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Remo Pagnanelli, poeta e critico letterario, nasce a Macerata il 6 maggio 1955, dove muore il 22 novembre 1987. Nel 1978 si laurea cum laude in Lettere moderne con una tesi su Vittorio Sereni. Nello stesso anno esordisce come poeta con la plaquette Dopo, cui fanno seguito nel 1984 Musica da Viaggio, nel 1985 Atelier d’inverno e il poemetto L’orto botanico, per il quale è tra i sei giovani poeti vincitori del premio di poesia internazionale “Montale 1985”. Vengono pubblicati postumi l’ultima raccolta di versi Preparativi per la villeggiatura ed Epigrammi dell’inconsistenza. L’opera poetica di Pagnanelli è stata raccolta nel volume complessivo a cura di Daniela Marcheschi Le poesie.
Valente critico, nel 1981 ha pubblicato La ripetizione dell’esistere. Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni e nel 1985 Fabio Doplicher. Nel 1988, postumo, è uscito il suo lavoro più impegnativo, Fortini. L’intenso impegno nell’ambito della critica letteraria e della teoria della letteratura è documentato da innumerevoli saggi, studi e recensioni su poeti e scrittori anche non contemporanei, pubblicati su riviste specialistiche. Parte dei saggi sono stati raccolti da Daniela Marcheschi nel volume postumo “Studi critici. Poesie e poeti italiani del secondo Novecento”. Alcuni studi sull’estetica e sull’arte sono confluiti nel volume Scritti sull’arte, uscito in occasione del ventennale della scomparsa. L’intero corpus documentario di Remo Pagnanelli (dattiloscritti, manoscritti, epistolario) è depositato presso l’Archivio contemporaneo Bonsanti – Gabinetto Scientifico-Letterario G. P. Vieusseux di Firenze.
Per ogni altra notizia il sito ufficiale a lui dedicato (http://www.remopagnanelli.it/).

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Appunto di Flavio Almerighi
Di storie di losers (perdenti) sono lastricate le vie. Come non dimenticare il più perdente di tutti, marchigiano come lui, Giacomo Leopardi? Conobbi questo poeta quasi per caso, facendo una ricerca sul cognome Pagnanelli su Google, non trovai l’origine del cognome, ma la sua poesia. Poesia che va riletta, reinterpretata non più dimenticata. Poesia singolare, poesia piena di risvolti disperati e dolorosi, eppure intrisa di autoironia. Remo Pagnanelli, poeta meraviglioso e fondamentale, che propongo ai lettori de L’Ombra delle Parole.
da una nota di Paolo Zubiena
La vicenda umana e poetica di Pagnanelli appare tutta scandita dall’inesorabile richiamo della morte, basso continuo della malinconia. Nessuna semplificazione omologante tra nosologia psichiatrica e scrittura – arte e vita, come si diceva un tempo , ma non può sussistere dubbio che l’esperienza di Pagnanelli poeta ponga le radici nella sua sindrome depressiva, la cui oscillazione tra Stimmung e psicopatologia è da lasciare al giudizio di chi ha potuto conoscerlo. Già nell’incunabolo degli Epigrammi dell’inconsistenza si riconosce un’esperienza di totale investimento del sé nella scrittura poetica, che trae dalla situazione melanconica (esemplarmente delineata nella figura dell’“hidalgo”) una conclusione di auto cancellazione (la “lunga vacanza dalla terra”). In Dopo la pronuncia e i ritmi si dilatano: echi del tardo Montale e del Sereni post Strumenti umani definiscono strutture monologanti in cui prevale però la dominante disforica: si veda al proposito, in Mezzosonno, la traslazione di un Sereni corporalizzato verso il tema del dissolvimento – dal sonno al freddo del rigor mortis tramite la voce che salmodia la tentazione “di scappare verso la morte”. Un periglioso autobiografismo bordeggia lo sfogo, ma spesso consegue il risultato dell’impietoso (e sia pure a tratti masochistico) referto. La nuova stagione di Musica da viaggio e Atelier d’inverno importa un aumento del tasso sperimentalistico e un’alternanza tra la denuncia dell’inadeguatezza dell’io e quella del disastro politico e sociale, con una più diretta voce patemica. Si coglie forse un eccesso di accoglienza di materiali lessicali disparati (tra l’altro il registro basso-corporale, volutamente sgradevole): quasi a voler punire la tenuta stilistica con una brutale imposizione del reale, visto però tal- volta con una lente troppo confidenzialmente egotrofica. Scrive ottimamente Enrico Capodaglio, autore del migliore contributo complessivo sulla poesia di Pagnanelli: “L’autore ricorre a Freud più come al diagnostico che come al pensatore e adotta egli stesso un’attitudine medicale, nel tentativo non solo di esprimere i legami tra il soma e la psiche, ma anche di guarire gli affini con solidale spirito sociale, in virtù della descrizione della malattia. È come se un medico di acuta intuizione diagnostica ci sfogliasse quelle foto crude che si trovano nei libri di patologia, alternando le spiegazioni tecniche con improvvisi, affettuosi, auspici di guarigione e di salute”.

