Mario M. Gabriele, Poesie da Registro di bordo, Progetto Cultura, 2020, pp. 120 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La poiesis destituente in azione

Giorgio Linguaglossa

La poiesis destituente di Mario Gabriele in Registro di bordo

La poesia è un qualcosa che non ha testimoni. Nessuna sa perché è nata. Nessuno sa a che cosa serve. Non ha mittente e non ha destinatario, ha però la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti linguistici coi quali essa s’intende con i suoi lettori o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stessa. Spesso una poesia sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». Penso che oggi un poeta che si rispetti debba mettere in atto una poiesis destituente, debba saper fare un passo indietro rispetto alla scrittura, saper mettere in moto la potenza destituente della poiesis rispetto ai linguaggi del «mondo amministrato». Penso che questa sia una via obbligata per una poiesis critica.

In questo suo ultimo libro mi sembra che Mario Gabriele abbia affinato un dispositivo del genere, un dispositivo destituente del soggetto per dare via libera all’affioramento delle zattere significazioniste dalla memoria dissestata, dalla memoria collettiva, dell’inconscio collettivo. Ho parlato, a proposito di questo metodo, di ladro di refurtive di altri ladri. Mario Gabriele pone in essere una trafugazione di frammenti, di rottami, di referti, di reperti, di rifiuti del mondo della civiltà cibernetica; e così compone le sue poesie, come una com-posizione, un polittico in distici, come un campionario di tessere semantiche non più significanti, uscite fuori dal periscopio della significazione. Gabriele pone in essere un metodo a-sistematico, e così compone i suoi polittici, liberamente, azionando gli scambi impazziti dei treni della significazione disarticolata dei giorni nostri. In questa accezione, considero Gabriele  un autore di punta della nuova ontologia estetica, perché pensa ed opera in modo radicale, mediante l’impiego a polittico di parole raffreddate, ibernate, di materiali a-sgnificanti, usciti fuori dal circuito della significazione del mondo amministrato.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri più reconditi.
Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E, nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«L’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della metafisica tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare, e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

L’amministrazione da condominio del consenso amministrato delle società tecnologiche rende la prassi artistica sempre più analoga alle esperienze gastronomiche e deculturalizzate del Kitsch. Non c’è via di uscita da questa antinomia se non mettendo fuori gioco la prassi artistica, non accettare nulla gratis. Ed è quello che fa la poesia di Mario Gabriele, altrimenti si finisce nell’imbonimento del silenzio, il che segna un vantaggio considerevole per l’arte ammaestrata e gastronomica del Kitsch. La parentela tra il Kitsch culturale e il Kitsch non-culturale, vedi le poesie di Zeichen e della Lamarque, si va sempre più assottigliando: alla fin fine non si riesce più a distinguere una battuta di spirito del poeta di Fiume da una battuta da bar dello sport perché se si accetta la filosofia dello spot e della battuta di spirito, tutto pende peristalticamente verso la battuta di spirito tout court. «Tutto pende da ciò da cui dipende» diceva Michelstaedter. Se il «Totum è il Totem» (Adorno) ne discende che il «Totem è il Totum». Il Tutto è una costruzione peristaltica che sta bene alla filosofia imbonitoria e pacificatrice che vorrebbe gli uomini imbelli, sanificati dai vaccini della demagogia, proprio oggi che si parla a vanvera contro i vaccini perché colpevoli di aver salvato la vita a decine di milioni di persone, io mi sentirei di dichiarare: dissentiamo dal Totum, facciamo un’arte irriconoscibile, impenetrabile, antimbonitoria rimettiamo in piedi quello che adesso cammina sulla testa.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

[Cover de Il Mangiaparole n. 6 dedicata a Mario M. Gabriele]

Mario M. Gabriele,

da Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020

9

Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –

Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.

Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.

Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.

Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.

Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.

Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.

– Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –

C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.

A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.

La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.

.
10

Tocca a Jeffry scegliere i Gospel Singers
e non un solista tzigano.

Signora Ingeborg, cosa si aspetta da questo concerto?
È un’operetta su un ultimo mon amour!

L’uomo che si riconobbe baco da seta
oggi indossa vestiti Jersey.

Benny non badò alle spese
nei giorni di Soweto.

Nella mansarda sono rimasti i posters
e le vecchie biciclette martin-martin.

Sembrava una cineteca
con il ritratto di Bruno Ganz nel film La casa di Jack.

Padre Hubert cura il giardino di albicocche,
salva le ragazze venute da Santa Cruz.

Chris propone un open day
sulle equivalenze estetiche.

Se non ci saranno avvisi di Warning
continueremo a cercare Laura Palmer sotto i ponti.

Jodie vive di malinconia a Norwich.
Scopre le carte per trovare il Jolly.

– Qui – dice -, passo i giorni
tra il metrò e il London Eye.

La Meridian House, alle sette di sera, apre il repertorio
con il canto degli invisibili e delle rimembranze. –


11

L’inganno delle tre carte
con l’elzeviro di Janette su le Figaro.

Il giorno che peccammo non fu il primo
e neppure l’ultimo.

Musica da radio Deejay
in attesa del rapido 673.

Ci fu un attacco nel Finale di Partita
tornando alla locanda.

L’ultima neve di marzo
segnò la fine dell’inverno.

Riaprì il Teatro della Crudeltà
di Peter Brook e Charles Marowitz.

Mancavano Giuda dal ramo e Lazzaro nella tomba.
Ma i più erano uomini senza ali e passione.

Blondy ogni sera prepara le gocce di melissa
senza il Roipnol.

E non desidero altro, davvero non desidero altro
se non la crème brûlée, e la rosa canina.

E tutti i borghi che portano a Milgate
e a All Those Yesterdays.

13

Hai lasciato la dimora e il Grande Gatsby
con gli oggetti che non ti parlano più.

L’anticiclone mise in pausa l’ira dell’inverno
senza passare sulle cime dell’Adamello.

Giorni si susseguono nel ritmo dell’hukulele.
Uno verrà col fiordaliso in bocca.

Buona parte dell’anno è passata
senza effrazioni sulla pelle.

Al Biffi Hotel rimanemmo
per conoscere la varietà dell’Essere.

ora pensi a dicembre
segnando le date da riesumare.

I vestiti autunnali
li abbiamo lasciati ai ragazzi del Bahrain.

Mister Wood agita mente e anima,
non sopporta i Concerti Brandeburghesi.

Torniamo in superficie
col rumore di fondo dopo Quickly Aging Here.

Dura il mese bisestile.
Barkeley canta Crazy.

21

È tornata Milena. Mi riconcilio con Pound
e The Shorter Poems.

