare Viviani è nato nel 1947 a Siena, dove studia al Liceo Classico “Piccolomini”, e poi si laurea in Giurisprudenza nel 1971 con una tesi sul ‘plagio’ (la soggezione psichica totale) in Medicina Legale. Dell’ambiente letterario, durante gli anni senesi, conosce Carlo Betocchi, Mario Luzi e Franco Fortini che insegnava all’Università di Siena. Nel 1972 si trasferisce a Milano dove svolge il lavoro di giornalista e poi di psicologo nelle istituzioni sanitarie pubbliche. Nel 1973 si afferma come poeta con il libro di esordio L’ostrabismo cara, edito da Feltrinelli. Nel 1984 si laurea in Psicopedagogia. Collabora per anni con recensioni e interventi di argomento psicologico e sociale ai quotidiani “Il Giorno”, “Corriere della Sera” e “Avvenire”. Nel 1978 e 1979 organizza a Milano, con Tomaso Kemeny, due convegni sulla poesia italiana degli anni Settanta. Dal 1981 rivolge i suoi interessi di ricerca e di lavoro alla psicanalisi. Tuttora lavora come psicanalista. Dopo il 1973 ha pubblicato diversi libri di poesia. Ha scritto due saggi psicanalitici: Il sogno dell’interpretazione, (Costa & Nolan, 1989, 1991, 2006) e L’autonomia della psicanalisi, (Costa & Nolan, 2008).

  • L’ostrabismo cara, Feltrinelli, Milano 1973
  • Piumana, Guanda, Milano 1977
  • L’amore delle parti, Mondadori, Milano 1981
  • Summulae (1966-1972), Scheiwiller, Milano 1983
  • Merisi, Mondadori, Milano 1986
  • Preghiera del nome, Mondadori, Milano 1990
  • L’opera lasciata sola, Mondadori, Milano 1993
  • Cori non io (1975-1977), Crocetti, Milano 1994
  • Una comunità degli animi, Mondadori, Milano 1997
  • Silenzio dell’universo, Einaudi, Torino 2000
  • Passanti, Mondadori, Milano 2002
  • La forma della vita, Einaudi, Torino 2005
  • Credere all’invisibile, Einaudi, Torino 2009
  • Infinita fine, Einaudi, Torino 2012
  • Osare dire, Einaudi, Torino, 2016
  • Ora tocca all’imperfetto, Einaudi, Torino, 2020
  • Poesie (1987-2002), Oscar Mondadori, Milano 2003 (antologia).

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Antologia n. 2 nuova ontologia estetica – poesie inedite di Pavel Arsen’ev (1986) e Ryszard Krynicki (1943), Adeodato Piazza Nicolai, Giuseppe Talia, Antonio Sagredo – traduzioni di Paolo Galvagni e Paolo Statuti con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Strilli Giancaspero

(grafica degli “strilli” di Lucio Mayoor Tosi)

Giorgio Linguaglossa
31 agosto, 2017

C’è una «logica» delle metafore e delle metonimie. Un linguaggio poetico privo di logica è un linguaggio poetico scombiccherato, claudicante, incomprensibile. Per questo un poeta come Valéry parlava della poesia che ha la precisione di una «matematica applicata». Anche nel linguaggio poetico c’è una «logica».
La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. È Essa che pone in evidenza le relazioni di senso (che non si dicono in quel che si dice ma che si mostrano, e che ciascuno è in grado di comprendere in quanto semplice utilizzatore di lingua naturale).
Il linguaggio poetico è la tematizzazione esplicita di ciò che è contenuto nel linguaggio naturale; per cui il secondo viene prima del primo. È un linguaggio in quanto scritto, decontestualizzato, in cui tutto è chiaro, univoco, intelligibile da subito perché costruito per questo scopo. È il prodotto della riflessione del linguaggio su se stesso, l’esplicitazione delle sue strutture di senso soggiacenti alle relazioni dei parlanti immersi nel linguaggio naturale.
Dal linguaggio relazionale del linguaggio naturale al linguaggio poetico c’è una frattura e un abisso, un salto e un ponte.
La problematizzazione del linguaggio poetico si esprime, quale suo luogo naturale, in metafore e in immagini. Tutto il resto appartiene al demanio discorsivo-assertorio che ha la funzione politica di convincere un uditorio. A rigore, si può sostenere che un linguaggio poetico privo di metafore e immagini non è un linguaggio poetico. E con questo scopriamo l’acqua calda, ma è indispensabile ripeterlo, anche adesso in tempi di semplicismo filosofico-poetico.
Lo scetticismo – che data da Satura (1971) in giù nella poesia italiana – ha dato i suoi frutti avvelenati: ha ridotto la poesia italiana ad ancella dei mezzi di comunicazione di massa, ad un surrogato di essi; l’ha resa sostanzialmente un linguaggio non differenziato da quello della «comunicazione».
Un aneddoto, circa alla metà degli anni novanta a Milano venne stilato un «manifesto», redatto, mi sembra da un certo Italo Testa e sottoscritto da personaggi noti, che sollecitava la rivalutazione della «comunicazione» in poesia. All’epoca, ci restai di princisbecco, adesso non mi meraviglio più di nulla, ormai la poesia-comunicazione ha invaso ogni pertugio di buon senso. All’epoca, avevo pubblicato (1995) sul n. 7 di Poiesis il «Manifesto della nuova poesia metafisica», che andava in direzione diametralmente opposta.
Di fatto, da Satura in poi fino ai giorni nostri, non c’è stato nessun poeta italiano degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer, questo è un nodo che finora non è stato sciolto dell’Istituzione poesia così come si è solidificata oggi in Italia.
La poesia che si fa oggi in Italia è un linguaggio ingessato (nel migliore dei casi) e un linguaggio comunicazionale (nel peggiore).

Strilli Grieco
Due poesie di Ryszard Krynicki

[Tra i massimi poeti polacchi contemporanei, Ryszard Krynicki nasce il 24 giugno del 1943 nel lager austriaco di Wimberg, a Sankt Valentin. Ha ottenuto diversi premi letterari, tra cui il premio internazionale Kościelski (1976), è anche traduttore dal tedesco di Brecht, Nelly Sachs, Paul Celan. Il volume Punkt magnetyczny (Il punto magnetico, 1996) contiene un’ampia scelta di versi delle sue raccolte precedenti, tra cui Akt urodzenia (Atto di nascita, 1969), Organizm zbiorowy (Organismo collettivo, 1975), Nasze życie rośnie (La nostra vita cresce, 1978), la sua ultima raccolta è Kamień, szron (Il sasso, la brina, 2004). Nel 1988 Krynicki ha fondato la casa editrice a5, che pubblica poesia contemporanea, tra cui Herbert e Szymborska.
Gli esordi di Krynicki nel 1968 sono legati al movimento di Nowa Fala (Nuova Ondata), composto da poeti dello spessore di Zagajewski, Karasek, Barańczak, Kornhauser, accomunati da uno sguardo lucido e critico sul regime e dalla volontà di rispecchiarne, nella maniera più fedele, il grigiore e la disperazione quotidiani.
Nella sua poesia si riscontra la presenza di un tono quasi oracolare innestato su di un lessico sobrio, spoglio, schietto, a volte sarcastico, a volte umorale. I tratti sopra segmentali entrano con pieno diritto nella poesia occupando un posto d’onore. Esponente di spicco della generazione della Nowa Fala, Krynicki ha un timbro, una voce individuale. La sua voce si esprime bene nei momenti in cui prende posizione con interrogativi incalzanti e alti, quando può prendere posizione nei confronti del regime e della storia. Sue poesie sono reperibili nell’antologia “Almanacco dello specchio 2007”, Mondadori.]

Strilli Rago
Il poeta è pudico

Il poeta è pudico.
Lo è perché parla di sé, anche se in minima parte, immette nella poesia un moto, l’emozione di un istante vissuto proprio così, lì o altrove, ma comunque vissuto.
Almeno lo dovrebbe.
C’è chi immagina e racconta; ci inonda di versi profondi, ridondanti e colti che però non hanno vita.
Ci si può difendere da versi così? Mah!
Se piacciono, sono pur sempre poesia: falsa, copiata sbirciando componimenti di altri, ma di base una certa sensibilità c’è.
Io ho un sistema: scelgo un momento mio della giornata, butto i pensieri e leggo a voce alta, fingendomi l’autore e poi mi interrogo.
Posso dire di essere stato onesta nella lettura? Ho interpretato bene il suo pensiero? E come ne esce il suono? Scivolano le parole, o si arrotolano su se stesse?
Ecco, rispondendo a tutto questo ottengo delle prime risposte che saranno convalidate o smentite da poesie successive.
Non ho mai provato a leggere le poesie in altre lingue che la mia. Deve essere una esperienza esaltante.
Purtroppo mi difetta la pronuncia di molti idiomi, quindi è una esperienza che non farò mai.
Accetto senza riserve, quindi, il dire di questo autore. La semplicità dello scritto (e la bravura del traduttore: non scordiamoli mai) ne fa un testo prezioso.

Effetto di estraniamento

Preferisco leggere i miei versi in una lingua straniera:
occupato a rigirare cautamente in bocca
i sassolini della pronuncia corretta
sento meno la spudoratezza della mia confessione.

(traduzione di Paolo Statuti)

Strilli Leone

Due poesie di Pavel Arsen’ev

[Pavel Arsen’ev è nato nel 1986 a San Pietroburgo, dove vive tuttora. È ricercatore presso l’Ateneo pietroburghese (cattedra di teoria della letteratura). Pubblica versi e articoli nel sito http://www.polutona.ru, su riviste russe e straniere. Dal 2009 organizza il festival di poesia sull’Isola Kanonerskij a San Pietroburgo. È il redattore capo dell’almanacco “Translit”. Ha pubblicato le raccolte To, čto ne ukladyvaetsja v golove [Quello che non si ripone nella testa] (2005), Bescvetnye zelënye idei jarostno spjat [Idee verdi incolori dormono furenti] (2011). Suoi versi in traduzione italiana sono apparsi in Tutta la pienezza del mio petto (Lietocolle 2015)].

quando è giunta l’ora di pagare il vino
tutti in un attimo sono ritornati sobri
hanno spento la loro trasgressione francese
hanno acceso il razionalismo francese
e con zelo improbabile hanno cominciato
a contare la quota di partecipazione di ciascuno
nelle follie brille

Secondo la costituzione

il presidente risulta
il presidente conduce
il presidente introduce
il presidente è a capo
il presidente ha il diritto di fermare
il presidente viene eletto
il presidente emana
il presidente ha il diritto
il presidente può essere eletto
il presidente può avvalersi
il presidente può consegnare
il presidente insignisce
il presidente designa
il presidente non può occupare
il presidente provvede
il presidente possiede
il presidente promulga
il presidente si rivolge
il presidente determina
il presidente libera
il presidente realizza
il presidente revoca
il presidente porta
il presidente presenta
il presidente accetta
il presidente firma
il presidente conferisce
il presidente inizia
il presidente interrompe
il presidente scioglie
il presidente decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente emane
il presifentr decide
il presidente pone
il presidente conferma
il presidente forma
il presidente introduce
il presidente
forse

(Traduzione di Paolo Galvagni)

Strilli Dono

Giorgio Linguaglossa
19 giugno 2017 alle 15.44

Scrivevo qualche tempo addietro:
“… c’è stato un tempo in cui quell’aggettivo era una «forma verbale», cioè indicava una «azione» (la rifrazione della luce su di un corpo e il riflesso di quella luce su di un altro corpo). Ora, in prosa non è più possibile scrivere dando ascolto a questo complesso problematico, ma in poesia sì, è assolutamente necessario fare apparire al di sotto dell’aggettivo la sua vera sostanza verbale. Che cosa voglio dire? Voglio dire semplicemente che la poesia diventa viva e significativa se noi teniamo presente il valore verbale di azione insito in ogni parola, e che nella costruzione sintattica e semantica poniamo attenzione alla «azione» che costituisce il comune denominatore verbale sia dell’aggettivo che del sostantivo. La costruzione sintattica è analoga allo spazio che viene ad essere deformato dalla presenza della gravità della materia. La costruzione sintattica e semantica non è un in sé dato per definitivo, ma è una forma del pensiero che si adatta alla «gravità della materia verbale»”.

Strilli Tosi

GiuseppeTalia (ex Panetta)
11 novembre 2014 alle 22:02
.
Gran bel discorso, caro Linguaglossa, condivisibile. Il male di noi poeti occidentali è che “copuliamo” troppo, e copuliamo con noi stessi, ci facciamo tante pippe mentali. E allora Linguaglossa, rileggi Thalìa e trova quante copule vi siano, 3, 4 (funzionali ma non necessarie) su 80 pagine? E nei Fiori di U? 2 copule superflue su circa 200 versi (ho controllato).
Allora, il mio miglior haiku zen? Questo:

Rotola l’estate
si stacca dalla pianta
il fico d’india.

Quello più intrigante? Quest’altro:

Il gatto all’alba
ascolta il concerto
sognando le ugole.

Giuseppe Talia (ex Panetta)
12 novembre 2014 alle 20:17

Lack of memory. Il grande male del nostro nuovo secolo.
Mnemosine, figlia del cielo (Urano ) e della terra (Gea), nella velocità dell’oggi, a chi può essere paragonata? Se dicessi a suo fratello Crono farei una pubblicità occulta a una nota marca di orologi.
E allora, il passato cerchiamo di farlo rivivere nell’immediato. Proviamo a fermarlo, andiamo contro-tempo.

da Salumida (2010)

I vicoli di pietra sussurravano
E tu padre germogliavi d’urla
Un cerotto alla morfina piano
Cambiava i grumi delle tue pupille
Il limone giallo t’assomigliava
Magro come un gambo di nebbia
Si nasce e il mondo cambia colore
L’infanzia verde il sole giallo
Arancione in quei tramonti
Che dicono tutto
Si cresce, non si finisce mai
Di crescere, rosso, olivastro
Con gote di quel che non sai
Una caduta in bicicletta
La ferita e il sangue porpora
Nessun ideale se non il bucaneve
Il tempo carico di luce
Pieno di odori e di sapori
Sapessi dove sono anima mia
Sono dove il sole mi sbatte
Sulle rocce che si sfaldano
Sono dove il vento costruisce
Le rocce con nuovi granelli
E la pioggia solidifica e lava
Sono dove il falco fa il suo nido
E volteggia per sempre portando
Un insetto una lucertola o niente
Dove i pesci saltano sull’onda
E s’affondano nei sabbiali
Coralli ancora teneri
Sapessi a volte come il fumo
Il vapore della terra sale in aria
In piccole gocciole trasparenti
Dove la montagna erutta fuoco
Fonde l’acciaio e l’agape
La gemma che non ha valore
Ci insegna a ricordare tutto
Quando saremo fluttuanti
Fra metafore spente
Su una nave spaziale
Strapiena di gente
Notte di tuoni acqua e vento
Un finimondo finito in fretta
Un frantoio unto e dilavato
Di nuovo il sole brucia
Della frescura temporalesca
Con vigore si vendica
Stelle nella lavastoviglie
Sassi stellari e navicelle
Di sapone nello scarico
Della discarica dei gabbiani
Ingorghi di clacson e polveri
Sottili nelle viscere di Eva
Con un Adamo dal pomo torto
Nel secchio del riciclaggio
Anche oggi i passerotti
Hanno beccato le briciole
Sul balcone
Venuti a luce d’autunno
Sono volati via di colpo
Non appena la finestra

È un finale interrotto questo di Giuseppe Talia che ci richiama alla mente la poesia di Petr Král per certi suoi aspetti psichici. Il poemetto di Talia è del 2010, ha una vitalità che deriva a mio avviso dal pochissimo spazio concesso ai verbi, l’azione verbale è del tutto assente; similmente, è assente la copula «è», anch’essa messa in castigo. Il fatto è che così priva di verbi la poesia di Talia sta come slegata, sciolta, le parole sono come tanti palloncini che vanno verso il cielo e lì si perdono; prive della gravità esercitata dai verbi le parole acquistano leggerezza e gassosità, sembrano non raggiungere mai la stabilità (apparente) del significato. Una Musa last minute tanto cara a Giuseppe Talia, appesa alla improvvisazione del momento, quasi una esecuzione jazz.

(g.l.)

Strilli Gabriele
da La Musa last minute (inedito)

Guido Oldani

Fiacco di clorofilla e di gambe d’argilla
Detenuto nel container come scontenuto
Betoniera terminale del poeta mantenuto
Cementizzato nell’ars poetica, oldaniano
Realismo militante, con antologie allappanti
Per l’infelice vita di codeina e di camomilla.

Strilli Ventura

Due poesie di Adeodato Piazza Nicolai

Tu luna
Lassù come ti senti?
Sverginata allunata
calpestata espropriata
sembri perfino dimagrita.
Cosa direbbe Leopardi?
Scivolerebbe forse
una lacrima
sulle sue guancie?
Non saprei dire ma soffro
una pena infinita…
Se fossi un barbone
itinerante ti amerei
con occhi sognanti
però non lo sono.
Spreco così
parole malconcie
a lenire un poco
questa ferita.

©2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 13 luglio, ore 5:00

dall’ontologia estetica di Ajvaz

In piena umiltà inseguiamo il paradosso
della classica meta-poesia un po’ dimenticata
o messa in cantina poiché (la crediamo)
sia rimasta senza benzina. Forse meglio tuffarsi
nei labirinti borgesiani o perdersi nella sua
biblioteca infinita. Anche Jung e Jodorowski
ci conducono in fiumi sotterranei che a volte
spuntano sulla superficie, ma solo come frammenti
e lamenti delle viscere poetiche sotterrate
da troppe teorie sparpagliate a vanvera un po’
dappertutto …

E il teorema di Zeno ha ancora qualche
valore? Un disonore studiarlo tuttora? Da tempo
tento di varcare certi confini immaginari, muraglie
illusionarie. Non voglio ritornare né all’alfa né all’omega.
Lasciatemi remare e poi ascoltare il fruscio delle vele
sulla barca mai costruita dalle mie mani,
chissà se ci sono altri porti sepolti da esplorare…

© 2017 Adeodato Piazza Nicolai
Vigo di Cadore, 27 giugno, ore 18:30

Strilli Linguaglossa
Giuseppe Talìa
13 luglio 2017 alle 22.18

A proposito di luna, eccone tre scritte parecchi anni fa.
La prima, calza a pennello a proposito degli ultimi atti vandalici commessi all’istituto Falcone (e tutti questi “strani” roghi che bruciano in Campania, in Calabria, in Sicilia ?)

Morto il chiarore
la luna incanutita
rotola giù e si scioglie
come un’aspirina
S’acquieta il fragore
nell’aria ammutolita
si ferma sulle soglie
e scoppia come mina
E’ strage nel furore
la Torre dei Pulci ferita
Roma Milano le spoglie
e quel sospetto che affina.
La seconda, una luna che si specchia nel danno ambientale.

Dove sei?
In fondo a quale pozzo
Galleggi nel percolato?
Un cerchio di luce ! Morta?
Uno spicchio
Forse specchio
Madre?
Faccia butterata
Inguaribile
Cuore di lupo
Con ciaspole e piccone
Il biancore di neve
Candrama
Forgi il falcetto
Mieti i gambi storti.
La terza, un primo quarto (di luna)

una
sono una
non certo trina
mi vesto di crinolina
e cresco da notte a mattina
deambulante dea creta dell’universo
sono la luna di quando crescono le fragole
la luna di quando i cervi perdono le corna
minimo falcetto lievito nel sommerso
madreperla nell’immenso concesso
e porto fortuna porto sfortuna
sono di fiume e di laguna
nel cielo di china
non sono trina
sono una
una

Strilli Giancaspero

Poesia di Antonio Sagredo

Non ho mai desiderato una forma perfetta
che fosse soltanto poesia e prosa insieme
per un non comprendersi rivolto a tutti
con una misera sofferenza per il poeta e il suo lettore.

La poesia è decente quando è estranea a se stessa:
da noi si genera tutto ciò che già sapevamo,
gli occhi sono fissi per accogliere perfino una tigre,
senza requie lei nella luce con la sua coda immobile.

È ingiusto pensare che la poesia è soggetta agli angeli,
umilmente si crede che siano dei demoni.
L’umiltà dei poeti si genera in luoghi conosciuti,
la loro superbia è possanza della consapevolezza.

Quale creatura irrazionale desidera il potere degli angeli
che una sola lingua ciarlano in una casa non loro.
E che felici e gioiosi donano labbra e dita
per non mutare a loro vantaggio la sua destinazione?

Perché ciò che ieri era sano è stato disprezzato,
tutte le creature non hanno idea di come io sia triste
poi che invano ho cercato una maniera
per odiare l’Arte con estrema severità.

Mai c’è stata un’epoca in cui si leggevano libri ottusi
per avere gioia e felicità con Intolleranza e avversità.
È la stessa cosa di quando non si è letta nessuna pagina
di opere che ci giungono dalla Clinica delle Felicità.

(marzo, 2016 à la maniere di Milosz)

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Anna Ventura: Stella lucente, un inedito e tre poesie da Nostra Dea, 2001, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: L’evento della parola non è il luogo stabile e sicuro, eterno del nostro esserci; quell’atto di compromissione senza compromessi che contraddistingue la dizione poetica. L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

Composizione grafica di Lucio Mayoor Tosi con divano

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Anna Ventura copertina tu quoque

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

J. Lacan – seminario XI

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

G. Linguaglossa

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

G. Linguaglossa

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

G. Linguaglossa

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

G. Linguaglossa

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

G. Linguaglossa

Onto Ventura

Anna Ventura, grafica di Lucio Mayoor Tosi

.

Anna Ventura

Stella lucente

Vagate nel Cosmo,
pianetini di cui nessuno si cura, nemmeno
la stella morta intorno a cui roteate:
come quei bambini smarriti
che vengono dai paesi in guerra, bambini
che hanno perso la famiglia,
la casa, il paese in cui sono nati.
Eppure cresceranno,
e andranno nel vasto mondo, e lì impareranno
tutto quello che c’è da imparare:
cioè che ci vuole una terra su cui poggiare i piedi,
un riparo per la notte, acqua e pane
per non morire di inedia.
Un bambino che sa questo
sarà un uomo forte,
come un pianetino seguirà la sua orbita,
imparerà a evitare i buchi neri,che ti ingoiano,
e le stelle troppo luminose, che ti bruciano.
E un giorno saprà che, nel cosmo,
vagano altri pianetini come lui;
forse incontrerà un amico
con cui roteare un po’ insieme, forse
incontrerà l’odio e la paura che ne consegue;
se avrà fortuna, incontrerà la conoscenza,
il dono più ambito, quello
che di un pianetino smarrito fa una stella lucente. Continua a leggere

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Peter Russell ELEGIE – CONSIDERAZIONI SUL FRAGMENTUM FILIPPINUM 2993 (Quintilii Elegidion e Villa in Tuscis) VITAM REDDERE AD ASSES – Una poesia del tardo Quintilius dalla residenza etrusca – Due Poesie del Ritorno – Un esempio di «Nuova ontologia estetica», con una Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa del 1999

  A cura di: Cataldo U. SIRONI-Aladino COSTURI
Anatolio R:SCUDI-Tarcisio D’OLONA
(estratto dall’American Journal of Philology, agosto 2998 )
Una poesia del tardo Quintilius dalla residenza etrusca
Per Mario De Filippis

Ecce solecismi mihi vani adsunt aliorum
Incomitatus quos et levis aspicio.
Lamque catervatim foedis, mihi crede, et ineptis
Carmininibus nullo nunc pluit auxilio,
Multorum cura, viventes qui dicuntur,
caelestes asini, gaudia nulla mihi.
Annosus cum sim, “ Secessus” pangere conor
Pervalidis cinctus, dulcibus asseculis.
Nunc vitae cursum felix possum moderari
Cum in lingua magnae sint mihi divitiae.
Putida me accipiet mox certe terra serenum
Asses perpauci cum mihi sufficiant!

Dal mio mondo solipsistico guardo
I solecismi degli altri
Che sono inesistenti. IL cielo piove
Rovesci di poesie dai cosiddetti viventi,
Asini dal Paradiso, magro conforto, nessuna gioia.
Solo nella mia vecchiaia scrivo le mie Solitudini,
Popolata da un’innumerevole compagnia
Che mi dà conforto, energia, e gioia.
Bastano asses per il peso della mia sussistenza
Ed io affonderò nella putrida terra sereno
Con una grande ricchezza sulla lingua.

Da una postilla latina trovata sotto il tavolo alla Buca S., Francesco di Arezzo. Pratomagno 26 maggio 1993
Tradotta dall’inglese da Peter Russell da Peter George Russell

NOTA: in Plinio “ reddere ad assen” significa “ rimborsare all’ultimo centesimo”. I filologi più scaltri hanno sospetto che questi “ asses” fossero anglosassoni.

Peter Russell Una breve Nota su “Quintilius”

Il poeta tardo greco-romano Quintilius nel 1948 dopo una visita a George Santayana, così anticipando di un bel po’ di anni il “ vecchio Filofoso a Roma” di Wallace Stevens! Da allora non ho più smesso di scrivere le poesie di Quintilius- sono già quasi cinquanta anni.
Quintillius è una specie di vasta persona (nel senso di Browning o di Ezra Pound) e mentre le sue opere sono ambientate nel V secolo d.C., con molti riferimenti ai suoi contemporanei ben conosciuti e ad eventi storici contemporanei ed antichi ( anche per lui) e con un apparato greco-romano del tutto autentico raccolto da fonti originali oltre che da studiosi moderni, in esse è riflessa non soltanto la nostra condizione moderna, ma qualche cosa della maggior parte dei secoli trascorsi fra l’epoca di Quintilius e la nostra. Trasformo versi di Dante, Pontanus, Scaliger, Milton, Comeille, Voltaire, Goethe, Holderlin, Novalis e molti altri in echt-quintilius. Neppure Shakespeare è stato risparmiato a questo ladrocinio! Perfino William Carlos Williams viene adombrato da alcuni tropi di Quintilius.

Mi rendo conto fin troppo bene che gli studiosi genuinamente impegnati hanno ben poco tempo, se ne hanno affatto, da dedicare ad una produzione artistica contemporanea a meno che non siano interessati di per se alla poesia, che è cosa alquanto rara.
Al momento presente sto scrivendo (già da dieci anni) l’ “Apocalisse” di Quintilius, che ebbe origine da una serie di sogni che ho avuto riflettevano molte delle caratteristiche della Apocalissi giudeo-cristiane ed islamiche, ( le principali fondi dello stesso Dante), altre agli ‘sciamani’ descritti da Erodoto e Veneratio dai primi orfici e pitagorici, per non parlare dei miei ricordi di conversazioni con anziani indigeni del Canada occidentale ed orientale. Il testo dell’originale ‘Apocalisse’ di Quintilius (1984) è andato bruciato in un disastroso incendio avvenuto nella mia abitazione del 1990, e come sapeva fin troppo bene l’Alighieri, non è possibile ricostruire tali visioni con il solo aiuto della memoria. Le visioni sbiadiscono, non le si possono falsificare. Perciò gran parte dell’ “Apocalisse di Quintilius” ha ben poco di apocalittico ed è simile alla visione di S. Perpetua o di Chaim Vital, che hanno a che fare con contingenze personali che con temi comuni od universali. Comunque una nuova Rivelazione è stata data di recente e si trova già in forma di manoscritto ( gennaio 1995)
Ci sono adesso più di cento poesie di Quintilius nelle riviste e una trentina di articoli dedicati alle sue opere.

LIBRI E OPUSCOLI DI QUINTILIUS:

Three Elegies of Quintilius 1955
The Elegies of Quintilius Anvil Press, 1975, esaurito da 20 anni
Quintilii apocalypseos fragmenta. The Golden Chasnberpots AGENDA EDITIONS, Londra 1986
Metamaipseis noerai AGENDA EDITIONS 1991 original edition ( traduzione italiane di questi Quattro sono pronte) Legnetti per il fuoco/Fiddlestiks Pian di Scò 1992 Bilingual con una satira sugli accademici e post-modernismo;
QUINTILIUS Introduction English only Pian di Scò 1992 Discorso tenuto all’Associazione Italo –britanninca, Viareggio
The Elegies of Quintilius Anvil Press, Londra 1996 Tutte le opere di Quintilius publicate fra il 1949 e 1976
1990, e come sapeva fin troppo bene l’Alighieri;
Due poesie di ritorno Pian di Scò 1993 Bilingual Quintilius torna da soggiorni in India e Persia.

QUINTII APOCALYPSEÔS FRAGMENTA

DUE POESIE DEL RITORNO
Two Poems of Return
English translations from Aramaic targums with italian version by Pier Franco Donovan and Peter Russell
PIAN DI SCO’ 1993

roma Tiberio La città prende il nome dall'imperatore Tiberio, quando nell'anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

Tiberio 

Da Quintiliis Apocacalypseôs Fragmenta

Krisna nero, Gesù bambino, Ishu
Continua a incitarmi a essere
L’Apostolo delle guardiane delle oche

Mi ha mandato tra i prati in fiore

Il vecchio Toro mi ha rincorso
Io sono scappato

Nei pascoli delle pecore

Il vecchio Ariete
Mi ha incornato

Nel recinto dei maiali

Il Signore certamente sentirà il grido
Anche dei discendenti
Di vittoriosi produttori di sapone

Le guardiane di oche mi scivolano tra le dita
Le pastorelle mi hanno bersagliato di pietre

Il fiore del campo
E’ schiacciato dalle macchine

Le pecore stesse
Calpestano Psalliota

Io sono una vecchia vescia
Verde grigio dentro

Il burro sta gocciolando dalle dita delle muggitrici
Quando avrò io una prole>?

All’alba del Venerdì Santo mi sono svegliato
Schizzato di fango nelle tenebre di Gadara

E’ permesso a un mortale pregare gli dèi per il sapone?

Questo campo ai confini di un tetro boschetto
Questo recinto di maiali

E la Piana della verità?
E il campo di Er?
E dov’è il Giardino delle Muse?

Qual è il punto di riferimento della Resurrezione?
Il sito del prossimo Giudizio Universale?

I dottori eruditi ne stanno ancora discutendo
Gli impiegati dei produttori di sapone
Stanno preparando fatture

Le Sirene stesse guardano nei loro magici specchi
Ma non possono vedere i loro musi di maiale

Nessuno sembra soddisfatto della propria vita

Nudo e sudicio gioca un ragazzino
Con margherite grandi come soli

E le ninfe e le driadi timide come gazzelle
Guardano fisse la folgorante bellezza
Del dio bambino

E un vecchio uomo con cosce pelose
Che balbetta

Da Codex Disco
TRADOTTO 1986

Nota del verso “ Quando avrò io una prole?”: in Inglese c’è un gioco di parole: “issue” significa “prole”, ma l’omofono “ Ishu” può essere sia il nome Sanscrito del Signore, Krisna, che il nome di Gesù in Aramaico

Sono tornato a casa
Per trovare il tetto crollato
Il pavimento un cumulo frastagliato
Di mattonelle rotte

Il cielo
Dove c’erano una volta travi
Il foro per il fumo

Ipetra
Un sambuco
Riempie il soggiorno

Foglie giallognole
Cadono sui cocci
Color rosa
Foglie d’oro
Che stridono

Mi siederò sotto il mio ficus religiosa
Con pingui fichi che cadono
Ogni giorno sulla mia testa

Il fuoco non curato
Dura le terra sotto di me
L’aria il mio pane

La luminosità del sole
Cosa è
Se non intensità di Splendore
Che nasconde la fonte

La mia debole fiamma
Come una candela gocciolante Va su
Di palo in frasca
Alla cima dell’albero
E dentro attraverso il buco nel sole

Fiamma
Che diventa fiamma più pura
Niente altro.

