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Marie Laure Colasson, foto, manichini in vetrina, Come si fa ad entrare in una nuova patria delle parole?, Dialogo tra Jacopo Ricciardi, Giorgio Linguaglossa e Vincenzo Petronelli, Oggi a distanza di cinquanta anni da Satura di Eugenio Montale, Montale lavora cercando una porta che non trova, dopo di lui altri poeti sentono il bisogno di cercare un meccanismo dove far girare la chiave per aprire quella porta, Poesie di Francesco Paolo Intini, Giuseppe Gallo, Guido Galdini
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Due poesie di Franco Fortini, Leggo versi di Sereni, Sopra questa pietra, Così si chiude un’epoca della poesia italiana, Che cos’è un dispositivo poietico?, La Phoné e il Logos, Satura di Eugenio Montale, Dialogo tra Gino Rago e Giorgio Linguaglossa
Constantin Brancusi, Signorina Pogany
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Giorgio Linguaglossa
La Phoné e il Logos
Dispositivi poietici e dispositivi politici sono solidali, hanno luogo nella medesima polis e presuppongono sempre una metafisica. L’articolazione originaria tra la Phoné (la voce che si toglie, viene meno e precipita nel negativo) e il Logos (il discorso articolato in un linguaggio), fonda la phoné come il negativo e il logos come positivo.
Quando, come e perché sorge una nuova «voce» è un Evento che rivela una nuova metafisica. Una nuova «voce» può sorgere soltanto dal perire della vecchia «voce».
La dizione «voce senza linguaggio» significa questo emergere della voce nel e dal linguaggio, nel e dal linguaggio che sta emergendo. La «voce» è sempre alla ricerca del linguaggio più appropriato che possa ospitarla. Il linguaggio è la «casa» della «voce».
Quando la «voce» abbandona un linguaggio, ciò avviene perché quella «casa» è diventata inospitale: ci piove dai tetti, le finestre e le porte non chiudono bene alle intemperie e vi penetra il gelo d’inverno e la calura in estate. Allora, la «voce» deve abbandonare l’abitazione e si mette in viaggio alla ricerca di una nuova abitazione…
La poiesis è quell’ente per il quale ne va, nel suo esistere, del suo aver nome, del suo essere un fare nel linguaggio.
Che cos’è un dispositivo poietico?
Un dispositivo poietico è una costellazione di categorie retoriche ed ermeneutiche.
La poesia di Mario Gabriele e di Lucio Mayoor Tosi, e la poesia kitchen in generale, non può non recepire la riterritorializzazione del trash e del kitsch, prendere atto della spazzatura… non può non de-territorializzare, de-costruire, de-rottamare il già rottamato, il già costruito, il già territorializato, la spazzatura della cultura divenuta cultura del trash e del pacchiano.
Il genere lirico, il gusto euforbito ed eufonico è diventato trash e kitsch, pacchianeria dello spirito, furfanteria di manigoldi…
La poesia consapevole di oggi non può non riterritorializzare frammenti, tracce, orme, lessemi, impulsi, abreazioni, rammemorazioni, idiosincrasie, tic, vissuti, dimenticanze, obblivioni; attaccare post-it e segnalibri, segnali semaforici e somatizzazioni, pixel, trash, pseudo trash, codicilli… questo spetta all’arte, è compito dell’arte senza più voler sondare chissà quali profondità metafisiche; in fin dei conti tutte le tecniche sono parenti strette della Tecnica con la maiuscola che afferisce al Signor Capitale e ai suoi epifenomeni: gli esseri umani, gli acquirenti consumatori di merci. Il Capitale pensa, sa, ma l’arte ne è consapevole e dismette gli abiti di scena, adotta la strategia del camaleonte, si mimetizza tra gli oggetti, vuole essere un oggetto più oggetto di altri, da usare e gettare via; vuole essere un oggetto meno oggetto di altri, vuole essere un conglomerato di orme, di tracce di oggetti scomparsi, luminescenze, rifrazioni di oggetti sprofondati in chissà quale superficie…
Nel volume II/3 del progetto su Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, del 2008: oggetto dell’analisi è, qui, il paradigma del “giuramento” come luogo in cui si rende manifesto il dispositivo “veritativo” messo in campo da diritto e religione, che «sarebbero nati […] per cercare di legare le parole alle cose, per assicurare l’efficacia del linguaggio, per “vincolare, attraverso maledizioni e anatemi, il soggetto parlante al potere veritativo della sua parola”».*
Stante quanto sopra, appare evidente che nell’ambito della poiesis non si dia alcun «giuramento» di voler far coincidere le parole alle cose, qui il dispositivo veritativo non può che essere quello di scollegare, de-collegare il dispositivo veritativo tra le parole e le cose e di introdurre un altro dispositivo veritativo il cui compito precipuo sarebbe quello della istituzione della differenza tra le parole e le cose.