Suona il Jukebox di Ginsberg.
Chi ricorda Tambourine man?

Sono con te Rosmina, con te e Baby Bull.
Che dice oggi il meteo? Si può andare a Parigi?

Da un morso di serpe è nato un fiore.
Karima sa come accendere il fuoco.

Dormi se vuoi. Così ti abitui alla morte.
Adam è tornato a rivedere la barista di Fellini.

Chi scriveva ai posteri
non sapeva di mandare la lettera ai fantasmi.

Dalla roccia non esce più acqua.
Ella Fitzgerald va oltre Lady be good.

Un enorme telone di juta ritrae Picasso.
e Les demoiselles d’Avignon.

La bromelina ha ridotto l’edema.
È caduto dal muro il Bacio di Klimt.

L’osteria all’uscita da Como vendeva alcaloidi
per il lungo viaggio fino a Donnalucata.

Jang Son Bai ha di nuovo acceso un haiku.
I capricci di Buddha lo tengono in vita.

L’anima di Fred non trova posto nel Paradiso.

92

Chi lasciò gli scarti autunnali non pensò al passato.
Rimasero i posters di Georges Mathieu e Guernica.

Clara portò via i golden books col pickup
dimenticando Les fleurs du mal.

-Andiamo in giardino a gustare i sorbetti-
disse il turista venuto da Nashville.

Non bastavano le corde
a ridare suono al sestetto newyorkese.

Marisa riordinò gli arredi
lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet.

L’ingresso alla Casa dei Doganieri
era senza le Guardie del Corpo.

Un’aria fredda si fermò sulla pelle dei muri
dove Banksy aveva lasciato la figura di un orsetto.

Lilly cantava la canzone dei vent’anni
nel gelo di dicembre.

Due mesi, soltanto due mesi,
e poi chiuderò con le primroses.

La bufera portò via
il capannone dei circensi.

La donna cilena si era fatto un tesoro
portando i cani nel giardinetto.

Ritrovammo la carta nautica
senza l’isola di Crusoe.

28 commenti

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28 risposte a “Mario M. Gabriele, Poesie da Registro di bordo, Progetto Cultura, 2020, pp. 120 € 12, Commento di Giorgio Linguaglossa, La poiesis destituente in azione

  1. Giuseppe Gallo

    Prima di tutto auguro a Registro di Bordo di M. Gabriele, edito da Progetto Cultura, il successo di pubblico che si merita. In secondo luogo vorrei sottolineare quanto afferma Linguaglossa nella presentazione del testo:
    “Mario Gabriele pone in essere una trafugazione di frammenti, di rottami, di referti, di reperti, di rifiuti del mondo della civiltà cibernetica; e così compone le sue poesie, come una com-posizione, un polittico in distici, come un campionario di tessere semantiche non più significanti, uscite fuori dal periscopio della significazione…”
    Sono pienamente d’accordo quando si mette l’accento sulla “com-posizione” dei distici tramite frammenti, rottami, ecc,, meno quando si afferma che il risultato di questi allestimenti semantici escono “fuori dal periscopio della significazione…” Io sono convinto che ogni parola, qualunque parola, caduta sulla pagina, ha in sé un quid “significazionale”, e non solo dal punto divista fonetico o del rapporto che si instaura con gli altri lacerti linguistici contigui… non fosse altro che il venire in superficie di questi “reperti” e “referti” possa essere il frutto della liberazione dell’inconscio, della memori o di qualsivoglia altro meccanismo.
    Le “com-posizioni” di M. Gabriele sono il risultato di un collage di “polinomi frastici” che nella loro frammentazione non solo risultano essere ciò che può sopravvivere del complesso linguistico contemporaneo, ma determinano, o potrebbero determinare, anche “i fondamentali”, si diceva una volta, di una nuova Poetica. Perché questo è il problema. Non cosa e come si possa scrivere poesia al tempo di Internet e della cibernetica, ma quale Poetica?
    Quelle parole che Linguaglossa considera “raffreddate, ibernate”, costituite di “materiali a-significanti…” a mio modestissimo parere, riportano, invece sulla superficie del mondo linguistico qualcosa che può ancora sopravvivere, quasi un “corona virus” dei nostri giorni, che fa male, che continua mietere vittime, che supera le barriere e gli ostacoli, ma che allude, per contrasto, ad un mondo, sempre poetico, per restare nella metafora, che potrebbe tornare a vivere. C’è da dire, anche, che la formula portata avanti da M. Gabriele, determina un disallineamento tra Poetica e Potere, nel senso che la “metafora” di fondo che sorregge il suodiscorso è oltre ogni limite di ciò che Linguaglossa denomina “mondo amministrato”.
    Io andrei anche oltre, affermando che il distacco è “dal mondo che amministra” e che regola e stabilisce i rapporti di forza. Dalla lettura della prima poesia, la n. 9, emerge una “tonalità” che sospinge le parole, le frasi e il loro contenuto all’evanescenza: è una nebbia che sale, o scende, si ferma e obnubila ogni traccia. Eventi, oggetti, sensazioni, ciò che sembrava essere importante ( il tempo della nascita e della morte); il ricordo di Debora e Barak, After Strange Gods, i bouquet per i compleanni della famiglia, rimasugli e scarti del tempo, reperti della memoria,ecc., cadono e precipitano in una atmosfera di addio e di prossima fine. C’è anche una profonda ironia:
    -Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
    così nessuno potrà dire: per chi suona la campana!
    Care lettrici e cari lettori, non abbandonatevi alle palpitazioni, ormai siamo preparati a prevenire anche il caso, pianificare le attese e a demistificare perfino le sorprese.

    Giuseppe Gallo

  2. Heidegger nel 1924 scrisse: «quando ci sentiamo spaesati, iniziamo a parlare».

    Ecco, io penso che la poiesis accada quando ci accorgiamo che ci sentiamo spaesati, quando non riconosciamo più le cose e le parole che ci stanno intorno. Allora, le parole e le cose ci diventano irriconoscibili, come queste di Mario Gabriele.

    Ci sono delle cose che si possono dire con una lettera. Ricevere una lettera è molto diverso da quando parli con qualcuno che hai di fronte. Il dialogo con un estraneo è cosa molto diversa dal dialogo con una persona che amiamo e che conosciamo molto bene. Anche un dialogo al telefono è molto diverso dal dialogo con una persona che abbiamo di fronte. Le parole non sono mai le stesse. È molto difficile scrivere in un libro di saggi in modo da essere correttamente compreso, tanto più in un libro di poesia. È evidente. Alcune cose richiedono di essere scritte a mano, come una lettera di condoglianze. È ancora consuetudine che si scriva a mano e non a macchina un pensiero di condoglianze. Così una dedica a un libro che doniamo. Chi penserebbe di scrivere una dedica a macchina? Sarebbe davvero improprio.