Tu sei il capo del filo
Tu attraversi la cruna dell’ago
Ma devi lasciarti dietro
Il cappotto di cammello
Non c’è spazio per entrambi

Quelli che raggiungono la cima dell’albero
Avendo ali
Volano via
Il resto Cade al suolo

Mi sentirai farfugliare a me stesso
Ma saranno e silenzi
Che parlano dei mondi

E se divento malinconico
Per la fugacità Delle eternità transitorie

Guarda su verso il tuo tetto
………………….( greco) mi mancano le lettere
E conta le ragnatele

Da Codex Disco Tradotto 9 giugno 1985

  Nota: ficus religiosa è il nome latino del fico della pagoda ( ingl. “bo-tree”), sotto il quale il Budda meditava e ricevette finalmente l’illuminazione. C’è un bel fico della pagoda a Urbino, pingue come il tasso a Selborne reso famoso da Giulio Cesare e poi da Gilbert White. Anch’io l’ho visto qualche mezzo secolo fa.- P.R.

Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

Peter Russell from Apocalypse of Quintilius University of Salzburg 1997.

Quintilio è un poeta nato dalla straordinaria fantasia e versatilità di Peter Russell. Quintilio nasce nel V secolo dopo Cristo, ha conoscenza delle opere di Proclo e delle filosofia di Agostino; sa a memoria i poeti elegiaci della paganità romana, l’epica di Omero gli è familiare, così come conosce la filosofia dei greci antichi, ma non disdegna gli Gnostici e la Bibbia. Poeta lunatico e visionario, Quintilius Stultus dapprima si converte al giudaismo, ma ben presto, preso dal disgusto, si volge al cristianesimo. Dopo alcuni anni di ardente vita missionaria in Africa, Quintillius ritorna ad una forma di reazionario paganesimo, rifiutando sia i dogmi della Chiesa, sia la sua visione del mondo e della trascendenza. Il mondo giudaico ellenico e tardo-romano in putrescenza convivono con una mirabile sintesi e si traducono in un’opera di poesia davvero polifonica e originale.  Poesia simultanea   questa di Peter Russell per la sua capacità di assimilare e dare corpo nuovo e volto nuovo alle reminiscenze della poesia cinese, persiana e indiana, ma invero dietro le paratie di tanto trasognato mondo del tardo impero non è difficile riconoscere uno specchio delle nostra epoca senza identità.

E’ significativo citare Russell stesso circa la nascita di questo particolare eteronimo: “I invented the late greco-roman poet Quintilius back in 1948 after a visit to George Santayana, anticipating Wallace Stevens’ ‘ Old Philosopher in Rome’ by quite a few years! I’ve been writing the poems of Quintilius ever since-a-span of nearly fityi years”.

Quintilius è quindi da considerare come una persona ed un poeta distinto da Peter Russell, con una sua peculiarissima identità psicologica e culturale. Ritengo questo volume di poesie di Quintilius una delle  vere novità  della poesia di questo decennio. Lo dico con la modestia e la saggezza che mi derivano dalla consapevolezza dei miei limiti, mi piacerebbe veder pubblicati in traduzione italiana alcune almeno di queste poesie, ne trarremmo tutti più vigore per uscire dalle secche del minimalismo e dal neoconservatorismo imperante. Non c’è nulla nella poesia italiana di questo secolo di equiparabile alla poesia di Quintilius. Eppure Russell vive in Italia, ama il nostro paese e noi dovremmo essere un po’ grati al poeta inglese per questa sua preferenza

  Giorgio Linguaglossa

   Ristampata da Poiesis (Roma) N.15 aprile 1999

 Da QUINTILIII APOCALYPSEÔS FRAGMENTA

Una annotazione a “ Legnetti per il fuoco”

    L’autore di questa poesia scritta in un Greco tardo e molto illetterato, visse in un’epoca così tecnologicamente primitiva tanto da non essere nemmeno capace di accendere un fiammifero. E pure in dubbio il fatto che Quintillius fosse in grado di maneggiare pietra focaia e metallo. Quindi doveva fare ricorso ai tradizionali legnetti per il fuoco, in origine ( come per gli antichi Brahmani indiani) un rito sacro che però richiedeva una gran perdita di tempo. Egli fu visto regolarmente vagare sotto i larici alla ricerca di Fomes  fomentarius,  il fungo da esca o dei chirurghi, che ben seccato bruciava sin dalla prima debole fiamma.

  Sembra che questa poesia l’abbia scritta in un momento di sconforto, o forse soffriva di una mania depressiva o di qualche altra malattia di moda. Il motivo per cui non chiamava i preti ad accendergli il fuoco non era tanto che avesse perso la fede quanto l’evidente penuria di danaro, e i preti sono notoriamente avidi. In questi nostri giorni illuminati dal progresso, le televisione e l’educazione statale, come il dotto Professor Michel Alexander della University of St. Andrews ha recentemente osservato, pochi studiosi ( eccetto se stesso, Hugh Kenner e Donald Davie) conoscono la letteratura inglese, per non parlare della Bibbia. Spero dunque che il lettore democratico non si offenda se il traduttore spiega alcune delle parole meno comuni. Il problema della società senza classi è, come piace dire agli americani, che non ha “ classe”. Le insulae ( letteralmente isole) erano grandi quartieri della città dati con affitti esorbitanti alla gente più povera, ed erano notoriamente rischiosi per gli incendi e invariabilmente erano in uno stato pietoso. Aposynagôgos significa letteralmente “ escluso dalle comunità ecclesiastiche”, una parola greca del Nuovo Testamento. Quintillius, pare, a differenza delle persone castigate dal dott. Alexander, aveva letta la Bibbia. Agyrtôdes significa un accattone vagabondo come il faqîr o derviscio, generalmente un devoto della Grande Madre, spesso un ciarlatano orfico o un indovino che usava i dadi ( vedi Platone, Repubblica 364 e Euboulos Comicus, Fr. 13° .  Adelphê mou, numphé  “ Sorella mia, mia Sposa”, proviene dal Cantico dei Cantici. che certamente pochi eccetto Michaelus Alexandrinus conoscono oggi.  Questa strana frase è stata interpretata dai filologi eruditi come un riferimento a culti segreti dell’incesto del Medio Oriente. La domanda retorica di Quintillius “ mi seppellirò nel mio giardino?” è ovviamente la prova di un tardo culto di Zalmoxix nella Bassa Scizia o Alta Mesia.

  Trovo estremamente deplorevole che si debba ritenere necessario spiegare una cosa semplice come una poesia di Quintillius;  se le cose stanno davvero così, e i moderni letterati sono così illetterati, dovremmo tutti essere profondamente gradi al dotto studioso di Anglo-Sassone di St. Andrews.

  Uno studioso italiano locale, completamente ignorante in letteratura inglese, mi dice che in Quintillius ci sono echi di centinaia di testi di etnologia, religione comparata, cerimonialismo vedico, divinazione orfica, tecnologia antica, storia greca e romana , superstizione popolare e folclore, ecc…, ma a me sembra che il fascino di questa poesia è proprio che non richiede alcuna spiegazione eccetto che per quei studiosi professionisti che vogliono un campo esclusivo nel quale anche la cultura teorica più elementare è riservata unicamente a loro.

   Come antidoto alla probabile incredulità del lettore di buone intenzioni riproduco qui di seguito il meraviglioso lucido e responsabile articolo del Professor Michael Alexander. Per coloro i quali siano tanto ignoranti, a differenza del Professor Alexander, da non sapere il Greco Antico ( e la letteratura inglese e la Bibbia) devo spiegare che la dotta parola “fallocentricità”, con la sua elegante miscele di radici greche e latine, benché sia ben oltre la mia limitata comprensione intellettuale, sembra indicare vagamente “ i cazzi parlanti” come elemento centrale alla nostra progredita civilizzazione post-moderna.

 Confesso di non essere sufficientemente informato per poter dire cosa intenda Il Professore  con “ l’ex contea di Devon “, Posso solo presumere che l’antica contea abbia recentemente dichiarata la propria indipendenza, come i Serbi della Bosnia, e che questa importante notizia non sia ancora filtrata fino a questo mio situs isolato fra le montagne etrusche del Pratomagno.

 Ricordo con affetto paterno il quindicenne Michael Alexander, allora allievo del mio vecchio amico Peter Whigham a Worth Priory, Sussex, e mi  meraviglio del progresso intellettuale che anche una persona infantile può compiere dopo trent’anni di Accademia.

Legnetti per il fuoco
(Pian di Scò 1992)

Il fuoco del mio focolare si è spento, la nicchia annerita è tutta buia,
L’umidità fuoriesce dalla pietra, il freddo si sparge per l’atrium.
Il gufo grida alla mia sinistra dalla macchia di sambuco aggrovigliato.
Non ho bisogno di auspici, d’indovini, di nauseanti interiora
Di vittime che mi dicano che la fine è prossima, o almeno
Che qualcosa di cruento sta per accadere. Soltanto riaccendere il fuoco
Con lo stoppaccio non basta. E’ troppo tardi adesso
Per chiamare i sacerdoti, pagarli perché battano assieme
Le pietre del tuono, o inseriscano il piolo di legno duro
Nel receptaculum consacrato di morbido abete de “ lavorare vigorosamente”.
Dicendo preghiere a Hestia, accendendo il fuoco votivo. Il sangue
Si è diluito col declino, il vigore è scorso via col fuoco.
Mi cospargerò di cenere, nudo vagherò per i campi.
Come mero fantasma in abiti di mendicante frequenterò
I focolai d’altri uomini, d’altri banchetti, cliente non desiderato
Che rammenta la morte ai vivi. Meno d’un extracomunitario, d’ora in poi sono
L’eterno forestiero. Dissoluto adesso, desolato, devo solo
Dissolvermi, tutta la mia coscienza dispersa al vento.
Dove nella vastità dell’oceano sono i tratti del Tevere e del Po?
E dietro tutto questo, -maledetto sia questo smantellamento,-una donna.
Liberato dal desiderio, i sapienti venerano lo spirito universale.
Non vogliono più passare attraverso il seme umano.
Gli antichi saggi insegnarono questo. Tutto il desiderio messa da parte, insegnavano anche
Che il Paradiso può essere conquistato con la sola forza, nessuna quantità di virtù
Ti può portare lì. Io ho vissute le mie eternità
Il tempo non ha più misure. Il nodo è stato sciolto.
Vagabondo nella Città stiverò i miei domestici
In un buco umido nel muro di una della insulae?
( Che bel nome per un dormitorio!) – aposynàgôgos, agyrtôdês,
Un derviscio del genere. Persone infelici, ho sentito, spesso si seppelliscono
Nei loro libri. Mi seppellirò nel mio giardino? Vieni a vedere, Sorella,
Adelphè mou, Ninfa, ci saranno violette in aprile.

THE ELEGIES OF QUINTILIUS
LE ELEGIE DI QUINTILIUS
Car la Muse m’a fait l’un des fils de la Grèce
(Traduzione di Mauro De Castelli)

PREFAZIONE ALLE ELEGIE

 Fu nel 1948 o 1949 che Robert Payne mi presentò a Stefan Schimanski, il curatore della terza antologia della Nuova Apocalisse, e all’epoca direttore del Word Review . Quando Stefan udì che ero diretto in Italia, mi chiese, per caso, se volevo tentare di intervistare benedetto Croce, George Santayana, Max Beerbohm e Ernest Hemingway.

Se avessi accettato avrei ricevuto 5 sterline per ogni intervista ma nessun compenso per il viaggio. E fu dall’incontro a  Roma con Santayana, allora nonagenario, che nacquero i poemi di Quintilius.Molti piccoli dettagli  , per esempio i lupi sui colli albani, derivano dalle conversazioni di Santayana con me.

Era rimasto impressionato dal fatto che dalla devastazione  della guerra, i lupi avessero ricominciato a vivere e riprodursi nelle dirette vicinanze di Roma. Molti  altri dettagli del Mediterraneo in genere, e in particolare dei ‘colli liguri’, provengono del mio soggiorno- quello stesso anno- Ora con Olga Rudge a Sant’Ambrogio, presso Rapallo. Beerbohm viveva solo a poche centinaia di metri di distanza, quindi era semplice andare a fargli visita. I pomei di Quintilius sono intrisi della luce dell’intera costa ligure, secondo la mia propria esperienza e l’idea che me ne ero fatto dai Cantos  di Ezra Pound.

Dopo un anno o forse più, trascorsi sei mesi a Cagnes-sur-Mer sulla costa azzurra, una specie di estensione della Liguria, dove un tempo la lingue predominante era ligure. La seconda elegia parla della decisione del poeta di prendere residenza nella Provincia Romana, e la terza descrive la sua vita colà.

Mentr’ero anch’io  a  Cagnes, dedicai molto del mio tempo a leggere Virgilio e i poeti bucolici della Grecia, fui interessato in particolare al famoso libro Virgilio Romano  di Gavin Douglas e lo leggevo assiduamente.

Nello stesso tempo studiavo il portoghese con una mia amica, la bellissima  Violante do Canto, figlia di un noto scultore portoghese.

Ricordo, con spasso, che proprio quando iniziammo a leggere Camoens contrassi una grave infezione a un occhio e dovetti girare con una benda nera. Se fosse dovuto  alla fogna cittadina che si disperdeva in mare, dove facevamo il bagno, oppure se fosse semplicemente autosuggestione, non lo saprò mai. Nello stesso periodo ero solito fare l’autostop per la strada della costa, spesso fra enormi incendi forestali, per fare visita a Richard Aldington a Le Lavandou e Roy Campbell,  che  non viveva lontano  da  quel luogo.

Campbell era un ottimo cuoco e le sue  bouillabaisse,  con le loro  rouille che scottavano, sembravano ancora legarsi ai numerosi litri di robusto vino rosso locale, risuscitando altresì un folto gruppo di reminiscenze dei costumi e della storia della Provenza, antica a moderna.

Mentre mi parlava nella grande cucina di bàsolo, gli sarebbe piaciuto rivivere la vita che descrisse in Provenza Taurina e ne Il Primato battuto, e lasciava cadere frammenti di citazioni da Boezio e Cassiodoro, oppure curiosità tratte da Plinio il Vecchio o Isidori di Siviglia.

Descrisse i combattimenti dei tori e Nimes ( la romana Nemausis ) e la naumachia sia  dei pescatori antichi che dei moderni, e sarebbe andato avanti a leggere da Calendal o altre poesie di Mistral. La maggior parte delle informazioni di Campbell finì nella versioni di Quintilius. Il mio ( e di Quintilius) personale ed eterno rancore verso i burocrati e i cercaposto (place-seekers) fu accompagnato dalle tirate di Roy contro gli avidi, i timidi e i taccagni.

Sospetto che, virtualmente, ogni immagine e frase nei poemi di Quintilius fosse formata per concordare, in qualche modo con qualche particolare ‘fonte’ , o nel mondo fisico, o nella letteratura da noi condivisa, o nelle conversazioni di Roy e Richard.

Roy era particolarmente bene informato sulla storia dei vini dell’Europa del sud e sulla  storia antica della viticultura in Portogallo, e in verità il più delle volte riecheggiava le parola dello stesso Quintilius, senza conoscerle.

Accadde come se molte menti fossero connesse attraverso  i secoli e parlassero a una voce sola.

                                                                       Peter Russell ( 1983)

Nota: il critico inglese Roger Sharrock nella rivista londinese (settimanale) “The Tablet”, ha detto che questa prima elegia di “Albius Quintilius” ( in verità poesia originale di Peter Russell), sia la migliore imitazione o ricreazione in lingua inglese dell’elegia antica romana.

roma donna gioco della palla

gioco della palla pittura parietale stile pompeiano

QUINTILIUS

Poetae vesani Libidinosiqve Atque Puellarum Ejus omnium In Meoriam tenetriman

ELEGIA PRIMA
Daunia

Generoso lucignolo con olio di cocco
Che suscitavi ogni sera la nostra fiamma nuziale,
Molte volte testimone dell’atto d’amore fosti,

Ogni notte, nella città di Sfax nei giorni di giovinezza
Finché Daunia mi abbandonò a tremare in un letto vuoto

Fu lei a prendere queste coccole in principio
E baci al chiaro d’una lampada fin tardi dopo che l’alba
Affievoliva a fianco del letto la fiamma subito eretta.

Possibili risultati o la continuità mai sfioravano
Le nostra testa colma di giochi erotici e di gladiatori;
Di giorno l’arena, di notte la polvere del nostro letto
Con il lucignolo slanciato e luminoso, e sull’altro lato
Del foro il gemito dei musici, con flauti e un tamburo
A caricare l’aria seròtina di voci e vino
Troppo teneva occupati per pensare a un focolare o ai bimbi.
Ora mi ha abbandonato, è fuggita con un altro
(Una maledetta canaglia di Roma con più danaro
nel suo borsellino)
Di quanto mai ne ebbe mio padre. Prima
del crollo della dracma e la crisi dei mercati),
Partono con la prossima nave per Roma, è scappata con lui.

Al mattino bussò alla mia porta per un addio
‘Non piangere, Quintilius, presto ne troverai un’altra carina
Che ti scaldi nel letto prima del sonno e ti lavi i capelli.

Dimenticherai la tua dolce Daunia prima che lei
Cessi di bramare un ex amante a Sfax’
Non più di queste parola sopportai di ascoltare fulmineo
Fui nel cortile con i polli e piansi
Lasciando che il resto del suo messaggio cadesse
Sul battiporta di lucido rame, orgoglio paterno.
Spesso avevo pensato di essere sul punto di fare fiasco;
Tutt’al più avevo pensato “ sta ragazza sarà buona moglie
Ora che in ogn’altra cosa ho fallito, sciogliendo a sera
I suoi capelli e acquietando i nostri figli fino al sonno
Mentre sulla nostra modesta casa tramonta il sole”
Mai m’ero preoccupato di domandarglielo. Ora è andata
E le luminose strade di Roma l’avranno per il resto
Della sua giovinezza. Forse morirò solo
Senza il fastidio di prepararmi la colazione
O di tenere in casa più che poche mezze bottiglie
Di conveniente vino rosso e un barattolo di olive nere.

La raffinatezza costa molto-
Senza di lei a volere un bracciale d’occasione
Morirò con le mie palme limpide della polvere d’oro
E non sarò più infelice di prima. ‘O Madre Venere
Cosa possono i figli poveri abbandonati da ragazze
Che davano per scontato? Fa male.

Manda un’altra cortigiana greca
Stanca di vivere nei bordelli, alla ricerca d’una casa
Abbastanza modesta ch’io stesso possa provvedervi,
Oppure poni fine al tedio dei giorni
Sarò buon marito te lo prometto.

Trovami solo una casa non troppo lontana dalla città
Con un campo e spazio sufficiente ai polli,
A un gallo, un suino e una mucca: fai vi siano
Tre o quattro ulivi nodosi e fessurati
Con bacche mature ai primi di Novembre; fai vi siano
Un’ampia stanza per porre d’inverno il frumento e un patio
Di viti dalle grandi foglie per i mesi d’estate.
Non dimenticarti di ricordare al tuo antico padre
Di far sì che piova il necessario. Cara dea
Metterai subito radici ai margini della citta di Sfax
A patto che mia moglie non si riveli una suocera
Ed ulteriori intrusioni non interrompano
Le ore dal piede alato con riunioni di senzatetto
E affamati in cerca di cibo’

Che stupido fui a non farle domanda allora:
Le sue morbide dita rendevano dolce il pasto serale
E mai rifiutò di deliziarsi nelle gioie d’Amore

Dubito di trovarne un’altra, almeno a quest’età

Traduzione dell’inglese di Alessandro Gentili
Rivista da Pier Franco Donovan.

Nota: il critico inglese Roger Sharrock nella rivista londinese (settimanale) The Tablet, ha detto che questa prima elegia di “Albius Quintilius” (in verità poesia originale di Peter Russell), sia la migliore imitazione o ricreazione in lingua inglese dell’elegia antica romana.

SECONDA ELEGIA
I DISEREDATI
Mutamdae sedes

Quintilius, s’è trasferito: considerava il calore
D’Africa eccessivo per un pigro, piccolo proprietario terriero.

Lo minacciavano anche recenti proscrizioni
(Disse) di confisca della fattoria.

Quindi, preso il meglio di due corsi negativi
(La povera Licoride disperata di lasciarsi tutto alle spalle)
Ha venduto la piccola proprietà di Sfax
Per poco denaro ed è venuto a Cagnes.
Qui in quel poco che è rimasto della provincia romana
Quintilius programma di passare il resto dei suoi giorni
Ahimè! Poiché la maggior parte della sua ottima collezione
Di pergamene ora orna i banchi dell’usato a Sfax

E’ meglio tuttavia ridurre al massimo le perdite
E ricominciare in un altro paese,
Che soffrire ignobile evizione, violenza con tutta probabilità
Per mano di una banda d’insoffribili vandali
Ebbri del senso di potere per il semplice fatto
Che le persone civili sdegnano sollevare la spada
Questi maiali ipernutriti incedono per le rovine della città
Hanno rubato e bruciato, incapaci di governare
Perfino un manipolo d’ignoranti ringhiosi cani di coloniali,
E si fanno chiamare letterati, parlano di cultura’,
Quando tutto ciò che in realtà sanno è far di conto
O sillabare un messaggio di richieste di più cibo,
O le ragazze da condurre ai loro quartieri.
Che feccia! Con le braccia sferraglianti e voci roche
Tiranneggiano i lo saggi come un branco di sciocchi.
Monopolizzano i mercati e assicurano penuria.

Cosa deve fare Quintilius? Dove fuggire il pesante destino?

Detesta Roma – povero poeta!- Mantova e Cremona
Puzzano, con gli occhi sporchi discendenti dei Cimbri e Galli.
Per non dire dei rudi legionari del divino Ottavio.

Dove poggiare il capo? L’Apulia brucia,
La Campania anche, fuma con i fuochi di Febo,
La Sicilia è meglio sui libri ch’abbrucchiandosi a piedi le suole
Solo la provincia romana gli può dare pace desiderata.
Civiltà senza impegni delle città;
Inverni miti senza l’intollerabile calùra

No, Quintilius, è saggio uno spostamento!
Stette troppo al chiuso con la bella Licoride
A studiare finché lei non ne poté più e pregò
Il padre dei suoi piccoli d’arrotolare le pergamene e parlare
Un’ora o più finché il sole non sia tramontato e il vino
Ancora una volta infiamma la giovane coppia fino al letto nuziale.

Dopo è la lingua sottile ed esperta di Licoride
A bruciare come una fiamma le labbra cupide di Quintilius,
Lui come irsuto caprone sulle vette del monte Ida
Scruta estasiato le dolci membra della sua compagna.

Ma a Sfax con i loro polli, il cane rognoso e la capra,
Gl’antichi e nodosi ulivi quasi senza frutto
E la polvere insidiosa d’eterno meriggio,
Cosa dovrebbe fare il poeta, chiuso nell’orbita più esterna
Con nessuno se non con una ex cortigiana e un servo schiocco
Che aiuta in casa e provvede ai bisogni corporali?

E’ vero le schiave africane sono più a buon mercato, ma che si ricava
A comprare una schiava che in men di un mese sarà stuprata ( se avvenente)
O catturata e venduta a un altro ( se i suoi attributi sono tali
Da attirare l’insaziabile vandalo per il proprio volgare spasso?)

Qui sulla calda montagna di Cagnes lui è al sicuro:
Di giorno le api producono un miele più dolce dell’ibleo
e soffici sono le olive come le migliori cresciute
Sulle pendici della Fiesole etrusca. Erbe di gran abbondanza
Scaturiscono dai sentieri di montagna, aglio e salvia
Prezzemolo e cipolla selvatica, anice, pimento e timo,
Balsamo dolce e finocchio, spigo, indivia e alloro.

Fresche insalate, fagioli bianchi e peperoni, melanzane purpuree
Quanto il vino, pompelmo e melone, ovunque a caso sulle mulattiere
Prospera il cactus spinoso ma non impedisce la crescita
Delle albicocche, delle pesche e delle prugne. La mela è vero
Qui non fruttifica, gli spinaci sono grinzosi, e il cavolo
Come cuoio per i palati soliti alle verdure toscane.

Ma i funghi teneri come carni d’agnello crescono
Nei primi mesi dell’anno vicino ai pagliai.

Così si, ora nel porto sottostante
Marinai avvolgono le loro scorte ben ordinate
E il capitano dà ordini di scaricare la stiva

Un ricco carico di granaglie è stato spedito dal Basso Egitto,
Mangime per le bestie in aggiunta a cibo per umani,
Senza far menzione della farina grossa usata da queste parti
Per acconciare pasticci di acciughe da offrire a Espero
Tuttavia anche questo prezioso cargo, dono di nostra Madre Cere,
Non regge il paragone con il tesoro acquisito da Cagnes
Quando il dotto, e da troppo tempo esule, Quintilius discese la passerella

roma Fayyum fratelli

Fayyum, ritratto di fratelli

ELEGIA TERZA
L’ETA’ DELL’ORO

Per tutto il tempo che i fichi acerbi
Continueranno a cadere fuori della porta
Così anche le mie modeste speranze non svaniranno.

Vi fu un tempo quando mi figuravo un futuro
Di pace nel paese, coltura di viti fruttuose,
Possedimenti di una vita compresa una casa e terrazza,
Limpide condutture d’acqua e abbondanza di legna
Per intrappolare le fredde incursioni dell’inverno;
Pochi libri su di una mensola asciutta, le visite degli amici
Da paesi lontani ( occasione per scannare un vitello
E servire agli stanchi viaggiatori un ricco Falerno
E le gustose cervella del povero animale nel burro nero);
Discussioni di poeti nottetempo, il significato d’antichi miti,
-Il tempo della semina, potrebbe essere,
dei nostri capolavori auspicati,
Sbocco finale dei nostri banchetti,- dunque felicità, credevo.
Ma sedendo qui insoddisfatto, con il testo di un povero imitatore
( ingarbugliato, scorretto e zeppo di interpolazioni,
Tristemente frainteso dai Dottori di Roma con orecchi d’asino),
Cosa fare se non piangere, sentendo le ore fluire,
Schiantare fico dopo fico fra fredde e verdi foglie
E sparsi sulla terra buia essere preda di voraci insetti.

Cara generosa Madre, che idiota fu, chiedo,
Chi ha piantato il tuo albero del fico nell’ombre ostili
Cosicché solo i frutti elevati hanno ricevuto la manna solare
Per maturare in pieghe purpuree e calde e nutrire i tuoi ministranti?

Ne fu convenientemente curato quest’albero troppo cresciuto
Per cui non potendo raggiungere i rami più alti resto
Con nulla se non dure pallottole di fico.
Molte cose sono in dubbio; – di ciò solo siamo certi-
Ogni cosa degna richiede una spesa di lavoro: le superfici
Tutte potenzialmente fertili
Devono essere attraversate da molti canali,
E i rami germoglianti troppo alla svelta
Necessitano sapiente potatura
Per mezzo di ore laboriose sotto un sole cocente;
Proprio come, O Apollo, i tuoi malinconici giovani
Devono adeguare
Il loro triste canto a forme ordinate di dolore,
O anche, Priapo, i tuoi felici adoratori le loro urla.
Matandae sedes: non posso tollerare questa condizione;
Moderata accettazione,
ragionevole disponibilità di libri
E qualche lieve speranza di Pace
Duratura potrebbe avermi distolto
Dal mio infelice vagabondare sulla faccia dell’Europa,
Asia, Africa, alla ricerca tra libri e uomini
Della buona vita. L’iniquità, sembra avere molti volti
Poiché ora vi sono guerre sulla terra: anche per i poeti questa vita
E’ senza onore, integrità- perfino senza vergogna.
Dove un tempo cantavano gl’antichi bardi, vili schiavi
Assurgono a lavori gradevoli
Ben retribuiti nel Servizio Civile, Università, gruppi culturali,
Ed altro, come fossero latifondi metropolitani.
Ogni valore è capovolto dove la codardia è un valore
E il coraggio è da molti considerato vergognosa affettazione,
Dove parlare anche solo di “Eroi” o redigere vergognosa affettazione,
Dove parlare solo di ‘Eroi’ o redigere le gesta dell’aristocratico
Senz’altro contraddistingue il folle, impedisce ogni promozione
E gli procura più nemici di quanti siano i culattoni a Sibari.
E prima d’ogni cosa, tuttavia, è un incontro per venerare gli Dèi:
Così ho sempre creduto e così ,spero, crederò.
Tuttavia dicono che non sia di nessun vantaggio invocare gl’antichi dèi-
Deboli uomini hanno rovesciato l’Onnipotente Giove, il Re
Dicono di aver fatto vergognare Giunone, la regina del cielo.
Non so che dire ma di ciò sono certo
Esistono gli spiriti benefici quanto poi i maligni.

Codesto nuovo Dio che unisce tutti gli schiavi contro di noi
Che ci fa mancare sotto i piedi il meglio dell’antico ordine,
Oberato di etica e avvelenato dalla sgradevole politica,
Ha indebolito il dominio del bene, sostituendo l’Antica Giustizia
Con corti piene di schiavi, orientali e vandali
Ognuno trattenendo, la sua non piccola commessa
Sui frutti della libertà individuale. Puzza
Questo accentramento d’ogni facoltà autonoma,
Questo logorio sistematico della vecchia etica individuale.

Il privato cittadino è derubato della responsabilità
Rivenduta sporca al pubblico, ad alti prezzi,
Presso la folla scomposta
E insopportabile della Roma imperiale di un tempo,
di Costantinopoli, Ravenna e Napoli, o Dèi, che banda
di lerciume e corruzione riempie ora i posti del nostri antichi consigli!

Prego Venere, Apollo, Minerva e Marte
Di disfarmi da questa calca coprofila e bruciare i loro resti
Lasciando insepolte ed animale, loro untuose ceneri.
Per me devo svolgere le ben note fatiche del poeta zelante
Sacerdote profano di Apollo, servo dei virtuosi,
Erudito e appassionato d’ogni arte e scienza
E in ogni istante custode della Musa ospite,
Persi i sensi e lasciato affamato, come potrei essere,
Dalle Parche ostili e dalle mani omicide degli uomini

Qui devo restare e comporre i miei versi persistenti
Finché abbia venduto prodotti sufficienti sui mercati di Cagnes
Per levare di nuovo l’àncora e partire per luoghi più amichevoli
In verità, sopra ogni cosa, le dolci muse
(di cui porto i sacri emblemi guidato da appassionante amore)
Mi potrebbero accogliere con doni;

A me, loro servo, potrebbero mostrare le vie del Cielo
E la stella
Il quotidiano tramonto del Sole, le diverse fasi della Luna;
La causa dei terremoti, e la forza che solleva l’oceano
Ora rompendo le sue barriere,
ora sprofondando nel bacino assegnatogli;
Il motivo per cui gli astri invernali s’affrettano tanto ad immergersi
Al di sotto del mare, e quale indugio trattiene le notti tardive.

Le tue campagne e tutti i Tuoi incessanti torrenti
Siano la mia gioia, dolci Dee; lascia che ami
Le tue acque e i boschi solitari, Là non si ascoltano gli echi profondi
Delle urla della fama lesa, né interrompono le Ore.

Lascia che talvolta in fuga mi faccia avanti nei boschi
Solo per confluire nelle folle, ignoto ad Erraginum,
O che partecipi, non visto, ai riti mitràici a Nemea

Potrei incontrare tribù pacifiche lungo la strada
Che danzano i loro riti segreti in boschetti nascosti
Dove Bacco e le ninfe sono visitatori consueti
Latori di vino dolce e abbondante amore. E potrei vedere
Freddi abissi, abitare all’ombra di enormi rami.

Felice chi seppe d’ogni cosa le cause,
Dominò l’insinuanti paure, pose ai suoi piedi
Il duro Fato ed il lurco Acheronte dal suono terribile.