* G. Agamben, Homo sacer, p. 105
Due poesie di Franco Fortini.
Leggendo una poesia
Leggo versi di Sereni
per un amico che morì anni fa. Rammento
quel suo amico e la casa dov’era vissuto.
E quando Sereni ebbe accompagnato
al cimitero del Verano il corpo del suo amico
per l’autostrada oltre l’Appennino ritornò
fissando a uno a uno cinquecento chilometri
riflettendo a poco a poco
verso questa città
che oscilla nei mattini di sole sulle marcite.
Non ho mai capito gli altri né me stesso
ma il modo che ho di sbagliare questo sì. Se mi arriva
una verità è nel mezzo della fronte: è
un’accusa. Ragiono
senza comprendere. Mai sono dove credo.
Avrò parlato quel mattino
come l’idiota che so essere. Qualche bava
gaia avrò avuta alle labbra. Qualche sussidio
per la mia giornata fino a notte.
Per arrivare a passi torti fino a notte.
Incredulo Sereni mi guardava
offeso no ma stupefatto. Era seduto
al suo tavolo e negli occhi sanguinosi
gli duravano le grandi costruzioni della propria morte.
La cortesia e la grazia non so bene che siano.
Dentro questo autobus che ci trasferisce c’è tale un urlìo
che non permette di parlare
e nemmeno di tacere umanamente.
Mi è stato fatto non so quando un male.
Una ingiustizia strana e indecifrabile
mi ha reso stolto e forte per sempre.
Leggo i versi di Sereni per Nicolò Gallo
e scrivo ancora una volta parola per parola.
Non tutto allora è vero quello che ho detto sin qui.
Posso anche io intendere chi noi siamo.
(da Paesaggio con serpente, 1984)
Sopra questa pietra…
Sopra questa pietra
posso ora fermarmi. Dico alcune parole
nello spazio vuoto preciso.
Le grandi storie
tentennano in sonno, vacillano
nelle teche i crani
dei poeti sovrani.
L’enigma verde ride la sua promessa.
Olmi e oh vetrate di Trinity illuminatevi!
Ecco il fulmine di giugno.
Batte l’acqua gronde e guglie.
Lo spazio dei dilemmi è verde e vuoto.
Non può vedermi più nessuno qui, nessuno
mi farà mai più.
(da Composita solvantur, 1994)
Dall’84 al ’94 passano dieci anni durante i quali scompare un sotto genere della poesia italiana: la poesia in forma di missiva che si rivolge ad un altro poeta con il quale si è in interlocuzione. Qui Fortini che si rivolge a Vittorio Sereni.
Un genere o un sotto genere letterario scompare quando le condizioni storiche mutano e ne decretano la inanità. Qui a mutare sono state le condizioni storiche: quel tipo di interlocuzione tra letterati che adottano il mezzo poetico non ha più adepti, non interessa più a nessuno, tantomeno agli interessati. Infatti, la poesia italiana che è seguita a Composita solvantur non presenterà più la crisi della comunicazione tra due persone, tra due poeti, la crisi del conflitto tra due o più poetiche. La crisi delle poetiche non richiede più lo strumento poetico per la sua espressione, perché è la crisi delle poetiche a non fare più testo.