    Ci sono delle cose che in una poesia non si possono dire. Scrivere una poesia è un atto di estrema cortesia e di estrema reticenza. Non posso scrivere in una poesia un pensiero del tutto ovvio, perché verrebbe immediatamente archiviato dalla memoria collettiva. In poesia non si possono scrivere truismi, se non per ribaltarli. Resta il fatto, però, che l’altro ha bisogno di conoscere esattamente ciò che non è detto, e il poeta di rango non si sottrae mai a questo problema, egli risponde sempre come può, riproponendo di continuo ciò che non viene detto in altri modi, con altre parole, in questo modo ingaggia una lotta perpendicolare con ciò che non viene detto allargando il campo della dicibilità e restringendo quello della linguisticità. Questo è il compito proprio della poiesis.

    È molto importante trovare il luogo nella linguisticità. E questo lo possono fare soltanto i poeti. Mario Gabriele ha trovato il suo luogo esclusivo nella linguisticità generale, e non si muove di lì. Soltanto in quel luogo può parlare, in altri posti (della linguisticità) rimarrebbe muto. Nessuno che esprime qualcosa dice ciò che effettivamente intende. Ciò che intendo è sempre diverso da ciò che dico. È ingenuo pensare ad una perfetta coincidenza tra ciò che intendo dire e ciò che dico. Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire. Tra le parole si insinua sempre l’ombra, viviamo sempre nell’ombra delle parole. Anche trovare la parola giusta al momento giusto, è una ingenuità. Il politico pensa in questo modo, pensa in termini di «giusto», non il poeta. La poiesis non ragiona in questo modo, alla poiesis interessa trovare il «luogo giusto» dove far accadere l’evento del linguaggio. Tutto il resto non interessa la poiesis.

    Pensare l’evento del linguaggio dal punto di vista di chi è fuori dal «luogo», è una sciocchezza; chi è fuori del «luogo» non comprenderà mai l’evento di quel linguaggio che deriva da un «luogo». Quello che Heidegger vuole dire con la parola Befindlichkeit è proprio questo, il situarsi emotivamente da parte dell’Esserci in un luogo. Ogni luogo ha il suo particolarissimo pathos, e la poesia è il recettore di questo pathos.

  3. Ogni linea presuppone una penna che la traccia, e ogni penna presuppone una mano che la impugna. Che cosa ci sia dietro la mano, è questione controversa.
    (Italo Calvino)

    Dove ci si trova allora? Dove trovarsi? A chi ci si può ancora identificare
    per affermare la propria identità e raccontarsi la propria storia? A chi raccontarla, in primo luogo? Bisognerebbe costruire se stessi, bisognerebbe poter inventarsi senza modello e senza destinatario garantito.
    (Jacques Derrida)

  4. Carlo Livia

    ” V’è una tendenza generale del nostro apparato psichico, riconducibile al principio economico del minimo dispendio… Con l’instaurazione di questo principio della realtà si differenzia una forma di attività psichica…che è soggetta solo al principio del piacere. E’ l’attività fantastica, che incomincia col gioco dei bambini e successivamente assume la forma del “sogno diurno”. ( S. Freud )
    Così l’attività ludica e fantastica è l’unica forma che consente al principio del piacere di mettere in subordine il principio della realtà, realizzando il sogno di Bergson e Nietzsche, della piena e libera esplicazione dello spirito vitale e della volontà di potenza.
    Ma penetrando negli incunaboli dell’inconscio accompagnati da una guida particolarmente dotata di acume e sensibilità, come Kafka o Beckett, può accadere di imbattersi in presenze più inquietanti di quelle concretizzate da millenni nei mitologemi delle culture tradizionali, tali da rimettere in predicato tutta la nostra capacità di relazione e predicazione dell’essere. E’ quello che avviene con Mario Gabriele, in cui la decomposizione di strutture morfosintattiche e logiche ha un significato diverso dalla generale tendenza espressionista e simbolista della modernità, smarrendo o neutralizzando ogni istanza e auspicio per una nuova epistemologia e restaurazione metafisica. E’ come se prevalesse quello che Freud individua, nella sua ultima teoresi sulla dinamica psichica, come il “principio di morte”, contrapposto al principio di vita o erotico, che si esprime nel desiderio, proprio di tutti gli organismi biologici, a ritornare ad uno stato precedente a quello attuale, cioè, in ultima istanza, in una nostalgia allo stadio che precede la vita. Questo impulso scaturisce e giustifica la completa assenza di pathos ed emozione, di qualunque tensione aggregatrice che connota il flusso psichico- onirico di questi testi, significativa testimonianza di un universo culturale in piena decadenza, che, per citare ancora i solito Heidegger, presenta un tale grado di novità e mistero, da richiedere un pensiero e un metodo di analisi completamente nuovo, ma in cui ” ormai solo un Dio ci può salvare “.

    Spero che Mario Gabriele voglia accettare questo testo che offro alla sua attenzione, esprimendogli la mia piena solidarietà e ammirazione.

    ANAMNESI ( DAL TEMPO OSCURO )

    Entrai nel ricordo spalancato dalla musica. Assenze abbracciate, voci sfinite.
    Calici di ragazze e gelsomini, da bere in piedi, fra i cespugli. Lune pallide di passione, baci, sospiri. La notte spargeva templi, covi femminili.
    Nel portico, gli Dei sfiniti. Sognavano forme, corpi, amori da attraversare.

    Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
    Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
    Prima del senso, del lutto, dell’addio. Quando le nuvole arrossivano fra le dita del vento, e le creature dei boschi si affacciavano da un balcone di pioggia, a spiare il segreto sposalizio di spiriti e silenzi.

    Fu allora che il primo istante dimenticò il tuo nome. Impazzì, tracciò segni, confini. Circondò il tuo corpo d’ombre, di desideri.
    E il cuore che lo vide fu rinchiuso nel sogno.