Commento di Guido Garufi
Remo Pagnanelli, uno scrittore centrale del Secondo Novecento
Mi viene chiesto di scrivere del mio più caro amico e sodale, Remo Pagnanelli, che nel 1987 decise il suo viaggio per un altrove. Mi è difficile scrivere perché Remo è sempre presente in me e questo potrebbe generare un eccesso di proiezione da parte mia. Tenterò una via diversa. Pagnanelli era e rimane un punto di riferimento imprescindibile nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento. Importante nel suo doppio registro di scrittore e di critico. Notti, pomeriggi, telefonate, passeggiate interminabili nella nostra Macerata, e parole, tante parole, giudizi critici, ipotesi teoriche, nuove griglie interpretative. Persino a cena ( anche con la mamma insegnante di Lettere, Luigina – chiamata affettuosamente da mia madre che la conosceva “Gigetta”, il babbo Franco e, allora, la sorella, una giovanissima Sabina) o dopo cena , facendo una rampa di scale nella sua casa di Via Batà. E poi in camera sua, con le lettere, una macchina a staffa ( non si usava il computer e non c’erano cellulari) e poi la tensione godibile, l’attesa di ricevere lettere da Loi, da Sereni, da Fortini, da Bertolucci… Remo, alla fine della serata, disordinato o smemorato com’era, gettava a terra fogli residui o inservibili, accartocciati, gli stessi che con tenerezza diventano in una sua poesia “palle di neve” che- anche lui citato -, il padre raccoglieva e riponeva altrove. E siamo al 1981: decidemmo allora di mettere su, insieme, una rivista, “Verso”, e così facemmo. Ricordo come fosse ora che condividevamo la doppia lettura: verso come il verso dei poeti, naturalmente, ma anche la sua versione latina, “versus” , che appunto vuol dire “ contro”. Remo sosteneva che la poesia aveva una funzione, quella di essere testimonianza, di “martirio” laicamente inteso. La rivista viaggiava bene, benissimo. Intanto il mio amico pubblicava per Scheiwiller un poderoso saggio su Sereni, La ripetizione dell’esistere, che vinse il Premio Mondello. E contemporaneamente il suo primo libro di versi, Dopo. Gli avevo presentato Giampaolo Piccari e anche io stavo pubblicando il primo libro, Hortus. Ricordo, come fosse ora, che decidemmo insieme la sua copertina, insieme scegliemmo un bel bleu.
Remo era un gran lettore, un lettore affamato, non affannato, onnivoro: poderosa nella sua stanza la filiera di testi di critica letteraria e qualche centinaio di libri di poesia. Penso che il suo armamentario filologico ed ermeneutico fosse davvero interessante, almeno per quei tempi. E tutto questo si deduce dai suoi saggi su Fortini, Penna, Bertolucci, Caproni ed una foltissima schiera di apparenti “minori” del secondo Novecento. Un approccio interdisciplinare, a metà strada tra la critica stilistica e quella variantistica. Alla base, come ho detto ma voglio ripetere, un centrale armamentario teorico, l’ assorbimento di Freud e Jung, sorvolando Lacan, ma soprattutto i Maestri, da Contini ai più recenti, con un affetto incondizionato per Debenedetti e Mengaldo. Ma questo per restare in Italia. Già, perché oltre le Alpi c’erano Ricoeur, Levinàs e una piccola schiera di teologi. Non voglio e non debbo qui fare un elenco, sgradito a me e probabilmente ai lettori. Ma è certo che Pagnanelli sapeva unire il suo fiuto ad una notevolissima e ben digerita retro cultura, fiuto, intuito e studio matto e disperatissimo che oggi mi pare assente. E anche lo stile, nonostante le citazioni bibliografiche, era uno stile piano, “narrante”, alla Serra, per intenderci. Un dolce stile, godibile, argomentante, accattivante …A questi saggi di carattere letterario bisogna affiancare qualche “perla” critica sul versante dell’ estetica, dell’arte, del puro visibilismo e sul paesaggio ( rimane sostanziale quanto Remo ha scritto sul rapporto Leopardi-Natura, dove bene si coglie quella interdisciplinarità della quale ho parlato).