Le poetiche che verranno dopo il 1994 non sono più in crisi perché non ci saranno più poetiche in conflitto, ma soltanto poetiche personalistiche e posiziocentriche che hanno come obiettivo primario la competizione per la visibilità e l’auto storicizzazione.
Fortini ne è ben consapevole quando scrive malincomicamente:
«Dico alcune parole/ nello spazio vuoto preciso».
Così si chiude un’epoca della poesia italiana.
Gino Rago
cari Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Jacopo Ricciardi, Mario Gabriele vorrei porvi una domanda: anche noi della poetry kitchen siamo figli del dopo Satura?
Riflessione su Eugenio Montale, Satura
Satura, il quarto libro di Eugenio Montale , quindici anni dopo La bufera contribuì nel 1971 a dare alla voce del poeta una (sorprendente?) nuova fisionomia. Una novità costruita su due diversi movimenti:
– il primo, più breve, Xenia I e II, si fonda sulle emozioni legate alla scomparsa della moglie;
– il secondo, Satura I e II, si rifà alla “satura” latina, ed è articolato con caustica ironia nell’osservazione critica di una realtà in vistoso, travolgente mutamento.
Con Satura (1971) la poesia di Montale scende dai piani alti e si apre verso una colloquialità distante dalle metafore delle Occasioni (1939) e della Bufera (1956) attraverso una semplicità espressiva fino al 1971, e a Satura, estranea alle precedenti raccolte.
Lo stesso Montale scrive:« I primi tre libri, Ossi di seppia (1925), Le Occasioni (1939), La Bufera e altro (1956), sono scritti in frac, gli altri in pigiama, o diciamo in abito da passeggio».
Il taglio diaristico-narrativo, prosaico-quotidiano di Satura da un lato denota un poeta in grado di sapersi rinnovare profondamente, dall’altro indica la maturata sfiducia nel valore della poesia e nella capacità o possibilità dei poeti a giocare un ruolo decisivo, significativo nella società del dopo ‘68/ ’69: Montale non crede più né alla funzione diciamo salvifica della poesia, né alla idea della poesia come strumento rivelatore di verità, né alla poesia come folgorazione luminosa.
La negazione della poesia impone una nuova poetica, la poetica di chi è chiamato a vivere immerso nel caotico mondo della informazione, nel martellante uso della propaganda, nell’assedio degli oggetti e nella atroce morsura di sterco e di nafta del post alluvione di Firenze che con il pack dei mobili sommerse anche l’idea stessa di poesia.
Su certi aspetti essenziali di Satura e nel nuovo, comunicativo e colloquiale percorso di Montale anche Giorgio Linguaglossa coglie nel dimesso e quotidiano lessico montaliano sia il tono basso che avvolge e coinvolge la figura di Drusilla Tanzi, come moglie, come donna, come guida e come compagna, sia la tendenza di Montale a creare un’ opera strutturata e strutturante che avrebbe influenzato tutta la poesia del dopo Satura per una Weltanschauung ironica e pessimistica nello stesso tempo, e che è valida in tutti i tempi.
Scrive Giulio Ferroni: «In Satura II, insieme a spunti polemici, ritornano con maggiore insistenza oggetti, situazioni, figure del passato: nell’attrito con un presente vuoto di senso e pieno di rumori, di parole, di rottami, questo passato si stempera in un succedersi di segni grigi», con lo stesso Montale che in Intervista immaginaria scrive:
«Non sono sicuro che il mondo esista, che la materia esista, che io esista».
*
Eugenio Montale
XENIA I
Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perché,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.
4
Avevamo studiato per l’aldilà
Un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
Che tutti siamo già morti
5
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
9.
Ascoltare era il solo modo di vedere.
Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco.
14.