Felice anche chi conobbe gli dèi agresti
Pan, Silvano e tutte le ninfe sorelle loro amabili.
Costui non si sottometterà agli onori popolari
Né alla porpora reale,
Né ai dissidi che muovono fratello contro fratello;
Né all’unione di forze fra tribù barbare periferiche,
Né al potere costituito o qualsiasi altro punto di collassare:
né s’affliggerà
Pietoso per gli oppressi o invidierà i ricchi.
Il frutto raccolto da tale uomo, i campi àlacri e i rami
Di propria scelta lo producono; egli non conosce
Il Foro ridicolo o le ostinate leggi,
O il tabulario con le liste di tutte le persone
Trascritte meticolosamente tanto quanto in pedigre delle capre.
Poca la sua saggezza, grande la follia dei governanti.

ELEGIA QUARTA

QUINTILIUS E I SUOI DEI

‘ A quale tipo di femmina, Quintilius, dai la caccia?
Quale dea o etèra attrae la tua natura sensuale?
E’ l’ultima novizia-una vergine fino a poco fa-
Nelle coorti ben addestrate, dislocate presso la porta di Livia?
Una ragazza di certo alquanto affascinante che da poco ha lasciato
Dopo uno sciocco bisticcio la madre- un po’ consueto, forse
Ma che ne importa se apre la soffice sua bocca ai baci
E trattiene le chiacchiere, per il mattino- e un altro uomo?
Alcune iniziano così, piccole innocenti care,
Ma escluse le zitelle e scolarette infine imparano
Di prostituta i trucchi più astuti. Oppure, triste,
E’ un’impudente captiva- Schiava tedesca
Dagl’ occhi azzurri
( Che venera chi sa quali dèi, in più capace
D’ammaestrarti, Quintilius,
Ai propri severi rituali – un’abominevole schiavitù!)
Oppure è una maliarda, occhi a mandorla, asiatica, nuda
Non fosse per l’oro pesante sulle braccia e
campanelli alle caviglie
Ti calma, in barbari templi, fino all’arduo sonno,
Appellandosi a Astarte frigia o altri demoni più
Terribili
Per assicurarsi la stregoneria più potente, vuotarti
Le tasche.
E’ la stessa vecchia storia, Quintilius Stultus, mio amico
Che attende di cadere dalle labbra arse mentre ti trascini
Per il Foro, poco più tardi del solito, in questo
Mattino di febbraio?
Oppure, forse, è Avventura amorosa, il battito del
Tuo povero cuore non il colpo del lingam,
Passione eterna, eroica devozione, di necessità ignota
Per l’onore d’una Lady e di un nome d’antica schiatta?
Eppure l’amor, che la povera Didone dètte prodiga
A Enea, o Ettore a Andromaca sua consorte,
Sia che sia una passione intensa, viva, pare, fino alla morte
O l’Età delle dita flosce che spegne la sua fiamma,
O nobile devozione stabilita tra uomo e donna,
Durevole oltre la morte, che si fa Storia,
E’ pregevole, raro, assai ambito- ma non da quelle come noi.

Per noi, agili ragazze di Coo abbigliate con veli,
Abili nelle nostre astuzie dell’indecente Cipriota
Basta! Nell’oscuro passato era possibile fuori di dubbio
Adorare come dea una ragazza giovane ed amabile
Ché gl’antichi avevano dèi per ogni occorrenza,
Ogni dio una dea o due;

Ogni campo e boschetto, ogni corrente d’acqua lucente
Aveva innumeri ninfe, giovani e amabili, driadi ed amadriadi;
Ma che può fare un giovane solo nelle vie di Roma
Quando la brama d’amore lo assedia come tempesta?
Le giovani carine tutte voglion marito-
Ma qui non v’è gioia, mille pericoli, semplicemente

Benché là, vecchio amico, tu sia sufficientemente al sicuro!
O può essere mio caro, per quanto esiti a suggerirtelo,
Qualche ragazzo dalle guance lisce, un empio oggetto d’amore
Pure niente di strano in questa città (felicemente) oppressa dal vizio,
Ha allettato il più appassionato, a quel tempo, servo di Venere
Con un nuovo piacere? Oppure, povero e abbattuto Quintilius,
E’ questa faccia mattutina, grigia e non accogliente
La ricompensa per i favori concessi del Dio del Vino? Può essere
Che Bacco abbia stordito il tuo intelletto, e il fegato non il cuore
Sia la tua disgrazia? Ma nessun problema è semplice- più probabile
Che il bardo sia caduto in balia di Bacco, e scaldato da troppo Falerno
Sia caduto lungo la strada, mite preda delle ‘signore’

Ah non è la prima volta che accade, Quintilius
E neanche l’ultima, per Venere, sebbene possa vedere
Dalla tua faccia che il tuo borsellino è quasi vuoto!
Non disperare
Si empirà di nuovo presto: La povertà non dura in eterno.

Non è nessuna di queste cose? E’ qualcosa di meno ‘serio’?
Oh Mercurio, aiuta il mio povero amico- so ch’è davvero nei guai!
Quintilius ci raggiunge. I suoi vecchi amici lo deridono un po’

‘Di nuovo bagordi?’ ‘ Come sta la tua testa?’ ‘ Confessa!’

‘ Oh mon brave, sei senza parole- Cosa ti tormenta?
Sfortunato poeta!
Fu lento a replicare, come se cercasse parole inusitate

Fu ovviamente un tergiversare, una conversazione, in
Un certo senso sensazionale,
Si palesava qualcosa di insolito per il nostro
Vecchio amico.

Parlava; povero bardo dai mille guai.
‘Sono entrato in una setta di Cristiani
e vi ho speso la notte
In orazione e digiuno, vigilia davanti all’Unico e
Vero Dio,-
E non miei cari amici, in abbandono sensuale
e volgare.

La mia cara moglie, Lucimnia, di cui ho
prima d’ora, troppo abusato
Per ubriachezza e sfrenatezza, è stata a lungo, in segreto
Una cristiana. Ora, miei cari amici, anch’io
Rinuncio a tutte le vanità, agli inganni,
Alla falsità della vita cittadina e sono qui a dirvi
Addio. Domani partiamo.

Una santa matrona, amica della zia di Lucimnia,
Facoltosa, devota, una santa, ci ha offerto un
Passaggio
A Giaffa, donde andremo a piedi in una piccola
Città della Giudea:

Un convento ci attende. Pane, latte e tutte le
Squisitezze del paese,
Verdura, frutta ed erbe benefiche ci manterranno
In buona salute.
Alla parca tavola.

Così sistemati, il sonno selvaggio non ci priverà
Delle preghiere
Né la troppa agiatezza interromperà lo studio.
D’estate gl’alberi ci forniranno una tettoia
In autunno le foglie, cadute per l’aria più gelida,
un frascato
Diverso dalla frenetica Italia perseguitata dagli eccessi;

In primavera quando i fiori decorano i campi
I nostri salmi saranno più dolci
Mischiati con le lodi degli uccelli;
E, all’arrivo delle nevi invernali
Quando i poveri rabbrividiscono nei loro letti,
Saremo benedetti con legno abbondante e camere
Ben riscaldate.

Roma si tenga le sue folle, la sua arena crudele
gli spettacoli selvaggi,
i teatri soffochino nella propria stoltezza,
E tutti i nostri vecchi amici continuino le loro
Fatue ‘ visite’;
La nostra gioia è in Dio, in Lui la nostra speranza,
la nostra salute
Acquisita in Paradiso, e tutti i beni terreni, senza
Valore…

Così predicò il povero compagno, pazzo
Ovviamente,
Cercammo di non farci troppo caso. Era già
Accaduto
Quintilius ha sovente attacchi di pazzia,
predisposizioni
Deplorevole per uomini meno famosi di lui ( anche
Se più ricchi)

Noi lo trovammo divertente da parte sua. Gli
Stringemmo la mano
E gli dèmmo l’addio, accettando di buon grado le
Sue benedizioni
( Come spesso sopportavamo oscenità, scurrilità,
insulti
Quando bevendo era solito insultarci).

Chissà che cosa ha in serbo il destino per un
Iniziato tanto strano?
Non credo durerà a lungo questa infatuazione
Quest’adulazione di “ Un Solo Dio” ( come se gli dèi
Nativi
Ci dovessero turbare tanto, lasciamo perdere

Un nume pazzo cui gli stessi Ebrei non
S’inchineranno).
Povero diavolo sarà andato pur lontano
Ma non durerà per sempre: tornerà, lo sento
Non appena la ricca matrona avrà acquisito i suoi
Risparmi
E si occuperà d’un altro ingenuo intrigante.

Se solo si fosse attaccato alle donne ( il vino
Non fu mai abbastanza!)
Tutto ciò sarebbe stato eluso. Piccolo vizio ma
Fece gran danno
Ma la virtù rovina molti innocenti.

O fratello Mercurio, risparmia
Al nostro vecchio amico questa disgrazia!
Lascia che si salvi – maledizione, sei il DIO delle
Evasioni!
Cogito soldati romaniELEGIA QUINTA

Quintilius, esule dai circoli di corte, è adagiato sul punto di morire. Avverte l’anima separarsi dal corpo, la implora di non abbandonarlo, di ricordare piuttosto gli splendori che avevano caratterizzato la loro vita in comune, e ritornare così a nuova vita.

ELEGIA IN PUNTO DI MORTE

E di nuovo la verde primavera invade la Terra
Inabitata
Splende il Sole e Zefiro stimola in germogli novelli:
Anima mia, non celarti nei desolati antri iemali,-
Ritorna! Non abbandonare, povera anima
Vagante, il tuo Maestro esiliato.

Ritorna! Non andare a Est, Ovest, Nord o Sud!
Non a Oriente ove sfumano le carovane di
Cammelli della Media
In cupi e sterili livelli di sabbia senza fine
Più crudele della sanguinaria arena, popolata di
Demoni
Ch’infuriano, irsuti con testa di porco e occhi
Sporgenti;
Oh anima non andare nell’oriente denso di
Pericoli, Rinvia!

Né anima dovrai andare nel gelido Nord,
Su montagne glaciali dove procedono lenti barbari
Con le corna;
Dove non cresce vegetazione e scorrono gelidi e
Profondi i fiumi,
Mai in secca d’estate per la traversata dei non
Disinvolti;
Dove il cielo è increspato di neve e il gelo taglia
Come spada, uccidendo la linfa vitale. Oh anima!
Non andare, errante svolazzante, nei gelati abissi del Nord.
Né nel terribile Ponente, insoddisfatto disertore d’avversità,
Dove come migliaia di forti legioni schierate a cavallo
Spietato l’Oceano sommerge l’ultima spiaggia della Terra
Nuvole s’addensano basse, si posa sul mare la
Nebbia. E al di là fluttua luccicante il ghiaccio.
Oh anima, non andare a Ponente, verso la conca
Boscosa ove il Sole
Sprofonda nel buio, com’anima senza casa
Nell’Orco.

Né, Anima, nel Sud consumato dal fuoco dove la
Terra si sgretola
Annerita e serpi velenose scompaiono tra le
Fiamme!
Dove su erti sentieri o in boschi profondi furtivi
Movonsi
Tigri e leopardi, e strani uomini- bestia saltano
Dalle rocce
Non andare al Sud, O Anima! Volgiti alle lieta
Pace.
Godi nella quietezza Capri e Baia, i colli toscani e
Le valli
Dell’aprica Umbria, schivo solo dei tuoi capricci,
Dimentico del dolore, di nessuno servo.
L’agio quotidiano attenuerà il peso dei giorni
E prolungherà gl’anni restii a un’altra esistenza,
E dove il grano mietuto è riposto alto come case,
Si preparano squisite crostate di mais tenero e ricco;
Lo straniero viene invitato a scrutare le pentole in
Ebollizione
Mentre il cuoco affaticato vi getta pezzi di pollo
Ed erbe astutamente pepate. O Anima-il vitto
Che ami!
Leccornie e delizie dei tempi andati. Ritorna!

E presso il fuoco è il rosso Falerno
Riscaldato di gradimento per il palato più esigente;
E quando fragranti i fumi quanto lenitivo
L’agognato sorso,
Vendemmia per gli Dèi,- per noi – non per
Gente qualsiasi.

O Anima, ritorna, estingui la tua spossatezza,
Le cornamuse e le corde pizzicate, remote melodie
Allietano i banchettanti, antichi canti di quelle colline;
Non le farse levantine della delicata lira,
Del genio musicale, che filano oro, O Anima,

Ritorna al lamento dell’arpa e al flauto.
E poi i danzatori! Orientano i loro passi alle parole
Del poeta,
Battono i loro campanelli, accordano i loro suoni
Alla moderata rapsodia.

E i cantanti! Canto dopo canto finché penseresti
Nulla più resti da cantare, e ancora ne cantano di nuovi.

O Anima, ritorna al fraterno incontro canoro!
Le signore della Corte, donne belle, caste
Le amammo e curammo, donne che amarono
E curarono i nostri figli – mirandamente
Preparate
Di filosofia, brillanti tuttavia serie – ora dove
Sono?
E le cortigiane, le danzatrici e le cantanti, e le
Argute,
Irriverenti e viziate ma teneramente arrendevoli,
Scuotono i lunghi capelli, ci mostrano i denti,
Ridono e battono le mani, premendo vivaci
L’intricate gioie della notte,- ricordi?

E, anima mia! – di giorno – sfilano per strade e parchi,
Festeggiano in locali intimi con amici preziosi,-
Anima mia, torna a vivi per questi piaceri.
Ricordi là sui prati i pavoni, i laghetti con le
Lamprede?
Ricordi il richiamo di Iti nel profondo del gualdo
Di mirti?

Chi gode di questi molteplici piaceri è felice,
E nobile, saggio: il suo consiglio è di Pace,
Non il saccheggio delle ricchezze o la
Sottomissione dei poveri.
Forse governerà ancora un Imperatore, guidato da
Saggezza
E amore non dall’avidità arrogante o dalla follia
Adulatoria,-
Con interesse, non disprezzo, per i bisogni
Dell’impero brulicante di gente:
In ambito pubblico con doti mercenarie, ora
Scomparse.

Io potrei essere un idiota farneticante,
sognatore dai sogni sconsiderati,
Ma so che sulla terra c’è cibo e acqua sufficiente
Per tutti,
Per essere felici e amare: che non si può dividere

E distribuire in porzioni uguali a ognuno, a
Dispetto della categoria.
Ciò potrebbe produrre danni peggiori persino
Dell’attuale fiasco.

Godimento, non di ricchezze e potere, il
Godimento della Natura,
Della sufficienza, della libertà, è più del diritto
Di vivere come un porco.

Un governatore giusto scalderebbe i cuori come il
Sole:
Un’epurazione di generali
E banchieri renderebbe l’aria più fragrante…
Pure non dimenticare che gli abusi sono radicati a
Fondo,
E dubito che nell’Impero esista una dozzina di
Uomini
Adatti al controllo della Giustizia – e forse non è
Per niente un bene.
Muoio con questi amari pensieri sulle labbra,
questa pena in me.

Anima, sei sul punto di lasciarmi, d’andare a
Ponente o a Sud
A Oriente o a Nord, non so dove,-
M’abbandoni freddo e trascurato, senza vita e
Illacrimato
Cadavere rannicchiato e insepolto sulla terra
Antica, generosa.

QUINTILIUS
AGLI AMICI IN GALLIA
Che inviarono un cesto di squisitezze

L’avvenente Licoride era nel recinto a sfamare
Il rognoso porco
Anch’essa non indifferente alla gran
Confusione che facevano,
Quando uno schiavo dal mercato nel Campus
Ucca, giunse in gran fretta
Portando un possente cesto di gamberi della
Selvaggia costa marina
Un prosciutto ben cotto adornato di pampini,
e formaggio dei colli di Albione
Dono di qualche amico lontano. V’era un tale
Trambusto quando l’affamato Quintilius
Pose lo sguardo sulle leccornie; svelto quanto
L’arcadia cacciatrice
Corse alla tavola imbandita e tirando il collo a
Una bottiglia
L’assetato poeta rese generosa libazione.
‘O Bacco, il tuo àlacre schiavo- se fossi ricco
Quanto molti poderosi templi
Con pareti di marmo, non m’alzerei in felice
Adorazione.

E, vivande, Priapo! Quante pietanze non ha
Ordinato il generoso!

Ma non è più il Saturnale Dicembre, quant’è
Consuetudine i regali vòlino
Qua e là, fibbie per le scarpe, cerini e tavolette
Di cera,
Piccoli vasi impacchettati con prugne di
Damasco, gingilli
E quant’altro, – e io – miserabile amico, un
Semplice liberto della penna,
Senz’altro da invidiare che parole, graffiate
Sulla cera con stilo incerto.’
Licordide, mentre il poeta pomposo parolaio
S’esprimeva, assaggiò il formaggio.
Sbocconcellò il biscotto avvantaggiandosi sul
Suo padrone. ‘ O Mercurio, caro fraterno dio,
Quali bontà hai inviato! Aiutami ad avere la
Mia parte altrimenti
Lui avrà tutto ed io e i miei piccoli
Sgraffigneremo neppure una salsiccia.’
Propizia l’occasione, il poeta consumava una
Miscela di parole e vino,
Dita leste sottraggono una buona porzione e la
Nascondono
Dall’avide mani del bardo, sebbene ignaro.

‘Benedetto da Mercurio! E ‘da Bacco’
Pronunciò
La coppia felice, guardando con garbo
Una volta ancora il grasso e sbuffante porco
Britannico.

BROCK sul sudario

Un poema sulla pazzia di Quintilius, trovato iscritto
Sul sudario avvolto al corpo di una prostituta sacra
nel tempio di Iside a Mestre, scavato di recente.

Sessile, un nomade,
Società, gli esperti, mi vorrebbero estirpare
Non dovevo nascondermi nel mio covacciolo
Un tasso, mi chiamano, i preti e i tribuni
Militari,
I Rufuli, retori e disgustosi rapsodi,
gli amanuensi sepolti nei loro scrittoi
E gli avvocati nelle lor toghe corte e untuose
S’incontreranno un Sabato, giorno di riposo,
E indosseranno le tuniche dei cacciatori
E giungeranno alla porta della mia casa con
Ciocchi e zolfo,
E roteando il bastone di quercia
Nel solco fondo del grembo di mia madre
Appiccheranno il fuoco ai fuscelli di betulla
E poi a questa catasta ammuffita,
E così mi cacceranno
Ma sono astuto- ho tre porte sul retro
( A uso di mogli prese in prestito e altre
Emergenze)
E so fare di meglio che lasciare
I miei oggetti preziosi
Senza protezione in una casa vuota

Vamus

Nelle foreste vergini dove il tasso sogna
Appiombo, dalle bianche e infere parti
Degli alni
Corre a lato della ninfa lucente
E io siedo alla luce di una luna tuberosa
E fischio alle nottole e alle rossette
Sotto una fronzosa quercia
Dove la calda sorgente di Apollo, come Baia
Allo strepito dei flauti foresti
Dolcemente inonda e attenua
Lo spirito, Artrite, ch’indugiò a lungo
Fra i miei artigli retrattili e robusti
Sono Brock della foresta vergine
Non, in una città, un somaro a due gambe
Lascia che vengano con i loro bastoni e i
Randelli
Le scatole per l’esca e le loro citazioni
Le loro bugie e le loro fusa
Me ne sarò andato per il loro arrivo
Lasciati esplodere d’odio
Lascia che si dilettino con l’inganno
E dei compiacimenti supremi
Della menzogna
Io sarò fuori nella boscaglia
Dove il merlo chiama
E lo smeriglio vola basso
Sopra la brughiera rosea in fiore
E le probi api accumulano il loro pondo di
Miele
*
A sera farò visita
A mio fratello il vecchio orso bruno
E condividerò, nella tana battuta e
Confortevole
Del cacciatore anziano e scarmigliato
Il miele da entrambi trovato
Nelle profondità d’impenetrabili boschi
Dove le sottospecie umane non giungeranno
Con i loro fucili e gli esplosivi
E si siederanno sulle nostre anche a rompere
Nocciole dai rami virenti di avellàno e nocciòlo
E le spoglie rubate alle falde dell’Etna
E a biascicare indisturbati

Sì la fortuna è fortuna
L’umane bestie dicon sia una ruota che gira
Ma nel nostro buon mondo
Possiamo destreggiarci abbastanza bene
Senza tali ambigui vantaggi
Quali la ruota che schianta e frantuma
Bruin ed io ottimi denti
Ma i carradori e i carpentieri e i costruttori di
Chiodi ferrei
I folli sdentati
Son tutti andati dai chirurghi barbieri
A comprare una serie di molitori

Inadatti a rosicchiare anche la coscia più tenera
Di giovane daino
Tanto meno le squisitezze del cervo
E cosa dovrebbero fare gli idioti
Se non cucinarlo in pentole di ferro
Con viscoso grasso di scrofa capuana

O Troia!

Peter_Russell_17

BIOGRAFIA
Tra le numerose biografie di Peter Russell, apparse su varie riviste e libri pubblicati, scegliamo quella scritta di suo pugno che va dal 1921 al 1995, da noi integrata fino al 2002, anno della sua scomparsa.
1921 – Nasco a Bristol, Inghilterra, il 16 Settembre (Vergine !)
1927 – Collegio privato per ragazzini. Studio latino e greco. Sento una grande attrazione per Omero,
una grande affinità con Platone. Subivo quasi una specie di apocalisse nella scoperta della natura, – uccelli, alberi, fiori, insetti. Esperimenti bambineschi con le sostanze chimiche che adesso riconosco, dopo sessanta anni, come pura alchimia.
1934 – Borsa di studio per le lingue classiche. Malvern College. Leggo Dante, i poeti del Dolce Stil Novo e Petrarca e divento appassionato dei pre-raffaelliti inglesi. Trovo in casa nostra i libri del mio prozio Arthur Knight, il quale visse a Firenze dal 1844 fino alla morte, nel 1928.
Dal 1935 in poi studio le scienze (zoologia, botanica, fisica, chimica) e il tedesco come lingua della scienza. Ma scopro anche la poesia romantica tedesca.
1939 – Passo l’estate a Heidelberg. Mi arruolo volontario nell’artiglieria reale.
Servizio antiaereo durante il blitz.
1943 -Servizio con l’aereonautica come osservatore della contraerea nemica.
Incursioni in Germania.
1944 – Paracadutista, osservatore. Campagna in Olanda.
1944/45 – Servizio contro i giapponesi in India, Birmania, Malaysia, Cina.
Studio molte lingue orientali. L’esercito è stata la mia università tecnica.
1946 – Torno in Inghilterra. Studente all’Università di Londra. Comincio indipendentemente gli studi su EZRA POUND.
1947 – Passo sette mesi a Firenze e visito molte città in Italia. Studio cultura italiana usando la biblioteca dell’Istituto Britannico. Incontro Montale, Landolfi, Rosati, Napoleone Orsini, Bigongiari, sem-pre con i miei cari amici Sergio Baldi e Arnolfo Ferruolo. Intervista con Margherita Guidacci. Dal ’47 al ’51 visito l’Italia ogni anno per qualche mese. Trascorro anche molto tempo a Parigi. Incontro T. S. Eliot.
1948 – Per World Review faccio interviste a Hamingway, Croce, Beerbohm e Santayana. Comincio la serie (un’opinione espressa anche da Robert Nye, critico del Times).
1949 – Fondo la rivista delle arti NINE (cioè le nove Muse), che continuo a pubblicare fino al 1958.
L’elenco dei collaboratori include fra gli altri Santayana, Eliot, Pound, Windham Lewis, David Gascoyne, Kathleen Raine, Allen Tate, Roy Campbell, Owen Barfield, E. E. Cummings, C. S. Lewis, Borges (prima pubblicazione in lingua inglese), T. E. Lawrence (inediti), Robert Graves, Basil Bunting, Sitwell, Empson, Nicholas Bachtin, Arthur Waley e giovani poeti come Tomlin-son, adesso famosissimi. Il 7° numero fu dedicato alla poesia italiana, spagnola, portoghese e francese del Rinascimento.
Pubblico An examination of Ezra Pound a New York e Londra. Una collezione di saggi: fra gli al-tri, Eliot, Sitwell, Windham Lewis, Tate, Hamingway, Seferis, Kenner, Mc Luhan ecc., con una mia lunga introduzione. Il testo fu ristampato nel 1974, rivisitato e con nuovo materiale.
Pubblico molte mie traduzioni di Ungaretti, Montale, Quasimodo, Cardarelli, Sereni ed altri.
A Venezia Carlo Izzo e Manlio Dazzi mi aiutano con gli studi poundiani e mi insegnano molto di letteratura italiana.
1950 – 6 mesi nel sud della Francia, studiando poesia provenzale, antica e moderna. Anche quella portoghese, specialmente Sa de Miranda, Camoes e Pessoa. Amicizia con Roy Campbell e Ri-chard Aldington. Riunione internazionale del P.E.N. a Venezia. Incontro Ungaretti e anche Au-den. A Londra comincio la pubblicazione di opere in prosa di Ezra Pound.
Fondo “The Ezra Pound Society” (Presidente T. S. Eliot) per propagare le idee di Pound e per cercare di farlo liberare dal carcere negli U.S.A.
1951 – Da Londra mi trasferisco in campagna per finire i miei libri su Pound e su Ovidio. La casa, con tutti i libri e manoscritti, fu distrutta da un incendio. Questo mi accadeva dopo un’altra distruzione, causata da un’incursione aerea durante la guerra, quella della mia collezione di libri e manoscritti relativi agli studi giovanili, fatto che mi ha sempre molto rammaricato. Non sarà l’ultima volta che si verifica un simile evento! Solo pochi giorni dopo l’incendio fui richiamato sotto le armi per la guerra di Corea. Mi dovetti aggiornare circa le nuove tecniche della contraerea e dei radar.
Verso la fine dell’anno trovo una nuova casa con mezzo ettaro di terreno nella foresta di Ashdown, nella contea di Sussex, e ci vivo fino al 1959. Intanto apro una libreria nella città di Tunbridge Wells e comincio a stampare artigianalmente dei libri di poesia. Il primo libro stampato fu una collezione di traduzioni in dialetto scozzese di poesie di François Villon, opera geniale del poeta Tom Scott. Continuo ad occuparmi sia della libreria che della tipografia fino al 1959.
Dal 1949 al 1963 scrivo molte recensioni per settimanali e mensili come il Times Literary Supplement, Time & Tide, Spectator, World Review, New English Weekly e Changing World. Faccio rego-larmente trasmissioni radiofoniche con la BBC fra il 1950 e il 1963. Tengo conferenze a Oxford, Cambridge e altre università. Molte mie poesie vengono pubblicate in riviste inglesi e statunitensi.
1952 – Di nuovo !! Il fuoco distrugge la tipografia commerciale, Clement & Son, che aveva appena stampato due nuove opere in prosa di Pound, ed altre mie pubblicazioni. Poesie pubblicate in una antologia spagnola.
1953 – La routine di lavoro della libreria, la tipografia, la distribuzione di libri, e il giornalismo letterario, se non anche il lavoro nell’orto di casa, diventano troppo pesanti, e fino al ’63 mi sento sovraccarico di pratiche banali e perciò poco capace di scrivere poesie. Comincia un’amicizia molto speciale col grande poeta scozzese Mc Diarmid.
1954 – Poesie di Quintilius sono trasmesse dalla BBC, e appare il primo libro di Quintilius.
1956 – Incontro a Londra Allen Ginsberg e Gregory Corso.
1957/58 – Studio con grande intensità la lingua e la cultura russe. Traduco molte poesie di Pushkin,
Lermontov, Mandelshtam e Pasternak. La BBC mi impiega come interprete per la visita al Mo-scow Arts Theater. C. M. Bowra e Isaiah Berlin mi aiutano negli studi di Mandelshtam e Paster-nak.
Pubblico con la sorella di Pasternak un libro di traduzioni delle sue poesie.
1959/63 – Mi trasferisco a Londra. Apro una nuova libreria in Soho. Studio assiduamente, prima, lingua e poesia persiana classica, e poi la cultura africana, e passo molto tempo con degli africani residenti a Londra. Incontro di nuovo Ginsberg e Corso, questa volta con Burroughs e molti altri Beats, specialmente l’editore del North Carolina (U.S.A.), Jonathan Williams. Scrivo la lunga poesia epica, Ephemeron (500 pagine), pubblicata solo nel 1976 negli U.S.A.
Passo molto tempo a Londra con Quasimodo, e lo trovo simpaticissimo.
Traduco un volume di poesie del poeta milanese Camillo Pennati.
Nel Marzo 1963 la mia libreria va in fallimento, in parte a causa del fatto che ho trascurato gli affari e ho dedicato tutto il mio tempo agli studi, sia linguistici e letterari che scientifici. Dopo sei mesi di intensa attività letteraria a Londra, mi trasferisco a Berlino.
Fra il ’59 e il ’63 ho scritto molte poesie liriche che finora sono ancora inedite.
Comincio la mia raccolta di sonetti
1963, Novembre, fino al Novembre 1964. Vivo a Berlino. Periodo di intensissimo lavoro. Studi sulla musica moderna (incontro Elliott Carter e Xenakis), sul platonismo e neoplatonismo ed ermetismo (scopro le opere di Francis Yates), e su C.G. Jung e M. Eliade. Incontro Borges. Lunghe discussioni con W. H. Auden circa l’uso delle scienze nella poesia. Vasco Popa cerca di interessarmi alla poesia serbocroata.
1964 – Agosto. Passo una settimana ospite di Ezra Pound a Rapallo. Trovo una casa in via temporanea a Venezia per l’inverno. Da Novembre 1964, fino al 1983: vivo a Venezia. Fino alla sua morte, nel ’72, vedo Pound ogni settimana.
1964/66 – Studi su Rilke, Blake e Yeats.
1966 – (nov.) fino al Luglio 1967. Londra, New York, Boston, Washington e Parigi. Letture delle mie
poesie e molti incontri con poeti statunitensi. La Harvard University raccoglie in un disco delle mie poesie.
1968 – Fino al 1973 visito la Iugoslavia ogni anno per qualche mese e traduco molti poeti slavi, specialmente Dobrisa Cesaric e Popa. Assisto quasi ogni anno alla “Riunione Internazionale Eranos e Ascona” e incontro Henry Corbin, Gershom Scholen e Toshihiko Izutsu, geniali interpreti del misticismo islamico, giudaico e buddista. Vengo profondamente influenzato dalla lettura di Renè Guènon, J. Evola, Amanda Coomaraswamy e altri “tradizionalisti”.
1970 in poi – Studi delle lingue arabe, ebrea e sanscrita.
1972 (fino al 1976) – La rivista letteraria inglese LITTACK dà risalto alle mie nuove poesie e alla mia teoria critica. Il Gazzettino di Venezia chiama la mia raccolta di liriche The Golden Chain “Le fleurs du bien”!
1973/76 – Sono “poeta residente” alla Victoria University della Columbia Britannica. Insegno poesia, mitologia, folklore e italiano. Passo molto tempo studiando i funghi nella Fraser River Valley. Letture di mie poesie in 20 università canadesi.
1976/77 – Insegno alla Purdue University, Indiana, U.S.A. Letture in 10 Università statunitensi.
1977 – Un mese a Londra. Poi sei mesi a Venezia. Studi coranici in arabo e persiano. Studi etimologici in tutte le lingue indoeuropee.
1977 – 1979 (Aprile). Insegno Storia Mondiale, Filosofia e Religione comparate alla Farah Pahlavi University e al Damavand College a Teheran. Alla Imperial Iranian Academy of Philosophy tengo un corso su “Dante e Islam” e nello stesso tempo studio filosofia orientale con i miei maestri Corbin e Izutsu.
A causa della Rivoluzione islamica ho dovuto abbandonare tutto e fuggire dall’Iran per tornare in Italia. Ho perso così 5000 libri di gran pregio, tutti gli appunti e abbozzi delle mie conferenze, oltre ai mobili e vestiti e tutti i giocattoli dei miei tre bambini.
1979 /1983 – Risiedo di nuovo a Venezia. Insegno arabo e persiano. Traduco due lunghi libri di Corbin (dal francese, arabo e persiano).
1981 – Leggo le mie poesie al Cambridge Poetry Festival e alla Riunione Eranos. Un mese a Parigi per ricerche nell’orientalistica .
1981/1984 – Visite annuali all’Università di Salisburgo, dove tengo conferenze e faccio letture delle mie poesie. L’Università pubblica tre libri delle mie poesie, una biografie con interpretazioni delle mie idee (Servant of the Muse), un “Festschrift” (Garland for the Muse), e altri 15 saggi critici sulla mia poesia nella rivista “Studies in Poetry and Drama”.
1983/84 – L’Università di Firenze (Magistero) presenta un corso “Poesia simbolista e postsimbolista in lingua inglese: W. B. YEATS E PETER RUSSELL”. Io assisto al corso come professore a contratto. Faccio altre conferenze su poeti moderni angloamericani. Causa l’inquinamento dell’atmosfera di Venezia mi trasferisco in Toscana. Trovo una casa colonica a Pian di Scò (Arezzo). Mi dedico accanitamente al mio orto e passo molto tempo insegnando ai miei bambini i nomi e le caratteristiche di alberi, fiori, funghi, uccelli ecc., sul Pratomagno.
1984 – (Luglio). Le mie poesie scelte (1946-1984) sono pubblicate a Londra.
Il Times di Londra mi associa a Auden e Empson come poeta di rilievo. Delle poesie dello pseudo poeta romano “Quintilius” dice sul Times il critico e noto romanziere Robert Nye: “Il Quintilius di Peter Russell ci offre allo stesso tempo una traduzione e una critica, ma in fin dei conti non deve essere considerata né l’una né l’altra, ma piuttosto un qualcosa di più raro, cioè una poesia, una ‘somma finzione’ (‘a supreme fiction’). Essa ha la qualità di autorità che viene quando un uomo raggiunge la sua voce dopo tutta una vita di devozione all’arte poetica”.
Il critico Roger Sharrock scrisse sul settimanale londinese cattolico The Tablet che “le elegie di Quintilius possono essere considerate la migliore imitazione dell’elegia amatoria romana in lingua inglese”. La poetessa Kathleen Raine, eminente studiosa di Blake e Yeats, ha anche scritto: “Pe-ter Russell è sempre stato fedele (come il suo maestro Ezra Pound) a ciò che è la più grande e immaginativa concezione filosofica della tradizione europea, – ‘ il Bello’ “.
1985 – Tengo una conferenza sul poeta sudafricano Roy Campbell all’Università di Pisa (Lettere e Filosofia). Leggo le mie poesie in 15 università inglesi e scozzesi. Poi faccio una tournèe negli Stati Uniti, presentato come “distinguished American poet” (!) al Morris College, New Jersey. Eletto membro d’onore della Society of N. J. Poets.
Tra il 1985 e il 1988 faccio conferenze ogni anno sia al liceo comunale di Locarno in Svizzera che all’Istituto Britannico a Firenze. Comincio L’ apocalisse di Quintilus.
1986 – Comincio a catalogare il mio archivio che comprende materiale dal 1934 ad oggi e che consiste di circa 10 tonnellate di documenti e manoscritti.
Studi sul testo della Bibbia tedesca di Lutero e traduco 60 poesie di Novalis.
Le mie The poems of Manuela sono pubblicate in italiano e in inglese con commento, da una casa editrice pirata.
1987 – Assisto alla riunione internazionale all’Università di Pisa per gli studi su Byron e Shelley in Italia.
1988 – Assisto al Congresso nazionale svizzero degli insegnanti liceali di lingua e letteratura inglese.
Vi tengo quattro conferenze.
Mia figlia Sara, undicenne, vince un premio nazionale italiano con una poesia in italiano.
1988 e 1989 – Conferenze su Ezra Pound per The British Council, a Napoli.
1989 – Mia moglie e i tre bambini vanno negli Stati Uniti per completare l’educazione in lingua inglese.
Assisto alla riunione internazionale dei poeti serbi a Belgrado. Faccio una conferenza sul simbolo di Kosovo nella poesia serba. Leggo mie poesie scritte in lingua serba alla TV. Un poeta serbo, Aleksandr Petrov, le traduce in lingua inglese! Sono ospite d’onore al Festival Jugosloven-ska Poezije di Smedorova. Rivisito Mileseva e altri monasteri in Serbia. Conversazioni fruttuose con i poeti eminenti Ivan Lalic e Miograd Pvlovic. Un mese a Parigi per celebrazioni In Memoriam: Peter Whigham, insigne traduttore di Catullo e Marziale (per Penguin Books). Faccio conferenze e letture delle mie poesie per diversi gruppi parigini.
1990 -Preparo per la stampa una edizione bilingue (italiano-inglese) delle mie poesie liriche. Scrivo nuove poesie in italiano. Letture delle mie poesie in italiano per il Comune di Figline Valdarno per il Liceo classico di Montevarchi. Sono incaricato di scrivere articoli in prosa (italiano) per la rivista Micro-Macro (Comune di Figline Valdarno) e la stessa rivista accetta versioni italiane delle mie liriche.
Conferenza alla Amity School di Arezzo sulla natura della poesia contemporanea.
Preparo i primi numeri di una nuova rivista letteraria Marginalia, un tipo di pubblicazione “samizdat”.
1990 – Marzo, il mio archivio è totalmente distrutto da un incendio, assieme a molti libri di pregio, olografi di molti autori famosissimi, tutti gli abbozzi delle mie poesie e conferenze, le traduzioni e gli appunti su Mandelshtam e Pasternak, e tutta la corrispondenza a partire dal 1934. Anche qualche migliaio di fotografie della mia famiglia, dal 1980.
Pubblico il primo numero di Marginalia.
In aprile faccio sei conferenze sul “modernismo” per il Congresso Nazionale Svizzero degli in-segnanti liceali di lingua e letteratura inglese a Locarno.
In estate faccio quattro interventi al Costanzo Show (Canale 5).
A Dicembre Carlo Mancosu, Roma, pubblica la mia silloge “Teorie e altre liriche”, Edizione bilingue, pp.240. Recensione molto favorevole di Franco Loi su “Il Sole 24 Ore”.
1990 – 95 – Molte poesie e prose sono pubblicate nelle seguenti riviste italiane: “Micro-Macro”, “Mixer”,
“Alfa e Omega”, “Voce dell’Anziano”, “Cultura e società”, “Sinopia”, “Poesia” (Milano), “Talento”, “Bot-tega di Poesia”, “Pomezia-Notizia”, “Archetipo”, “Istrice”, “Anki Kele”, Semicerchio”, “The informer”.
Vengono discusse tesi di laurea sulla mia opera all’Università di Urbino (Adamo) e all’Università di Firenze (Procopio).
Le quattro conferenze su “Dante e l’ Islam” e “Campagna, verde campagna” sono pubblicate in italiano dall’Università di Salisburgo (Austria). Emanuele Occelli sulla rivista “Talento” (Torino) pubblica due articoli sulla mia poesia.
Tengo le seguenti CONFERENZE in italiano
– All’Accademia Petrarca di Arezzo: “Ezra Pound: grande poeta, grande de amico” (pubblicata
negli annali della Società, 1993).
Altre conferenze a Montevarchi, Pergine, Figline Valdarno, Terranuova Bracciolini ed altri co-muni toscani.
– All’Università di Pisa su “Shelley e il Platonismo”.
– A Foggia alla Biblioteca regionale, in cinque licei nei dintorni e al Rotary Club Internazionale.
– Alle Associazioni Italo Britanniche di Viareggio (tre volte), Genova, Piacenza, Napoli, Milano (Il Salice, il Teatro dell’Arsenale).
– Ad Arezzo, presso il Rotary Club Internazionale, la Libreria “Il Milione”, l’Associazione degli
scrittori aretini, il Kiwanis Club.
– A Terranuova Bracciolini: “Hermann Melville, “Moby Dick” e le versioni italiane”.
– A Firenze, presso la Biblioteca Nazionale viene presentata “Marginalia”.
Tengo altre CONFERENZE, SEMINARI, ecc. in Europa.
In Svizzera: ogni anno una conferenza al Liceo Cantonale di Locarno.
Altre conferenze ai Licei di Basilea, Berna, Friburgo e alle Università di Basilea (due volte) e
Berna. Tengo un corso di quattro conferenze all’Istituto Carl Gustav Jung a Zurigo (su “Le Mu-se” e sulla “Figura della donna nella poesia mistica medioevale cristiana e islamica”.Congresso nazionale degli insegnanti d’inglese al Ministero svizzero di pubblica istruzione (tre anni diversi). In Austria: conferenze all’Università di Salisburgo, all’Università di Innsbruck, all’Università di Vienna (sotto l’egida del British Council) 20 poesie tradotte da Charles Stunzi, testo inglese con quello tedesco a fronte, pubblicate dalla rivista “Der Spanische Hund”.
In Germania: conferenza all’Università di Aachen dal titolo “Tolkien and the Imagination”, pubblicate più tardi nella rivista Inklings. Viene pubblicato un libro con 60 mie poesie. Testo in-glese con traduzioni in tedesco a fronte di Charles Stunzi.
Ricevo inviti, per il 1996, per fare letture e conferenze alle Università di Tubingen, Stuttgart e Monaco. Invito in Inghilterra (1996) per letture e conferenze al Bath Literary Festival e in varie Università.

