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Slavoj Žižek, da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp, dal Quadrato nero su fondo bianco al ready made c’è già scritto il destino del modernismo con le sue avanguardie e le sue postavanguardie. Il Novecento è finito, e con esso anche le stagioni delle avanguardie e delle retroguardie, Che cos’è il Reale? Il Reale è sempre parallattico, Sul concetto di parallasse

Foto Malevitch Quadrato

Kazimir Malevič Quadrato nero, 1915, olio su lino, 79.5 x 79.5 cm, Galleria Tret’jakovMosca[1]

Slavoj Žižek

da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp 

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

(S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

pittura marcel duchamp 1

Marcel Duchamp

Slavoj Zizek, Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

duchamp-bicycle-wheel

m. duchamp bicycle wheel

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. Le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo sono potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

* (S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37)

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

** (S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

Sul concetto di parallasse

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

La definizione comune di parallasse è: lo spostamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto a uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che fornisce una nuova linea di visione. La svolta filosofica da aggiungere, ovviamente, è che la differenza osservata non è semplicemente “soggettiva”, a causa del fatto che lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse stazioni o punti di vista. È piuttosto che […] uno spostamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre uno spostamento “ontologico” nell’oggetto stesso. O, per dirla in Lacanese, lo sguardo del soggetto è sempre-già inscritto nell’oggetto stesso percepito, nelle vesti del suo ‘punto cieco’, quello che è ‘nell’oggetto più che nell’oggetto stesso’, il punto da cui il oggetto stesso restituisce lo sguardo

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

Il Reale parallattico

«Il “Reale” non è la disposizione effettiva, ma il nucleo traumatico di un antagonismo sociale che deforma la percezione dei membri della tribù della disposizione attuale delle case nel loro villaggio. Il reale è la X rimossa in base alla quale la nostra visione della realtà viene distorta anamorficamente, è al tempo stesso la Cosa a cui non si può accedere direttamente e l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto, la Cosa che elude la nostra comprensione e lo schermo deformante che ci impedisce di cogliere la Cosa. Il definitiva, il reale è lo spostamento di prospettiva dal primo punto di osservazione al secondo. Pensiamo alla celebre frase di Adorno del carattere antagonista del concetto di società (quella individualista-nominalista anglosassone e quella organicista di Durkheim  della società come totalità che preesiste agli individui) appare irriducibile e sembra di avere a che fare con una vera antinomia kantiana che non può essere risolta tramite una “sintesi dialettica superiore e che eleva la società a una Cosa-in sé inaccessibile. Ad un secondo approccio, però, bisognerebbe notare come questa antinomia radicale che sembra precludere ogni accesso alla Cosa sia già la Cosa stessa: la caratteristica fondamentale della società di oggi è l’antagonismo inconciliabile tra il Tutto e l’individuo. Ciò significa che in fondo lo statuto del Reale è puramente parallattico e, in quanto tale, non sostanziale: non ha densità sostanziale di per sé, è solo uno scarto tra due punti prospettici, percepibile solo nello spostamento da un punto all’altro. Il Reale parallattico si contrappone così alla tradizionale nozione (lacaniana) del Reale come ciò che “ritorna sempre al suo posto”, come ciò che in tutti gli universi (simbolici) possibili rimane costante: il Reale parallattico è piuttosto ciò che rende conto della moltitudine di manifestazioni della stesso Reale sottostante».*

(da The Parallax View, 2006, trad. it. La visione di parallasse, il melangolo, 2013, pp. 41-42)