Ho fatto solo qualche cenno al Remo critico. Qui informo i mei ventiquattro lettori che aveva anche una passione di fondo, nascosta , recondita: la musica. Mi disse un giorno che il suo vero sogno sarebbe stato quello di diventare direttore d’orchestra. In salotto c’era un pianoforte che non suonava mai(eccetto che con me, poche volte, e sotto tortura) ma non è casuale questo ricordo, quanto alla poesia. Premettendo, come tutti sanno, che un direttore ha lo scopo di “accordare” i vari strumenti, di unirli e “sintonizzarli” affinché ne possa scaturire una “musica” uniforme e totale, ho motivo di ritenere che Remo abbia tentato di fare qualcosa del genere con le sue raccolte di versi, a partire dalla prima, quella con la copertina bleu, Dopo, proseguendo con Musica da viaggio, Atelier d’invero, e quello finale-terminale, Preparativi per la villeggiatura” , che abbia tentato di inseguire una “sostanza musicale” o una “musica di fondo” come sempre mi diceva e ribadiva nei saggi teorici, laddove si occupava di metrica e fonosimbolismo. E’ stato Giampiero Neri ad “accorgersi” di Remo, a supportarlo. Ed è il lessico tonale di Neri che affascinava Remo, una musica di fondo minimale, apparentemente atonale, eppure massimamente espressiva, simile alla indicazione di Montale sul tema della prosa-poesia.
Non sta a me qui percorrere le raccolte, una per una, ma certamente posso segnalare la “qualità” dei suoi versi, pensanti, “pensieranti”, persino quelli che io, come lui sapeva, non “sentivo” e che tanto invece piacevano a Giuliano Gramigna, che poi infatti curò la prefazione di Atelier d’inverno. In una sezione, come Remo riconosceva, faceva capolino Lacan, e io gli dicevo che quella sezione del libro mi sembrava ingolfata. Lui sorrideva, di un sorriso compiacente, sapeva che quei riferimenti all’inconscio che in quel libro alitavano, servivano unicamente come “scarico” di un dramma analitico, come una interpretazione dei simboli del sogno. Non so, dopo tanti anni, perché io ricordi questo. Probabilmente perché dei sogni, sempre, Remo mi parlava, dei suoi sogni, dico, e mi chiedeva l’interpretazione. Abbiamo sognato tanti anni insieme e c’è una poesia, anche ironica, dove ci sono di mezzo io, nella figura del “biografo”.
Ed è questo che io voglio ricordare oggi. La sua mancanza è centrale, perché è stato un uomo, una persona, uno scrittore, che aveva capito la “responsabilità” e il “peso” della scrittura, il ruolo della poesia. E se mi guardo intorno, ne scorgo pochi come lui, capaci di intendere pienamente ciò che sta scomparendo, la Civiltà umanistica, quel residuo che ancora esita e raramente tocca l’umano, la pietà, lo sguardo e la parola degli altri, e agli altri si rivolge, con tenerezza e speranza di comunicare, ancora con i versi e con il cuore.

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Poesie scelte di Remo Pagnanelli
Nel salone
Non conosco il nome della pianta
né mi interessa di saperlo.
Mi attirano soltanto quelle foglie
inverosimili di plastica
che si allargano fino al soffitto
e lo toccano a una altezza pari
alla vista fuori dell’azzurro.