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa
Giorgio Linguaglossa
caro Gino,
Montale con Satura (1971) fonda una soggettività discorsiva che si ri-forma come confessione e, altre volte, come monologia nell’atto di porsi-di-fronte a quell’apertura muta, nera, come un black hole che è la Storia, gli eventi della Storia. Montale dimentica, o fa finta di dimenticare, la relazione tra monologia e eterologia e riduce tuta la questione in monologia e monolinguismo. Da questo punto di vista «chiude», non «apre» la poesia italiana.
Quello che fa Montale è una poesia rinunciataria, certo di gran classe come nessuno dei suoi contemporanei era capace di fare, fa una poesia in discesa e di pianura. Montale abbandona la «visione tragica» che lo aveva accompagnato e ispirato da Ossi di seppia (1925) a La Bufera e altro (1956). Pasolini lo bollò: «teppista borghese frequentatore di Grand Hotel». La poesia di Montale diventa monologica, cripto-monologica. Ci si confessa? A chi ci si confessa? – Se si assume la «confessione» come forma poetica dispositiva, come fa Montale, si va a finire dritti nel Foro interiore, e l’elegia rammemorativa ne è la conseguenza in sede poetica. Un risultato conservatore perché prolunga il monolinguismo fino ai suoi esiti ultimi proprio mentre il tardo Zanzotto giunge alla schizoafasia dei suoi ultimi libri degli anni novanta.
In un certo senso, tutta la poesia italiana post-Satura è anche post-montaliana (Zanzotto da questo punto di vista è un epifenomeno), appunto perché sceglie di andare, inconsapevolmente, in discesa, verso una modernizzazione del monolinguismo. A furia di derubricare la poiesis si giunge al monolinguismo del minimalismo romano-lombardo, che pure era qualcosa di decente alle origini.
Oggi siamo arrivati, dopo lunghi decenni di normologia monolinguistica appena modernizzata con innesti lessicali e di derubricazione della forma-poesia, alla poesia auto rappresentativa, in cui i poeti si auto celebrano, si auto rappresentano e si auto storicizzano.
La poetry kitchen che nasce intorno al 2020, e che prosegue la ricerca quinquennale di una nuova ontologia estetica, segna un cambio di paradigma. Ha fatto i conti con la poesia post-montaliana e l’ha messa da parte. Ha fatto i conti con le poetiche autocelebrative del tardo novecento e di questi due ultimi lustri. Non una discontinuità, di più, contrassegna una poesia che vuole misurarsi con le grandi problematiche del nostro tempo, fa una poesia in «salita», rinuncia e denuncia le scorciatoie, adotta un rapporto dialettico e conflittuale con la Storia e con il nuovo mondo globale, bandisce il ritorno all’elegia e all’io ipofisario, all’io rammemorante.
Dimenticavo la cosa più importante: la poetry kitchen annuncia una forma-poesia eterodiretta, cioè guidata dalla logica dell’Altro.
Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Per la poesia pubblica nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).
Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma. Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019
Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue nella ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi, cioè un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia all’altezza del capitalismo globale di oggi, delle società signorili di massa che teorizza la implosione dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico. La poetry kitchen o poesia buffet.
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Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005), I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa.. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.
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Andrea Emo, da La voce incomparabile del silenzio, Da Montale alla nuova fenomenologia poetica, Poesie di Gino Rago, Alfonso Cataldi, Struttura dissipativa Z di Marie Laure Colasson, Commento di Giorgio Linguaglossa
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Z, acrilico, 55×35 cm., 2015]
Il quadro Struttura dissipativa “Z” ci offre la rappresentazione del mondo che è tutto ciò che accade. Tutto il mondo è contenuto in questa struttura dissipativa. Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto.