  5. Il moto entropico perpetuo in Giornale di bordo di Mario Gabriele.
    una breve lettura di Gino Rago

    “[…]Non lontana dai borghi
    c’è la discarica delle stagioni[…]”.

    e, poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo

    “[…]C’è sempre un tempo per nascere
    e un tempo per morire[…]”

    Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
    C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: ” Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…” e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
    Per questo forse

    “[…]Marisa riordinò gli arredi
    lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet[…]

    (gino rago)

    • mariomgabriele

      Quando ho postato questo mio commento, ho trovato il tuo pensiero critico, caro Gino, in aggiunta a quelli di Giuseppe Gallo, Giorgio Linguaglossa e Carlo Livia.Un’altra acuta disamina critica che coglie il senso interpretativo del mio pensiero e del mio linguaggio, fino a captarne i tracciati semi-oscuri a cui spesso ricorrono i miei versi. L’aver citato alcuni di essi mi ha fatto molto piacere e tu rientri in quella categoria di poeti e lettori, che come ho scritto nel mio post sopra riportato, sono sempre alla ricerca dei marenghi d’oro in poesia. Grazie, e buon lavoro.

  6. mariomgabriele

    Scrivere una poesia, comprensiva dell’esperienza umana e culturale del poeta, credo sia la forma migliore per avvicinarsi al lettore, il quale spera sempre di trovare nel testo parte dei propri pensieri da cui può avvicinarsi e riflettere di fronte agli attacchi della realtà nella quale siamo tutti immersi.
    L’obiettivo è far risalire la psiche in superficie in modo da arginare l’angoscia o ansia vissuta come disagio in un mondo in continua fibrillazione, tanto da aggravare la posizione esistenziale della società, al di là di ogni tipo di filosofia e letteratura.
    Sconcerta l’impotenza del pensiero sulla strategia economico-climatica che ogni anno si tiene a Davos. Ci hanno buttati nella piena notte del mondo dove è impossibile reinventare un nuovo Dio.
    I poeti questo lo sanno. Hanno le attrezzature per indagare e informare. Se l’essenza della Verità sta nell’esprimere il pensiero in piena Libertà, allora “l’Irfaran” di Heidegger ha il giusto significato di viaggiare ed esplorare, perché in questi due termini si consolida l’aspetto misterioso del nostro Essere qui e ora.

    Ciò si è assemblato nella mia poesia tanto da ostruirne il passaggio verso la Speranza. Che dire in questo caso?….“che l’occhio altera le superficie radianti. / Mette in forse la luce all’orizzonte”(Registro di bordo pag. 44).
    Da quando sono scivolato nella solitudine, ho preferito restare dietro a immagine e vocabolario, recuperando fonemi ormai rari, caricando di significati nuovi la parola del quotidiano, immettendo flussi plurilinguistici tra Oriente smarrito e Civiltà defunte.
    Che poi tutto questo si esplica in una continua viandanza lessicale, con cerotti applicati sul linguaggio, tra il polittico e il distico, dove il frammento è la sintesi del Tempo passato e del Tempo presente, non è da considerare come un revisionismo formale di nuovo secolo.
    Credo che si vada, con questa operazione, a creare isole ecologiche, dove le differenze oggettive dei prodotti linguistici, sono da sottoscrivere trasferendovi la NOE, vista come soggetto emergente, non importa se di invenzione intellettuale e miniespressiva, purché abbia nel suo interno le caratteristiche della poesia come segno realistico della nostra vita.
    Non a caso l’interessante disamina critica di Giuseppe Gallo, che naturalizza il percorso espressivo di Registro di Bordo, si apre ad una ermeneutica condivisibile, come quella di Giorgio Linguaglossa, primo apripista della mia poesia, a cui si aggiunge Carlo Livia con una visibilità estetica di sensibile analisi. A tutti vada il mio più sincero ringraziamento con l’augurio di continuare su questo viadotto.

  7. da Mario Gabriele, Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020

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    Sei rimasta come le foglie del bonsai.
    Mi scrivi: – salutami Stella e le amiche di Parma. –

    Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
    Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.

    Non lontana dai borghi
    c’è la discarica delle stagioni.

    Ci riserviamo le prognosi future
    e le segrete stanze dell’illusione.

    Rispuntano gli ologrammi.
    Stasera ci fermiamo con i turisti by night.

    Leggo e ripongo After Strange Gods
    dopo una giornata di meteo invernale.

    Qui prepariamo i bouquet
    per i compleanni della famiglia.

    – Signora, sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
    così nessuno potrà dire: per chi suona la campana! –

    C’è sempre un tempo per nascere
    e un tempo per morire.

    A digiuno ci fermammo nella certosa
    ricordando Debora e Barak.

    La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
    da quando ha letto Day by Day.
    *
    .Breve lettura di Gino Rago
    Il moto entropico perpetuo in Giornale di bordo di Mario Gabriele.

    “[…]Non lontana dai borghi
    c’è la discarica delle stagioni[…]”.

    e, poco più giù, nello stesso polittico, il lettore, già tramortito dalla valanga di immagini-parole-metafore cinetiche che Mario Gabriele crea e intreccia, con la maestria e la sapienza dei vecchi cestari, si imbatte in un altro distico non meno spiazzante del primo

    “[…]C’è sempre un tempo per nascere
    e un tempo per morire[…]”

    Lo spaesamento dell’uomo d’occidente è totale: le stagioni è possibile rinvenirle nella discarica e tra il “nascere” e il “morire” del secondo distico manca ciò che si verifica o che dovrebbe verificarsi tra le due polarità estreme del nascere e del morire: vivere, semplicemente vivere.
    C’è tutto, anche se mai viene nominato, ciò che non riesco a dire diversamente il dolore dell’uomo d’Occidente nella gabbia filiforme di una Europa ipermoderna cristallizzata in quello che Zygmunt Bauman ha saputo indicare come “il-tempo-di-mezzo”, tra un “non più” non ancora concluso e un “non ancòra” che stenta ad albeggiare; e il poeta d’avanguardia come Mario Gabriele avverte la lacerazione tra “cosa” e “parola”, lacerazione ribadita da Giorgio Linguaglossa: ” Tra la parola e la cosa si apre una distanza che il tempo si incarica di ampliare e approfondire…” e rimangono le interferenze, le ibridizzazioni, le immagini metaforiche, gli sparpagliamenti, le dissipazioni: una entropia di linguaggi in un moto entropico perpetuo…
    Per questo forse

    “[…]Marisa riordinò gli arredi
    lasciando al gatto Musumeci i residui di Gourmet[…]

    mentre in altra parte dello spirito d’Occidente, benché ad altre latitudini e ad altre longitudini

    “La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
    da quando ha letto Day by Day.”
    *
    Il congedo qui si è fatto definitivo dai direi tòpoi di tantissima nostra poesia,
    le discariche, i residui di Gourmet, il matrimonio con la tristezza della sposa americana, le foglie del bonsai prendono il posto definitivamente in un altro luogo poetico delle linee-luoghi comuni fiore-sole-cuore-luna-amore…
    Qui lo spaesamento dell’uomo d’occidente convoca altri approdi, in questo Giornale di bordo l’estraneazione richiede altre poetiche, un’altra estetica, una altra morale, un’altra etica, qui siamo alla «poetica della indignazione morale», alla «estetica della disperazione»….
    (gino rago)

  8. Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.