E’ importante per me notare questo azzurro
intenso e sciroccoso – mentre fuori
tutto si agita e si torce qui
niente fa una grinza e le forme del vuoto
si svelano più facilmente.
E’ importante invece che io tenti paragoni
tra interno e esterno? A tessere
l’elogio del primo non penso
e neppure capire il movimento del secondo
mi smuoverebbe. Non faccio nessun
tentativo di intelligenza,
non scavo, non tento nessun collegamento.
Guardo ancora le foglie larghe
e ogni tanto il cielo.
Non ricordo il nome della pianta.
Da Scherzi per un compleanno
a G.
III
Vorresti prenderti in flagrante,
prenderti sul serio il destino del mondo
sulle spalle. Via, scosta questo orrore
e almeno questa volta non lo fare
IV
Auguri in fretta pestiferi uccelli
scaccia presto in fretta altrimenti
come Ipazia la corsa termina
in un frammento.
(dalla Rivista “Salvo Imprevisti” 1981)
Biglietto da viaggio
spesso in una voliera sognami.
Sarà grande garantirà per me
questo splendore, parti pure e
non interrogarti (questione di
attimi e scorderai).
*
mi addormento nel pensiero, non di te,
ma nel pensiero stesso, forse di lui
ma non necessariamente …
Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 100 e p. 202
*

Les Adieux
infilàti in una nebbianebbione tra ordini e contr’ordini gridati
si rivedono i due vecchi amanti da tempo in un ipotetico oltreche.
Lui può assaporarla giovane come ancora la sognava –
hanno l’opportunità di dire te l’avevo detto che non finiva
… anche qui dandosi incontri che falliscono, dove gli dei
non si avventurano facilmente, tutto retto ancora dal caso.
Ma il sospetto di stare assistendo ad un film d’infimo ordine
non li abbandona … e in qualche modo ne sono fuori
comunque, per un po’ d’odore si rianimano al solo guardarsi
fra le crepe rattrappite dei loro corpi di bacca (in una
nebbia-nebbione)
.
Da Le poesie, il lavoro editoriale, Ancona 2000 , p 95 e p. 199
[Musica da Viaggio, poi confluito in Atelier d’inverno]
*
nel nulla di una stazione cancellata da fiandre
piovaschi, sulle sete sudicie ma tese delle
palpebre, scorre un rumore d’impalpabile azzurro,
un tremore di palme arrochite, assopite nel lino
orsolino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
(nel grande fiume di luce apparente, estenuantesi
fino all’estinzione, che porta i morti alla foce
d’un altro destino, dorato da sopra macchie
mediterranee d’una cenere autunnale semplicemente
posatasi, vedo la cupola spenta nel latte del bosco)
(nel treno nella notte chissà se dormi lontana
sorella)
IV TOMBEAU
(pensa nel sonno i sonni fanciulli, li sogna, cigni
neri di inutili cicloni? Le querce gli andavano
dietro, gli echi di lui suonavano dalle rive)
lasse celesti e lunari non castamente mortuarie
(qui) rimarginate da bassa plenitudine e bellezza,
in ciocche decrepite e tiepide urne dove gli occhi
si conservarono (anche le suole alate le sabbie dei
cavalieri)
V
dove gettano leghe di legnometallo, l’oscurità si
sgrana in solventi azzurri, in gomiti cavi di gocce
di cenere (s’animano allora le anime immobili, si
scuote il mare tornato intatto da remale mormorio)
– Chi tu sia, il mio non tronco trattieni con ospitalità
regale, le non più braccia nello stridore sgomento
di una stretta
(non la corrente ma il nuovo gelo ti spaventa,
e tu saltalo, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .
corrompi e sciogli i gorghi, sporcati (poco)
nei liquami – il tuo occhio non regge la visione?
E tu saltala, se sei un arcangelo. . . . . . . . . . . .)
VIII
ora dalla tua ferita (per somiglianza figurale
isolanuvola) fluiscono acerbe ragazze dai colli
lunghi e contesi, che si spengono in una cavea
illune, traversata da un postale, dentro cui suonano
iridi felicemente orientali, dai piedi teneri e
conclusi
(in prossimità del canale si staccano una sera
qualunque teste spedite via)
XI
(una valletta di calici e coppe dischiuse)
gloria levantina scorre su stordimento e pianti
fra una moltitudine di rose travolte da increspature
– vi affonda una mano. . . . . . . . . . . .