Una colonna color rosso imperiale che si sdipana dal basso all’alto su uno sfondo di nerità luciferina e una ricca varietà di narrazioni di contorno, intersezioni intersemiche e polisemiche in un arco di semicolori abbaglianti, cangianti e sfumanti. Il rosso porpora, il viola cardinalizio, l’arancione acrilico, il verde bottiglia e il blu cobalto delle carrozzerie Audi insudiciate degli anni novanta, il senape e lo zafferano, la sfumatura di melanzana delle Fiat millecento anni ottanta, il mandarino e il ciclamino, il cinabro dei vecchi muri scrostati dell’Urbe, il carminio dei rossetti popcorn, il bianco sgualcito e rarefatto delle camicie da mettere in lavatrice, le nuances della mostarda e della majonese, della cioccolata, del budino, dell’ovatta usata, il rosa scialbo e livido del yogurt alla albicocca, il violetto sbiadito, il lillà, il color albume dei dentifrici antiplacca, il pourparlerdelle insalate francesi farcite di creme e cremagliere, gli esantemi di funghi arrostiti, gli unguenti di argan, i sorbetti alla mela verde, il color di vino novello e quello in barrique, la variantistica dei rettangoli, delle semi sfere, delle losanghe periferiche e della colonna centrale di rosso imperiale che impressiona, la miriade di pigmenti pulviscolari che scollima con l’effetto di luminosità iridescente.
Tutto ciò il quadro lo raffigura in modo traslato e intersemico e lo convoca in una struttura auto sufficiente e auto immune, erige la propria struttura difensiva e ostensiva perfettamente in grado di rendersi indifferente ed estranea alla prassi, perché la felicità non è nella prassi ma al di là della prassi, al di là della storia. La sola felicità compossibile è quella che è contenuta nella prassi di una struttura dissipativa come atto di negazione del tutto. Scrive Adorno nella Teoria estetica: «la forza della negatività nell’opera d’arte dà la misura dell’abisso fra prassi e felicità».
(Giorgio Linguaglossa)

Lucio Mayoor Tosi, polittico
«Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato…»
(Lucio Mayoor Tosi)
«Sono un errore con sette corpi. Uno è rinchiuso in un vecchio film osceno, gli altri vagano nella cristalliera.»
(Carlo Livia)
«Un Io cade sul pino, un altro scivola sulla veranda.
Tanti annaffiano i trifogli»
(Francesco Paolo Intini)
«Così… me ne sono andato, non esistevo più. E mi sono accorto che ero felice.
Poi mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi»,
disse Xabratax ingollando un tramezzino.
(Giorgio Linguaglossa)
«La prima pagina ha l’occhio stanco,
è una pratica elegante, bisbiglia attimi.»
(Mauro Pierno)
Ecco, nel mondo amministrato dove tutto è regolamentato con la massima precisione, capita di non sapere più come comportarsi nelle cose più elementari come entrare in un bar per prendere un caffè…
Così non sai come iniziare una poesia, se dalla testa o dalla coda, se dal «ripostiglio di sartoria teatrale» o dai miasmi fetidi di un cassonetto di immondizie che staziona qui sotto casa mia in via Pietro Giordani n. 18 a Roma. È che è diventato problematico l’inizio e la fine. Ed è diventato problematico anche proseguire dopo l’inizio. Per dire cosa? È il «dire» che è diventato problematico.Come si vede da questi esempi di autori della nuova fenomenologia estetica, qui siamo dinanzi ad un linguaggio impiegato come una sorta di tic localizzato, si tratta di frasi che affiorano in una situazione linguistica per decontestualizzarla, sono frasi scritte in una sorta di pseudo linguaggio che collide con il linguaggio adottato dalla collettività nel quale una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla più o meno bene. Nel linguaggio adottato in modo irriflesso dalla collettività le singole frasi si dispongono in modo da designare degli stati di cose o azioni che obbediscono a delle convenzioni comunemente accettate. Però, però… ci sono anche delle altre convenzioni, implicite, soggiacenti che fanno riferimento ad altri stati di cose e ad altre presupposizioni linguistiche. Quando parliamo noi non ci limitiamo ad indicare soltanto delle azioni ma poniamo in essere degli atti che ci assicurano un rapporto fisso, stabilito con l’interlocutore: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli «atti linguistici» performativi (speech-act) i quali impongono la necessità di una risposta (io vi ordino…); al contrario, le frasi non-constatative sono quelle che fanno implicito riferimento a stati di cose soggiacenti, impliciti e implicati in altri ordini di discorso che sono dati per presupposti e per possibili, che non sono delle invarianti.