    È nota la diffidenza di Heidegger nei confronti del linguaggio ordinario. È per questa ragione che le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono in ultima istanza con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.

    È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e con ciò il gioco della metafora. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige) implica una nuova valutazione della polisemia. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente polisemico. La messa in evidenza della polisemia non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nell’univocità “canonica” di una logica.

    la polisemia non è un in-differente, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare a quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è eliminato dal linguaggio ordinario, che da questo punto di vista, è interamente subordinato all’impero dell’opinione e del «si dice».

    1 M. Heidegger, Was heisst Denken, cit., p. 83. («Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi», Che cosa significa pensare II trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1988, p. 15).

  9. Per me poesia è fatta essenzialmente di versi secondari, secondari ne l’importanza. Se ho piacere a leggere Dante, è perché ne trovo come in un prato le margherite, a bizzeffe … “in quell’aria senza tempo tinta”.

    Un giorno le poesie di Gabriele verranno ricordate, se lette come tanti haiku, ma a gruppi, a grappoli. E come per il caffè, una/due al giorno; perché hanno energia corroborante, attivano la mente e quindi anche l’organismo.

    Non è cibo per la ragione, ma anche la ragione ne trae beneficio. L’aura del bello rinnovato, in gioia e tristezza. La compostezza invidiabile del verso, la precisa gentilezza dei determinativi… “LA bufera portò via / IL capannone dei circensi”.

    Onore al distico. E se devo fare paragoni, penso a Walt Disney (“Fantasia” è del 1940, iniziava la guerra!), a quella disperata innocenza.

    • mariomgabriele

      caro Lucio, hai letto questi distici come se tu avessi gustato un Black Magic al Bar. Sei riuscito a coagulare forma e contenuti trovando un pluralismo estetico in direzione del cosiddetto “piacere del testo”. E’ un onore per me conoscere queste tue interpretazioni, come conferma di un uomo, artista e poeta, che ha colto e coglie nella vita grappoli di esperienza provenienti da una serra da decodificare. Ci sei riuscito portando lo sguardo sul mio mondo poetico, sempre volto a trovare un punto di incontro con i lettori. Grazie.

  10. Le metafore esprimono una nuova concezione del reale; sono dei corto circuiti narrativi, dei codici attraverso i quali il pensiero adotta delle strategie innovative per comprendere il reale. Il valore di verità delle metafore assolute è nella loro funzione polisemica, il loro contenuto determina un agire in vista di uno scopo, fanno parte dell’orientamento teleologico del soggetto nel linguaggio.

    Attraverso la metafora un‟epoca esprime le priorità valoriali, nuovi comportamenti, nuovi orientamenti. Le metafore assolute forniscono chiavi di accesso alla realtà, con le quali sviluppare una prassi in cui mettere a confronto la totalità del reale con la riflessione umana. Ciò a cui la metafora assoluta si contrappone è, per dirla nel linguaggio di Heidegger, la
    verità ontologica, e cioè l‟orizzonte entro cui le molte verità ontiche sono possibili.

    La metafora assoluta sembra insorgere per un horror vacui linguistico, da un deficit del linguaggio. Le metafore assolute rendono sostitutivamente presentabile il mondo, che non può mai essere colto nella sua essenza. Che alle metafore assolute possa corrispondere un accesso all’essere del mondo è testimoniato da due metaforiche strettamente correlate: tanto la
    metafora della «terra» quanto quella dell’«universo», invitano l‟uomo a sviluppare prassi idonee alla trasformazione del reale.1 In questa accezione si rivela la natura profonda della metafora: un modo di abitare il mondo che si sottrae alla presa del concetto (Begreifen), ma che pure consente all’uomo di dirne, di farne parola.

    “La metafisica – dice Hans Blumenberg – ci è apparsa spesso come una metaforica presa alla lettera; la dissoluzione della metafisica richiama la metafora a riprendere il suo posto”. “Le metafore assolute stanno in corrispondenza con quegli interrogativi considerati ingenui, cui per principio non si dà risposta e la cui rilevanza consiste semplicemente nel fatto che essi non sono eliminabili, perché non siamo noi a porli, bensì li troviamo già posti nella costituzione stessa dell‟esistenza”.2

    Si può quindi anche parlare di significato «ontologico»della metafora, che per Blumenberg ha lo scopo di «stare al posto di qualcosa», nel senso di
    consentire all’uomo di avere qualcosa (il simbolo) al posto di qualcosa d’altro: il reale.

    1 Cfr. Remo Bodei, “Metafora e mito nell’opera di Hans Blumenberg”, in
    Hans Blumenberg a cura di A.Borsari, il Mulino, Bologna 1999,
    2 Hans Blumenberg, Metaforologia a cura di A.Borsari, il Mulino, Bologna 1999 p. 31.

  11. Uno sforzo fuori dal coro
    il subissare colorito di una generazione.

    La parola versata al bar, forse sperduta.
    Una profonda vertigine autoconsolatoria.

    Hemingway alle persiane
    che aprono ancora all’esterno,

    Ehi! lei, proprio lei, senza aver consumato
    si accomodi pure alla cassa!

    Grazie OMBRA.

  12. https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/02/12/28653/comment-page-1/#comment-62948
    Stanza n. 88

    «Non sono morto?», chiesi all’ospite.
    «No, sei un quasi-vivo o un quasi-morto».

    «Dovrei esser morto?». K. fece una piroetta.
    «Perché, dovresti essere vivo?», replicò la Figura.

    «Non so, ci sarà pure una differenza,
    suppongo», insinuai.

    K. non replicò, sprangò tutte le porte, le sigillò con lo scotch,
    le chiuse a chiave, a doppia mandata.

    Poi passò alle finestre. Le chiuse. Sprangate.
    E terminò con lo scarico del water.

    Si sedette sulla sedia a dondolo. Di fronte al frigorifero.
    E attese.

    Ero con le spalle al muro. Così, ho aperto il gas.
    «Sa, preferisco una morte dolce», aggiunsi.

    «L’Enel ha chiuso la corrente elettrica».
    «Anche l’acqua, l’hanno interrotta…»

    *
    Dicevo poc’anzi: «La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma». Ma, quale sia l’enigma io non lo so. Ad esempio, il personaggio K. delle mie poesie è una metafora, la «Stanza n. 88» è una metafora, etc. ma, se dovessi rispondere alla domanda: Qual è l’enigma?, non saprei dove andare a parare.