Dal 1990 al 1995 sono state pubblicate circa 500 poesie in riviste letterarie inglesi e statunitensi,
comprese molte traduzioni in varie lingue sia occidentali che orientali.
Intanto continuo a scrivere le poesie di Quintilius, il poeta tardoromano inventato da me nel 1948. La sua vita immaginaria si svolge nel v secolo, ed egli visita molti paesi fuori dei confini dell’impero. Le poesie sono basate su fonti ebree, aramaiche, greche, latine, persiane, indiane ecc.
Adesso (Luglio 1995) sto aspettando la consegna di un libro di cento sonetti pubblicato a Seattle,
Washington, U.S.A. Ho consegnato il testo finale delle mie poesie “Venice 1965” all’Università di Salisburgo e il testo delle poesie “Venice 1966” è già in preparazione. L’Università di Salisburgo ha già pubblicato i seguenti volumi:
Outsiders Vol. 3: The Pound Connection, 1992.
Outsiders Vol. 4: The Image of Woman as a Figure of the Spirit, 1992.
Outsiders Vol. 5/6: Poetic Asides, 2 vols., 1992, 1993. Lectures and addresses.
Outsiders Vol. 7: The Duller Olive. Poems 1942-1958 previously uncollected or unpublished, 1992.
Outsiders Vol. 8: A False Start. London Poems 1959-63, 1993.
Outsiders Vol. 9: “The Angry Elder” The Epigrames of Peter Russell. pp.50 essay by James Hogg, Plus
essays on Ashbery, M.I. Fornes, Tom Stoppard, W. Oxley.
Outsiders Vol. 10: P.F. Donovan, Condensations (Introduction by Peter Russell, pp.17), 1993.
Outsiders Vol. 12: Berlin – Tegel 1964 with pp. 50 . Introduction by Peter Russell.
La rivista londinese Agenda ha pubblicato (nel Febbraio 1995) un numero speciale dedicato alla
poesia di Peter Russell, 100 pagine di poesia e critica sull’opera russelliana.
Attualmente continuo a preparare nuove edizioni di vecchi libri (lavoro indispensabile da quando lo stock di tutti i miei libri è stato distrutto dal fuoco); continuo anche a curare nuove collezioni di poesie finora non pubblicate (se non in riviste o in periodici). Ma nello stesso tempo devo continuare a studiare, scrivere e tradurre, oltre ad avere il tempo per pensare e contemplare. Perché le vere fonti della creazione immaginativa sono nella memoria naturale, la Mnemosinè, madre delle Muse, e il vero imparare e la vera produttività artistica vengono dalla anamnesi.

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LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mario M. Gabriele: Una poesia testamentum. Inedito. Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono fantasmi linguistici, rottami, spezzoni, frammenti che un tempo hanno abitato l’universo mediatico – Il Fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata», al declassamento ontologico del Soggetto parlante

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Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) a cura di Giorgio Linguaglossa. Sempre nel 2016 è stata pubblicata la raccolta di poesia L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura). Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele

Inedito da In viaggio con Godot
(di prossima pubblicazione nelle edizioni Progetto Cultura di Roma)

Il Decalogo è chiaro, il Codice pure.
I convenuti furono chiamati all’appello.
Chiesero perché fossero nel Tempio.
A sinistra del trono c’erano angeli e guardie del corpo.
Solo il Verbo può giudicare.
L’occhio si lega alla terra.
Non ha altro appiglio se non la rosa e la viola.
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.
– Quella punta così in alto, che sembra la Torre Eiffel cos’è? -,
chiese un turista.
– È la mano del mondo vicina all’indice di Dio -, rispose un abatino.
Allora, che salvi Barbara Strong,
e il dottor Manson, l’abate De Bernard,
e i morti per acqua e solitudine,
e che non sia più sera e notte finché durano gli anni,
e che ci sia una sola primavera
di verdi boschi e alberi profumati,
come in un trittico di Bosch.
Ecco, ora anch’io vado perché suona il campanaccio.

Ci furono mostre di calici sugli altari,
libri di Padre Armeno e di Soledad,
e un concerto di Rostropovic.
Usciti all’aperto prendemmo motorways. .
Nella terra di miti, dove ci si scorda di nascere e di morire
c’erano cartelloni pubblicitari e blubell.
A San Marco di Castellabate
la stagione dei concerti era appena cominciata.
Il palco all’aperto aspettava il quintetto Gospel.
Si erano perse le tracce del sassofonista del Middle West.
Il primo showman raccontò la fuga d’amore di Greta con Stokowski.
Le passioni minime vennero con gli umori di Medea,
di fronte alle arti visive di Cornelis Esher.
Un relatore rimandò ad una nuova lettura
I Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez.
Quest’anno il postino non suonerà più di tre volte.

Et c’est la nuit, Madame, la Nuit!. Je le jure, sans ironie.

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.
Il declassamento ontologico del «Soggetto parlante»

  L’io è letteralmente un
oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

J. Lacan – seminario XI 

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

J. Lacan – seminario XI

L’idea del «Soggetto parlante» è qualcosa che è in viaggio, qualcosa di inscindibile dal linguaggio, anch’esso sempre in viaggio nell’accezione mutuata dalla linguistica e in particolare da de Saussure, di un soggetto nel linguaggio, ovvero di quel soggetto colto nella sua inferenza con il significante in quanto condizione causativa del Soggetto. Questa premessa, se ricondotta nel campo psicoanalitico, implica che non vi sia ambito del desiderio, e che dunque non si possa dare propriamente parlando alcun  fenomeno dell’esistenza, se non all’interno di una dimensione che potremmo definire con Lacan «originariamente linguistica», determinata cioè dall’«Altro» come luogo della parola fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del Soggetto.

Il frasario:

«Solo il Verbo può giudicare»

indica sardonicamente il tema della poesia e della intera raccolta di Mario Gabriele, il dogma implicito del «Verbo» unico depositario del «giudizio». L’autore capovolge sardonicamente questo assunto dogmatico sul quale si è retto il potere dell’Occidente con il semplice indicare a dito il «Verbo», il vero falsario della storia degli uomini. Il soggetto quindi parla metonimicamente in quanto pronuncia una ordalia, scopre la nudità del «re», di che stoffa è fatta la sua menzogna.

Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo in viaggio con Godot, solo che non ce ne siamo accorti; o meglio, le belle anime della poesia non ne hanno voluto prendere atto. Ormai il «Verbo» è un involucro vuoto, un significante con dentro il vuoto.

Il linguaggio, ci dice Agamben, deve necessariamente presupporre se stesso. Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra dirci Gabriele.

Gif lichtenstein peace through chemistry.jpgIl Parlante è il Soggetto declassato

il quale tiene in piedi le fila del proprio discorso rispetto all’indicibilità come condizione assoluta  della dicibilità. Non si dà indicibilità senza dicibilità. Essa dà, per così dire, figura alla «Cosa significata», le dà una struttura narrativa, una scena in cui possa apparire come oggetto perduto. Perché è il Soggetto ad essere perduto per sempre, che si è smarrito nella selva oscura della linguisticità della civiltà mediatica.

Il linguaggio del fantasma di Mario Gabriele rappresenta la finzione che dischiude la verità del soggetto come mancanza, vuoto, abisso, finzione attraverso cui si articola quell’al di là del desiderio – desiderio di nulla e nulla del desiderio al contempo – che Lacan designa, sulla scorta della nozione freudiana di istinto di morte, come «godimento», la beanza irraggiungibile della identificazione tra la parola e la cosa.

Mario Gabriele presta moltissima cura alla messa in scena del testamentum.

Una sorta di testamento. Come in un testamento che si rispetti c’è di tutto, c’è tutto l’essenziale: i beni immobili e quelli mobili, i beni materiali e quelli immateriali, il tutto riunito in una sola composizione. Un Aleph. Che brilla di luce sinistra, spettrale. Fermo restando che una poesia così è simile ad un rinvenimento di un cratere istoriato di epoca ellenistica o più antico ancora, e il critico deve vestire i panni dell’archeologo per riportare in vita una parvenza di ciò che tutti quei frammenti richiamano alla memoria. Più che lavoro di restauro (e non solo) qui occorre un lavoro di ricostruzione di tutti quei frammenti sparsi e disarticolati che un giorno lontano significavano qualcosa…

Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono quei «fantasmi» che un tempo hanno abitato l’universo linguistico mediatico e il nostro immaginario e che, in quanto tali, prendono possesso della pagina bianca.

«Il linguaggio del fantasma»

Nel «linguaggio del fantasma» noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto-autore di fronte al mancare della «significazione», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata» come fondamento dell’esserci del soggetto, ma anche un «venire in presenza» di qualcosa che dimorava nel regno delle ombre dell’inconscio. Ciò che qui importa è proprio  l’aspetto scenico, il luogo retorico in cui il soggetto si ritrova come osservatore e autore (assente), regista e attore (assente) al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la  narrazione della sua mancanza. Il «fantasma» è infatti, in ultima istanza, una frase. A livello linguistico, simbolico, si presenta come una proposizione; a livello immaginario, si presenta come una scena. Il «linguaggio del fantasma» è legato a una dimensione liminale, una sorta di sipario chiuso oltre il quale resta velato quel nulla dell’infondantezza del soggetto, quel vuoto di significanti in cui si manifesta  l’abisso del metalinguaggio di Gabriele.

Siamo qui davanti ad una esemplificazione tra le più brillanti della poesia contemporanea che abbiamo definita «Nuova poesia ontologica», indicando questo tipo di poesia come appartenente alla «Nuova ontologia estetica» che stiamo investigando da qualche tempo su questa rivista.

L’inconscio del fantasma linguistico di Gabriele si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, citazioni, frammenti; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi. Tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne e lo coinvolge nel suo stesso, nel suo più radicale essere.

L’inconscio del fantasma linguistico di questa poesia è un inter-detto, esso non ha nulla della oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale. L’inconscio pensa cose e le pensa linguisticamente agghindate.

gif-xmas2011_keith-bates_peace_through_christmas_treeIl disorientamento

Ho scritto in altra occasione riferendomi ad alcune eccezioni sollevate da Claudio Borghi:

«comprendo molto bene il tuo «disorientamento» dinanzi alla nostra ricerca di una nuova ontologia estetica, io è dall’inizio degli anni Novanta del Novecento che tento di indagare la crisi della forma-interna della poesia, l’ho fatto con la rivista “Poiesis” che avevo fondato nel 1993 e tenuta in vita fino al 2005. Complessivamente ne sono usciti 34 numeri. Ma è accaduto che in questi ultimi 29 anni la crisi delle forme estetiche (e non solo) si è andata aggravando, la crisi ha impresso una accelerazione forsennata al crollo delle forme estetiche tradizionali, non è affatto colpa mia e dei miei compagni di strada se la crisi si è abbattuta come un maglio sulle forme estetiche che abbiamo conosciuto in poesia. Così, è avvenuto che quell’endecasillabo della tradizione che va da Bertolucci de La camera da letto al Bacchini degli ultimi libri, ormai non ha nulla da offrirci, è una forma estetica del passato e noi non possiamo restare fermi a dirci come erano belli i tempi nei quali scrivevamo e vivevamo come Attilio Bertolucci e Bacchini, con tutto il rispetto per quelle forme poetiche e la loro poesia.

Del resto, oggi, non vedo in giro in Italia ricerche alternative a questa che abbiamo messo in campo. Tenterò di spiegarmi. La «nuova ontologia estetica» è nata da una presa d’atto della crisi irreversibile della forma-poesia che abbiamo conosciuto nel secondo Novecento e in questi ultimi anni del nuovo secolo, è una risposta che è partita dai «fondamenti» della scrittura poetica, e, in particolare, da un nuovo concetto dei due elementi fondanti la forma-poesia: la «parola» e il «metro», entrambi visti non più come «contenitori» di grandezza fissa ma come entità a grandezza variabile; sia la «parola»che il «metro» sono entità elastiche, mutanti, noi percepiamo queste unità come enti dotati di tempo e di spazio «interni», non solo «esterni» come intendeva la poesia tradizionalmente novecentesca ed epigonica.

Che cosa voglio dire? Che spetta a ciascun poeta offrire una propria soluzione a questa crisi della forma-poesia e interpretazione a questi nuovi modi di intendere sia la «parola» che il «metro», e si tratta di quello che abbiamo denominato «tempo interno», che non è da intendere come un tempo interno fisso valido per tutti ma come una temporalità interna all’oggetto e al soggetto e una spazialità interna al soggetto e all’oggetto, per dire così.

Non era Tynianov che 100 anni fa ha scritto che «si può scrivere poesia anche senza una unità metrica»?

Cito a memoria. se noi accettiamo questo assioma possiamo concludere che oggi si può parlare non più di unità metrica ma di «unità metriche», ciascun poeta ha il diritto di sperimentare nuove e diverse «unità metriche», non dobbiamo farci intimidire da coloro i quali stigmatizzano che la nostra non è poesia ma prosa travestita da poesia, questi rilievi li restituiamo volentieri ai mittenti.
È di questi giorni la scoperta scientifica di una nuova forma di esistenza della materia: un «cristallo temporale» che ha una struttura atomica che cambia nel tempo: l’itterbio. Incredibile, vero? la scienza ci viene in aiuto mostrandoci che anche la materia può avere una struttura atomica mutagena. E perché non possiamo pensare allo stesso modo la poesia? Perché non possiamo pensare ad una poesia che è retta non più da una struttura atomica fissa ma da una mutabile nel tempo? (esterno ed interno?)».

Il frammento e la citazione nella poesia di Mario Gabriele rappresentano, in quanto finzione, il limite dell’ordine simbolico, un ordine simbolico che abita la zona anestetizzata dall’esistenza dell’universo mediatico.

Ecco la ragione della assoluta modernità della poesia di Gabriele.

Sul «Frammento»

Riporto un frammento di una mia riflessione già apparso su questa Rivista sulla poesia di Mario Gabriele:

“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio  che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Osip Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa.

(Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura).

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Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/23/la-nuova-ontologia-estetica-mario-m-gabriele-una-poesia-testamentum-inedito-le-parole-con-le-quali-e-scritto-questo-rogito-testamentario-sono-fantasmi-linguistici-rottami-spezzoni-frammenti-che/comment-page-1/#comment-18242

Torniamo alla lettura della poesia. Precisamente a questi versi della poesia di Mario Gabriele:

Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
separava la pula dal grano,
chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.

In questo testo poetico la profondità del tempo è diventata profondità dello spazio. Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità etc., è diventato il treno dello spazio. Il lettore nell’atto della lettura è costretto a cambiare continuamente il suo registro temporale, con l’effetto che il tempo diventa, magicamente, spazio. Il tempo si è spazializzato, ha assunto profondità spaziali. E lo spazio si è temporalizzato.

L’esperienza umana del Soggetto è scomparsa, è uscita fuori dell’orizzonte degli eventi della poesia. La poesia di Gabriele si è liberata del pesante fardello di un orizzonte di lettura unilineare e unitemporale, qui si aprono diversissime direzioni temporali che diventano direzioni spaziali. La spazializzazione del tempo è una delle caratteristiche precipue di questo tipo di poesia che io ho indicato con la denominazione di Nuova Ontologia Estetica perché i suoi assunti sono, in guise diverse da ogni autore, adottati da vari poeti che seguono questa nuova ontologia ciascuno con modalità stilistiche proprie. Così, il tempo diventa visibile attraverso lo spazio. Accostare tessere diversissime in un insieme, in un mosaico, diventa un puzzle, un Enigma che può anche non essere interpretato perché è prioritario per l’Enigma essere vissuto. Per sua essenza, l’Enigma rifugge da atti di padronanza categoriale, e rifugge da letture unidirezionali. Il «tempo interno» è nient’altro che questo processo che interviene tra l’autore e il lettore, ma è anche una caratteristica di ogni singola «tessera» o «immagine»; in fin dei conti, ogni «immagine» è analoga all’altra, c’è nell’orizzonte degli eventi del mondo e non ha bisogno di essere spiegata ma è un darsi e un moltiplicarsi di superfici riflettenti nelle quali l’uomo contemporaneo può riflettere la sua Assenza, la sua mancanza ad essere. Una problematica di carattere squisitamente esistenzialistica..

Il tempo può essere percepito ed esperito soltanto come una delle dimensioni dello spazio, ed esso spazio è la modalità con la quale l’esistenza è stata vissuta ed esperita. Dunque, l’esistenza è dentro lo spazio e dentro il tempo come una serie di scatole cinesi.

Qui siamo davanti ad un «tempo interno» che è diversissimo dalla visione retrospettiva e memoriale di un Proust, ma più simile a ciò che nel romanzo hanno fatto narratori come Salman Rushdie con i suoi romanzi Versetti satanici (1988) e Midnight’s children (1981) e Orhan Pamuk con Il mio nome è rosso (2000) e Il museo dell’innocenza (2008). L’utilizzazione dei frammenti nel romanzo moderno è una procedura assodata da tempo, in poesia l’accademismo e la tradizionalizzazione delle forme estetiche ad opera di letterati conservatori, in poesia dicevo questa nuova forma di pensare la scrittura letteraria qui in Italia è stata osteggiata e ritardata.

Platone nel Timeo parla del Tempo Cronos come di una «icona in movimento di Aion, come di una «immagine mobile dell’eternità». È singolare che Platone per indicare il «Tempo-Cronos» ricorra alla parola «immagine». Singolare ma significativo in quanto noi possiamo afferrare qualcosa intorno al «tempo» soltanto se ce lo rappresentiamo come una «immagine», cioè attraverso una figurazione spaziale.

Chi sogna ad occhi aperti sa molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto ad occhi chiusi. La poesia di Mario Gabriele è simile ad un sogno ad occhi aperti. Ne L’interpretazione dei sogni Freud ci dice che il sogno «è una messinscena originaria», anteriore alla stessa distinzione tra «soggetto» e «oggetto». Le immagini mobili che fluttuano sulla superficie riflettente degli attimi temporalizzati della poesia di Mario Gabriele sono messe in scena sostitutive di quella originaria, sono la traduzione di concetti temporali in figurazioni spaziali.

Scrive Giacomo Marramao:

«il tempo baudeleriano si è spogliato di tutte le prerogative spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il tempo, tutta l’esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi: identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente visibile, essere ‘sinestesicamente’ percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza […] Questo movimento è esattamente un movimento prospettico “l’atto con cui, per giungere alla profondità, si apre nel campo visivo una strada che lo sguardo percorre”. Si spiega così il significato recondito delle “magiche prospettive” che Baudelaire dispone nelle sue memorabili descrizioni paesaggistiche e che fa corrispondere le sue analisi delle tele di Delacroix alle proiezioni che l’esperienza organizza nei “quadri” del suo vissuto: “evaporazione e centralizzazione (o condensazione) dell’Io: è tutto qui (Oeuvre, II, 642). evaporazione inebriante e condensazione nel ricordo e nel rimpianto rappresentano i confini, i termini estremi, di un movimento del vissuto che tende a coincidere con lo spazio. Un’esistenza spazializzata è un’esistenza evaporata in numero: “Il numero – sottolinea Baudelaire – è una traduzione dello spazio (ivi, 663). E poiché sempre di spazio vissuto si tratta, anche il numero andrà inteso nel senso di numero vissuto. Sta qui la chiave segreta dell’immagine baudeleriana di “ripetizione”: essa prospetta la virtualità di esperire una moltiplicazione dell’esistenza attraverso un’infinita estensione di campo delle sensazioni. La moltiplicazione dell’esistenza divenuta numero dipende così da quella misteriosa facoltà di ripetere il suo salto lungo tutta la superficie dell’essere: di rimbalzare come un’eco lungo la misteriosa curva di uno spazio tempo i cui confini non sono mai tracciati definitivamente. Non per nulla i versi più belli e significativi di baudelaire sono proprio quelli che esprimono il riecheggiamento:

Comme des longs éclos qui de loin se
confondent…
C’est un cri par mille sentinelle…

Non si dà, pertanto, né reale né possibile esperienza del tempo a prescindere dallo spazio. La grande intuizione baudeleriana circa la costruzione di una profondità di campo quale condizione imprescindibile per afferrare-insieme (null’altro se non questo è il significato di “comprendere”) gli eventi che ci accadono sopravanza, in questo senso, la nozione di “tempo vissuto” di Bergson: non più Spazio come morte del tempo, estinzione della sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per poter fare esperienza…
[…]
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».1]

*
Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini.
Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante.
Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi (…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…» (Parm., 156d-e).

La moltiplicazione dell’esistenza tipica della nostra civiltà post-moderna ha prodotto la conseguenza di una moltiplicazione di superfici riflettenti quali sono le immagini nella civiltà telemediatica. Questo processo è esploso in questi ultimi decenni a velocità forsennata ed ha prodotto una profonda modificazione del nostro modo di percepire e recepire il mondo; il mondo si è frantumato in una miriade di spezzoni. Fare un processo al mondo per quanto accaduto non è nelle nostre intenzioni, questo della moltiplicazioni delle superfici riflettenti è un dato di fatto incontrovertibile e noi e Mario Gabriele non altro abbiamo fatto che prenderne atto e fare una poesia di superfici riflettenti. Questo processo epocale fra l’altro ha prodotto una conseguenza anche sull’idea di Soggetto e di Io (idea teologica e filosoficamente destituita di fondamento già da Freud e dal sorgere della psicanalisi). Il Soggetto è scomparso. È diventato un fonatore. Anche l’enunciato è qualcosa di diverso dal Soggetto enunciatore. Il predicato si è scollegato dal Soggetto. Si tratta di questioni che la filosofia del nostro tempo ha chiarito in modo ritengo sufficientemente credibile. Fare oggi una poesia del Soggetto che legifera nella sua sfera di influenza, è, a mio avviso, una ingenuità filosofica ed estetica. La poesia dell’Io è un falso, e una banalità.

Quanto ai concetti di armonia, di eufonia, di musica del verso musicale, di poesia e di anti poesia etc. sono concezioni tolemaiche legate ad una visione tolemaica e ingenua della poesia che ha fatto il suo tempo e verso i quali mi viene da sorridere, anzi, provo addirittura nostalgia per quell’età in cui si scriveva credendo ingenuamente in quelle categorie estetiche. La nuova ontologia estetica di cui qui si parla lascia questi concetti semplicemente come abiti dismessi sulla sedia a dondolo per chi vuole ancora dondolarsi in ozio intellettuale. Pecchiamo di arroganza? Forse. Non lo so. E neanche mi interessa.