Žižek, Slavoj. – Filosofo e psicoanalista sloveno (n. Lubiana 1949). Tra i più importanti e incisivi pensatori contemporanei, docente di Filosofia e psicoanalisi all’European graduate school (Svizzera) e visiting professor presso numerosi atenei europei e statunitensi, muovendosi dalle teorie lacaniane ha sottoposto a una serrata revisione critica conflitti e contraddizioni della contemporaneità per come essi emergono dai modelli culturali proposti dalla letteratura popolare e dal cinema; di quest’ultimo ha indagato il gioco di sguardi incrociati tra autore, spettatore e oggetti in Gaze and voice as love objects (2004; trad. it. Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, 2004), analizzandone il ruolo di strumento di formazione del desiderio e dedicando approfonditi saggi al lavoro di singoli registi – quali In his bold gaze my ruin is writ large (1992; trad. it. L’universo di Hitchcock, 2008), The fright of real tears, Kieslowski and the future (2001; trad. it. Paura delle lacrime vere. Krzysztof Kieslowski fra teoria e post-teoria, 2010), The art of the ridiculous sublime. On David Lynch’s lost highway (2000; trad. it. Lynch. Il ridicolo sublime, 2011). Pensatore a tutto campo, in anni più recenti Z. ha esteso la sua analisi a temi politici e sociali quali la guerra in Iraq (Iraq. The borrowed kettle, 2004; trad. it. 2004), la crisi del marxismo (First as tragedy, then as farce, 2009; trad. it. 2010), e dei modelli di sviluppo contemporanei (Living in the end times, 2010; trad. it. 2011). Autore estremamente prolifico, tra i suoi saggi più recenti occorre citare almento Less than nothing. Hegel and the shadow of dialectical materialism (2012; trad. it. 2013); The year of dreaming dangerously (2012; trad. it. 2013); Žižek’s jokes (Did you hear the one about Hegel and negation?) (2014; trad. it. 107 storielle di Žižek (La sai quella su Hegel e la negazione?), 2014); Islam and modernity. Some blasphemic reflexions (2015; trad. it. 2015); entrambi nel 2017, The courage of hopelessness: chronicles of a year of acting dangerously (trad. it. 2017) e Disparities (trad. it. 2017); Like a thief in broad daylight (2018; trad. it. 2019); nel 2020 la raccolta di articoli Virus, catastrofe e solidarietà e Pandemic! Covid-19 shakes the worldHegel in a wired brain (2020; trad. it. Hegel e il cervello postumano, 2021); Heaven in disorder (2022; trad. it. Guida perversa alla politica globale, 2022). Nel 2017 il filosofo è stato insignito del Premio Hemingway per “l’avventura del pensiero”. (Treccani)

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Tre poesie kitchen di Francesco Paolo Intini, Immagine di Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Inverno, 2020, Nella poetry kitchen ci sono mille piccole percezioni inconsce, una sorta di pointillisme diffuso, Commento di Giorgio Linguaglossa, Parallasse, di Slavoj Žižek

Lucio Mayoor Tosi, Inverno, Covid garden, 2020

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Inverno, 2020 

Giorgio Linguaglossa: un bel ritratto della Assenza. In realtà lì non c’è niente, niente di significativo… c’è un pointillisme di luci e corpuscoli diffusi…e della neve c’è l’Assenza… voglio dire che non c’è rappresentazione. Forse qui siamo veramente nella rappresentazione di una non rappresentazione, di un inconscio an-Edipico. L’inconscio an-Edipico ignora la significazione così come ignora le leggi, le immagini, le strutture e i simboli. È un inconscio orfano, poiché precede il nome del Padre che inietta nelle sue produzioni l’assenza costitutiva del sé

Lucio Mayoor Tosi: E’ così, oltre al gesto pittorico non c’è nulla. Resta da considerare il paesaggio della pianura Padana: linea dell’orizzonte, un sopra e un sotto. Impaginazione elementare, in regola con la sezione aurea. Della pittura mi resta la pittura stessa, il segno che non ammette ripensamenti. L’ho capito anni fa esaminando un dipinto di Caravaggio, mi pare la Cena di Emmaus: nel dettaglio di un panneggio, la preziosità del suo segno pittorico. L’insieme, o il grande significato, erano spariti alla mia vista. Ma così è la pittura astratta, specie quella giapponese. Per l’estetica ho appreso anche da artisti italiani, cito solo Enzo Cucchi. Ma anche Schifano, ai suoi esordi. E il mio preferito, Osvaldo Licini.

Lucio Mayoor Tosi: In altri dipinti il soggetto c’è, come La gallina Nanin. Ma è chiaramente una provocazione.

Marie Laure Colasson: Lucio è veramente un pezzo notevole, una semplicità difficile da raggiungere di grande attrazione. Io in questo periodo non mi so fermare a tempo, e non va bene. Almeno ne sono cosciente.