Ebbene, i versi sopra riportati sono indiscutibilmente di quest’ultimo tipo, non richiedono una risposta «si-no», non impongono un comportamento cogente, ma si limitano a sollevare nell’interlocutore dei distinguo, delle eccezioni, a indicare delle risorse, delle possibilità, delle eventualità, aprono degli spazi di manovra, degli spazi mentali.
Al contrario, se leggiamo le frasi di un maestro storico della poesia italiana del secondo novecento, Montale, ci accorgiamo che siamo dinanzi ad atti linguistici constatativi, che riconoscono uno stato di cose accertato e non messo in dubbio.
«La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei piú) che mai sia esistita.»
(Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72)
Si tratta, come ognuno potrà notare, di una differenza di fondo tra due tipi di impostazione del discorso poetico che non potrebbero essere più diversi e contrastanti.
Mi sembra evidente che la nuova sensibilità del discorso poetico della nuova fenomenologia del poetico richieda l’adozione di proposizioni non-constatative che prediligono le espressioni dubitative, incidentali, approssimative, anche assurde o illogiche, anche ultronee, che recidono il linguaggio da ogni referenza.
(Giorgio Linguaglossa)
Gino Rago
Storia di una pallottola n.9
Cade un biglietto dal settimo piano di via Gabriello Chiabrera.
Una folata di vento.
Atterra sul balcone del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani in Roma,
accanto a delle scatole cinesi con l’immagine di un drago rosso.
C’è scritto: «Tanti saluti mon amour!».
Il commissario Ingravallo prepara la retata.
Circonda l’abitazione del poeta Linguaglossa al quinto piano.
Fa irruzione.
Sequestra una piuma di struzzo, un chewingum, una scatoletta di tonno sott’olio
e il famoso biglietto.
«Linguaglossa, lei è formalmente inquisito»
Alfonso Cataldi
Vedi? Un’occasione persa
Si può descrivere un rossetto in quarantena
dal taglio obliquo netto sulla punta?
Il becco esamina il lacerto inattaccabile.
Vedi? Un’occasione persa a zoomare espressioni da diporto.
Siamo voci pop chiuse nella cavità di un tronco
il cuore della trattativa lambisce la città.
È necessario dichiarare nomi e cognomi.
Nominando accade. Cosa? L’incipt
irreparabile di una somiglianza distaccata
nell’attesa dell’evento collettivo.
Bad news: il mito ha smesso di bruciare
la cenere ricopre la post-evacuazione.
Good news: Popeye da giorni accumula spinaci nella stiva
è pronto per lanciare il Covid dentro l’orbita lunare.
caro Giuseppe Gallo,
L’idea della nuova poesia che stiamo tentando è disattivare il significato da ogni atto linguistico, de-automatizzarlo, deviarlo, esautorare il dispositivo comunicazionale, creare un vuoto nel linguaggio, sostituire la logica del referente con la logica del non-referente. Ogni linguaggio riposa su delle presupposizioni comunemente accettate. Non è qui in questione ciò che il linguaggio propriamente indica, ma quel che gli consente di indicare.
«Una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla, completarla o dare ad essa delle alternative: è a questa condizione che il linguaggio si dispone in modo da designare delle cose, stati di cose o azioni secondo un insieme di convenzioni, implicite e soggettive, un altro tipo di riferimenti o di presupposti. Parlando, io non indico soltanto cose e azioni, ma compio già degli atti che assicurano un rapporto con l’interlcoutore conformemente alle nostre rispettive situazioni: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli “atti linguistici” (speech-act)».1
Per la nuova poesia è prioritaria l’esigenza di disattivare l’organizzazione referenziale del linguaggio, aprire degli spazi di indeterminazione, di indecidibilità, creare proposizioni che non abbiano alcuna referenza che per convenzione la comunità linguistica si è data.