G. Marramao Minima temporalia luca sossella ed. 2005 pp. 95 e segg.

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Gabriele Pepe POESIE SCELTE da Parking Luna, Arpanet 2002, e L’ordine bisbetico del caos Faloppio, LietoColle, 2007, da Parking Luna, Arpanet, 2002 con due Recensioni di Giorgio Linguaglossa tratte dal quadrimestrale di letteratura Poiesis

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Gabriele Pepe è nato a Roma il 14/11/1957 dove risiede. Email gabpepe@libero.it Roma Ha pubblicato i seguenti libri: Parking Luna, Arpanet Milano 2002; Di corpi franti e scampoli d’amore; L’ordine bisbetico del caos, 2007. È presente nell’antologia Ogni parola ha un suono che inventa mondi, Arpanet Milano 2002  e nell’antologia Fotoscritture Lietocolle, 2005; è presente nell’antologia  Poesia del dissenso ii a cura di Erminia Passannanti –  Joker 2006 e presente nel progetto Mini concepts arte. Guernica dopo Guernica. Filamento di tungsteno di Gabriele Pepe Roberto Vaccari edito da Arpanet, 2006

da: “Poiesis” (numero doppio 26/27 2002/2003, rubrica “Recensioni” pag.117) Edizioni Scettro del Re Due recensioni a cura di Giorgio Linguaglossa

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Gabriele Pepe – Parking Luna, Arpanet 2002

Gabriele Pepe è nato a Roma nel 1957, fa parte quindi dell’ultima generazione, quella che è venuta dopo che si è spezzato il filo generazionale e culturale che legava la Tradizione al Nuovo. E questo punto è importante per capire quali siano gli elementi di novità che un poeta quarantenne porta nell’ambito dell’arco costituzionale letterario. In una lettera di autopresentazione che accompagna il libro Pepe in ordine ai motivi che lo hanno spinto, a fare poesia, scrive: “Di certo è qualcosa che nasce da un cattivo rapporto dell’interno con l’esterno, da una particolare disarmonia psicofisica che cerca nella poesia una sua propria ricomposizione etica estetica. Non ho verità da rivelare, né balsami salvifici da proporre o grandi messaggi da lasciare ai posteri. Ognuno scrive partendo da suo microcosmo personale e offre al viandante interessato un altro tra gli innumerevoli paesaggi che la vita ci mette a disposizione”. Dunque è chiaro: nessuna certezza, o meglio, v’è solo la certezza dell’interrogazione senza neanche la consapevolezza dell’identità: “Che rotte tracciare sulle mappe oscure?”;”Sono il viaggio o il viaggiatore?”. Poesia che fonda la propria impermanenza sulla sovranità del dubbio che non lascia spazio alcuno ad alcun tipo di viandanza o di ricerca. Pepe non cerca nessun Graal, la sua parola non ha, né vuole avere il nitore della poesia della generazione anche immediatamente precedente, egli non assevera più alla maniera degli “iconoclasti” dell’Opposizione permanente ormai divenuta Accademia del conformismo. Il suo fraseggio è inelegante, il lessico irto e semanticamente irregolare e cacofonico; il parlato è tipicamente “post-moderno”, nella misura in cui vi entra di tutto, dalla media koinè del linguaggio tecnologico dei depliant: “le valvole magnetiche del cielo”, a delle splendide invenzioni metaforiche inquinate sempre da reperti tipicamente post-avanguardistici (“Psicopupilla nel lusco del brusco”); iperboli urticanti: “Gola sbiellata grippato polmone”. Trattasi di “Tangibili versetti psicotici” tratti dal “semema brodo primordiale” in forma di finto “diario”: “Tutto s’inquadra lungo le torri del grande bordello”. Ovviamente, il libro non è un “diario” più che non sia un arcipelago, un luna-park (come ammicca l’autore nel titolo),un gigantesco “bordello” entro il quale sono state devitalizzate le tradizionali ragioni etiche ed estetiche che, in qualche modo, giustificavano in passato l’attività letteraria. Pepe (come tutta la poesia consapevole del nostro tempo) non ha altra scelta dinanzi a sé: o assecondare il moto di deriva delle poetiche epigoniche (prodotto inevitabile del Novecento); oppure tentare di ricostruire un senso, una direzione della ricerca, e quindi ricostruire un nuovo patto tra etica ed estetica. Di qui non si scappa, le strade sono due, e non è detto che siano intercambiabili, come taluno da qualche parte lascia intendere. Poesia tutta di nervi ed istintiva è stato detto da qualche critico, poesia venata da una primordialità di espressione volutamente cacofonica e dissonante. Tuttavia, a mio avviso,non è detto che Pepe non riesca magistralmente quando si attesta su un versante più “tradizionale”come nel mirabile incipit: “Non posso che annegare/ Nel mezzo del tuo sguardo strepitante! Oh fiume giallo del viandante! Trappola muraria/Marmorea corrente alluvionale”, dove le sinapsi di senso sono costellate da tutta una serie di mosse da cavallo di sklovskijana memoria. Pepe è un esperto dell’arte di inserire le “variazioni” e i crudelismi, eccelle nel provare tutto il pentagramma delle sue possibilità espressive, non escluse le tematiche da “interno domestico :  Ondeggio barcollo/ Cerco un appoggio/Ma il frigo bastardo mi ronza codardo/ Su un palmo di mano”; tutto ciò premesso, credo che nel futuro il poeta dovrà scegliere: tra vitalismo e angoscia esistenziale, oppure la via che lo condurrà inevitabilmente ad un certo grado di stilizzazione.

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L’ordine bisbetico del caos Faloppio, LietoColle, 2007 pp. 70 € 10,00

 Recensione di Giorgio Linguaglossa: le eccedenze stilistiche del materiale di risulta

Un certo tipo di cultura che ha attraversato in diagonale il Novecento ha sostenuto la validità estetica ed epistemologica del «caos» inteso come una nuova e diversa modalità dell’ «ordine». Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: quell’Opposizione permanente che è diventata un’industria, per una beffa da coccodrillo, si è rivelata una vera e propria fabbrica del consenso.  Dunque, «caos» come opposizione al «ritorno all’ordine», «caos» come “nuovo” modello estetico ed esperiente che si contrappone al modello recipiente e conservativo delle forme estetiche pregresse. Quella medesima cultura quindi che ha proclamato la politicizzazione e la scientificizzazione del «caos» quale vettore produttivo di una nuova e diversa legislazione del disordine, è quella medesima cultura che ha prodotto la contro-lirica da hilarotragoedia della anti-poesia di Gabriele Pepe, sin dal suo primo apparire con Parking Luna (ARPAnet, 2002) e Di corpi franti e scampoli d’amore (LietoColle, 2004), fino a quest’ultima opera: L’ordine bisbetico del caos.

È terminato così il ciclo della trilogia della poesia di Gabriele Pepe, dopo la quale il poeta romano appare orientato verso una “nuova” poesia che non considera più centrale il significante e il piano semantico rispetto al significato e il semantico rispetto all’iconico-simbolico L’ordine bisbetico del caos può essere considerato il tipico prodotto artistico di un poeta giunto alla completa maturità stilistica entro l’orizzonte di attesa della cultura cosiddetta post-modernistica che, parodisticamente, fa capo all’australopiteco Afarensis, «che diventa, in Pepe, la “madonna delle ossa”, la “genitrice oscura”, “l’esigua patriarca della specie/ di pelle e muscoli scimmieschi”» (dalla prefazione di Stefano Guglielmin).

In una certa accezione, L’ordine bisbetico del caos rappresenta il prodotto tipico di una cultura giunta alle soglie della sua estrema belligeranza, in quel crinale che divide il «vecchio» dal «nuovo», in quel vuoto d’aria che separa due atmosfere. L’instabilità, il moto desultorio e sussultorio, la friabilità semantica di questa poesia rammenta e richiama l’imponderabilità, la rarefazione, il dis-orientamento semantico e significazionista del mondo delle merci linguistiche. Poesia che si muove all’interno di una zona franca delimitata dalla crisi della cultura del post-sperimentalismo e territorio che si estende verso l’ignoto stilistico di ciò che è linguisticamente possibile all’interno della cultura del post-sperimentalismo. Da un lato, Gabriele Pepe tenta la strutturazione in un rigoroso ordito metrico delle materiche escrescenze del «caos», dall’altro tenta astutamente di sobillare l’ordine con un materiale di risulta sempre eccedente rispetto al “recipiente” metrico, con il risultato di una eccedenza del materico sul metrico, un procedere attento a due fuochi, facendo un passo avanti ed uno indietro, con il risultato di un movimento “finto”, che non conduce né avanti né indietro, né a destra né a sinistra, né in un luogo né in un non-luogo. Un movimento dunque “finto”, in una sorta di specularità degli specchi in quella sezione denominata Referto degli specchi, che costituisce il momento centrale del volume, ed anche il momento “curiale” del volume, per quel sentore di “curia” che traspare dalla orditura ipersemantizzata dei testi. Resta il fatto inconcusso che un elevato gradiente di olismo stilistico non può sottacere la “barbarie” di una cultura che ha “fatto” la democrazia di massa dei nostri giorni. In soldoni, l’olismo stilistico di opere come questa di Gabriele Pepe,  è il prodotto di uno «sperimentalismo privato» e di un impulso mimetico verso l’individualismo stilistico esasperato. Tanto più esasperato quanto più «privato». E viceversa.

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Il Vuoto

da. Parking luna
Edizioni Arpanet (Milano) 2002

.
IL PUNTO

Longitudine e latitudine mia
bussola cervello astrolabio cuore
sestante del dolore cometa e scia
onda terra Ulisse Polifemo

che rotte tracciare sulle mappe oscure?
croce del sud orsa minore estremo
sfiato di balena tosse di luce
sono il viaggio oppure il viaggiatore?

EPIDEMIA

La mia casa è infetta
parete calcinata
mattone pizzicato
fazioso e condannato.
la mia casa è chiusa. Chiusa alla magia
chiusa al destino all’ospite inatteso
al portico al vetro
a lampade nel retro.
La mia casa è demenza
roipnol eroico dell’invadenza
clonazione del reale
l’odore penetrante
sparato dalle fiale
soggetta alla carogna
seguace del rimorso
epidemia scommessa
di grazia e di conforto

.
BANANE LUMINOSE

È denso vorticare questa notte
notte cruda scannata sul rumore
lucida e tagliente di parole
sguainate come lame dagli abissi
del livore. Voragine e crepaccio
dove s’increspa l’ombra del dolore
precipita la ghiaia dei giudizi

È notte sul frullato di banane
dolce plasma rugiada di potassio
medicinale candido e soave
che spegne la mia sete artificiale
ambrosia della palma e della luna
sorriso della polpa e della buccia
che ogni pegno ed ogni scaramuccia
m’aiuta a sopportare. E pietraie
dove Odio raduna le sue mandrie
e serate dissolte ad aspettare
che la cura agisse sul mio male
notte oscura sovrana dei miei lupi
squillo d’acqua filtrata dai dirupi
risucchio spadaccino della vena
artiglio voluttuoso della belva
che il gioco e la candela mi nasconde
dentro i gorghi vermigli dell’amore
cui m’avvito Derviscio danzatore

Lacci neri sul braccio della notte
vibrisse prolungate sulla morte
morte dell’aria morte del mio karma
descritto tra le righe del pigiama
pellegrino che irrompe nel mio dramma
quando spillo di stella sullo schermo
di tenebra m’accascio e stingo via

(ma insolente nel ciclo circadiano
rimango rifugiato come tigre
di peluche nel parco inanimato)

Narici della notte come grotte
sul volto scheletrito della morte
morte del soffio morte dell’occaso
travaso pettorale del monsone
che vischioso s’espande nel mio fato
quando nera pupilla di ciclone
venticello mi sfiato e sbuffo via

(ma imboscato nel nido del malato
rimango accovonato come l’ago
del pagliaio perduto e mai trovato)

Spiga su spiga sangue verso sangue
la triste mietitura della carne
che lotta senza posa per restare
reclama le sue rughe centenarie
sorrisi sganasciati nel bicchiere
artrosi cataratte e asciutte vene
e se proprio deve andare pretende
per sé stessa l’intero capezzale
allora non è morte che ho sfiorato
a quest’ora sfocata della notte
ma nevose montagne dello Sherpa
che passo dopo passo ho superato
fedele scalatore del mio inganno

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Gabriele Pepe

Corrente capitale

Non posso che annegare
nel mezzo del tuo guado strepitante
oh fiume giallo del viandante
trappola muraria
marmorea corrente alluvionale
dell’uomo costrittore
né posso galleggiare o fingermi frammento
scheggia rosacarne tessera
d’un mosaico di vetro sotterrato
di cui ignoro origine e trapasso
eppure a te m’accosta il formicaio
la giostra del mio palio
volumetria d’ameba sopravvissuta
ai laterizi di una Capitale Santa
che ingloba futuri pezzi di sé
e di me l’intero strazio
carico del tuo svanire bianco
oh annosa pietra sfarinata
sulla torta settimin

BESTIARIO

Periferiche macchie di sterpaglie ondulavano
rachitiche tra i polpacci minorili. Sciamavano
di chiassose devastazioni canaglie. Schioccavano
di lame e lungimiranti fionde
dal ramo biforcuto visibile a stento
sul groviglio spento dell’asfalto cinerino
nude brughiere urbane oscillavano
di un’onda floreale sulle rive peperine. Diluviavano
di sguardi maliziosi
sopra l’orizzonte criptico e frastagliato
a noi troppo alieno
troppo dispersivo nel suo slancio abusivo
inconsapevoli come eravamo
della nostra tersa e cristallina violenza
proscritta alle scaglie dei muretti, alla ruggine
tetanica dei paletti del filo tremulo
che spinato e attorcigliato sui rigori della legge
saldava i riarsi pratoni sconci
le scoscese marane secche alle razzie
intransigenti di cucciole cittadinanze precarie
che sotto un trancio indifferente di cielo scaleno
bruciavano veleno e tossine di branco
ossa e cartilagini di mandria rinselvatichita
battitori e predatori primordiali
dilatati nel grande afflato cacciatore
proiettati sui mirabili acidi nucleici
di giungla primigenia.
Imbevuti d’adrenalina di scalpitanti
succhi gastrici provenienti dal pliocene
emoglobina fossile
ominazione avvenuta per processo predatorio
sul filo tagliente dell’ossidiana
meridiana del tempo che proietta ombre
D’australopitecus, Homo Erectus, CroMagnon,
Sapiens Sapiens a caccia di prede astrali:
creature innocenti catturate per coatto sacrificio
torturate ed immolate sulle are dello spasso
sul cuoio stesso dello scempio e della vita.
Ancestrale olocausto senza memoria
privo degli onori della storia, circoscritto
nel diverbio dei sassi e delle ortiche
del tutto indifferenti alle cricche del martirio
al massacro giornaliero degli agnelli
consumato nell’inquieta suggestione
di una recita sfornita di copione:
inconsapevoli come eravamo
della nostra chiara e trasparente crudeltà
proscritta ai fogli volanti di cambiale
alla pietà dei Monti scadenzati
sempre ai margini dei boom famigerati

(A quale dio delle borgate
ha unghiato
il suo dolore la lucertola scuoiata?
A quale dio delle suburre
ha guaito il suo tormento
il cucciolo straziato?)

E dopo quel flamenco di spasmi e contorsioni
quel tango strusciato tra carne e scorza
aspersi di sangue viola
risorgevamo candidi e puri come Catari
dalle acque fresche di ghisa fontanella
bevendo a garganella col fiato
ribattente sulle tempie accalorate
intrisa di sudore l’immancabile canotta
e la maglietta fregata alla colonia.
Bagnati fin sull’orlo dei calzoncini corti
e dei calzini accartocciati nel blu dei sandaletti
coi quattro buchi aperti sui giochi prediletti
inconsapevoli come eravamo
delle nostre emozioni tragiche
delle nostre anime feroci e magiche

.
Canti ravvicinati del terzo tipo

I
Crescevamo a latte fluorescente
calamitati dai fitti capezzoli
triforcuti esposti all’intemperie
come gracili scogliere
che invisibili maree frangevano
fin dentro un porto luminoso e labile
avamposto di un’onda parallela
che dopo Carosello
le valvole magnetiche del cielo
fluttuando nascondeva.

Ma forse era un gioco o un miracolo
dell’ombra, una frequenza visionaria
ambigua e refrattaria ai punti
di domanda, ai gusti calcolati
dei padri ragionieri, all’orizzonte
voluttuario del sole e della luna
stupore freddo della sala oscura
che gli sguardi trascinava via
in un battito di ciglia ansiose
scheletri del lampo
che nel breve svanire bianco
l’attenta retina spandeva
d’ossario fuoco e barlume antico
come parole capocchie di cerino
che sfregate sull’umido visivo:
“Klaatu barada nikto!
Klaatu barada nikto!”
s’accendevano del nuovo rito.

II
Acetate emozioni d’argento bluastro
l’osso della memoria cesellano
sugli schermi delle palpebre chiuse
come aurore boreali scintillano.
gettato nella mischia sbobinata
rinasco maschera di luce e di velluto
cono azzurrino della quinta dimensione
che mi colora e mi proietta altrove
e inganna il tempo che anfibio
mi nuota nella testa e la terra
calpesta dei miei poveri balocchi:
trastulli vulcaniani di logica puntuta
odissea di filastrocche
cinque note dello spazio
poemi dell’androide troppo…
troppo umano generato:
“Io ne ho viste di cose che voi umani
non potreste neanche immaginare:
navi da combattimento in fiamme
al largo dei bastioni di Orione
e ho visto i raggi B balenare nel buio
vicino alle porte di Tannhausere
e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.”
e la fradicia colomba in un frullo d’ali sciolte
al cielo riportò la mia traslata morte

gif-ragazze-con-palloncini

da: Di corpi franti e scampoli d’amore

Edizioni Lietocolle Faloppio (Como) 2004

dalla sezione: “Corpiloquio”

CADUCEO

Tra i rami del mio tronco s’attorciglia sinuosa sindrome del cardioflusso
dragospasmo dell’albero afferente (radice vestigiale del giardino)
che predace s’adunghia nel riflusso zampillante di endogena rovina

satanasso del delta porporino dell’intrico boscoso erubescente
serpeggiando s’insinua nell’incavo la tana che s’addentra nel vivaio
sempre aperto di cellule e placente perseguendo del giogo carnicino

la catena dello sperma e dell’ovaio ma inerme non mi sento masticato
dai morsi inverecondi dell’angina che ogni varco s’infatua della luce
sbrego e infarto sull’argine sbreccato sul vallo dell’indomito carnaio

frattura sincopata che riluce del veleno ch’evolve in medicina
che già esisto nell’anse dei serpenti contorta maschera della natura
nel doppio ambiguo di morte e vita Nitore ed Ombra Castore e Polluce

codice d’una sacra imprimitura matrice elicoidale dei viventi
dal grumo di materia all’esistenza Caducèo motore del divino
che del tempo rivela le correnti della mia carne la caverna scura

della norma il mutevole destino biomitica molecola d’essenza

VERSI DI CORPI

Nel corpo vanto
un gorgo misticeto
un urlo bianco

.
CORPI DI-VERSI

Un corpo crotalo che al mondo crepita
l’algoritmo caudato del suo nulla
trillo strisciante d’una morte acuta
retrattile tossina che s’inerpica

e sotto i ciottoli ripone pelvica
abbondanza di quel che sempre muta
scagliogramma di scienza biforcuta
per sistole e per diastole d’estetica

segnato sulle dune della mente
papiro sensoriale d’un dio scriba
stellato codice in astro rasente

nei cieli della carne mi trascina
come una ritorsione delle vene
dal calcagno s’abbatte sulla spira

.
GRASSO A TUTTO

Causa di tutto l’enfia e rovinosa
ascesa del glucosio e del colesterolo
a fomento dei grassi insaturi e superflui
a questo sopore tranquillo
della ragion smagrita e sottintesa
al Minotauro obeso e deliziato
della facoltà a lui concessa
di digerire senza patimento
Il bolo più scabroso
che insano indugia sul palato
e dolce si confonde col languore
che papille e cellulite
camuffo nel molleggio postmoderno
di questa pancia incline
all’intimo paffuto
scavato nell’addome
che del cibo dischiude la tempesta
l’ulcerosa buriana dello stomaco
dell’ittero svasato che rielabora
segnali di pieno e di vuoto
pulsione concessa all’adipe che mi lega
a questa fame cronica
fino a trangugiarmi corrotto
nelle ricette insalubri
della vaniglia e dello zabaione

L’ingordigia precorre i condimenti
e masticando mi sommuove e mi precede
per ventresche guanciali e coratelle
pannicoli di un cuore cupidigia
bagordi e vettovaglie di un mai sazio vendicare
gozzoviglio dell’orda crepapelle
che bramosie indica
all’orco dissoluto
che sniffa e sbava per le spoglie ghiotte
del lardo e della carne
per le superbe e succulente glorie
del paiolo sulle fiamme

da: L’ordine bisbetico del caos
Edizioni Lietocolle Faloppio (Como) 2007

.
Controluce

Che luce mia
s’intarsi per l’inverso
al bosco umbratile

allo stormire oscuro
di rami e foglie
sull’argine dell’alba

e l’ombra mia
si stagli per intero
sull’assolato

convegno delle forme
sul lato acceso
che eredita la notte

Genesi

Caos che nasce dalle fondamenta
vacilla sfrigola e concreto cristallizza
sintetizzando in scopi ignoti un universo
esposto e risoluto che nel guscio
dell’alte forze e delle discipline tribola

Accado nel sottrarmi o sottostare
a quel congegno lucivago dell’erranza
incanto della fisica compiuta
radice quadra della legge e del disordine
acqua della placenta accelerata
che il nulla mal s’accosta
al pieno che sprigiono

e sono tenebra che luce inchioda
all’esistenza
e sono il raggio che s’espande
e la dissipazione in sé trasporta

lucerna dello spirito
e della stella rosa
morte impietosa che si fa dimora

Katrina

Salsedine alghe vive moti ardenti
maglio di luce sull’incudine del mare
se cumuli forgiati in ruvide torsioni
annuvolata meraviglia
esasperato crisma
se l’occhio il grande fiume avventa
se a làtere quell’ombra
se a margine lo sguardo
se bocca della quiete cardine s’ingegna
a torvo sortilegio
che vortica maligno e sogni sradica
dai fasti della carne
pupilla incarognisce di palude
e coda tra le zanne
crettato alligatore
espugna la barriera
e nell’impluvio mastica la vita
sul filo amniotico dell’arroganza
che il fine rende vana la carcassa
ed argine sicuro è ossame di sbilancio
carcame puntiglioso che minaccia l’urna
al tempo dell’incanto.

Al netto delle cronache mondane
tra fuoco e fango
tra plasma e plasma
tra sponda e sponda
tra l’onda impura
e l’acqua marcia
a grumi provvisori
passando per la cruna
al mondo delta creolo
un po’ del nostro sangue
un po’ del nostro lutto
appena in tempo…
che carnevale affiora.

Ancora

.
Nero di stella

Gorgo di supernova, antro di luce implosa
recrudescenza oscura d’una vibrazione
che intensa la materia da materia ingloba
come un affanno, un’ansia estrema d’attrazione
utero, abisso, luce eterna che s’infoiba
onda massiva, chiodo della sottrazione
che nero e pervasivo come un vuoto carsico
crudo s’infiltra nel midollo aminoacido

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Caffè Notegen, Roma, via del Babuino 159 – Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata». La società letteraria di fine Novecento. La civiltà degli incontri letterari e delle riviste a cura di Gino Rago – Con poesie degli anni Novanta di Gino Rago, Giorgia Stecher, Giuseppe Pedota, Salvatore Martino e Giorgio Linguaglossa

caffè NotegenUn giorno dell’anno 1875 Giovanni (Jon) Notegen,  «il droghiere di Tschilin », un villaggio svizzero dell’Engadina, mette la strada sotto i piedi e giunge a Roma. Qui, in via Capo Le Case, a breve distanza dalla  Via Sistina e dalla Scalinata a Trinità dei Monti,  Jon Notegen apre una drogheria. Ma pochi anni dopo, nel 1880 per l’esattezza storica, il «droghiere Jon» si sposta a via del Babuino, al civico 159. Rinnova il locale e contemporaneamente ne fa  un Bar-Caffetteria, una torrefazione del caffè, una drogheria e una piccola fabbrica di marmellate speciali le quali, per la vicinanza dell’Albergo di Russia, oggi « Hôtel de Russie», subito si diffusero anche all’estero per i numerosi turisti stranieri che l’Albergo ospitava.

Tra le due Guerre Mondiali, la drogheria e il Bar-Caffetteria diventano un tipico punto d’incontro e di ritrovo dei più noti e celebrati artisti e intellettuali dell’epoca. Negli anni ’50 il Caffè Notegen è ormai un’istituzione e la sera, dopo lo spettacolo,  vi si fa ritorno. Non è difficile incontrarvi Carlo Levi ed Ennio Flaiano, Alfonso Gatto e Corrado Cagli, con  i più assidui frequentatori  “di casa” al  Notegen   Piero Ciampi,  Monachesi, Guttuso, Zavattini, Bertolucci, Adriano Olivetti, Corrado Alvaro, Linuccia Saba, Maria Luisa Spaziani, Milena Milani, Eva Fischer, Iosif Brodskij. Ma la crisi del Centro storico è alle porte. Teresa Mangione, a tutti nota come Teresa Notegen perché moglie di Leto, uno dei fratelli Notegen e accolto

da tutti come «amico degli Artisti», con tutta la gente della cultura, dello spettacolo, dell’arte, della poesia e con tutti gli “artigiani” gravitanti nella «vecchia Roma», ne avverte i rischi e sensibilizza appassionatamente Sovrintendenza ai Beni Culturali e Consiglio comunale capitolino per la salvaguardia del Notegen dal rischio chiusura.

piazza_ di-spagna2Nel 1988 il Caffè viene restaurato e la «saletta delle marmellate» finalmente recuperata viene destinata a colazioni, pranzi di lavoro, riunioni conviviali, incontri culturali. Sempre vivi nella memoria, non soltanto degli addetti ai lavori, i “martedì di poesia”.  Ricordo che negli anni Novanta si sono tenute qui tutte le presentazioni dello storico quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che contava nella sua redazione Giorgio Linguaglossa, Laura Canciani, Giorgia Stecher, Giulia Perroni, Giuseppe Pedota e molti altri poeti «esterni», tra i quali lo scrivente che allora viaggiava tra Trebisacce e Roma. E come non ricordare Salvatore Martino e Luigi Celi. Forse, l’ultimo bagliore di quella antica civiltà dei caffè letterari. Poi, intorno alla fine del primo decennio di questi anni 2000, il Notegen chiude definitivamente…  Nel locale al 159 di Via del Babuino, a pochi passi da Sant’Attanasio, da Piazza di Spagna e da Piazza del Popolo, di quella vitalità oggi è rimasta forse appena un’ombra sul muro.

Indeterminazione, relatività, equazioni di Maxwell, verso libero e non libertà nel verso, metafora tridimensionale, modernismo e postmodernismo, rapporto tra  «io »poetico e «oggetto», differenza fra «oggetto» e «cosa», tempo e poesia: grandi, inquietanti questioni dibattute nella sala delle marmellate dai poeti che circolavano attorno a “Poiesis”. Forse, uno storico del passato recente potrà «ricostruire» lo stato di salute della poesia di quegli anni e dei poeti, soprattutto operanti in Roma, attraverso le vicende del Caffè Notegen…«Cronaca di una morte annunciata», realmente avvenuta nella indifferenza generale e nella inerzia dell’amministrazione dei sindaci Rutelli e Veltroni.

Gino Rago

caffè Notegen. 1jpgDue poesie di Gino Rago dal Caffè Notegen (1999)

Locandina Caffè Notegen
Via del Babuino, 159 Roma*

Noccioline americane
Ostriche australiane
The inglese
Salmone canadese
Cous-cous marocchino
Dolce tunisino
Burro danese
Whiskey irlandese
Palmito cubano
Caffè brasiliano
Colonia francese
Vongola cinese
Caviale russo
Profumi di lusso
Odori di cucina
Petrolio e benzina
Sapone e acetone
Con qualche gettone
Panini e cornetti
Riso e spaghetti
Formaggi e surgelati
Telefoni occupati
Juke-box a tutto spiano
Flipper alla mano
Tommaso sorridente
Teresa accogliente
Sempre tanta gente
Di giorno e di notte(gen)
Tra sussurri e grida
Mosul, Avati e Guida.

* N.B. La locandina è nata in una serata conviviale al Notegen su un tavolino con Giorgio Linguaglossa, Vito Riviello e Gino Rago, dopo la presentazione di due libri di poesia, nella «saletta delle marmellate». Lo scherzo piacque a Teresa e ne ricavò la «Locandina del Caffè Notegen». Era il maggio del 1999.

.

Un bergamotto sul fiato della morte
(in ricordo del Caffè Notegen)

Se il poeta sceglie da quale parte stare
il mondo trova sempre il suo tono,
il suo timbro, il suo colore. Lessico
d’alghe. Sintassi di conchiglie.
Al centocinquantanove di Via del Babuino
la sirena invita l’uomo stanco
all’ultimo sentiero di lumache.
Sotto il passo incerto di frontiera
Teresa spalma un giallo
profumato di limoni.
“Die Klage. Das Ruhmen”.
Il lamento. L’elogio. Euridice. Orfeo.
Un bergamotto sul fiato della morte.
Da quell’altana d’aria a Trinità dei Monti
chi ricorda il viola di Scilla, il tormento
della figlia eletta di Zurigo, l’enigma sul mare
a Chianalea. Chi sussurra l’estasi
d’una spadara, l’incanto della musica
sull’acqua, la sorte d’una piuma
in quel vento sul dorso della mano. (Al Caffè Notegen
di Via del Babuino bussava indarno il male
alle vetrine, né mai trovò ricetto la malinconia.
Sostava sui selci neri l’orma verde bile dell’intrigo).
Al galoppo sul niente d’una soglia nessuno tema
il viaggio al centro della notte.
Forme. Visi. Voci. Specchi. Eventi. Lontani
anche i vapori sugli attriti della carne.
Di quei palpiti vitali, di tanta joie de vivre
sì e no un’ombra oggi resta sul muro.
Ma se il viandante tace, se allenta la corsa,
se a Sant’Attanasio asseconda l’occaso
al Notegen di Via del Babuino daccapo i poeti
clessidrano il tempo, fermano in sé il respiro
degli alberi, risgabellano vantandosi
d’essere schegge dell’eternità. Torna sugli scalini
a prillare aprile. Il sangue riscorre più in fretta
del canto… E le azalee sanno fare il resto.

Giorgia Stecher volto

Due poesie di Giorgia Stecher da Altre foto per album (1996)

Il bisnonno

(dopo il terremoto del 1908)

Accorso al molo tu
chiamavi le barche: Teresa
Carmelina dove siete?
Sornione il mare ti lambiva
i piedi come mostro placato
dopo il pasto tra i resti
del banchetto e tu
a strapparti i capelli disperato.
Di te questa l’immagine
che m’hanno consegnato e a nulla
vale guardare il mezzobusto
che ti immortala grave ma quietato
sopra l’emblema inutile dell’àncora.

.
L’Altra Nonna

Di te ricordo i capelli
suddivisi in due bande da una riga
e la trappola per topi che inventasti
servendoti di un ditale e di una pentola.
Dicevano di te ch’eri una gran signora
che avevi il mestolo d’oro e molto argento,
prima della sterzata della stella.
Mi è rimasto il tuo nome soltanto
ed un ventaglio che col vento
che tira qui da noi, è superfluo
agitare, per soffiarsi.