(a mezza costa la storia ci sorpassa
ci cancella di volo negli essiccatoi
autunnali – siamo nei piovenali
abbandonati)
XII
la risacca è quella degli anni giovani, logorati
su una losanga emersa da un tiglio genius loci,
ala prediletta e luminosa fra le corde dello
scollamento
(da l’Orto Botanico)
*
L’anno ha pochi giorni perfetti.
Non ci lascia mai incolumi la divinità felpata.
Noi la subiamo come l’eccessivo caldo
o il troppo freddo.
Nel corso passano senza freno i dagherrotipi
della nuova eleganza e ci portano via
le donne e la vita.
.
*
Che altro di strabiliante chiedevo per me,
da lasciarvi tutti così sorpresi e non piacevolmente,
niente che già non si sapesse e di cui si fosse
taciuto e da tanto.
Altri, della passata generazione, direbbe
che il corteggiamento riesce e
del resto chiedere pista e circuire
non è difficile; io nemmeno immaginerei
la morte senza rima come un verso libero.
*
Vorrei fare una lunga vacanza nella terra.
Mie notizie penerebbe il vetro del mare o qualche animale
dal mugugno impigliato nel trabocchetto del buio.
A chi volesse trasmigrerei nelle stagioni intermedie
il fresco dal mio sottocutaneo (la terra
si raffredda più presto del mare), risolto
nel minerale, spesso in simbiosi col vegetale,
assoggettato in altra specie dall’acqua che disperde
in più sciolto da ogni esperimento di corporeità.
*
Forse l’eterno è in questo dormiveglia
di calce mista a biacca senza bagliore,
che elude in inganno ogni virile
aspettazione. Piè Veloce non agguanta
la sua tartaruga né noi il tratto esiguo
d’una giornata.
Vorrei questi versi riversi come un cane
che si abbandona all’agonia.
(da Epigrammi dell’Inconsistenza)
EXILES
Uccelli di specie lontana salutano
passeggiando come foschie sopra
l’adolescente fanciullo adriatico
nell’estivo rifiorire del mare in
un’erica sepolcrale sorella all’autunno.
Gli orti sono invasi da spume presto secche.
forse è ottobre, forse autunno, non sappiamo,
quando s’inazzurrano, per celarsi, le vene
della città, le piane desiderate già al
primo caldo di pasqua, dolci e struggenti.
Scendiamo a coppie sui laghi bianchi, dalle
punte bionde e fiacche, non traslucidi ma
opachi, come noi sul punto di addormentarsi.
Ora fa buio e le candide pernici (nelle estati,
marroni e scattanti ai nostri brindisi)
s’alzano verso gli chalet delle pensioni
e i mangiatori di fiori graffiano le siepi
delle ringhiere.
CLINICA
Efficiente disordine. Bottiglie morandiane
metà opache, lembi di liquide rose sui
guanciali, veli veloci a coprire……………
nel mattino di sole ci si guarda splendere
tra i palmizi e i vasi della villa vicina,
una lacca d’oro entra sulla lampadina
accesa all’angelo custode…………………..
…………………………………………
……………………… (in pozzi bianchissimi e ruotanti
ascolto l’amata traversare vertiginosi
giardini, ignorare gli aliti imputriditi)
nelle brocche, nei cristalli dei lumini
e delle lacrime il tuono delle regate
mosse di fine stagione, lo zoo vuoto
dalle foglie sanguinanti, la schiera
del gruppo che si sgrana e profonda
nel sudore…..……
ora che il fuoco sottile delle lamine è un sogno
della visibilità, un verde pendant di pellicani neri
si versa secco nel parco opaco e voi, fratelli separati,
che la nebbia sbriciola via corrucciati e spenti,
scendete dando le spalle
(da Le proporzioni poetiche. La poesia italiana fra gli anni Settanta e Ottanta, vol.3, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti,Milano 1987)
*
mi godo questa Luce ultima
della fine senza fine.
Profonda
quanto più nel ritrarsi
pare scalfire.