Lucio Mayoor Tosi Segni
Lucio Mayoor Tosi, Segni, 2020

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Giorgio Linguaglossa

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Nella poetry kitchen ci sono mille piccole percezioni inconsce, una sorta di pointillisme diffuso; esse sono le condizioni per l’esistenza delle nostre rappresentazioni, ed hanno il compito di non confondersi mai con le rappresentazioni chiare e distinte proprie del logos rationale ma di convivere con esse in un mistilinguismo insondabile.

La «materia» micrologica dell’inconscio, ciò che sta «al di sotto della coscienza», corrisponde a queste piccole percezioni che a noi e alla nostra esperienza restano del tutto oscure e impenetrabili.
Il carattere distinto-oscuro dell’inconscio del pensiero esprime qui la sua natura intensiva, la sua realtà non-empirica come oggetto fantasmatico che coincide con il suo coglimento problematico. La verità è che quell’oggetto problematico che sta al di fuori dell’empirico, il fantasmatico, è la realtà non-empirica come fenditura o taglio nel caos del Reale. Il carattere indeterminato (distinto-oscuro) del fantasma che costituisce la struttura segreta dell’inconscio, non è una carenza, ma una mancanza, mancanza di Reale che ritorna nel Reale come parola combusta, lapsus, clinamen, scarto, e riciclo dello scarto.
È l’orizzonte problematico del discorso poetico come discorso dell’Altro che qui si pone.

L’inconscio del linguaggio, la dimensione inconscia e pre-rappresentativa della lingua, mero segno che emerge nel metalinguaggio della parola poetica.
La parola poetica così come l’inconscio, non è mai né chiara-e-distinta, né chiaro-confusa come se la dà la rappresentazione apollinea delle estetiche del Bello, bensì distinta-oscura, chiaro-oscura, macchiata dall’ombra dell’inconscio. In sé è perfettamente distinta e differenziata in ogni sua singola parte, è una possibilità interna al linguaggio che è anche una spia della sua differenzialità costitutiva.
La rappresentazione dell’inconscio e di ogni sua produzione è un errore prospettico generato dalla volontà di padroneggiare il divenire. La verità appartiene al divenire, il cui carattere non è rappresentabile: ogni conoscenza si sporge su una differenza originaria, e tale conoscenza è possibile, come organizzazione a posteriori del materiale sensibile, solo quando il divenire si è definito in una serie di rapporti tali per noi da poterlo vedere, conoscere e simbolizzare.
L’ipotesi di un inconscio strutturato come un linguaggio concepisce lo stesso inconscio su quel modello linguistico che prevede l’organizzazione strutturale dei significanti, in se stessi mancanti, in una dipendenza da un significante dispotico che agisce e su di essi opera distribuendo il Valore-significazione. L’inconscio an-Edipico ignora la significazione così come ignora le leggi, le immagini, le strutture e i simboli. È un inconscio orfano, poiché precede il nome del Padre che inietta nelle sue produzioni l’assenza costitutiva del sé.

Quando si parla di “sintomo” della nevrosi, dice Lacan, si ha ache fare con un particolare significante connesso ad un significato che è stato rimosso dalla coscienza del soggetto. Si tratta, ancora una volta, di una testimonianza di come un malfunzionamento nella struttura del linguaggio, nella catena significante determini una alterazione della parola nei confronti della cosa che vorrebbe designare.
Analogamente il linguaggio poetico ha a che fare con un significante connesso ad un significato rimosso dalla coscienza del soggetto che si sposta su un altro significante imprevisto e imprevedibile… Qui, in questa linea di confine si situa la poetry kitchen.

La parola, divenuta incomunicabile e incomprensibile, perde la sua stessa essenza e la possibilità di ottenere una risposta. Diviene una parola vuota. La parola diun soggetto che crede di parlare di se stesso, ma che in realtà parla soltanto di qualcuno che gli assomiglia, ma che non coincide con il soggetto dell’inconscio, con il soggetto del suo desiderio. E’ la parola del soggetto che si crede un Io, del moi, di chi cede alla “follia più grande”. Come ricorda Recalcati, “più la parola si riempie di Io, più risulta vuota di desiderio”.1

Nell’uomo c’è qualcuno che parla, un Ça parle. Ma si tratta di uno sconosciuto.