.
Foto di Parente Sconosciuta

En souvenir de ta soeur c’è scritto giù
nell’angolo data due maggio novecentotredici
e tu stupenda contro una finestra un profilo
perfetto da cammeo, le braccia abbandonate
perfettissime, collo vestito perle
acconciatura talmente belli da sembrare
finti. Eppure sei esistita, col tuo francese
spedito ineccepibile e gli squisiti modi
da gran dama, lo diceva la Gina che sapeva
tutte le vecchie storie di famiglia.

 

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Giuseppe Pedota foto anni Settanta

Poesie di Giuseppe Pedota da Equazione dell’infinito (1996)

I campi dello splendore

I

De profundis o madre l’inesausta
chiara tristezza e queste lunghe lune
ti chiamano e le stanze luminose
ancora mi posseggono all’incanto
delle verdi stagioni della luce

sono tornato dall’illimite
per la felicità di nascermi da un sogno
tuo acerbo di granoverdemaggio

Lucania lucis l’eden tra la torre
normanna di Tricarico e le selve
di lupi che odoravano di neve

e falchi neri le ali di rugiada
inseminati da sapienza i venti
grand’inventori di storie e di sciarade
sulle flotte ulissiache dei sogni

e l’avida di spazi
Genzano emersa da abissali
valloni ebbri d’aglianico e di risa
scenografia arrogante per attori
cattivi contro il cielo come solo
sanno esserlo per genìe segrete
le progenie di Orazio e di Pitagora

matematica e mistica lubrica e libertà
crudele sole nostre ospiti

II

e ancora andiamo per queste strade di vento
con un frullo di stelle tra le ciglia

Lucania lucis come allora andiamo
quando ancora sottile nel tuo ventre
sentivo raggrumarsi i vaticini
delle imminenti apocalissi e glorie

ma è sublime vertigine del tempo
il grande gioco
di frantumarci nell’oblio di ciò che fummo
e che saremo

e fu storia mai sazia
di coincidenti epifanie
nascere l’anno della croce uncina
che provava i suoi artigli d’acefalia deforme
devastando i colori ed il cuore di Klee

e per quali segnali d’elezione
egli mi rese la sua scienza
di render l’invisibile visibile?

.
III

quali segni esaltanti e disperanti
protessero da intrighi
la mia stupefazione a menti aliene

perché annulla i dies irae della storia
il sonno d’un bambino

perché si aprivano le vene
di dèmoni e sibille e di profeti
tra le dita
di Michelagnolo che urlava
al suo papa i crediti mancati
dei lapislazzuli sistini

per quali segni
a pretesto di fame si compose
Amadeus il suo Requiem

e può un blu-viola distico
disperare all’abiura d’un amore?
Lucania

questo paese è lontano da ogni senso
e dagli dèi
forse
ci corre dentro nelle vene un segno
un turgore di luce
di silenzi
appartenute a un sogno di remote
civiltà stellari

la circonferenza s’è aperta
nel punto delle mie fughe
nel punto dei miei ritorni
come teorema d’amore

la mia Lucania è un’Itaca
di tutte le ombre
che mi crearono la luce
di spazi che mi allevarono
con la storia dei venti
e i lutti delle donne nero eterno
come utero di vergini

neri occhi hanno scavato ombre più vere
di chi le rifletteva

un’esca per i flutti
di giovinezze ambigue

i passi delle mie lune nere
vengono dove si attendono
che il viaggio della luce
svegli i bradi cavalli di ombre
per criniere di vento

 

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Poesie di Giorgio Linguaglossa (da Paradiso, 2000)

Enigma

Per il lugubre occhio di Kore
per il funebre drappeggio dell’angelo
dal trono dove regna Proserpina
osserviamo gli uccelli cantare
dove era il laurociliegio
rumoroso di tuoni.

Benché il suo occhio sia frigido
rigide rondini tornano al sole
dal nostro nero mare all’azzurro
palazzo del re dei re, sapremo
dimenticare il sole perché
incontrarsi era desiderio.

.
L’imperatrice Teodora e la sua corte*

La melancholia dell’imperatrice Teodora
e del seguito imperiale recita
il trionfo fittizio, nomenclatura
monumentale museificata nel vetro.
L’ampia corona deposta sul capo
immobile assottiglia lo strepito
dei passi del corteo che collima
con il corteggio di tenebre.
Gli occhi di Teodora ci osservano
dalla rigidità della decorazione musiva
laddove non esiste il tendaggio
dell’inquietudine.

* Mosaico della chiesa di “San Vitale” a Ravenna

*

Vidi l’Angelo dai quattro volti
che guardava in quattro specchi il mio
sembiante riflesso, il quadruplice
barbaglio della luce incidente il profilo
araldico. L’abbaglio di otto occhi
celesti assorti nel nulla dell’oscurità.
tetagrafico, tetacriptico profilo.

Salvatore Martino da “”La fondazione di Ninive” 1977

A una distanza pari dalla giungla seguendo il filo di un
airone basso nelle correnti dell’aria Disposti a seguitare
malgrado l’oroscopo straniero verso l’alto del piano dove
spirali si rincorrono e la schiera alata dei pesci Intorno
il sentiero mostrava tracce d’un’altra carovana passata
chissà in un giorno di aprile Si avanzava per gradi
lo sguardo fisso al perimetro del dolore

but if you think of a periscopal motion
of thinghs and animals

L’arsenico nel vino i segnali del passo Dalla bocca del
capanno un grido di fucili Stormi inquieti di volatili e
il rosso cremisi delle piume alla vista dei cani
Ci spingemmo avanti senza l’appiglio delle streghe
Poi avrai notizie dagli agenti del cielo Orbite e sonde
le riprese di luna e mille crateri illuminati dalla
fiamma silicea Come sciogli il granito?
A una distanza pari dalla giungla l’anima si riduce ad una
massa che invade le finestre entra nelle cantine squarcia
i vetri e le porte precipita negli alambicchi Piombo
***
Doppiata la collina si piega il tempo per cogliere il
tracciato che scende in un azzurro paese dove laghi
s’incontrano il verde meridiano e oltre la fossa il cielo
Tradito dai sicari
Ci siamo tinte le mani con bianchissima calce
coperto i sopraccigli col sudario una flora batterica
per coltivare agavi o la demenza di chi spera
al mattino un oroscopo astuto delle carte
Non c’è comparazione col metallo quello duro e temprato!
La fossa spaventosa degli inganni precipita intatte
carovane l’oro disciolto nei crogioli l’interminabile spirale
conquista il punto Ricomincia l’ascesa a gironi più fondi
Nel Maelström attorcigliati Cibele e il corpo di Attis
ritrovato una piatta famiglia di lombrichi Sirene
calamitate a riva da un canto più del loro sinistro
Siede il giovane Orfeo la lira stanca lungo il braccio
sul cavalcante Egeo stanco dell’Ade stanco dell’Olimpo
tradito dagli amici le mani di bianchissima calce e un
vuoto contro la mezzaluce balenata in pieno dormiveglia
dalla camera accanto
Dovremmo salire E gonfiare nell’azoto
Una centuria volatile
***
Se ancora disperi di vedermi e i passi si cancellano
nella veglia a mezz’aria tra desiderio e fatica
E un’ora dopo ai piedi di una lunga valle
ti prendessero per mano quasi dicendo una preghiera
Mercoledì 8 gennaio in una valle
E ti conducessero per cerchi e rottami senza una
cruda stanchezza ch’è poi attesa di non attendere
E ti prendessero quando singhiozzano i merli con una
storia da decifrare portandoti attraverso canali di metallo
Se ancora i passi si cancellano
***

Gino Rago  nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Ind.le presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016). Altre poesie compaiono nella Antologia Poeti del Sud (EdiLet, Roma, 2015) sempre a cura di Giorgio Linguaglossa.

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Valentino Zeichen (1938-2016).UN BILANCIO Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa Alcune frasi famose di Zeichen; Intervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio con DUE POESIE INEDITE del 2014

Strega: Zeichen, poeta stregato in corsa con La Sumera

Una immagine di Valentino Zeichen. Un “poeta stregato”. Valentino Zeichen si sente così nella nuova sfida che lo aspetta: Fazi Editore candida al Premio Strega 2016, ‘La Sumera’, il suo primo romanzo, presentato dagli Amici della Domenica Aurelio Picca e Renato Minore. “Non avrei mai immaginato una cosa simile nella mia vita” dice Zeichen all’ANSA, tra i maggiori poeti contemporanei, autore di numerose raccolte di poesie dal 1974 quando uscì la prima, pubblicate negli ultimi anni negli Oscar Mondadori. ANSA/UFFICIO STAMPA FAZI EDITORE +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING; NO TV+++

Valentino Zeichen è nato a Fiume (Croazia) ed è morto ieri, 5 luglio, a Roma nella casa di cura dove stava facendo riabilitazione. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Area di Rigore (Coop Scrittori 1974), Ricreazione (Società di Poesia, Guanda 1979), Pagine di Gloria (Guanda 1979), il romanzo Tana per tutti (Lucarini 1983), Museo interiore (Guanda 1987), Gibilterra (Mondadori 1991), Metafisica tascabile (Mondadori 1997), Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (Fazi 2000), Poesie 1963-2003 (Oscar Mondadori 2003), Neomarziale (Mondadori 2006).

valentino zeichen 4Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Ieri, 5 luglio 2016 si è spento Valentino Zeichen verso le ore 15, dopo essere stato colpito nei giorni scorsi  da una ischemia dalla quale non si è più ripreso.

Valentino Zeichen (1938-2016)

È l’occasione per ricordare un poeta, se non romano, di adozione romana, che data dal 1950 quando il poeta di Fiume si stabilì nella capitale. Perché Roma ha questo di positivo: accoglie tutti coloro che la eleggono quale propria patria, a prescindere dal colore della pelle e dalla lingua che parli, a prescindere da latitudine e da longitudine. Ho riaperto il volume delle poesie di Zeichen Poesie 1963-2003 per cercare il filo rosso che segna il tratto distintivo di questo poeta nella storia della poesia italiana.

Dopo la guerra Zeichen è costretto ad abbandonare la città natale insieme ad altri profughi istriani e trova rifugio a Roma. In un certo senso, si può affermare che il profugo istriano trova nella capitale il milieu culturale e sociale adatto alla sua fisionomia intellettuale. Non è un caso l’incontro con Elio Pagliarani, avvenuto nel lontano 1967; si rivela una strana affinità tra il poeta lombardo e il poeta romano. La nota biografica che precede il volume recita: «nello stesso anno Enzo Golino inviò alcune poesie a Mario Boselli, redattore di «Nuova corrente», che le pubblicò nel n. 46-47, del 1969. La rivista ospitò altri versi di Zeichen nel n. 57 del 1972. Poi, con la nascita dell’editrice Cooperativa Scrittori, Zeichen ebbe l’opportunità di pubblicare la sua prima raccolta, Area di rigore, che uscì nel 1974, grazie all’interessamento di Elio Pagliarani (che ne scrisse l’introduzione), Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi e Luigi Malerba». Dunque, è fuori discussione che la fortuna critica della poesia di Zeichen abbia trovato il suo terreno di coltura nell’ambiente di quegli intellettuali legati tutti a filo diretto con la rivoluzione consapevole messa in atto dalla neoavanguardia.

L’antisoggettivismo della poesia di Zeichen intendeva strizzare l’occhio, da un lato ai reduci della neoavanguardia, dall’altro proseguiva l’intento di teatralizzazione della storia e del privato che la sua opera d’esordio aveva inaugurato. L’operazione collimava perfettamente con la strategia distruttiva della centralità epistemologica del soggetto iniziata dalla neoavanguardia, e troverà definitiva accettazione con la seconda raccolta, Ricreazione (Società di Poesia, Guanda) del 1979, dove viene portato ad esiti ulteriori il decentramento del soggetto e viene impiegato in via definitiva il commento ironico quale categoria retorica ed ermeneutica della sua poetica. Da un lato, Zeichen adotta lo sdoppiamento e l’autoriflessione quali categorie ermeneutiche centrali della propria scrittura; dall’altro, viene eliminata ogni ontologia come posizione originaria del pensiero e assunzione del dato-sotrato appartenente all’oggetto, sostituita da una ontologia del soggetto che osserva in modo ironico il reale.

Il soggetto decentrato e de-territorializzato dell’io zeicheniano opera l’applicazione alla poesia italiana della teoria economica dei giochi. Il risultato di questa impostazione lo si vedrà compiutamente in Metafisica tascabile del 1997, dove tutte le grandi problematiche della civiltà occidentale vengono miniaturizzate in motti di spirito e fraseggi ironici e istrionici, una sorta di scrittura del gioco che è il precipitato della «scomparsa» del soggetto e della dis-locazione dell’oggetto. Se la storia è ridotta ad una grande superficie, ad un grande flipper dove avvengono battaglie e disastri, la scrittura, conseguentemente al dato di partenza del decentramento dell’io, si trova allo stato virtuale, ad inseguire la pista di pattinaggio del mondo virtuale eventuale con uno stile candidamente di «superficie», dove vengono attivate le risorse della teoria del gioco ironico-istrionico. È una novità di tono e di lessico. È una novità dell’io de-ideologizzato e de-soggettivizzato È una novità anche quella impostazione a-ideologica; la poesia diventa gioco delle «occasioni» montaliane derubricate ad incontri mondani.

Giulio Ferroni nella Introduzione annota che «in questa assenza di un vero scopo Valentino ricama la sua impalpabile poesia». Ineccepibile, ma per motivi esattamente opposti a quelli assunti dal critico romano non esito a definire la poesia di Valentino Zeichen come l’espressione più matura e conseguente di una visione del mondo carente di pensiero critico. Non a caso in più luoghi Berardinelli parlerà della generazione dei poeti che faranno capo a Zeichen (Patrizia Cavalli, Giuseppe Conte etc.) come «uomini di fede», che fanno della poesia una professione fideistica. Il fatto è che dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini e dei Sanguineti ha preso piede una nuova intellettualità poetica rinchiusa nel mondo del privato e nel gioco ironico-istrionico. Zeichen e Patrizia Cavalli sono solo i due poeti maggiormente rappresentativi di questa nouvelle vague. Zeichen opera una de-ideologizzazione della poesia, una antiretorica, adotta uno stile cabarettistico infarcito di motti di spirito, da deraciné, dove compare una Roma, appunto, da cartellone, cartellonistica, cinica, scettica, subdola, cialtrona, nella quale si aggira un personaggio, un dongiovanni postmoderno in preda alla furia erotica dei suoi abbordaggi femminili, dove le donne sembrano uscite dalla cineteca di Cinecittà o dai programmi televisivi di Mediaset, o dai magazzini della Upim e gli eventi storici sono ridotti ad una collezione di gags da avanspettacolo o ad «occasione» ironico-scettica. È la raffigurazione della nuova società dello spettacolo e della ideologia del benessere.

Nel bene e nel male, l’opera di Zeichen è rappresentativa del passaggio della società italiana dall’epoca del disincanto e del relativo benessere di massa a quella della stagnazione economica e spirituale degli ultimi vent’anni.

valentino zeichen 3

 Ci sarà pure una ragione se critici come Alfonso Berardinelli, Giulio Ferroni e Stefano Giovanardi hanno avallato la poesia di Valentino Zeichen. In questi anni la critica prende atto della elefantiasi della poesia, si verifica, come dire, il collasso della attività critica, sostituita dagli uffici stampa degli editori. Insomma, accade che i critici istituzionali vengono messi in archivio a preparare le schedine di accompagnamento dei libri editi, non viene loro richiesta nessuna lettura critica della produzione letteraria; la loro cultura critica si rivela orfana inadeguata,  non è più possibile costruire un discorso critico su  una marea montante di produzione poetica, non ha più senso. L’abbandono della critica da parte di Berardinelli, è un dato di fatto dichiarato dallo stesso critico che lascia l’insegnamento universitario per un incarico presso una casa editrice. Per Giulio Ferroni il discorso è nominalmente diverso ma la sostanza non cambia: il critico si chiama fuori della mischia militante, e al principio degli anni Novanta, pubblica un libro sul carattere postumo dell’arte contemporanea e, in particolare, della letteratura, bollando di postumità tutta la produzione letteraria degli ultimi decenni.

Non è una contraddizione quindi il fatto che entrambi i critici romani si siano dichiarati esegeti della poesia di Valentino Zeichen da essi considerato come un poeta emblematico. L’abbandono della critica militante affonda piuttosto le radici nella nuova situazione di politica culturale nell’ambito più vasto della comunicazione nell’universo della globalizzazione mediatica. La critica della poesia nelle nuove condizioni della società globale non ha più le prerogative e le credenziali di cui godeva la «vecchia» critica militante nell’ambito della «vecchia» società letteraria. Nelle nuove condizioni della società mediatizzata, la critica militante di poesia è un fatto del paleolitico superiore.

La poesia di Zeichen può essere veramente considerata emblematica dell’età della transizione dalla Italia della affluent society degli anni Ottanta a quella della stagnazione economica e spirituale degli ultimi venti anni ma per i motivi esattamente opposti a quelli da enucleati dai critici citati. A mio avviso, la poesia del poeta di Fiume può essere considerata l’esemplificazione più appropriata e pertinente di quel fenomeno estetico (e non) che va sotto il nome di proto minimalismo. Il discorso può essere riassunto, per sommi capi, in questi termini: è dagli anni Ottanta che si  adotta il termine «scrittura poetica», di post-romanzo e di post-poesia, quasi per nascondere il fatto che si parli di «poesia». È la cattiva coscienza di un’epoca che intende la post-poesia come quel manufatto linguistico che intende porsi «fuori» dalla poesia. I critici dianzi citati parlano della poesia di Giancarlo Maiorino e di Valentino Zeichen come di una metanarratologia, una narratologizzazione del poetatum, di un «superamento» della poesia attraverso la retorizzazione dell’antiretorica. Una sorta di teatralizzazione del testo, di personalizzazione e di ironizzazione del mondo. Accade così il fatto paradossale che con la loro attività critica Berardinelli, Ferroni, e Giovanardi contribuiscono alla legittimazione del modello di poesia che gli uffici stampa degli editori fornivano.

Zeichen elegge il luogo della poesia quale laboratorio della desublimazione, della diseroicizzazione e della ironizzazione. A furia di diseroicizzare, desublimare e ironizzare, Zeichen è finito nella post-poesia cabaret, siamo approdati allo stadio terminale di una cultura epigonica. Non è un caso che lo stile non-stile di Majorino e Zeichen abbia ormai raggiunto il punto di fuga della propria completa autonomia, un non stile che corrisponde alla nuova formulazione della post-poesia come una sorta di Gestalt linguistica che consente la produzione di una poematologia.

Ovviamente, nella nota della bibliografia del volume mondadoriano delle poesie di Zeichen non compaiono l’articolo critico di Giorgio Linguaglossa contenuto in Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte, (2003) e la recensione a firma di Domenico Alvino apparsa sul n. 16 del quadrimestrale di Letteratura “Poiesis” nel 1998. Nel nuovo abito intellettuale gli articoli scomodi vengono espunti.

Quando Adorno nel capitolo finale di Dialettica negativa, dedicato alla «Metafisica», scrive che «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile»1, dice qualcosa che per le generazioni di poeti venute dopo il 1970 non ha più alcuna risonanza. Quando il filosofo scrive che «il processo, attraverso il quale la metafisica si è ritirata incessantemente a ciò, contro cui essa un tempo fu concepita, ha raggiunto il suo punto di fuga. La filosofia del giovane Hegel non ha potuto reprimere quanto essa fosse scivolata dentro i problemi dell’esistenza materiale…». Ecco che siamo arrivati al problema che qui ci riguarda: il nesso che lega il poeta «cortigiano» alla funzione oggettivamente servile di quel ruolo, il non potervisi sottrarre in alcun modo, nemmeno con il denunciare la pacchianeria di ogni poesia struggevolmente eufonica; voglio dire che non basta una poesia smaccatamente cortigiana a denunciare il fatto della condizione servile del cortigiano. La poesia di Zeichen resta cortigianesca al di là dell’apparenza e al di qua della propria oggettiva funzione decorativa. La stessa «tascabilizzazione della metafisica» che rammento nell’articolo ha il suo risvolto negativo nella prassi poetica, si rivela nella farcitura frastica rendendo la poesia affine al gioco con spunti ironici e motti di spirito, con filastrocche da cabaret. Accade che ogni volta che si espunge la «metafisica» dalla poesia e la si rimuove dalla vita quotidiana degli uomini, si va a finire nella poesia da intrattenimento e decorativa. Il gioco della poesia cosiddetta giocosa ha questo di vero, che ci ricorda il gioco di società delle signore borghesi che chiedono al poeta «cortigiano» di giocare con rime euforbiche e transmentali. Insomma, voglio dire, per chi non l’avesse ancora capito, che il gioco delle rime è parente stretto del gioco con le non rime. Quello duro, che si fa con le divise monetarie.

Emanuele Severino nella sua opera monumentale del 1958, discettando su «La struttura originaria» dell’essere, parla della «immediatezza e incontraddittorietà dell’essere». Non entro qui nel merito della discussione filosofica perché sarebbe pleonastico e non ho le chiavi filosofiche per entrare nei dettagli, ma è chiaro che qui Severino mette in opera un pensiero «metafisico». Il che non vuol dire campato per aria, pensa su «qualcosa» che sta a monte di tutto ciò che appare alla coscienza come «essere». Del resto, questa è anche la posizione di un Heidegger. A mio avviso, la parte centrale di Essere e tempo, l’analitica dell’esserci, rischia di periclitare in una psicologia applicata all’essere, con il rischio che può essere liquidata come una indebita intromissione della psicologia nella metafisica dell’essere. Resta il fatto che se il pensiero vuole tentare di afferrare l’essere, ecco che questo gli sfugge di mano, si dilegua, si ritira, quella immediatezza che a noi sembrava così vicina, si dilegua, si rivela fugace, insostanziale.

Perché questo discorso?, per dire che tutta quella «poesia» che si accontenta di fare una «analitica dell’esserci», in realtà fa della psicologia, psicologia applicata alla poesia. Abbiamo a che fare con un nuovo genere: la poesia psicologica; così come c’è il romanzo psicologico, la pittura psicologica, la fotografia psicologica etc.

Lasciatemelo dire: per questa via si fa una poesia, un romanzo, una pittura, una fotografia, un cinema etc. di superficie, si va con la slitta sulla superficie ghiacciata, si scivola, si va veloci, si fanno le piroette… ma, a mio avviso, non si va da nessuna parte.

Ecco, il problema io lo porrei così: ogni qual volta che la metafisica viene fatta uscire dalla vita degli uomini, o si crede di averla espunta dalla vita degli uomini, ecco che essa nella veste di falsa metafisica o di metafisica religiosa, si attacca come un francobollo agli uomini e alla loro produzione artistica. Ritengo perniciosi i tentativi di espungere la metafisica da ogni atto della vita degli uomini. La filosofia che lo dice e l’arte che lo dice, fanno cilecca, dimostrano la loro corta gittata, mostrano il loro lato cortigiano. Direi che la poesia di Valentino Zeichen pecca proprio da questo punto di vista, che ha creduto in modo filosoficamente ingenuo che fosse possibile espungere la metafisica dalla vita quotidiana degli uomini e dalla poesia. Errore madornale perché ha condannato la sua poesia e quella dei suoi epigoni a fare le veci del cabaret, una poesia di motti di spirito, da deraciné, da bohemien. Poesia auto pubblicitaria Così, ne è venuta fuori una poesia di superficie, che ben si adatta all’uditorio mediatico delle superfici riflettenti. Con Zeichen tutta una certa impostazione culturale tutta italiana e romana in particolare, ha fatto fiasco, ha finito per fare poesia superficiaria.

Alcune frasi famose di Zeichen

 1.«non ho nulla. vivo in una capanna».
2. «dai vari salotti sono stato schierato a tavola come un trofeo: “abbiamo con noi anche il poeta”. e io sono stato al gioco. arrivavo, mangiavo, sparivo nella notte».
3. «senza tessera del partito non mangiavi. e parliamo di mezza letteratura italiana o almeno di tutta quella parte che ha avuto successo. non c’era concorrenza, solo spartizione. io sono apolitico. non ho mai avuto nessuna voglia di essere comunista».
4. «b. sarebbe stato un grande statista, ma perse l’occasione di passare alla storia».
5. «Alberto Sordi. un campione. un genio. un comico del cazzo che senza tante sovrastrutture capì l’italia meglio di chiunque altro, anche da regista».

dalla Intervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio

 «Valentino Zeichen sembra un adolescente che si è lasciato pettinare dalla mamma con l’acqua di colonia e invece ha quasi settant’anni, sessantotto. Non gli va via col tempo quell’aria di «guarda cosa mi tocca sopportare», la ribellione imminente che spinge sotto pelle ma che forse – dicono gli occhi – da qualche parte di nascosto si è consumata già. Un adolescente di ritorno, un diciottenne con cinquant’anni di esperienza. È sommamente educato e strafottente. Elegante ma sgualcito. Paga il conto e viaggia in autobus. Ride sincero a volte si imbarazza e quando è contento si vede che è contento davvero.  Vive in una baracca abusiva ormai a Roma leggendaria e dice «io sono uno spirito che rispetta la legge perché la teme», lo dice convinto. Si professa povero, probabilmente lo è. «Sono un cortigiano – dice anche – vado dove mi danno da mangiare e da vivere, lavoro su commissione». Degli editori, dei mecenati, delle ricche signore che amano la sua conversazione e (meno) di una sofisticata committenza che ordina poesie come fossero ritratti da appendere in salotto: «La piccola borghesia fa fotografare i figli, l’alta borghesia si fa ritrarre a olio. L’aristocrazia del sapere commissiona poesie dedicate. Io le scrivo. Alcune mi vengono bene, altre no, comunque loro non se ne accorgono». Diversi anni fa, quasi venti, Moravia consigliava un suo libro di poesie (Museo interiore) dicendo «vi si può riconoscere un’eco Marziale della Roma moderna». L’ultima sua raccolta, pubblicata da Mondadori, s’intitola Neomarziale. Poetica delle cose quotidiane, poesia della vita vera e perizia suprema del verso. Grande ironia. «Nessun altro poeta avrebbe avuto il coraggio di intitolare un libro così. Io sì, credo dipenda dal mio sense of humour».

1 T.W. Adorno Dialettica negativa trad. it. 1970 p. 330

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Alcune frasi famose di Zeichen:

1.“non ho nulla. vivo in una capanna”
2. ”dai vari salotti sono stato schierato a tavola come un trofeo: “abbiamo con noi anche il poeta”. e io sono stato al gioco. arrivavo, mangiavo, sparivo nella notte”
3. “senza tessera del partito non mangiavi. e parliamo di mezza letteratura italiana o almeno di tutta quella parte che ha avuto successo. non c’era concorrenza, solo spartizione. io sono apolitico. non ho mai avuto nessuna voglia di essere comunista”
4. “b. sarebbe stato un grande statista, ma perse l’occasione di passare allo storia”
5. Alberto Sordi. un campione. un genio. un comico del cazzo che senza tante sovrastrutture capì l’italia meglio di chiunque altro, anche da regista”

valentino_zeichen_romaIntervista a Valentino Zeichen di Concita De Gregorio

Valentino Zeichen sembra un adolescente che si è lasciato pettinare dalla mamma con l’acqua di colonia e invece ha quasi settant’anni, sessantotto. Non gli va via col tempo quell’aria di “guarda cosa mi tocca sopportare”, la ribellione imminente che spinge sotto pelle ma che forse – dicono gli occhi – da qualche parte di nascosto si è consumata già. Un adolescente di ritorno, un diciottenne con cinquant’anni di esperienza. È sommamente educato e strafottente. Elegante ma sgualcito. Paga il conto e viaggia in autobus. Ride sincero a volte si imbarazza e quando è contento si vede che è contento davvero.

Vive in una baracca abusiva ormai a Roma leggendaria e dice “io sono uno spirito che rispetta la legge perché la teme”, lo dice convinto. Si professa povero, probabilmente lo è. “Sono un cortigiano – dice anche – vado dove mi danno da mangiare e da vivere, lavoro su commissione”. Degli editori, dei mecenati, delle ricche signore che amano la sua conversazione e (meno) di una sofisticata committenza che ordina poesie come fossero ritratti da appendere in salotto: “La piccola borghesia fa fotografare i figli, l’alta borghesia si fa ritrarre a olio. L’aristocrazia del sapere commissiona poesie dedicate. Io le scrivo. Alcune mi vengono bene, altre no, comunque loro non se ne accorgono”. Diversi anni fa, quasi venti, Moravia consigliava un suo libro di poesie (Museo interiore) dicendo “vi si può riconoscere un’eco Marziale della Roma moderna”. L’ultima sua raccolta, Mondadori, s’intitola Neomarziale. Poetica delle cose quotidiane, poesia della vita vera e perizia suprema del verso. Grande ironia. “Nessun altro poeta avrebbe avuto il coraggio di intitolare un libro così. Io sì, credo dipenda dal mio sense of humour”.

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La invitano ancora molto a cena?

Parecchio. Sono sobrio e autosufficiente. So lavare e cucinare. Non impegno. Sono un buon conversatore, per questo mi invitano.

Com’è un buon conversatore?

Uno che ascolta, che guarda. Uno che nota il disagio e la noia dell’interlocutore. Allora cambia argomento. Taglia.

Seduce, anche?

Non più. Sono un pensionato della vita ormai. Un vecchio cortigiano. No, non è questa l’età in cui si raccolgono i frutti. A volte i frutti marciscono sugli alberi.

Non l’annoia il mondo colto e un poco snob, non la stanca?

No. Frequento tutti, anche i salotti letterari. Non ho pregiudizi. La gente mi interessa, mi piace. Poi mi serve. Studio quello che vedo e ne scrivo. L’ispirazione mi viene sempre a tavola.

È un artificio, no? Un pretesto.

Molto, sì. Alimenta lo humour.

Le piace vivere in quest’epoca? Potendo sceglierebbe un passato o un futuro?

Vivere in un’epoca di pace è una grande occasione, una fortuna collettiva. Pensi a quelli che hanno avuto 18 anni nel 1915, per dire. Il passato si può leggere all’infinito, è stupendo. Il futuro è più comodo perché non si sa. Bunuel diceva: vorrei riemergere un’ora al giorno dalla morte per poter leggere il giornale. Anche io lo vorrei.

Il giornale. Solo per sapere cosa è successo?

Le pare poco? Io sono un poeta civile. Mi interessa che tutti pieghino i cartoni quando li gettano nei cassetti, non lo fanno mai li riempiono di aria. Sono preoccupato per il sottosuolo: l’inconscio della terra.

Vota?

Qualche volta. Non sono mai stato un rivoluzionario, un ribelle semmai. La ribellione è un fatto individuale. Più della politica mi interessa la geopolitica. Ci sono più cose pratiche che ideologiche da risolvere. Vicino a me c’è un albergo con una buca davanti al garage. Io andrei a comprare l’asfalto per riempirla, sono un uomo del Nord. L’albergatore non lo fa. L’uomo si misura così: c’è quello che riempie buche e quello che non lo fa.

Una poesia nel suo libro è intitolata “Manicure della poesia”. Un’altra comincia dicendo “Nel tagliarmi le unghie dei piedi/il pensiero corre per analogia/alla forma della poesia”. La poetica dell’igiene personale, si direbbe.

La poetica è un fatto igienico, in effetti. È velocità, sintesi, cura. Somiglia alla chimica farmaceutica. Deve essere rapida ed efficace come un’aspirina. Manicure della poesia ci ho messo dieci anni a scriverla. Cercavo il passo del verso, volevo che fosse perfetto. Il peggio in poesia sono gli aggettivi: la prolissità, la descrittività. Ogni aggettivo è un fulmine, invece.

Ci sono scrittori e poeti che sfornano libri sulle loro crisi di vocazione. Anche registi. Vanno molto.

È un fenomeno di massa. L’assistenzialismo alla creatività. L’autoanalisi è diventata un costume sociale. L’autore fa autoterapia, il pubblico lo assiste: nei due sensi. Assiste e lo cura.