Che non possiede,
che spossessa le cose e te,
riducendo all’osso e al bianco.
Quant’altra sotto ne dorme
che la pioggia non offusca.
Caro Germanico, bisogna sistemare Caproni
Spargere le ceneri di Gramsci nell’aria Satura
Sotto il pitosforo nano del belletto minimal-chic
Dove non cresce oramai che il trifoglio di Malvoglio.
Tu sai, Germanico, quanto i Fortini della politica
Discendenti di Ascanio, dalla Suburra abbiano
Tratto giovamento fin dal regno di Numa Pompilio.
Quanto il “finger food” e lo “street food” siano degni
Del castrato in salsa di cipolla e tortelli di piccione.
Bisogna sistemare Caproni, rileggere il sessanta
E il settanta, capire perché sia fallita l’osteria familistica
I buoni contorni una volta saltati in padella di ghisa
Per l’odierna smania nervosa verso l’antiaderente.
Lucio Mayoor Tosi
13 agosto 2018
Complimenti.
Anche per le precisazioni. Ma non avevo dubbi, sei per me uno scrittore poeta di pennino – termine preso in prestito dalla pittura – capace di segni inaspettati e forti.
Giuseppe Talia
13 agosto 2018
Nell’applicare il linguaggio non si può ad esso attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del fonatore e del relativo muscolo cricotiroideo?
.
Giorgio Linguaglossa
13 agosto 2018
caro Tallia,
ti scrivo questa missiva tra gli ozi di Capua
e i negozi di Ercolano in compagnia del passito di Pantelleria.
Germanico consuma fast food con Orestilla
la figlia di quel coccodrillo di Fasullo
che si è dato al commercio di schiavi
mentre la sua amante, Gaia Priscilla, si gode
un muscoloso negro d’Egitto, nipote dei Tolomei,
dice il manigoldo, rampollo della nobile stirpe
di Osiride e di Anubi. Che vuoi, l’impero è tanto grande
che un frammento di esso occuperebbe
il Circo Massimo e il Foro di Traiano dell’Urbe.
A proposito, hai notizie del poeta Gino Rago?, sai
sono un po’ preoccupato, ultimamente ha cambiato lo stile
della sua poesia, adesso scrive in distici,
ma la sua Musa risulta alquanto attempata e impettita
come una mercenaria di infimo rango
che impiega il belletto e il soffritto di alghe
per i suoi capelli untuosi…
.
Gino Rago
Due inediti
[a Giuseppe T., ad Alfonso C., a Giorgio L., a Mauro P., a Lucio M. T., a Roberto B., e ai poeti oggi non presenti su L’Ombra]
1- Ciò che ci ha amato non ha una via di uscita
L’onda esala odori di libeccio e nei marosi tremano i pontili.
[A noi di terra serve per partire nello sgomento della vastità].
Chi valica i fili degli ultimi orizzonti forse più non torna.
Chi s’imbarca per l’esilio farà ritorno come un’ombra
perché ciò che ci ha amato non ha una via di uscita
2 – Parla il saggio [i marinai lo chiamano «il filosofo»]:
«Meglio non partire,
chi rimane ha sempre la certezza d’una tomba.
Mette i suoi confini all’immensità.
Una pergola fra gli orti.
Un filare di pioppi fra l’avena e il grano.
Un frangivento fra l’arancio e il cedro.
Un canneto fra la marina e il mondo.
Un muro a secco fra se stesso e l’altro.
Tu mi chiedi a chi basta il mare?
Il corallo trattiene le voci dei morti,
la tolda nell’afa di agosto
spande odori di boschi bruciati.»
Ma sugli scogli nella bora insonne il mare mette ali all’anima.
Il grido d’un gabbiano
segno d’eterno fra la spuma e il cielo.
[non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza]
.
Giuseppe Talia
13 agosto 2018
Caro Germanico,
anche io preso dall’ozio dello Jonio con Nosside
ed Afrodite che bevono una detox alla rucola.
Parlano di Kavafis, “Ionio abbraccia Ionio”, dicono
E ridono di Gallieno che in primavera si fa costruire
Giacigli di rose e imbandisce la tavola con vasellame
D’oro: “la memora è come morta”, va affermando
Preso come sempre dalla Playstation e dal gioco
D’azzardo, ironizza sul prossimo Decreto Dignità.