1 M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, 2012,Milano, pag. 102

Tre poesie di Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. 

Fondi di bottiglie e citazione sul campo

Alba primordiale organizzata da Filini
Messidor à Paris, Autumn in Bari

Con la vasca di Marat piena fino all’orlo
senza più spazio nemmeno per un picchetto

forche da ninfee, braghe appese
Match in un angolo del Murat.

Nella stanza accanto la ghigliottina del 2020.
Cos’altro attendersi dopo una birretta?

Dalle fogne c’è da aspettarsi turchesi
E coccarde al petto di mignatte.

E invece piombano Charlotte
e torri fumano toscano.

I Tempi saltano da un ratto all’altro.

Pulci nubili contro ammogliate
Covid e Plutonio nell’altra semifinale.

Dove ammuffì Simonide la curva di Serse
Cobra con la bocca spalancata a seguire la palla

Aspettano un autogoal per poterla ingoiare.
Code di coccodrilli alle 8 e 1\2 sul Fortino

Di un tanto più intelligente il caso,
biglietto vincente senza spendere un cent

monetina in pozzanghera
come per il Nobel e Cro-Magnon.
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“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two…”* Continua a leggere

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Parallasse, Poesia all’Epoca del Covid19, Enesidemo, Charles Simic, Marina Petrillo, Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa,

coronavirus

Covid19, immagine al microscopio

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Parallasse

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

[The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *
* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.]

 

Marina Petrillo

Per trama antesignana all’ordito
il cosmo non agita alcun gesto.

Silenzioso assioma balbettato
da eventi insidiosi eppur perfetti.

Il tacitato rullio del pensiero, intercetta
la spiraliforme eclissi della parola.

Vuoto ponderato ad azione.
Attrito postumo all’impatto

quando non v’è stupore nella visione
ma opposta sintesi in idea.

Fossimo nella vibrante Rete Universale
non avremmo che misterioso Codice supremo.

Al battere continuo alla porta dell’assoluto
risponde, in segnale, l’indice di immortalità.

[Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.]

Gino Rago

Del resto, come è nelle esperienze poetiche della Poesia all’Epoca del COVID-19 (Gabriele, Linguaglossa, Rago, Tosi, Livia, Intini, Gallo, Talia, Tagher, Petrillo, Pierno, Cataldi, Leone, Dono, Dzieduszycka, Ventura)
a cosa servirebbe la Poesia se venisse meno a uno dei suoi ineludibili compiti che poi ( riprendendo ancora il Lunetta pensiero) è quello «di creare contraddizioni all’interno del senso comune egemone, di produrre enzimi fantastici indigeribili, di creare sconcerto nei confronti dell’universale obbedienza.
Uno scrittore (o un poeta) che non sia scomodo e non procuri fastidi alla digestione del dominio delle menti, non è uno scrittore, è un addetto al servizio delle pulizie»?

(gino rago)

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

come noto, gli scrittori sono i postini delle Poste assunti con contratti a tempo determinato;
i pittori anch’essi sono dei disgraziati imbrattatele o facinorosi fabbricanti di orrendi manufatti che chiamano installazioni;
i giornalisti sono i più utili, sono pagati per servire il padrone di turno e, a quanto mi risulta, lo fanno per bene;
i critici sono ben pagati nelle inutili Accademie che sfornano belletti per transessuali e crossdresser in passerella;
i poeti, in ultimo, sono gli addetti alle pulizie dei lavabo e dei servizi igienici. E c’è una gran ressa là fuori…

Charles Simic

«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina».