    Penso che anche Mario Gabriele non sappia bene quale sia l’enigma delle sue poesie, però trova le metafore in quantità considerevole, sono queste ultime che illuminano quale sia l’enigma nascosto nelle profondità del nostro inconscio. Gettano un fascio di luce su quella «Cosa» che giace lì, nel fondo. Ma, non appena avviciniamo lo scandaglio della metafora, ecco che quello che ritenevamo essere il fondo si rivela uno s-fondo. E la ricerca ricomincia di nuovo.

    Ma poi è così importante scoprire quale sia l’enigma nascosto? E qui la palla passa nel campo dei filosofi, sono loro che dovrebbero rispondere a questa domanda.

    Penso, con Pier Aldo Rovatti, che l’enigma non ha una soluzione, può solo essere rivissuto. Penso che nella poiesis l’autore debba limitarsi ad abitare l’enigma, chiedendo con discrezione il permesso ad entrare e a prendervi dimora. Tutto qui.

    • https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/02/12/28653/comment-page-1/#comment-62956
      Stavo leggendo di un autore di poesia, un libro pubblicato in questi giorni da Mondadori (ma lo stesso discorso vale per moltissimi altri libri di poesia), e mi è venuto in mente questo pensiero: il linguaggio poetico viene pensato come se fosse uno «stato di natura» del linguaggio, come se godesse di una libertà di adozione e di fruizione di uso comune e gratuito. Quando invece quella dimensione «naturale» propria del linguaggio viene considerata da un pensatore come Agamben in modo critico come un di­spositivo biopolitico della modernità. Viene accettato in questi autori, implicitamente e senza alcuna coscienza critica, che quel linguaggio che viene adottato in una poesia o in una narrazione, è un linguaggio del biopolitico senza alcuna riflessione critica. Voglio dire, ed è bene ripeterlo, che quel genere di linguaggio poetico altro non è che un dispositivo biopolitico proprio del Moderno, e quindi non mette conto parlarne se non come un linguaggio della biopolitica e, aggiungerei estensivamente, proprio della biopoetica.

  13. Carlo Livia

    A tutti gli innamorati, giovani e…diversamente giovani, ma ancora memori della bellezza contemplata nel mondo degli Dei (idea platonica che suggerisce la sorgente del mistero dell’amore che ci abita)

    L’ANGELO PRIGIONIERO

    La mia donna dai capelli di cielo spogliato
    E di bionde malinconie d’un tempo
    Dallo sguardo di Paradiso violato
    E di preghiera d’anime perdute
    Dallo sguardo di silenzio di violini sepolti
    E d’immensa calamita celeste
    La mia donna dal sorriso di vicinanza degli Dei
    Dall’anima di cattedrale di brezza
    E di primavera suicida
    Dall’anima di profumo d’addio incessante
    E di frontiera proibita
    Dai pensieri di frantumi d’aurora
    Di cieli divelti e notti smantellate
    Dalle parole di sentieri dell’Eden
    Dal corpo di riva sconosciuta
    Dal corpo di altare profanato
    E di vertigine celeste
    La mia donna dal corpo di sorgente dell’estasi
    Dai baci di cieli dischiusi
    Dai baci di silenzio degli Dei
    Dalle carezze di specchi a perdifiato
    E di stanze confuse nell’azzurro
    La mia donna dal respiro di rifugio della quiete
    Dalle dolcezze di madonna pensierosa
    Dai silenzi di giardino segreto
    E d’antiche cerimonie
    La mia donna dal dolore di assenza impossibile
    E di giuramento tradito
    Dal dolore di finestre chiuse per sempre
    In un sogno di Dei in esilio
    Dalla tristezza d’usignolo rapito
    Dalla tristezza d’arpa dimenticata fra le rocce
    La mia donna dalle mani di lune bambine
    Che strappano le radici del pianto
    La mia donna dai gesti di musica e di specchio
    Dalla voce di verande di luce dell’infanzia
    E d’oscuro miele del passato
    La mia donna dalle parole di balaustre di sogno
    E d’immenso ripostiglio azzurro
    La mia donna dagli occhi di lontane avemarie
    E di calme profondità di flauto
    Dagli occhi di ogive marine sull’eterno
    E di misteriosi confini celesti
    Dagli occhi pieni di lacrime del Paradiso
    La mia donna dal volto d’angelo prigioniero
    Dal volto d’ombra divina in uno squarcio del tempo
    E di brezza che ride nel polline dell’addio
    La mia donna dalle labbra d’uragano immobile
    Dalle labbra di dolce rifugio dell’universo
    E di eclissi dell’enigma
    La mia donna dal profilo di sorgente della nostalgia
    Dai baci di precipizio celeste
    E di prigioni spalancate al vento
    Dai baci di morte assassinata che sorride
    E di sospiri di angeli che si svenano
    La mia donna dal sorriso di folle volo di rondini
    Dal sorriso di segreto del tramonto
    La mia donna dai silenzi di navate deserte
    E di sera d’antiche preghiere
    Dai silenzi di culla innevata
    Dall’anima di antiche porcellane
    Dall’anima di specchio delle origini
    E di chiarore nelle tenebre
    Dal passo di delirio in piena luce
    La mia donna dai sogni di statue che sorridono
    E chiudono le uscite del Paradiso
    Dai sogni di azzurre sale di Mozart
    E di scalinate dell’ultimo istante smisurato
    Dai sogni di orfanotrofi degli angeli
    E di tremante capigliatura d’aurora in singhiozzi
    Dai sogni di oscure erbe dell’eterno
    La mia donna dalla lontananza di cielo affamato di stelle
    E di sguardi atterriti di vento
    Dalla lontananza di lune addormentate fra i marmi della fine
    La mia donna dall’assenza piena di spettri che bisbigliano
    Dall’assenza di mura che gridano
    E di notte che precipita stritolando

  14. In una poesia devi poter avvertire lo stillicidio dello sbattere sul niente. Quello sbattere, quell’affondamento è la felicità della poesia, la sua continua incompiutezza e inadeguatezza, il suo costante periclitare e incespicare. Mario Gabriele, dopo tanti anni, corre il rischio di ritrovarsi nello stesso luogo di Marina Petrillo, di Marie Laure Colasson ed Ewa Tagher. Che quella inoperosità dovesse realizzarsi in un amplesso senza gioia di generare e dove solo il contatto, puntuale e disperato col nulla, portasse testimonianza dell’esserci qui, in questo tempo senza disperazione e senza felicità non lo avremmo mai creduto qualche anno fa.