Che serie danno stasera su Sky? Domanda Nosside
L’Ispettrice Athena Licinia con quel gran pezzo di
Claudio Marcello in un thriller nella Gallia Cisalpina?
Afrodite, invece, si è fatta un nuovo tatuaggio
Una banda nera all’altezza del braccio alla maniera
di Dybala e come lui calcia cocomeri in giardino.
Del poeta Rago non ho notizie certe tranne,
qualche straccio che m’è rimasto in un sacco di iuta.
A Marasà l’aspetto il Rago in distici e ditirambi
caro Tallia,
qui nell’Urbe malatempora currunt, il console Salvinus,
quel bellimbusto padrone della Padania,
che se la spassa con la sua Sofonisba, la terrona
della Libia, ha emanato un decreto di coscrizione obbligatoria
per tutti i cittadini sfaccendati della città eterna,
lo chiama, il becero, Decreto dignità…
al fine, dice il manigoldo, di rinfoltire i ranghi
delle legioni del Nord, dice il ribaldo che una nuova guerra
si avvicina con le bande di germani e di alemanni
che scorrazzano nell’impero fino ad Aquileia!
Stattene nella tua Nosside, caro Tallia, qui rischieresti
le legioni del Reno e del Danubio, i freddi fiumi
invernali, le battaglie ingloriose contro i barbari,
bèati dei sicomori e dei fichi secchi della Bitinia
finché sei in tempo…
.
Alfonso Cataldi
14 afosto 2018
Caro Giorgio, Cari avventori,
ho incontrato per caso la Musa dell’Ombra delle parole
all’ufficio postale. Mentre scrivo, gesticola
dietro lo sportello dei distici non ritirati.
C’è un gran ressa, chi ha espletato la pratica
riceve un biglietto omaggio per il foro Traiano.
Tra mezz’ora è atteso il poeta Gino Rago
che spiegherà le ragioni della conversione.
Io non riuscirò a fare in tempo ed altro non so dirvi
ho ancora trenta numeri avanti
le pratiche sono lunghe, manca l’aria condizionata
tutti hanno da spedire un alibi su cui posare il cappello.
.
14 agosto 2018
piove e non piove qui sulle pietre del molo
il cielo si è ridotto ad una frase
le navi che partono hanno ciascuna
una lettera di commiato scritta sopra le vele
e noi dovremmo essere così coscienziosi
da leggere anche le parole cancellate
le navi che ritornano invece
hanno scritte troppo sicure di se stesse
ma questo non ci disturba, è da gran tempo
che dobbiamo inventare i nostri alfabeti.
Mauro Pierno
14 agosto 2018
La propaganda dei nostri sguardi intravede l’ozio delle parole tra nuvole filiformi di batteri incompresi. Questi mostri di discorsi che attraversano le mani.
Nei gesti le estenuanti nude dichiarazioni.
Questo fumo di vento
Ha il volto perso.
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Maria Rosaria Madonna
da Stige. Tutte le poesie (1990-2002), Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 150 € 12
Sai, nel Dottor Zivago c’è il protagonista
chiuso nella casa gelida immersa nella neve…
fuori dalle finestre l’ululato dei lupi.
E’ un poeta. –che cosa fa? –
fa quello che fanno tutti i poeti: scrive poesie.
Scrive poesie, poesie, poesie.
Si deve sbrigare perché tra poco le guardie rosse
lo verranno a prendere. Davvero,
c’è così poco tempo per scrivere poesie.
.
Se Maria Rosaria Madonna avesse saputo che per qualcuno, un giorno, Lei sarebbe stata d’avanguardia, chissà cosa avrebbe pensato. Sono tante e tali le somiglianze…
Le poesie in neolingua sono capolavori, ma sono cosa a parte, sovrumane, fuori dal tempo e per me impossibili da ri-considerare. Ma gli inediti, le ultime poesie scritte nel 2002, insegnano chiarezza e irregolarità. Nel 2002 era già fuori, aveva fatto il salto… Neve inattesa. Sulla fronte. – Fa bene alla pelle.
(citata da Lucio Mayoor Tosi)
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