Coronavirus 1Enesidemo

«Le umane vicende oscillano come su di una bilancia dai pesi diseguali, ora sollevandosi, ora invece tirando giù il piatto. terribile è l’incertezza e molta è l’oscurità che coinvolge i fatti della vita: come in un sogno profondo, noi vaghiamo senza poter nulla percorrere con esattezza di ragionamento e senza nulla afferrare con vigore e fermezza, poiché tutto è simile ad ombre e fantasmi.
E come nei cortei la fronte passa oltre e sfugge agli sguardi e nei torrenti invernali il corso dell’acqua, spingendosi oltre, per la violenza della sua velocità, precorre il nostro sguardo e gli si sottrae, così anche gli eventi della vita, spingendosi innanzi e sorpassandoci, danno tutta l’impressione di star fermi, mentre non permangono neppure un istante, ma vanno ogni ora in rovina»1

Enesidemo, frammento tratto dal De Iosepho di Filone di Alessandria, 140-41. Ho utilizzato la traduzione di Antonio Russo che si trova in Scettici antichi, Utet, Torino, 1996, oag. 562. Dello scettico Enesidemo sappiamo pochissimo e la sua esistenza è stata fatta oscillare tra l’80 a.C. e il 130 d.C.

Francesco Paolo Intini

Caro Gino Rago,

vedo che abbiamo percorsi simili e per me è un gran piacere scoprirlo. La Chimica è scienza delle trasformazioni, ma anche e soprattutto creatività come le altre discipline sorelle. E’ mia convinzione che se è possibile un dialogo con la poesia debba svolgersi su questo terreno e non semplicemente su qualche aspetto stravagante buttato occasionalmente nella buca delle Lettere, magari solo per sbalordire. Chi si occupa di scienza sa che davanti ha il nulla e dunque esperire significa creare. Mi riferisco ad ogni nuovo processo che venga scoperto, ad ogni nuovo prodotto di sintesi che venga pubblicato. Basta dare un’occhiata a ciò che è visibile a tutti sulla tavola periodica, a quanti elementi nuovi sono entrati nel corredo della natura, in aggiunta a quelli già presenti. Giustamente si affermava su queste pagine che è falso dire (cito a memoria ma penso di ricordare correttamente) che nulla è cambiato dai tempi di Omero! Una poesia in quanto incarnazione del pensiero dell’autore, ha più o meno valore sulla base del tasso di novità che contiene, esattamente come una pubblicazione scientifica! Ben venga dunque una poetica-estetica dell’interferenza e più in generale la poetica NOE del frammento, del post- it, del polittico. Aldilà di questo c’è uno sforzo colossale di costruire sé stessi con la chiacchiera del si dice, del già detto, dell’infallibilità dei valori universali, dei mi piace su fb e dei curricula fatti di premi conseguiti nei concorsi di poesia, sparsi come altarini sul territorio nazionale. Personalmente mi accontento di mettermi al servizio di questa indicazione di Giorgio Linguaglossa:

” La differenza tra un poeta NOE e un poeta normale è questa: quando un poeta NOE prende una parola (ad esempio: tavolo, giacca, lampadario, finestra, porta, comodino, aereoplano etc.), il primo sa, avverte che dentro la parola e al di fuori di essa c’è il «vuoto», il «nulla»; il secondo invece prende quella parola come un pieno, una rotondità. ”

Da ragazzo non capivo che cosa succedesse nel mio pensiero quando mi fissavo su una parola e ne toglievo il guscio. Dentro c’era il nulla che letteralmente mi spaventava perché non era facile tornare indietro o spiegare l’esperienza a qualcuno. Dopo quaranta anni eccomi qua a scriverne. Continua a leggere

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Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate

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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico, 2010

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

LUMACHE VS LUCCIOLE

Ampere in libertà
maniaci per le strade.

Al fulmine segue
Un calcolo tra catodo e anodo.

La chiocciola è fuori guscio.
Scivola il Sole sul muco

Uomini con la mascherina trattengono il fiato
non c’è mai stata più poesia di ora,

e in effetti al coro di antenne
segue un sussulto di Terra.

Il commercio di sillabe fu implacabile
Un saliscendi nella spiana di Cheope

una farfalla al prezzo di cento Nobel
in fondo si trattava dello stesso DNA

E non si poteva aspettare che spuntassero mammiferi
Da una marmitta catalitica

Nacque la Fontana e fu chiaro
Lo stimolo di scrivere alla vescica

La vite scrisse tralci sui muri
Inneggiando a Marx- Engels

Trovammo il dirigibile appollaiato sul camino
Il nostro salvadanaio tintinnò minestra

Per un po’ ci si era calmati perché avevamo
La medicina contro la peste

E dunque si trattava di prendere fiato.
Per colazione ceci e bucce di patate.