Va al cinema?

Moltissimo. Il mio regista preferito è Cuccino, un talento assoluto. Un genio.

Lo conosce?

No, si ama sempre quello che non si conosce. Vedo i suoi film. Sono un suo fan assoluto. Su Ricordati di me ho scritto una poesia per San Valentino.

Altri?

Moretti mi piaceva prima, l’Autarchico, Bianca: quel moralismo lì. Lo preferivo alla politica. Almodòvar mi stanca, non ha la genialità di Bunuel, Tarantino è il migliore: il dialogo delle Iene è la quintessenza dell’insensatezza. L’insensatezza della realtà è fantastica: me ne alimento.

Cosa legge? Altri poeti?

Conte. Cucchi. Magrelli. Il più grande del secolo resta Montale. Pasolini non mi interessa, Le donne, poi, vedo che vanno molto di moda. Valduga, Cavalli, Frabotta. C’è la par condicio, no?

Acido. Non le giudica all’altezza?

Forse temo la concorrenza. Sarà invidia del successo.

Non dica questo. Del mercato della poesia su commissione lei è monopolista assoluto.

È un mercato povero. Non c’è abbastanza richiesta. Sono disoccupato.

Se dovesse salvare un solo libro?

Shakespeare, tutto.

Si sente sottovalutato?

 No, sarebbe un lusso. Non mi sento in sintonia con nessuno però.

Quali sono le doti di un poeta? 

Immaginazione, fantasia. Senso dell’umorismo, senso della forma, ribellione.

Però poi lavora per chi paga

È ovvio. Ne ho bisogno, come farei. Anche Majakoski d’altra parte. Anche Pindaro.

Cosa farà nei prossimi mesi? Anche domani, ad esempio

Non ho idea. Potrei cercare svogliatamente qualcuno che rappresenti l’Apocalisse nell’arte, un lavoro che ho scritto per il teatro. Tratta l’insensatezza dell’arte contemporanea. Giustamente non lo mette in scena nessuno, li capisco.

Arte figurativa?

Sì, quella. La scultura, la pittura oggi non hanno nessun codice di ancoraggio. Nessun senso, qualunque cosa vale. Siamo tutti alla mercé d’una arte moralmente irresponsabile: viviamo negli eventi e non sappiamo che senso abbiano.

Magari le viene l’ispirazione per un testo nuovo

Può essere. Anzi guardi: un testo nuovo ce l’ho già, inedito. Si chiama La refezione. Pala di cibo.

Cibo proprio cibo?

Sì, cose da mangiare, sono cinque persone che discutono di pietanze. Fondamentale. Sono anche un bravo cuoco sa? Scialoja diceva non so se sono meglio come pittore o come poeta. Anch’io: non so se mi vengono meglio le polpette o le poesie.

Le polpette come?

Fritte, innanzitutto, Manzo, non vitellone. Pane sciapo spugnato nel latte, prezzemolo, aglio battuto fino, niente noce moscata, sono contrario alle spezie. Parmigiano. Piccole però, trenta con un chilo, se no non cuociono dentro. Ci vuole del tempo ma poi durano anche tre giorni.

Le poesie durano di più

Dipende quali, comunque sì. Anche per le poesie vale la regola delle polpette: per farle bene ci vuole tempo, e poi se son venute bene durano.

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Due poesie inedite del 2014, da http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it

SI DICE CHE LA POESIA

Si dice che la poesia
manchi di vero slancio,
che non sappia più volare
poiché non più sorretta
dai grandi angeli alati.
Che farci? È un mondo
di poeti atei che volano
preferibilmente in aereo

.
LO SPREAD DEL TALENTO

Le anime belle ostili al patto fra Ricerca e industria
invocavano la Ricerca pura, purché universitaria,
e questa parola troppo diffusa si è persa, dispersa.
Sul trono le subentrò la nuova parola: la Crescita!
E il dogma della superproduzione invenduta, decadde.
Gli strateghi del male ci rivestono di tessuti
preferibilmente sintetici e anche tossici,
ci gonfiano d’obesità con cibi spazzatura.
E noi che scemi non siamo, più non consumiamo.
E a letto senza cena delle beffe andiamo.

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Dario Bertini  POESIE SCELTE da “Prove di nuoto nella birra scura” (Edizioni del Foglio Clandestino, 2015), “Il modello standard della performance”; “La poesia nella dimensione del supermarket mediatico”, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto ipermoderno L'ultima fermata della campagna Chic on the Bridge Louis Vuitton ci riporta a Parigi

ipermoderno L’ultima fermata della campagna Chic on the Bridge Louis Vuitton ci riporta a Parigi

Dario Bertini è nato a Legnano (MI) nel 1988, abita a Pavia, dove ha frequentato la facoltà di Lettere moderne. Ha pubblicato una raccolta dal titolo Distilleria di contrabbando (Cardano, 2009, prefazione di Claudio Lolli) e un omonimo disco di canzoni e poesia nato dalla collaborazione con Renato Franchi e l’Orchestrina del Suonatore Jones. Suoi versi sono apparsi sulle riviste FarePoesia, La Mosca 

dario bertini Prove di nuoto cop 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrivevo, più di venti anni fa, in una nota a firma redazionale nel numero 7 del quadrimestrale di letteratura “Poiesis” nel 1995:

«Oggi, nel supermarket della cultura qual è diventata l’industria culturale, alla poesia viene destinata una nicchia che meglio sarebbe chiamarla loculo, ove le pubblicazioni seguono lo stesso codice e lo stesso ritmo che contrassegnano il sistema degli spot nelle campagne elettorali […] Il degrado non colpisce soltanto il “cassetto” della poesia ma anche e soprattutto quello della critica, ad esso speculare e complementare. Come abbiamo tentato di chiarire nei precedenti numeri di “Poiesis”, qui non è più questione del discredito in cui ristagna la poesia contemporanea italiana, la degenerazione è ben più ampia ed investe la tenuta complessiva dell’intero (ci si passi il termine ministeriale) comparto.

I libri di poesia non dovrebbero essere condotti alla stregua di spot pubblicitari, un filtro ed una selezione sono operazioni consustanziali alla salute ed alla vivacità di questo “cassetto”..

Come afferma Berardinelli, oggi non interessa più a nessuno discutere dei problemi di poetica o di estetica, lo stesso impegno intellettuale viene guardato con sospetto, ingenera perfino fastidio, autorevoli “autori” ci hanno chiesto: “a che pro occuparsi di critica, non sarebbe meglio pubblicare solo testi?” Altri pongono in predicato la stessa utilità di riflettere su questioni di poetica; gli esoterici pensano che il poeta debba occuparsi solo di poesia, gli essoterici, per contro, opinano la priorità del politico sull’estetico. Nella confusione delle opinioni la poesia sopravvive a stento, senza neanche la stampella del mercato delle opinioni che, per quanto paradossale, resta pur sempre un regolo, imperfetto ma pur sempre meglio di niente. In questo desolato panorama di detriti, le riviste letterarie fanno a gara nell’ignorarsi l’un l’altra, il pensiero dominante è che qualcuno possa esprimere un concetto purchessia, un’idea purchessia. In questo debolismo generalizzato c’è chi imputa al postmoderno nefandezze e sortilegi, c’è chi illustra una scuola romana, chi teorizza la superiorità della scuola milanese. In verità, ogni minuscola congregazione di affiliati officia una propria liturgia separatista, ognuno ammicca all’altra sponda con sospettosa nequizia, ben attento a strappare il pedaggio alla parte più debole o inesperta (…) c’è una moltitudine per la quale l’unica ragione di vita è apparire nello «Specchio» o da Maurizio Costanzo show ed occupare a tappeto tutti gli spazi nei media e nelle riviste maggiori (…) in realtà non abbiamo interlocutori, i più scambiano la proposta di una Nuova Poesia Metafisica per una boutade o, nella migliore delle ipotesi, per una provocazione; siamo così abituati alla réclame pubblicitaria che tutto viene parametrato sul modello dello spot. La scomparsa di quel fenomeno caratteristico del Novecento, dell’intellettuale dotato di curiosità, segna la scomparsa degli ultimi sparutissimi drappelli di lettori non lettori conformisti, assiderati dallo sciocchezzaio di massa…».

Questa di Dario Bertini è la tipica poesia di un autore di talento che si trova a vivere nella dimensione del supermarket mediatico, in una civiltà post-tecnologica che non sa che farsene di un prodotto letterario. Non è un caso che la poesia delle nuove generazioni abbia abbracciato il modello della performance. La prima reazione istintuale è il rifiuto, il rigetto della letterarietà e la adozione del modello standard della performance come contraltare al compromesso con la tradizione; la seconda reazione è la adozione di un discorso appena ritmizzato, prosastico, snodabile e riannodabile. Direi che in questo rigetto c’è la chiave della nuova oralità della poesia giovanile, che è da considerare un bene prezioso, è un segnale acustico indirizzato verso il mondo sempre più lontano della poesia novecentesca, un indice, un conato di una esigenza di rinnovamento. Una poesia frizzante, effervescente, modernamente ditirambica, scritta con la mano sinistra e in punta di penna, un po’ contro voglia, un po’ di pessimo umore dove si vedono «elefanti rosa» «passeggiare sui tetti, la mattina presto»; qualcuno che «deve andare al bagno»; dove c’è una gran confusione; ci sono «pesci [che] hanno studiato all’università » che parlano «sotto gli ombrelloni», « e non riesci nemmeno a capire cosa dicono i pesci», un «prato pieno di gente», «venditori di frittelle», «lavanderie a gettoni», «tavole calde», con l’evento annunciato della «scomparsa delle cabine telefoniche»; insomma, «una buona soluzione è continuare a respirare», «scriverò i miei prossimi versi sulla carta igienica», che mi sembra un ottimo progetto di poetica in un ambiente che non sa che farsene né della poetica, tantomeno della poesia.

foto tacco a spillo su binario

Dario Bertini da “Prove di nuoto nella birra scura” (2015)

Una buona soluzione è continuare a respirare,
mantenere costante la frequenza cardiaca,
insediare le stanze dei polmoni
col fiato necessario a rimanere in piedi
e contare fino a centomila
fino a quando capisci
che allora essere vivi è avere una stazione nella testa
con taxi, criminali e polizia,
grandi tabelloni orari, uomini in giacca
e donne quasi nude
e un bambino coi pantaloni corti
che deve andare in bagno
(perché qualcuno sempre cerca il bagno,
così il prossimo verso sarà
di un chiarissimo giallo)
e ogni tanto c’è qualcuno che arriva, qualcuno che parte
e tutti insieme gridano il tuo nome
solamente per farti voltare

*

Quando ti staccano la corrente elettrica
la cosa più importante è non starnutire:
proprio allora bisogna procurarsi
due bombole da sub, ma anche tre o quattro,
o una lunghissima cannuccia viola,
e fingere che l’aria nella stanza
sia tutto intorno acqua
ma non è una piscina, sembra mare
e lo capisci appena i pesci ti dicono qualcosa,
e fanno segni strani, strani balletti,
ma non riesci a capire
perché hai dovuto studiare per anni
e non riesci nemmeno a capire cosa dicono i pesci
che ti circondano dalla testa ai piedi
e ti passano accanto veloci
e continuano a dire cose senza senso: così deduci
che anche i pesci hanno studiato all’università.
Allora è finalmente chiaro, che è finalmente scuro,
e il buio intorno non è mare, non è nemmeno acqua,
c’è troppa schiuma
e sembra di sentire una canzone
che dice che la cosa più importante è cercare
di non starnutire
se ti staccano la corrente elettrica
ma i pesci in fondo hanno tutti ragione,
potresti anche capirli un giorno o l’altro,
e proprio perché non sai nuotare
sono prove di nuoto nella birra scura.
*
Tutto ciò che devo fare è mantenere la calma,
fare finta di nulla, che nulla accade,
che non accade di vedere grandi elefanti rosa
passeggiare sui tetti, la mattina presto,
mentre vanno al lavoro, mentre ritornano
la sera, schizzando acqua dalla proboscide,
che penseresti semplicemente stia piovendo,
ma pensare fa male – è dimostrato – perché ogni volta
che ti metti a pensare
cade morto stecchito un venditore di frittelle a new york
o un fresatore di pisa, ogni volta, ogni volta che pensi
qualcosa di qualunque tipo,
che gli elefanti rosa, in fondo, li hanno visti un po’ tutti
prendere il tè verso le cinque, seduti sotto gli ombrelloni
a parlare dell’aumento del prezzo delle lavanderie a gettoni,
delle tavole calde o della guerra fredda,
così tutto ciò che devo fare è mantenere la calma,
sentire le chiavi di casa nella tasca sinistra della giacca,
partire per un paese straniero
dove un giorno mi verrai incontro con quegli occhi
che sono solo tuoi
parlandomi per ore della storia universale degli elefanti rosa.

Anahit 2

Anahit

Ashraf Fayadh 4
Il pericolo non è un cesto di vipere
sopra una bomba atomica,
è il fatto stesso che ci sei,
ma non sei qui
allora chiedo informazioni
a tutti gli angoli della mia casa,
cerco segni nascosti sotto i bicchieri,
faccio amicizia coi piccioni
perché mi dicano qualcosa,
offro da bere ai lupi, mangio coi gatti,
dormo sugli alberi
attraverso il deserto della cucina
in direzione del cielo
quando mi accorgo
che la bellezza è la foto sfocata di un prato
pieno di gente
ogni volta lo so, non sarei in grado
di resistere più a lungo
e faccio l’unica cosa che posso
per mia grande fortuna
i leoni da circo non scrivono poesie
*
scriverò i miei prossimi versi sulla carta igienica
così che possano sentirsi liberi di andare;
li butterò nel cesso, tirando l’acqua,
e poi li sentirò viaggiare dentro ai tubi,
sotto i piedi delle persone e migliaia di macchine in coda,
superando semafori, case, supermercati
continueranno ad andare come piccoli pesci
seguendo la corrente,
e arriveranno al mare,
sentendo il sole brillare forte
lasciandosi annegare al posto mio
*

Era una strana voglia di spaghetti al sugo
fra le tre e le cinque, fra tutti quei muri,
sotto tutto quel cielo, però se ascolti bene,
se ti metti d’impegno c’è ancora qualcuno
che parla malgrado la scomparsa delle cabine telefoniche:
ma le finestre in alto sono sempre più illuminate
se i ragni sul soffitto prendono ancora il tram numero [dieci,
se prima o poi ti toglierai le calze quando ti spogli,
se ad esempio d’autunno le foglie inizieranno
a fare marcia indietro dai marciapiedi ai rami,
ecco potresti raccoglierne un po’, portarmele in regalo,
fare finta davvero che la notte non ci resti
un qualcosa di troppo, un sacchetto bucato,
tutte queste faccende da nemmeno pensare,
da toccare, più piano, come una porta allarmata

 

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LETIZIA LEONE TESTI INEDITI TRATTI da “STRIGIARUM SYNAGOGA” con una Nota dell’Autrice sui lavori in corso: «Un olocausto di belle donne. Poesia storica o gotica, poema o frammento? Raccontare l’inquisizione o mettere in versi il “malleus maleficarum”?» – Con un Appunto di Maria Rosaria Madonna e un pezzo musicale di Eliane Radigue “Arthesis”

 

Escher Maurits Cornelis Drago

Escher Maurits Cornelis Drago

 

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le qualiRosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.
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Nota didascalica di Letizia Leone
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I testi che seguono sono stralci di un poema sull’Inquisizione “Strigiarum Synagoga”, dalla travagliata stesura e in continua evoluzione, scritto circa dieci anni fa dietro la suggestione di un’idea di poesia gotica e pubblicato in modo sparso su riviste e blog letterari.  La storia è drammatica, spesso sabotata nelle fonti (documenti giuridici, atti processuali, testimonianze scritte) e affonda le radici nello strato magmatico del folklore europeo, del racconto orale, delle favole, dei culti di religioni precristiane tanto che la materia da trattare poeticamente si è rivelata immensa e il lavoro artistico potenzialmente inesauribile.
Un work in progress alimentato da un’idea di poesia come archeologia dello spirito oltre che dalla passione per la Storia, ponte di collegamento alle sofferenze di una collettività anonima. Gli accadimenti e gli eventi funesti della grande caccia alle streghe che infiammò l’Europa, all’incirca fra il 1450 e il 1750, sono i dati freddi e superficiali di un nucleo sepolto di energie incandescenti, l’inchiostro vivo per scrivere una memoria delle passioni, dall’odio per le donne al terrore panico di un contadino nell’ora meridiana… ora di epifanie demoniache.
Un poema sulle “streghe” e la natura, perché se “gli otto milioni di donne sterminate dai cristiani furono l’ultimo atto di una guerra millenaria”, per citare Elemire Zolla, il loro massacro fu accompagnato dalla distruzione delle foreste e degli alberi secolari, ricettacolo pericoloso di elfi, fate, folletti. Altari pagani di feste lubriche.
Un “non-finito” che con il passare degli anni e il mutare del gusto estetico è stato sottoposto a molte verifiche di stile. Cambiamenti, integrazioni, smontaggi e assemblaggi oltre all’assidua cesellatura fonetica e lessicale hanno stravolto il corpus della prima versione in ottave. I versi presentati in questa sede sono il risultato di un’ultima riscrittura teatralizzata in una ridda di voci, cori o grida che salgono dalle sale di tortura.
Poesia robusta, carnale, scabrosa che utilizza miti, fiabe (ad esempio quella della Baba Jaga), risonanze dell’epica e progetti elusi di grandi poeti del passato come l’idea del Leopardi di un “Poema didascalico sulle foreste” intercettata tra le righe dei suoi appunti e realizzata in un capitolo del poema. (Pubblicato su “L’Ombra delle parole” il 9 Marzo 2015). Mi piace l’idea di lavorare sugli scarti, sulle “poesie non lette”, su intuizioni e frammenti dell’immaginario, sulle figure di confine come   Azzo dei Porci, giudice del sistema inquisitorio (nomen omen) che irrompe dalla storia   con le sue parole feroci, riportate fedelmente nei versi, e diventa figura colossale. Regalandomi una soluzione stilistica felice, un dono della realtà che (almeno in questo caso) ha superato la fantasia.
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cornelius escher la colomba

cornelius escher la colomba

Appunto di Maria Rosaria Madonna
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Ho ritrovato, tra le mie carte, questo appunto inedito di Maria Rosaria Madonna degli anni Novanta, destinato ad un articolo sulla rivista “Poiesis” che poi non trovò luogo. L’ho riletto più volte. Non so bene cosa significhi ma credo che possa benissimo andare d’accordo con la poesia di Letizia Leone.

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(Giorgio Linguaglossa)
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La poesia è linguaggio dell’insolenza e della fraude. Non credete ai falsi untori del perbenismo. Forse la poesia è più assimilabile al cannibalismo dello Spirito che ad altre attività del corpo mentale. Un ricordo sublimato e civilizzato di quell’ancestrale rito cannibalico. In ultima istanza, la poesia non può essere rapportata alla poesia se non dal punto di vista puramente storico sistematico; nella sua essenza è attività di fagocitazione di mondo, internalizzazione degli oggetti del mondo tramite il sistema segnico-simbolico qual è il linguaggio. Forse, alla base della Musa, v’è una fissazione della libido allo stadio della cloaca, ciò che nell’età adulta si converte in sublimazione, conglomerato degli oggetti internalizzati in spirito linguistico, in fame di mondo, seppure di un mondo ridotto a lacerti fonematici che rammenta il mondo reale come lo specchio da toeletta rammenta lo specchio ustorio.
Dunque, è chiaro, la poesia può sorgere soltanto come risvolto negativo della prassi. La poesia è risvolto negativo della prassi e specchio ustorio.
L’ostinazione onanistica al volo poetico (un privilegio o una dannazione?), con il senso di colpa che l’accompagna, rivela l’intima natura requisitoria dell’attività artistica, il legame intermesso e rimosso delle pulsioni subliminali che le ricollega al pene simbolico. Di qui la strafottente diffusione di essa pratica ai giorni nostri, pratica di massa, onanismo di massa. Di qui l’accusa, di matrice zdanoviano-pretesca all’attività poetica quale mansione insulsa e parassitaria ai fini della compagine del «Nuovo Mondo».
Forse, il «Nuovo Mondo» che abbiamo costruito si regge proprio sulla grande menzogna di una estetica di matrice zdanoviano-pretesca.

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Letizia Leone in recita

Letizia Leone in recita

Letizia Leone testi tratti da Strigiarum Synagoga

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Qui ci ha dilavato il male
Apritevi tende di piombo:
Ecco un Medioevo matto di malarie
Nostro tenebrore mattinale
Un coro rauco di arcaiche vestali
Prova per un teatro di fiamme.

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Letizia Leone in recita

Letizia Leone in recita

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Medioevo femmina.
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Le foglie sono amare ad una spremitura
Dei boschi. Scricchiolano
Sotto il passo centauro scorano succhi.
Dov’è la Cieca Omerica
In questo tetro Creato carcere dei frutti?
Un buco d’anima ogni verdura nell’Anno Mille
E veramente il libro freddo del cielo e del mondo
Non si legge nei chiostri, si straccia nei fossi.
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Questo il racconto.
Potrebbe iniziare dai fiori
Dallo scrutinio delle ghirlande nelle cucine
Dai fetori delle bolliture un Miserere per contorno
Da un olio che fa volare – antichi scongiuri-
Ma forse è bolla, obliquo sonno dove
Si vanno a seguire i morti nel loro ritorno.
Qui c’è: “Guerre!” un pensare greve, gli strigidi
.
Il giro girotondo di chimere e insetti
In quale spelonca casca il mondo
La ferraglia di notturni acuti
Non c’è inganno di false camomille.
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Le sorpresero così: in magicus sussurrus
A separare fiore da fiore e dolore
Dal dolore dal loro organo scabro.
Stirpi di donne al vento. Strie.
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Donne gracili spensero le braci mistiche
Dei Santi, esca e fomento di oscure
Dicerie. “Eppure sono cicatrici le nostre vulve
Vermiglie che bruciano accartocciate
Nel rammarico. E voi chiamate impurità
Di cuore il nostro soccorso? Serve noi siamo
Che calmano pazzie in forza di sudori infusi scorze
D’aria, l’effimero del mirto e delle viole.”
.
Bruma burroni perimetri spinati
Ai fiori ardenti si nega fiamma
Incanto di fate: fare le lodi
Di ogni pesca sbozzolarla dal fango
Metterla in festa. Immolarono su pane
Di sughero un dizionario lucido di erbe
Per poi alzarne il cuore, rifarne
Della creatura il Cantico o l’ingiuria.
.
“Incantagione!” gridano i cani luterani
“La femina bagascia a metà con gli alberi
E la schiena di corteccia!”. E Azzo dei Porci
“Ai ceppi” annotò “La divinazione no.
Non è permessa, pena la decapitazione”.
“E nella tortura” Azzo continuò “gli saranno
Scavati i fianchi con unghie di ferro.”
Troppo Cielo si apre alle sporcizie feminarum…
.
.
Tutti i numeri fuori dall’utero
.
Dispersi. Frammenti, indizi
Lettere perse: chi fa la cantilena, chi salta
Chi borbotta e muove solo la bocca
Chi si trascina come peso morto
Chi omette frasi e gli Inni sacri si sbrodolano
In versi di conigli, uccelli, cani. Al diavolo!
Sono avanzate liturgie di mille sillabe e bave
A questo labbro drammatico.
.
Bestie di sete: o donne
(se)
Abbandonata la caldaia del cuore
Dogmi pietrificati e testamenti d’argilla
Tavolette del dettato apodittico
Un tempio di foglia cruda erge le sue colonne:
I pensieri dritti e zitti delle piante.
Non questa liturgia che vi minaccia
Chiude le aperture ai vasi, i venti offende
Nelle nicchie.
Delle Madri più antiche il coro
“Al buio leggiamo alfabeti strani. Un lavorio
Di notte, aprire il forziere dei nomi
Superbi, accendere lo spirito di gelate
Carcasse. Un ardire. Qualcosa di vivo ci tocca
Altro sangue aspro di clorofilla. Eucaristia
Di sassi. Piccoli scettri ottusi della luce.
Nude graffiarsi. Essere donne.
Rinominare il mondo
Con la lingua rattrappita dall’ortica
Gli spettri escono a morsi. Qualcuno
Ai vegetali parla. Alle canfore.
Conosciamo le resine, la stilla che inonda.
.
La sparizione delle poesie non lette
Poche gocce mai avare di un millenario
Immacolato coro dalla pietraia,
Una guerra d’insonnia. Da cantare
Con piede equino. Custodire le bare dei semi
In barattoli le plutoniche forze
.
…ma tu scrivi
Scrivi un farnetico
“Il tu delle rose”
Di certe forme inermi e noi più a fondo.
.
.
Il Sabba, gioia atomica degli elementi

.

Colmi di luna
In notti cadute come pigne planetarie
Ogni vacca è regina
Tra ruderi e erbe stanche. Le danze
Vie diseguali e contrarie
Sono lampi. Con spuma di fogna
Si deterge il divino.
.
Si schierano tartarughe e anime basse
Di vermi muratori che remano dentro la terra
Tutt’intorno le rotazioni al fuoco
Di adoratrici sui tacchi. O fuoco
frate iocundo robustoso foco in calce lenta,
Un incendio di stracci.
Quali svolazzi di paglia spazzata la congrega
Si alza e più somiglia a un gatto.
.
Con zampe di gallo e fruste di sambuco
Si batte l’aura delle sepolture
Fiammiferi, fuochi i fatui i segni
Di visite spettrali: la processione
Di cadaveri legati ai cani
L’offerta è nei boccali. Un febbraio dei sepolcri
Vino mosto ma a quelli serve sangue
Dalla stazza fumante
Della Bestia.
.
Che strepito attorno alla pietra
Lenta d’altare. Con tutto il tempo
Che ha avuto per stare Disabitata.
Aprite! La Sepulchrorum apertionem
Esse noxiam: su aprite a vampiri
Beoni carne di maiale
A mosche e ramarri insieme ai godimenti
L’orgia è corrente fa lievitar le rocce strizza onde
Fin nella pietra
.
Si vola in plurimo e infinito corpo
Occhio di un altro nella reincarnazione
Dei sensi e voce in più di mille lingue
Suadente. Più in là
In silenziose vastità del sonno
Con un solo piede torto un solo occhio
La mazza lo zoccolo ecco risorto Pan.
.
Queste durezze invitano donne stellari
Ai troni cortei nuziali ai cori, siete morti?
Allora succhiate sangue ad arte
Che il diabolus è alcolico
Una caldaia. Vescica gonfia. Vampa della malora
E festa dei crepati!
.

M.R.Madonna

M.R.Madonna

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata coniugata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento.
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(nota di Giorgio Linguaglossa)

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Giuseppe Conte POESIE SCELTE da “Poesie 1983-2015” Oscar Mondadori pp. 372 € 22 “Il progetto novecentista del poeta ligure”, il “Grande Progetto”, “La fuoriuscita dal Novecento”, “La funziona risarcitoria e salvifica della poesia”, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

mimmo paladino matematica

mimmo paladino matematica

Nato nel 1945 a Imperia, Giuseppe Conte si è laureato nel 1968 all’università statale di Milano. A Milano per Feltrinelli pubblica nel 1972 il saggio La metafora barocca. Ancora a Milano pubblica la sua prima breve raccolta di poesie L’ultimo aprile bianco (Società di poesia, 1979) seguito dalla più ampia raccolta L’Oceano e il Ragazzo (Rizzoli, 1983). Insegnante di lettere in una scuola superiore di Sanremo, Conte si è dedicato sia alla traduzione (da Whitman, Blake, Shelley e Lawrence) sia alla narrativa nella quale dopo l’esordio con Primavera incendiata (Feltrinelli, 1980), pubblica Equinozio d’autunno (Rizzoli). Nel 1988 presso la Biblioteca Universale Rizzoli pubblica la raccolta di poesia Le stagioni. Negli anni Novanta, dopo aver abbandonato l’insegnamento intensifica l’attività in prosa con i romanzi: I giorni della nuvola (Rizzoli, 1990), Fedeli d’amore (ivi, 1993), L’impero e l’incanto (ivi, 1995) Il ragazzo che parla al sole (Longanesi, 1997) e Il terzo ufficiale (ivi, 2002); con i saggi: Il mito giardino (Tema celeste, 1990), Terre del mito (Mondadori, 1991) e Manuale di poesia (Guanda, 1995) contenente riflessioni sul comporre in versi; con le antologie poetiche: La lirica d’Occidente. Dagli inni omerici al Novecento (1990), La poesia del mondo. Lirica d’Occidente e d’Oriente (ivi, 2003). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Dialogo del poeta e del messaggero (1992 e Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) entrambe edite da Mondadori, seguite da Nuovi canti (San Marco dei Giustiniani, 2001). Nel 2015 esce il volume Poesie 1983-2015 negli Oscar Mondadori.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il progetto novecentista della poesia di Giuseppe Conte. Il Grande Progetto

Gli anni che hanno fatto seguito al ’68 hanno visto la poesia con la “p” maiuscola eclissarsi in un fenomeno di massa. Era accaduto che lo sperimentalismo aveva aperto i rubinetti dell’improvvisazione e dell’interludio. La poesia diventa un fenomeno di massa, col risultato che un sempre maggior numero di autori si auto definisce poeta, ci si comporta da poeti, si richiede la dicitura di poeta. E la poesia rinasce come «poesia-confessione», «poesia della contestazione», «poesia dell’opposizione», «poesia visiva» «poesia corporale», come se il sostantivo da solo non bastasse a designare quella cosa misteriosa che si traduce in tanti vestiti linguistici che replicano le mode del momento in base ad una eclettica euforia espressiva, esibizione narcisistica, stilematica postavanguardistica ormai priva dei freni inibitori dello stile. Il Postmoderno fa irruzione nella società di massa, massificando ed omologando anche la poesia, anzi, rompe gli argini della forma-poesia della civiltà letteraria che si stava congedando, quella, tanto per intenderci dei Montale, dei Pasolini, dei Luzi, per dar luogo ad una pseudolirica informe ed abnorme. Anche Pasolini e Montale contribuiscono, indirettamente e contro la loro volontà, a favorire questo processo col non-stile dei loro ultimi libri e l’adozione di un «parlato» pseudo giornalistico. La prima fotografia di questo pubblico di massa che bussa alle porte della poesia è datata 1975 con l’antologia Il pubblico della poesia, nella quale i giovani curatori, Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, inseriscono un gran numero di autori diversissimi per stile e per maturità poetica. Si narra che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni degli autori inseriti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come notò Berardinelli, era visibile una dimidiata coscienza critica degli autori inseriti, ciascuno di essi si credeva poeta per il solo fatto di esserci. Si era in presenza di una democrazia poetica del tutto autoreferenziale. I presupposti, come notò Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

In questo contesto, l’autopromozione diventa una attività a tempo pieno per quegli autori che vogliono differenziarsi dalla massa, ad essi spetta il premio della canonizzazione editoriale, un cronachismo lirico sempre più pervasivo egemonizza la koiné poetica colta. La «poesia privatistica» e l’autoreferenzialità delle pose poetiche di molti autori di punta monopolizzano il gergo poetico che diventa qualcosa di refrattario al senso dei lettori e, soprattutto, diventa un linguaggio corpo separato, un linguaggio per iniziati da profferire durante il rito sacro della rappresentazione orale. I poeti diventano la personificazione di atti di fede, e si comportano anche come tali. Surrogano la un tempo rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, pose, liturgie, conformismi. L’aura perduta del testo viene interpolata e sostituita dal mito dell’Autore. L’Autore diventa il testo.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È in questo giro di anni che si forma la personalità intellettuale di Giuseppe Conte. La reazione del giovane poeta alla democratizzazione della poesia  è immediata e perentoria: rifiuto della massificazione della poesia e la ferma decisione di riproporre una poesia esoterica, mitica, panica, mitomodernista, innica che saltasse la democrazia lirica del decennio precedente per riagganciarsi alla tradizione del D’Annunzio dell’Alcyone, al Foscolo mitico e neoclassico, insomma alla più alta tradizione poetica italiana. Organizza  numerosi episodi mitomodernisti, tra i quali ricordo il convegno “La nascita delle grazie”, un evento organizzato a Riccione dai poeti Giuseppe Conte, Rosita Copioli, Mario Baudino, Roberto Mussapi, Tomaso Kemeny e da Stefano Zecchi. Il poeta ligure ripristina e persegue una poesia che inglobi in sé il Mito e lo «spirito dell’utopia». Scrive Conte nel Manuale di poesia del 1995: «la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse». Il Novecento è «un secolo di nulla e di morte» (Lettera, 2000), di qui la sua polemica contro quei critici, come Ferroni, che teorizzavano negli anni Novanta una «poesia postuma», Conte polemizza contro la povertà della poesia, contro la demitizzazione della poesia, scrive che «la poesia non è mai stata postuma» (Poiesis 1997), e rivendica per essa un ruolo di guida, una funzione alta. Le Muse «sono correnti di energia vivente che ci richiamano il brivido sacro da cui tutte le arti nascono, lo scandalo, la persistenza del divino nella nostra mente (…) il poeta incontra le Muse ed ha commercio con loro». (Manuale di poesia)

Il primo libro di Conte, L’oceano e il ragazzo (1983) viene salutato da Calvino e da Citati come un libro di svolta della poesia italiana. Vi si trova tutto quello che caratterizzerà la poesia del poeta maturo: il mito del mare e della gioventù, il mito della natura, della fauna dei boschi, il tema del vento etc:

Ho dimenticato tutto, scrivo
perché dimenticare è un dono: non
desidero più che alberi, alberi, prode
di vento, onde che vanno e tornano, l’eterno
rinascere sterile e muto delle
cose

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È una novità per la poesia italiana. Il timbro delle parole musicali, la voce antica ed austera, la positura certo non demotica, il tono oracolare-prosodico, tutto ciò viene subito interpretato dai contemporanei quasi come un’offesa alla poesia che si faceva in quegli anni, perpetrata ai danni di un pervasivo sperimentalismo. E poi il giovane poeta non perde occasione per sostenere le proprie tesi, di entrare con decisione nelle discussioni sulla poesia, ovunque se ne dia una occasione. Oggi, con il senno degli anni trascorsi, sopite le polemiche di quegli anni, possiamo tracciare una quadro più ponderato della poesia di Giuseppe Conte. Quella poesia era una novità, ma una novità che guardava al passato, che operava uno strappo e una ricucitura con la tradizione recente. Oserei dire che, paradossalmente, la poesia di Conte diventa oggi riconoscibile per via della sua irriconoscibilità; la sua lirica endecasillabica che apparve negli anni Ottanta una provocazione, in realtà riecheggiava quella della alta tradizione del primo Novecento, Conte gettava a mare tutte le impalcature ideologiche che gli ingombravano il passo e si lanciava, lancia in resta, contro le disordinate retroguardie degli sperimentalisti e degli epigonismi rilanciando una funzione risarcitoria, salvifica della poesia di contro alla cultura della barbarie e dello scetticismo.