(Giorgio Linguaglossa)
1 G. Deleuze in Gilles Deleuze Giorgio Agamben, Bartleby La formula della creazione, Quodlibet, Macerata, 2012 p. 20
«Il disallineamento frastico, il dislivello tra i singoli sintagmi, l’interruzione di ogni enunciato, è questo il lavoro nel quale sono personalmente impegnata. Il significato deve essere bypassato, dribblato, eluso, solo così si può ottenere un significato ulteriore, citeriore, anteriore… Aprire una parentesi all’interno di ogni enunciato, e un’altra parentesi fuori dall’enunciato, e così via… fare del terrorismo, terremotare ogni enunciato, dissestarlo, de-costruirlo, smobilitarlo.
Fare del terrorismo all’interno di ogni enunciato è un lavoro serissimo, che dovrebbe appartenere al bagaglio di ciascun poeta, perché oggi non si può adottare un significato così come ce lo consegna già confezionato il sistema delle emittenti linguistiche.»
(Marie Laure Colasson)
Andrea Emo
da La voce incomparabile del silenzio, Gallucci, 2013 pp. 49-50
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.
(Q. 265, 1964)
È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione.
Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia.
A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.
(Q. 265, 1964)
Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.
(Q. 280, 1965)
La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.
(Q. 309, 1967-68)
L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi.
Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto.
(Q. 331, 1970)
L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi?
(Q. 336, 1970)
Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla.
(Q. 336, 1970)
L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso.
(Q. 340, 1971)
Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare.
(Q. 244, 1971)
Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale.
(Q. 347, 1972)
Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire?
(Q. 347, 1972)
La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere?
Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza.
L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione.
(Q. 355, 1973)
…Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati.
(Q. 359, 1973)
L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto.
(Q. 370, 1975)
Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione…
(Q. 372, 1975)
La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?)
Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere?
(Q. 372, 1975)
… Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio…
(Q. 372, 1975)
L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile…
(Q. 381, 1977)
Parola
L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte…
(Q. 9, 1921)
Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela…
(Q. 9, 1929)
La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte…
(Q. 14, 1932)
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Pop-poesia, l’ossimoro nella nuova poesia italiana, Il ciarpame e il non ciarpame, Il giudizio di gusto, Autointervista, Dal «ripostiglio di sartoria teatrale» all’attuale miniera di rifiuti e di stracci, Marie Laure Colasson, La Cosa, Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson, La Cosa, acrilico su tavola 50×40, 2020
Il quadro raffigura l’evento di un «corpo in brandelli» come «nuda cosa». Nuda cosa come corpi neutri, al di là del godimento e al di qua del soggetto, al di là del significante e al di qua del segno. Finché c’è il soggetto il corpo non può esserci. Se c’è un corpo, non c’è il soggetto. Il corpo è e non è, non viene incontro a nessuno. Il corpo è in quanto non è.
Agamben afferma che le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza.