    Dopo Heidegger, nell’ipermoderno, l’ontologia si definisce non più come il fondamento del soggetto ma come una macchina linguistica, pratica e condivisa, come tessuto della praxis, ed il dispositivo ontologico come asse di ricomposizione costituente dell’operare e del linguaggio nel comune. Questa riqualificazione dell’ontologia porta a tutt’altro che al nulla. Una schiera di filosofi, da Nietzsche a Benjamin a Foucault e Agamben ha cominciato a leggere questo nuovo rapporto ontologico come decisivo sull’orizzonte dell’operare. In questa nuova accezione il nulla è nient’altro che un facere, un operare destituente, un operare decostruttivo, un operare istitutore di quel facere che è il nulla.

    Penso che i tempi siano maturi per una Antologia della Nuova Ontologia Estetica. Coloro che in questi anni ci hanno seguito e hanno partecipato attivamente alla ricerca, riceveranno una Lettera di Invito a partecipare a questa impresa editoriale che conclude l’ultimo quinquennio di lavori in corso nei quali la rivista è stata impegnata.

  15. E cosa fa anche il Carlo Livia di questi versi:

    “[…]Era prima del tempo, del pensiero. Quando i gigli non sapevano separarsi dalla luce, e gli angeli spiavano i gemiti delle alcove.
    Quando il cielo era nudo di sguardi, e un orfano piangeva fra le acque indivise. Le sue lacrime tracciavano le strade dei millenni.
    Prima del senso, del lutto, dell’addio[…]”

    se non proporre, come Linguaglossa e Gabriele, Tagher-Colasson-Petrillo e Mayoor Tosi, Gallo, Intini e Cataldi, in molti casi Pierno e Talìa, e dunque come in tutta la poesia-polittico degli ultimi recentissimi tempi, il colloquio permanente tra “parola filosofica”, “parola scientifica” e “parola poetica”, [ e in questo colloquio permanente soprattutto tra filosofia e poesia aggiungerei a buon diritto anche il Francesco Di Giorgio di La cruna lo spazio il tempo (Edizioni Progetto Cultura, Roma)], un colloquio ininterrotto
    nel quale Heidegger legge Hölderlin e Trakl e viene a sua volta interrogato da Celan, una NOE del frammento e del polittico di “pensatori che parlano poeticamente” e di “filosofia che parla attraverso l’immagine create dai poeti”?
    Ben venga, caro Giorgio Linguaglossa, questa Antologia della Nuova Ontologia Estetica.

    (gino rago)

    • mariomgabriele

      Cinque anni di NOE sono tanti, più di quelli che occorrono ad un neo avvocato in uno studio legale..Era necessario produrre il rinnovamento, con nuovi repertori linguistici, a volte riusciti, altre volte un po’ meno meno.Scardinare le porte della Tradizione e della Critica macchiaiola, non è stato facile.

      Assai meno corrispondenti sono stati i rapporti con i poeti elegiaci e di aura decadente.Non si vedono più. Qualcuno ha detto addio alla Rivista,qualche altro si è rinchiuso nella sua filosofia, contestando struttura e progetto della Nuova Ontologia Estetica. Vi è stato uno sforzo incredibile nella creare un linguaggio, tecnicamente evoluto e radicale, rispetto ad una poetica retroattiva e fortemente istituzionalizzata.

      Il mondo, già per se stesso, lontano dalla poesia, quel mondo che tenta di impadronirsi politicamente, intervenendo con azioni e pensieri su un popolo, si arricchisce ogni giorno di capitalismo. Non c’è spazio per la letteratura che stenta a trovare un rapporto di vicinanza con la realtà lesionata dalle tante crisi mondiali.

      .I vantaggi che deriveranno da questa nuova antologia linguaglossiana dovranno passare, a memoria d’uomo e di lettori, come alternativa alla prassi linguistica del postmoderno..

      Coerenti con la linea poetica che abbiamo tracciato, sta a noi,formalizzare una scrittura fatta di composizione combinatoria con tutti i livelli tecnici di giuntura, senza artificio, ma sempre elettromagnetica da scuotere i poli positivi e negativi del nostro esistere.

      • caro Mario,

        gli addii alla rivista sono stati salutari e sono i benvenuti. Le ipocrisie e gli opportunismi sono così venuti alla luce del sole. Del resto, lo comprendo, è ben più agevole stare a ridosso dei punti fermi di una poesia ad aura elegiaca e neoliberale, che non mette in discussione nulla dei propri presupposti che non inoltrarsi in un territorio sconosciuto La NOE ha messo sul tappeto in questi cinque anni una tale arringa offensiva di nuovi attrezzi conoscitivi, di nuove categorie del pensiero poetante che ha finito per mettere alla berlina i conservatori ad oltranza della tradizione a proprio uso e consumo.

        La NOe ha introdotto una forte dis-continuità. Non tutti erano preparati, culturalmente e psicologicamente, ad assorbire l’urto frontale del nuovo pensiero poetico. Io ormai quando ricevo libri di poesia di quel tipo che si scrive da decenni, uguale a se stessa, fedele a se stessa rispondo che non ho gli attrezzi esegetici per entrare in quei libri. Non li ho più. E, se li avevo, li ho dimenticati, rimossi, cancellati.

        Chi vuol esser lieto, lo sia, resti ad agitare le acque silenti dell’epigonismo. La nuova poesia ormai ha maturato il nuovo progetto.

    • Ma fuori dalla poesia dell’idillio e della elegia consolatoria, e alcontrario forti anche le loro poesie del “pensiero poetante”, e/o, se si vuole, del “verso pensante”, non si può fare a meno di considerare altamente antologizzabili Anna Ventura ed Edith Dzieduszycka, Francesca Dono e Letizia Leone, Sabino Caronia, Vincenzo Petronelli e Nunzia Binetti.

      (gino rago)

  16. ETERE ETILICO DAI LAMPIONI

    Paesaggi calmi, la ricerca di un filo spinato.
    La luce non si fece attendere e dunque

    Alla logica sostituì un balzo sulle spalle.
    Perché dovevano allinearsi ai pianeti.

    Dopo tutto vendevano merletti per Orione
    E i mercati del quartiere erano aperti.

    Il ponte spira endecasillabi
    Il cobra nel ristorante cinese

    e dunque si può operare
    il fegato in gangrena.

    Il colombo si tiene stretto
    al forziere di sterco.

    La noia sporge lupi dalla bocca.
    Si comincia da Communio (Lux aeterna)

    Enzimi guastatori, scampati a Norimberga.
    Un melograno secco. Tutankamon tra i rami.