Non era molto stretto l’interno di calcare
Doveva bruciare idrogeno sulle nostre teste.

Tutto un susseguirsi di levatrici
per un aborto spontaneo.

Non è uno scherzo avere il 1848 a portata di mano
E lasciarlo scorrere come un granello di rosario

Venimmo a guardare il 2048
Putti di Leonardo nel Verrocchio.

una neve di polistirolo ghiacciava i paesaggi
Il tempo germogliava volti di pomodoro.

Ci arrestarono perché avevamo mani di bambini
al posto dei crani e rosette nelle unghie

la fisica, la chimica uscirono dai libri
e furono messi a contare sillabe di viti.

Nessun tralcio doveva eccedere i dieci viticci
Il corrispettivo dell’ ossigeno nei polmoni.

Anche la luna non doveva esagerare con la gravità
Un giro nel cortile e di notte in cella.

Per quante ce ne sarebbero state
Fu prevista una dose di neon.

Nelle stazioni cani lupo strappavano il culo
A chi si attardava a salire sui treni per il 2020.

Il raccordo pulsa senza articolare una sillaba
E di molto le sopravanza nel bisogno.

Affacciarsi ai finestrini e nella grave
Le dita del ghiacciaio.

La vita appartenne ai motori,
i Watts alla digestione.

Quando si tratterà di esistere giungerà un fascio di luce
Un rapido susseguirsi di pallottole sull’olfatto.

Gli occhi spuntano dai guard rail.
Pesci sulla cima della Sfinge.

Arrivò l’ amore delle Assicurazioni.
Esponemmo i crocifissi per essere guardati.

Piccoli bruchi sul filo spinato.

Dai numeri estrapolarono i teschi
Sbattevano i denti. Forse parlavano i fari.


D’altronde le auto non chiedono al sorpasso
Di azionare un tir.

la catalisi mischia il sangue. La farfalla
governa i passi di una prostituta.

Giorgio Linguaglossa

“Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.”
“la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento.”
“L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.”
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.”

Caro Francesco Paolo Intini,

Questi aforismi di Adorno, tratti da Minima moralia del 1951 sono il miglior commento che io possa fare alla tua poesia. Ai quali ci aggiungerei quest’altro di mia produzione: «Le parole hanno dimenticato le parole».

*

«Ciò che resta lo fondano i poeti» (Hölderlin)

E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate…

Acutamente Ewa Tagher afferma che le sue poesie «sono errori di manifattura», errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili… Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le cose combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non siamo noi i responsabili.

Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del polittico» è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici, disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo.

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Marina Petrillo

Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.

A baldanza si insinua l’ultimo detto
presago di silenzio.
Non devia del corso suo il canto.

Procede ad orma infrante duttile
all’imminente commiato dall’esistere.

Invisibile alla nullità imperante
naufraga in altra dimensione

senza porre diaframma tra il Sé
e il congiunto suo riflesso.

Attende in sospinto moto l’impresso
lascito e annulla ogni presenza.

Varca il pendio in periplo costante
sino a smarrire l’orientato senso .

Alcun filosofo attende
poiché Poesia attarda in fiacca veste.

Del non smisurato Verbo, Musa.

*

Tutti i mondi si completano a vicenda.
Il raggio divino scende nelle coscienze ad illuminare
le vette dello Spirito.

Siamo nell’assente dormiveglia sino
a quando, toccati dalla tragedia,
non cediamo campo all’invisibile assenso.

Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce
la costola dell’Assoluto Presente. Inquietudine volge
al paradosso e ogni gesto torna a lenta consapevolezza.

Si può morire nell’istante. Si muore all’istante agognato
poiché inesistente. In nullità si procede, buio nel buio,
per giungere all’assoluto.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». La deposizione della potenza destituente del «mondo amministrato» è una via obbligata per una poiesis critica.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.

Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«l’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

Giorgio Linguaglossa

sul concetto di parallasse

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

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