Il successo arride da subito alla controproposta di Giuseppe Conte che, in una certa misura, viene incontro ad un bisogno diffusamente sentito di reazione alla invasione del post-sperimentalismo. Inoltre, Conte è anche un abile regista di una guerriglia a tutto campo contro le parole d’ordine ormai consunte degli sperimentalisti. E anche questo è un punto decisivo a suo vantaggio, coopta nella sua battaglia per la Bellezza e il Mito una numerosa schiera di poeti e di letterati e ne diventa l’alfiere e il condottiero. Fin qui la strategia pubblica. Per la poesia il discorso da farsi è più sfumato, quell’endecasillabo sonoro e modulato che il poeta ligure adopera con perizia acustica, è il portato di una tradizione illustre, il prodotto di una tradizione lunghissima che affonda le proprie radici fino alle Rime del Petrarca. Non apre una nuova stagione della poesia italiana, piuttosto la chiude, prosciuga i pozzi della tradizione lirica traducendo quella forma lirica in forma lirico-prosodica. Alla fine, al poeta ligure resterà uno stile inequivocabile, distinguibilissimo, maturo, un endecasillabo articolato, ricco di aggettivi e di sfumature coloristiche e acustiche, che non può, però, più essere sviluppato dall’interno, uno stile che d’ora in avanti si prolungherà, oserei dire, grazie alla propria forza d’inerzia. Infatti, le poesie del primo libro non presentano elementi di distinguibilità rispetto agli inediti di questi ultimi anni posti in calce al volume, segno che non c’è stata una peristalsi interna, non si sono verificati sviluppi in quello stile mirabilmente acquisito.

Il mio gusto personale guarda con interesse e favore alla poesia dei Canti d’Oriente e d’Occidente (1997), in particolare nelle parti in cui il poeta ligure abbandona il suo endecasillabo sonoro per abbracciare una forma prosodica aperta, la forma innica però dimidiata con l’ausilio di un pedale basso, quasi prosastico, con il che fa scaturire attriti tra la frase nominale piana e diretta e l’andamento della forma innica che tende a far lievitare verso l’alto il tonosimbolismo della frase nominale. È il modo personalissimo con il quale Conte whitmaneggia e omereggia, assume la posa e la voce del bardo, gonfia il petto e parla gridando a pieni polmoni. Ecco l’incipit del poema «Oh Omero, oh Whitman”:

Oh Omero, oh Whitman, che cosa celebrare, e come posso io ora celebrare, oh mondo, oh notte!

Come posso alzare questa voce avvilita, come posso riempire le cavità dei miei polmoni rattrappiti

e farne due cieli gonfi di nuvole che volano e di foglie invase e rose dall’autunno

e dire «io sono il poeta, il distruttore, io sono il poeta, colui che salva»

e vedere ancora con quale elastica immobilità gli alberi sono intermediari tra l’azzurro e la terra

e mettere il loro ritmo nella carne e nel sangue di un verso – perché ha sangue e carne un verso –

e sentire le città che si offrono alla poesia come una bocca si offre a mille altre bocche in un bacio

e possedere le strade, le piazze, le automobili, le insegne della pubblicità, i grattacieli, le chiese

i ponti, le strade, le cupole, le colonne, i portici, i tetti, i grandi magazzini, i cinema

essere tutti i passanti, i negri, i cinesi, i maghrebini, gli indiani, i rasta, i vietnamiti, gli slavi

sentire tutto vivente come potrebbe essere se in noi la nostra anima cantasse ancora, oh mondo, oh notte!

E io, l’uomo più arido, più solo, io che non credo, io che conosco le vie della disperazione

e io, l’uomo più arido, più libero, io che non faccio nient’altro che fermare parole su un foglio

come potrò aggiungere le mie parole alla distruzione – perché la poesia è rovine, resti, ormai

Non sono d’accordo con chi, come Giorgio Ficara, nella prefazione al volume, individua nella poesia di Conte «una poetica ostinatamente antinovecentista», anzi, al contrario, direi che la ricerca del poeta ligure si è mossa ordinariamente tutta all’interno del Novecento, con l’accortezza di ritagliarsi un proprio segmento di esso che da D’Annunzio passa per Sbarbaro di Pianissimo al Montale degli Ossi rivisto e corretto tramite un «riduttore» narrativo ospitando il traliccio del racconto mitico, per arrivare ad un neoclassicismo tutto suo. C’è, è innegabile, una continuità novecentista, non vedo l’utilità ermeneutica di doverla negare o dimidiare.  E in questa continuità sta, a mio avviso, la forza e il successo del magistero stilistico di Giuseppe Conte. Indubbiamente, quel progetto stilistico di «uscire dal Novecento» (Poiesis, 1997) caldeggiato in più occasioni dal poeta ligure, rimarrà una nobile aspirazione, quel progetto di sortire fuori dal «conformismo dell’arco costituzionale della poesia italiana» (Poiesis, 1997), è rimasto un progetto incompiuto, e non poteva essere diversamente, in considerazione che la via imboccata e perseguita da Giuseppe Conte era tutta all’interno della poesia novecentesca. Per quel Grande Progetto è mancata la forza e la profondità dello strappo, ma, probabilmente, non poteva e non può un poeta singolo, anche il più grande, operare uno strappo di tale portata. Conte ha tentato una rifondazione del linguaggio poetico, ma i tempi non erano forse maturi per questo progetto. Siamo arrivati ormai ai giorni nostri, e quel Grande Progetto, lucidamente intravisto dal poeta ligure, è rimasto incompiuto ed attende ancora oggi chi possa incaricarsi di doverlo riproporre.                                    

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Parole estranee a sua moglie

Saranno state le due le tre l’altra
mattina quando sono entrato nel letto e ti ho
parlato. Tu dormivi e ho premuto la
mia palpebra contro la tua calda. Volevo
dirti parole che ci sono estranee, quelle
dell’amore che eterna: era tragica
la mia resa: le regole del gioco cadute. Così dietro
le nostre palpebre non gli occhi, le orbite. Le
nostre dita di pietra i nostri fianchi fondali e
laghi i nostri piedi fluiti e ormai viticci
e nidi per le civette. Non saremo più
insieme. Non ne parleremo mai più. Futuri
venti soffieranno sulle nostre finestre dal mare
lontano noi saremo topi meduse
fiori.

Animali etruschi

Entrano nella morte con i capelli
raccolti dietro la nuca, in un sorriso
prosciugato, abbandonati
su un fianco, inclini a scendere
senza ricordi, hanno mani
estranee, cadute; in molti reggono
lo specchio dentro la destra.

entrano dove non si muore più. Traversano
buio e profondità. riaffiorano
sugli orli di un mare smosso da delfini
volanti, da draghi, da quadrighe
di grifoni.

Non fu un «uomo» questo che vedi sgretolato
in foglie, cortecce, calcinacci, intorno
a un teschio. Fu gioia senza nome, leggera,
di pietre, di ali, di sole.

*

Il grifone dal becco d’aquila, dal corpo
smagrito, più di cane che di destriero,
calato sul dorso del cervo tenero
lo divora.

Ha dorso arcuato il cervo, gambe
di canna. Cade eppure non piange. La sua corsa
finisce davanti al silenzio
di un albero – foreste
nascono da un solo albero, avrà acacie
d’oro e mattini per sé ancora.

Il grifone ha occhi vuoti, ali
ferme, randagio ma ormai di pietra;
non odia, non vuole nulla, non sa
perché: uccidere per lui è un sogno
inevitabile.

Che cos’era il mare

Che cos’era il mare? Aveva
code d’acqua e zampe d’acqua tra le
rocce, levigava i ciottoli, faceva
sigle di luce sulla sabbia: era
profondo ma insensibile, si diceva, e
celibe, individuale, sterile.
In onde riottose o calme
maree saliva e discendeva, circondava
le terre, lui lunare, lui freddo, irriducibile
nel suo votarsi al movimento e all’aridità.
Le navi lo solcavano in lunghe scie.
Ora si è persa la memoria delle tempeste
e dei fari, dei velieri e dei transatlantici, dei
naufraghi, dei carichi di porpora e
di carbone, di Tiro, di Londra.
Era profondo ma insensibile, si diceva, dimora
delle conchiglie, delle famiglie dei
pesci, estinte, ora: aveva fondali viscidi, crateri e
alghe, e coralli.
Tagliava i promontori, reggeva le isole.
Giocava, lui muto, sprezzante, inservibile,
felice nei suoi movimenti
vitali.

da L’Oceano e il ragazzo, Rizzoli, Milano, 1983

Giuseppe Conte cop

Riaverti

È così facile riaverti?
ritrovarti anche dopo l’abbandono
dopo che ti ho derisa, che ti ho detto
odiosa, e che imputavo a te la grazia
mancata di ogni carezza e di ogni bacio.
Oh, allora lo volevo essere un daino
solitario nell’alba, che sa puntare
le narici al tepore di calendula
dei primi raggi. E ti scacciavo, come
se tu fossi infedele al mio desiderio
tu che di tutti i desideri sai
la fonte. Ora sei tornata.
Sei nuova e sei con me, vicina,
anima.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Alle origini

Riaverti così, sentire
in me che tu sei simile
al vento e agli anemoni.
Alle origini. Riaverti
dopo il tempo dell’abbandono
dopo gli oltraggi e l’odio
senza pentimenti, senza perdono.
Sono stato lontano da te
per anni come uno che
vuole essere solo, più
solo di un muro diroccato
più immobile di un sasso
che non lambisce il mare.
Poi abbiamo incominciato a viaggiare.
Dove ci siamo incontrati,
anima? In che piazza di
città, in che prato,
in riva a che torrente?
E ora sei qui, da sempre
simile al vento, ai fiori, ai vulcani.
Alle origini.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

In endecasillabi

A sedici anni, lettore poiché era giusto
allora soltanto di Catullo e di Shakespeare
scrissi per una compagna di liceo
versi come «Nessuna donna mai
fu amata tanto,/ quanto tu sei…»
Dio, non sapevo niente di donne, di amore.
Quella ragazzina bruna, dalle labbra
sporgenti, gli occhi grandi come
due albicocche, ci erano usciti tutti
con lei, fuorché io, il suo cantore.
Io la guardavo, sperduto. Come avrei
voluto abbracciarla, tempestarle
il capo di quel segreto che erano i baci.
Io la guardavo a scuola, per strada,
la domenica alla messa nella Chiesa
detta dai frati. Poi tornavo a casa, aprivo
i libri, Lesbia, Rosalinda, Ofelia
e lei, e i sogni su lei, in endecasillabi.

.
Pallide, cedevoli ragazze inglesi

Da ragazzo, quando mi apparivano
polvere e assurdo il mondo e il mio volto
né alberi né mare mi parlavano.
Non sapevo come chiamare
le agavi torreggianti, il rosso raccolto
in spighe dell’ aloe, non avevo
occhi per loro. Ma leggevo i poeti.
E amavo pallide, cedevoli
ragazze inglesi. Le sognavo nei quieti
e lunghi pomeriggi d’inverno, ricordavo
i baci ricevuti e quelli promessi
e se l’angoscia – quella ineludibile
angoscia d’esser vivi, cui forse è pari
soltanto la gioia in intensità –
se non mi soffocava allora, era per
loro, Mallarmé, Baudelaire,
per la loro musica vera,
e per le pallide, cedevoli ragazze inglesi.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Lo Specchio” Mondadori, 1992

mimmo paladino

mimmo paladino

C’è una dolcezza giù nella vita
IX
C’è una dolcezza giù nella vita
che non cambierei con niente
di ciò che appartiene al cielo.
È quando chissà da che, perché cominciano
fra due bocche estranee sino ad allora
i miracoli tiepidi d’aurora
dei baci.

da “Canti di Yusuf Abdel Nur”, in “Giuseppe Conte, Canti d’Oriente e d’Occidente”, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1997

1

Non finirò di scrivere sul mare.
non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.

e se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.

Inedito da Poesie (1983-2015) Oscar Mondadori 2015

Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino Gezim Hajdari 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” aprile 2015 Bibl Rispoli

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. nel 2016 cura l’Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, sempre nello stesso anno pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com

e-mail: glinguaglossa@gmail.com

14 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia, Poesia contemporanea, poesia italiana del novecento

DIECI POESIE di Domenico Alvino da “Thauma Donna Domina Domus Prima” Loffredo Editore, Napoli 2014 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

  Commento di Giorgio Linguaglossa

Domenico Alvino è nato a Luogosano (Avellino) nel 1934, vive a Roma. Nel 1992 pubblica Il suono d’ombra e, nel 1996, Dove si formano le piogge (Amadeus, prefazione di Maria Luisa Spaziani). E’ autore di numerosi saggi sulla poesia contemporanea ed è’ stato redattore diPoiesis”. Domenico Alvino è poeta del disincanto, ovvero, della indirezione. Ma tra indirezione e disincanto v’è una relazione evidente nella misura in cui la perdita dell’orientamento, e quindi della direzione, produce quella particolare attitudine psicologica e gnoseologica al disincanto. L’aria inorientata (Roma, Scettro del Re 2002) è il titolo di un’opera che porrà stabilmente Domenico Alvino tra i poeti più promettenti degli ultimi anni. Tenterò di spiegarne le ragioni. Il disorientamento è una condizione psicologica dell’uomo nel mondo moderno, non soltanto un privilegio del poeta; diciamo che il poeta ha anche a che fare con il problema delle parole instabili, anche le parole hanno perduto il loro luogo, non sanno più dove abitare e sono divenute instabili; ne segue che il poeta che voglia conquistare il suo linguaggio deve meditare per forza di cose sopra queste problematiche. Alvino tenta di dare una risposta mediante la costruzione di una poesia modernista, cioè prende le mosse dall’inizio del Novecento, dal linguaggio eburneo  del D’Annunzio, lo travasa nel magma linguistico del parlato quotidiano dell’Italia degli anni Novanta, lo agita e lo ricompone, come per magia, in un dettato asciutto e scombiccherato, dalla sintassi claudicante ma lampantemente chiaro ed efficace. Poeta modernista, Alvino abita il Moderno con la consapevolezza di un argonauta dello Shuttle. Cosciente di essere un epifenomeno dell’interminabile linea epigonica delle poetiche degli ultimi vent’anni, Domenico Alvino reagisce con vigore, descrive con inaudita circospezione la deriva fenomenica del disincanto, proprio quando il sortilegio universale imperversa, costretto e spintonato entro la linea di demarcazione dell’esaurimento delle poetiche post-sperimentali e post-orfiche del tardo novecento. Tra ironia e disincanto, dopo il diluvio dell’ipocrisia i suoi personaggi vanno avanti e indietro, vagano, si interrogano, chiedono ma tutto è chiuso, sprangato, le saracinesche abbassate, i fili tagliati. Leggiamo una sua poesia:

E’ scuro, non si vede niente qui./ Non entra mai nessuno. La vita / si svolge nelle stanze basse./ Accendi. Ma che cosa./ Hanno tagliato i fili. Tanto/ non serviva. Una finestra almeno./ Me le hanno chiuse. Murate./ Ma quando. Mah, sarà un anno / o due, o venti. Non ricordo./ Furono quelli delle tasse

  Non c’è dubbio che la sintassi franta, la composizione paratattica, le unità di articolazione quasi del tutto assenti costituiscono gli elementi fondamentali dello stile. La punteggiatura fitta ed irta, divide e taglia le unità della proposizione determinando quel caratteristico moto a singhiozzo, stop and go, l’andirivieni continuo ed asfissiante tra la retromarcia innestata dalla punteggiatura e la spinta inerziale della sintassi; senza dimenticare che il linguaggio svaria da neologismi di impianto dialettale di Luogosano a lessemi di un italiano colto ormai caduto in disuso. Il senso di disorientamento che coglie il lettore dinanzi a questo stile è del tutto giustificato. Alvino vuole rendere tattilmente, lessicalmente evidente questo spaesamento generale del linguaggio, privo ormai delle coordinate giustificatrici della tradizione. I suoi “interni” sono tutti disturbati da eventi atmosferici e da una sismografia generalizzata del lessico così da generare uno smottamento sotterraneo dei significati senza ricorrere all’ausilio di alcun gioco dei significanti. E questo è importante da sottolineare per tracciare una sicura linea di demarcazione tra le operazioni di matrice post-sperimentali e quella portata avanti da Alvino. Inoltre, gli “interni” di Alvino sono costruiti giustappunto con la tecnica del “giallo”. Il poeta di Luogosano dissemina il testo di trappole semantiche, di sviamenti, di nascondigli lessicali, di divagazioni e di sospettosità: qualcosa deve avvenire, c’è il presagio, c’è l’iter del delitto avvenuto o che sta per essere compiuto (ma da chi?). Il testo è straordinariamente tattile e duttile e straordinariamente incerto ed ambiguo. In questo compito Alvino non concede quasi mai nulla al lettore, non indulge mai alla seduzione del testo, non consegna mai laccature o cromatismi, disdegna eufuismi ed eufemismi e preferisce sempre indicare chiaramente le cose, le sue proposizioni sono dichiarative; proprio come il linguaggio giudiziario procede mediante enunciati dichiarativi quello di Alvino si dipana mediante microcitazioni dichiarative, le quali  assemblate ed assiepate le une accanto alle altre, invece di generare un testo normativo, produce, con somma sorpresa, un messaggio sommamente ambiguo proprio per l’incidentalità e la molteplicità delle informazioni in esso contenute. Qua e là affiorano relitti dello stile gnomico: “Il deserto è inoltre improvviso e violento/ e spiana foreste nel sangue e accumula pietre nell’occhio” 2), ma si tratta appunto di reperti archeologici e, per forza di cose, proprio in questi frangenti il linguaggio dell’autore si arricchisce di metafore come per  dissimulare la nostalgia per un linguaggio pienamente significante oggi inattingibile. Leggiamo ancora una poesia inedita intitolata Il banco dei pegni:

Adesso andiamo, aspetta, un momento / Solo che smetta di piovere./ Quasi non c’è più vento. E poi chi ti dice che chiude / Il Banco. Asciugati le guance. Aggiusta i capelli // Ecco. Faremo a tempo. Ha già spiovuto. C’è solo qualche goccia./ Il guaio sono le pozzanghere. Devi andare da una pietra all’altra./ Scegli le più lisce. Questa forse… o l’altra lì. Hai suole sottili (…) Vieni. Si vendono calosce, qui all’angolo. Fa piano t’inzaccheri./ Adesso è bello il tempo. Vieni. Il Banco è vicino./ Sotto quell’insegna al neon./ Spenta.

Questa retorizzazione è il prodotto del carattere non vincolante degli enunciati legati/separati dalla categoria dell’inferenza. Ogni enunciato porta con sé l’alterità, si presenta come flusso in divenire del sistema degli enunciati. Essi rimandano, in ultima istanza, mimicamente e mimeticamente, annunciano, sornionamente e lacanianamente al fatto che anche l’inferenza finirà un giorno per indebolirsi a causa della presa d’atto della non-identità e della propria costitutiva paradossalità. Poesia intimamente drammatica questa di Alvino per questa invasione della paratassi, per questo azzoppamento sintattico e semantico, per questa deglutizione del flusso dichiarativo dentro il buco nero della significazione.

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

 Indice

Tra ombre annunziando l’alba
Di notte incontra una sconosciuta. 17

Con qualche filo di nebbia
case forse o frantumi
silenziosi precipitavano
restando fitti in piedi:
mi sorpresi a camminare in fretta
sotto le stelle impallidite
tra ombre annunziando l’alba
venivi piccola da parere altra
cosa ammantata d’alba
o del risveglio di luci
assopite per le vie del sole:
ma eri chioma e mantello
neanche un po’ di volto
lontano
avvicinandoti poi
sotto le ciglia candore
che solo uno sguardo feriva o filo
di sospetto forse:
ma io raccoglievo frantumi
di desiderio
intorno all’ambio sinuoso
non altro in quell’ultimo lembo
di notte che moriva
e di cielo.

.
(Anni Sessanta).

Tu eri
Per la stessa: nostalgia. 27

Oh, dove
sei
tu eri e le cose no
la strada, il silenzio del vento
sotto il mio essere quel momento
tu
eri in quel mentre lì d’allora.

Mercoledì 27 ottobre 2010.

 by the meg-booby Tura Satana. I love how she looks in the film - all huge tits, huge arse with teeny wee waist, clad in black high waisted jeans and leather gloves.

by the meg-booby Tura Satana. I love how she looks in the film – all huge tits, huge arse with teeny wee waist, clad in black high waisted jeans and leather gloves.

Fulmine e lampo perduto
Di Adamo ed Eva, appena lì nell’Eden,
che si dicono di sé. 28

Che c’eravamo
un cercare l’un nell’altro
un tempo
vuoto
da compiere dell’altro
l’uno
e nessuno
c’era in quel noi
lì assetato di presenza
per anni
il pensiero s’era calato in alture
altre da quelle dove noi
lampi
ci eravamo
nel nostro fulmine
accesi
che ancora
Mnemosine protraeva
nel mare del possibile
tenuto aperto
in noi.
Eccolo di nuovo ora
che
l’un venuto all’altro
l’uno è dell’altro il lampo
e siamo
unicamente siamo
un solo eterno lampo
sopra il nulla
sùbito…
e…
spentosi
forse l’un nell’altro
non ci quieteremo
nella nostra voglia eterna
inadempiuta
ché avrà la nostra carne
senza il pensiero attinto
e perduto
ch’è un lampo
la vita.

Roma, 25 giugno 2011.

Lontananze
Tra sogno e dicerie. 34

Ci sono luoghi
a Bologna o altrove
ristoranti o salotti o sale di conferenze
o di ballo o spiagge
anche lì fra terra e luce
dove arrivando una donna
manda intorno un po’ di sguardo in cerca.
E trova
che l’aspettava
uno come un cieco smarrito
una mano
che lo indirizzi.
Vi lega una ministoria
fatta di cenni e sguardi
una stretta, un sorriso
un affaccio l’uno dentro l’altra
un annuso d’incavi,
di secrete
come una volta da ragazzo
nella falegnameria
stando al buio
e lei tutta offerta in luce
d’una ministoria
portata via dall’ombre
come altre poi
fatte miseramente
cadere.

I presenti intanto
se ne sono andati uno ad uno.
Il locale sta per chiudere.

Roma, 26 gennaio 2006

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer's cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards' trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection  Rex Features Everett Collection

Faster, Pussycat! Kill! Kill! Russ Meyer’s cult sexploitation movie inspired Cullinan Richards’ trip to Scunthorpe Photograph Everett Collection Rex Features Everett Collection

Tra i capelli ritinti
De bicodulis femininis. 110

Un vento è
tra i capelli che tingi
pezzi di buio ne cadono
d’attorno i sorrisi al serpe che sorride.
Come può succedere
che metta un piede
sul capo di chi le onora
come
lo accarezzano mentre
dicono amore
a chi di coltello cercano nelle viscere
il punto della vita
come
così ridenti che
angeli prigionieri
vi svolazzano e poi ecco
la loro letizia smuore
e vogliono la fuga…

Novembre 2011

Dolore
Parole da dirsi dall’innamorato all’amata che lo ricusa. 131

Questo dolore
edificato
un me edificato
con un terrazzo senz’aria
finestre appena murate
e oblò che dicono di mare chiuso
con l’aria che si chiude il respiro appresso
questo dolore calotta
esposta
alla canicola
questo dolore con fondamenta
dure
sale rampe ripide
poi di lassù s’insacca quale
anima di ferro
in cemento
in cemento
questo dolore
di te.

Roma, 6 ottobre 2011.

Domenico Alvino

Domenico Alvino

Amore che presta ali
Idem eidem de eodem. 132

Se lo fai uscire poi
tutto crolla
sta un po’ in caduta
sospeso
altissimo
e poi precipita che non lo raccogli
di secolo in secolo che sarai
pensiero
d’uno o di alcuno
maculato di tale desiderio,
di te stesso
abbandono a tale
reiezione…
Ma quale
crepuscolo di idee ora ti abbruna
verso quale buio
che non vedi o riconosci più
amore
che ci presta ali.

Roma, 6 ottobre 2011.

.
Il giorno dei morti
È lei che attiva e disattiva la vita. 158

È finito il tempo
disse al mattino seduta sulla sponda
è finito
il tempo. Io
non dissi niente
mi alzai e me ne andai
e smisero gli uccelli
mi uscirono dalle vene
dei morti
mi morivano ancora
nei polsi
i vivi non avevano un respiro
solo
morti nomi giù
nei tèndini
me ne andai
alla deriva
per dimenticanze.

Roma, 26 aprile 2004

domenico alvino

Sotto il biancore di pelle

Dov’eri
che non ti vedevo
sotto il biancore di pelle
il lampo d’occhi azzurri
o neri
sotto
i fianchi melodiosi
i capelli, la bocca
dove morivo
annebbiandomi in tremori.
Dunque eri lì nascosta che non
ti vedevo
e fuggivo via
e nessuna mi trovava.
Ora sono qui orfano e
vedovo e
monco e fiato senza
un getto.
E invece tu ancora
dove sei
forse su una stella persa
che non mi senti.
Anzi la voglia ti è passata
e punti a un Dio
che si cancella
e ti cancelli.

Roma, 25 dicembre 2007

Sera sul piede
Dante, in sospetto, a Beatrice, o Petrarca a Laura, 168
come fosse Nino a Semiramis, “che a vizio di lussuria fu sì rotta…”

Io e te da soli mai
fu che avvenne l’alba
e poi giù sera
sul piede
oltre la soglia
era il cuore oltre il muro
tu nel chiuso lì
lontana
quanto stella persa
tra satelliti
cupidi
rantoli
io ne sentivo
di parole e gemiti…
Negli occhi
mi si alzava grande
un letto
in uno specchio
nudi
diavoli
proni
avanti altri a battere ad arieti
e tu maestra indotta
a ridere sotto i colpi
o da parte lì schiusa
al tuo rantolo
fino
al culmine lancinante.

Roma 29 ottobre 2011.

Domenico Alvino nativo di Luogosano (AV), ha insegnato lingua e letteratura italiana e latina nei licei della Capitale, dove risiede, ed ora svolge attività di poeta, scrittore, saggista e critico letterario. Ha fatto esperienze teatrali da studioso, autore, interprete e regista. Nel 1973 è stato recensore letterario del quotidiano «L’Unità». Ha elaborato un dispositivo di analisi critica, denominato “critica operazionale”, il cui saggio fondativo, col titolo Poesia e riscrittura di poesia: un modello teorico, è pubblicato su «Aufidus», rivista di scienza e didattica della cultura classica, anno XIII, n. 39, Kepos Edizioni, Roma, dicembre 1999.Ha tenuto conferenze in varie sedi universitarie italiane ed estere su problemi di teoria, storia e critica letteraria, di politica scolastica e di didattica applicata agli studi classici.
Da critico militante, è stato redattore della rivista “Pòiesis”. Suoi testi (recensioni, saggi e opere di poesia) sono altresì apparsi su diverse riviste e quotidiani, quali «Otto-Novecento», «Critica letteraria», «Gradiva», «Riscontri»; «La Mosca di Milano»; «Galleria»; «Fermenti»; «Cartevive», «Ambra», «Altro Parnaso», «Atene e Roma», «Nuova Secondaria», «Il Tempo». Oltre a vari componimenti apparsi occasionalmente su riviste, i libri di poesia pubblicati sono: Il suono d’ombra, Ragusa, Cultura Duemila Editrice, 1992, con prefazione di Concetta Fiore; Dove si formano le piogge, Cittadella (PD), Nuove Amadeus Edizioni, 1996, con prefazione di M. L. Spaziani; L’aria inorientata, Roma, Lo Scettro del Re, 2001; Thauma Donna Domina Domus Prima, Loffredo Editore, Napoli 2014, prefazione di Giangiacomo Amoretti. Dei critici che si sono occupati della sua produzione letteraria si segnalano: G. Capocefalo, M. Petrucciani, D. Pisana, S. Saluzzi, F. Ulivi, S. Gros Pietro, G. Gangemi,L. Nanni, Giorgio Linguaglossa e Donata De Bartolomeo. Membro del Cenacolo dell’Associazione culturale Rossella Mancini, nel 2004 ha tenuto un corso sulla critica operazionale, di cui ha dato conto in due saggi, Concetti base della critica poetica operazionale e Critica operazionale: prove applicative sull’elocutio, pubblicati sul sito dello stesso Cenacolo. Ivi è possibile leggere anche uno studio su Intelletto ed emozione in poesia, ed un altro dal titolo Il problema del linguaggio in poesia. Molti suoi componimenti, in lingua e in dialetto, sono apparsi in rete, dove sono tuttora leggibili.

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