    Talpe ammucchiano stelle
    lava nelle pupille di corvo.

    Gli ossessi con un dente, i malati di spirito
    Furono accettati per quanto di geco avessero nelle code.

    Gli altri vendevano madri a Caronte
    per un appoggio di ventosa sul remo.

    Li vedemmo affrontare il colpo di pistola
    perché una telecamera sostituisse gli occhi.

    Le scene di un colpo alla nuca e Resurrectio
    ceduta a un cent.

    Pure il sangue di Pasolini si vendeva in barattoli di salsa.
    Un grammo della polvere di Ostia andò all’asta.

    Si diffuse la notizia di un trend in salita
    Per i seminatori di scandalo.

    Il tasso di resurrezione salì alle stelle.
    L’aids, la mafia, la shoah annichiliti in un lampo della IX sinfonia.

    Avrebbero inglobato la mandibola ad uno stalattite
    e sacrificato un mammut per la funzione.

    Ma non fu facile riscrivere
    la distruzione di Hiroshima.

    Troppe teste l’una sull’altra e l’ombra
    richiedeva il ritorno in Enola

    Queste cose la luce non le ha mai fatte
    L’esploso di farina si mescola al pensiero

    Poter girare scene fino all’Introito
    tenersi buono il Dio con Dies irae

    Miserere per un giorno.
    Nascondergli la tecnologia dell’onnipotenza.

    Il miracolo di mettere l’assenza di versi in rima.

    Com’è la musicalità delle parole
    che comandano coperte e stufe inesistenti?

    Le bottiglie voltavano il lato offeso all’ asfalto
    Il pavimento si espresse in poetichese

    Il suono perfetto della ruggine.
    Nervi appesi ai crateri di Bari.

    Ci sarebbe stato un getto di noia da un’edicola.
    Un altro da un tombino fresco di stampa.


    La vita non era tranquilla da benzinaio
    Un tale mi puntò la pistola alla gola.

    Poi imparai a vendere giornali e a riscaldami
    Con banconote sull’esofago.

    Capo Giuseppe, svicolò tra i muri
    Nacque una colluttazione tra chiese borboniche

    Portò le ragioni dei nativi in un tombino aperto
    Dentro si scorgevano serpenti di rame e navi verde

    La visione del telegrafo fu fatale
    Ma non come quella post mortem.

    Risalire foibe, prendere tempo, commisurare le forze
    All’ oro. Non ci sono nemici sul confine.

    Cavalli e marce e winchester nessun’ altra memoria
    anidride carbonica finalmente e acqua, sterile forse isterica.

    (Francesco Paolo Intini, inedito)

  17. letizialeone

    Mario Gabriele, Registro di bordo, Progetto Cultura, Roma, 2020

    I miei più cari auguri a Mario Gabriele per questo suo importante libro così ben discusso ermeneuticamente in queste pagine. La sua testualità a polittico, raffinatissimo calcolo compositivo, genera una sorta di visone drogata. Drogata da tutti gli scarti e lacerti della letterarietà, includendo nella letterarietà i linguaggi retorici massificati e mediatici. Un lavoro altamente aristocratico molto lontano dalle immagini o visioni in libertà.
    Ma un puzzle studiatissimo di moltiplicate suggestioni. Figure dalla civiltà dell’immagine frantumate. Una tecnica a polittico per micro-strutture. Le quali moltiplicano e rinnovano un problema di decrittazione, di attribuzione di significati ma soprattutto mettono in azione una efficace tautologia:
    «Rispuntano gli ologrammi.»
    Un raffinatissimo concerto di pensiero critico. Poiesis. Poesia astratta. Leggendo si attiva una sorta di tensione, di emozione fredda, di provocazione sarcastica… Forse il cinismo esibito di chi guarda ormai da «Apres le déluge»…

    • mariomgabriele

      Certo, ce ne vuole, gentile Letizia Leone, di pazienza nel leggere Registro di bordo, che accumula tanti ologrammi, una volta dotati di corpo e anima e che ora sono soltanto remake e oggettologia, trasmessi in polittici e distici letti in futuro come haiku, secondo il pensiero di Lucio Mayoor Tosi.

      .A leggere i miei versi sembrano tanti avatar come nel recente video riportato su L’Ombra delle parole. L’azione scenica varia, tra interni d’anima e,tempo interno e tempo esterno.

      C’è un drenaggio di fronte ad una realistica interpretazione del mondo e della sua evoluzione non positiva, a meno che non ricorra ad una teoresi di tipo scientifico e di appoggio metafisico.

      Ecco la mia poesia, come punto di comunicazione con i lettori e con tutto ciò che oggi disponiamo nella Nuova Ontologia Estetica e di linguistica contemporanea. Un cordiale saluto e grazie della sua attenzione.

      • mariomgabriele

        Mi perdoni, gentile Letizia Leone, se ho dovuto interrompere il mio commento, a causa di un improvviso dolore cervicale, che non mi ha permesso di ringraziarla dovutamente per il percorso ermeneutico, così dinamico e totalizzante, a seguito della lettura dei miei testi,.che ben si inquadrano nella sua teoria critica, così centrale nei dati psicoanalitici e strutturali.

        Nei suoi discorsi estetici,.Giorgio spesso parla della necessità di approdare ad una nuova critica. Credo che lei abbia tutti i requisiti per far parte di questo Circolo, perché ciò che è reale oggi, non lo sarà domani, specie quando vengono a mutare i sistemi politici ed economici, e soprattutto sociali, dove le Arti, in genere, hanno sempre un rapporto diacronico tra ciò che è il linguaggio estetico e il linguaggio dell’inconscio.E’ con questo augurio che le invio i miei più sinceri ringraziamenti, per ciò che ha voluto esprimere e comunicarmi, augurandole buon lavoro e auguri di ogni bene.

  18. milaure colasson

    la poesia di Mario Gabriele si qualifica con la sua sola presenza, è immediatamente riconoscibile, non somiglia a nessun’altra. Corre via sui sandali alati di Hermes…
    Una delle migliori poesie in italiano che abbia mai letto. Complimenti.

    • mariomgabriele

      Ha operato bene la pillola di Enantium, da poter rispondere alla sua gradita e ammirevole sintesi critica sulla mia poesia. Ma non parliamo di me. C’è anche la sua poesia che ha parametri eccellenti, con tonalità estetiche collocate in una dimensione fortemente personale e autonoma. E’ il meglio che si possa leggere tra le tante fisiognomiche poetiche e al femminile, oggi in circolazione. .Auguri.

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