L’«evento di un corpo» lo si raggiunge attraverso il «fantasma di un corpo». Si ha evento in quanto si ha un fantasma. È chiaro che qui ci si muove in un campo mondano del tutto privo di trascendenza. Un corpo abita la condizione in cui attualmente si trova. La sua condizione è quella che è, quello che fa è fare qual-cosa di quello che si è. Il corpo che conosciamo è il corpo che parla, che si esprime attraverso un sintomo che qualcuno deve interpretare; ma se il corpo diventa un sintomo, cioè un segno, allora il corpo reale svanisce, e rimane solo il significante di qualcos’altro. Nel corpo reale questo continuo slittamento di senso (di per sé inarrestabile, come quello scoperto da Saussure negli anagrammi), si arresta. Il corpo reale smette di essere sintomo, cioè linguaggio, e diventa quello che Lacan con un neologismo definisce «sinthomo», cioè un corpo che vive fino in fondo la corporeità che è. Il «sinthomo» per Lacan è allora il corpo che è passato «al livello del reale». Il nastro di Mœbius esibisce questo movimento: Il passaggio dal corpo-sintomo al corpo-«sinthomo» è di per sé un processo del tutto normale. Si tratta di vedere quello che era da sempre lì, il corpo nudo, brandelli di corpo nudi che galleggiano su un fondale di oscurità. Un corpo fatto a brandelli, brandelli di corpo. Come sul nastro di Mœbius, ci si accorge che allontanandosi in una direzione dopo un tragitto che può essere anche molto lungo, si torna al punto di partenza. I brandelli di corpo che galleggiano sull’0scurità sono in viaggio, si preparano alla «traversata del fantasma». Si scopre così che non esiste un punto di partenza, o un punto di vista, e che siamo sempre stati nello stesso posto. Si scopre soprattutto che tutto è lì in vista, che non c’è un segreto, perché nel magico quadro di questa struttura dissipativa l’interno diventa immediatamente l’esterno, e vice-versa. Nel quadro non c’è né interno né esterno, c’è un corpo-superficie in brandelli. È questa la caratteristica dell’«evento di corpo», del «corpo in brandelli» che non ha bisogno dell’Altro, ma nemmeno lo teme; non ha bisogno di un significato né di un significante, che vive la vita che vive, una vita amebiotica perché essa è l’unica vita che gli è dato di vivere, di cui può fare esperienza.
(Giorgio Linguaglossa)
… la pop-poesia è un ossimoro. In greco, oxymoron vuol dire “acuta follia”. C’è, infatti, dell’acuta follia a mettere insieme termini in apparenza così distanti e inconciliabili come il pop, cioè il popolare, e la poesia, la disciplina più elitaria, almeno se la si pensa in termini di disciplina di nicchia riservata ai professionisti della «poesia». Ma, se si esce da questa visione angusta e mortifera che concepisce la poesia come un discorso fatto da cerchie ristrette di professionisti auto nominatisi «poeti» per cerchie ristrette di altri auto nominati «poeti» che non sempre si capiscono tra di loro, ecco che allora l’ossimoro non sarà più tale…
Giorgio Linguaglossa
Così… me ne sono andato
«Così… me ne sono andato, non esistevo più. E mi sono accorto che ero felice.
Poi mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi»,
disse Xabratax ingollando un tramezzino.
Il parrucchiere François finì di tagliare la zazzera al ministro degli esteri,
il quale se ne andò senza pagare.
Un elicopter-money si alzò in volo e fece cadere banconote da 50 euro
sulle teste dei cittadini a piazza del Popolo.
«Sì, in casa ho un busto di Mussolini – replicò Žižek –
Però non mi è chiaro come faccia un drone a localizzarmi».
«Either you’re the butcher or you’re the cattle» [o sei il macellaio, o il bestiame] rispose Mister Bim, ma l’interlocutore era andato al bagno a fare la pipì…
Cianfax fece un giro attorno al tavolo.
«Tutto quello che ci circonda, comprese queste sedie, è una produzione della mia mente, una creazione del mio pensiero».
Žižek non replicò.
La lampadina riprese a tossire.
Entrò una femboy di polistirolo liquido e silicone in calzamaglia nera
e diede un bacio ad Azazello.
Petit déjeuner dans un hôtel à New York.
Sur fond de télévision allumée en permanence.
Deux grands écrans plats encadrent cette petite salle à manger
où les hôtes sirotent leur café et mâchent leurs bagels.
Les images d’actualité défilent en boucle,
les commentateurs commentent, leurs mots bourdonnent en bruit de fond.
Nous écoutons distraitement.
Il cavaliere solitario siede sulla riva del mare.
Gioca a scacchi con la Morte.
È una inquadratura della famosa scena del film Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1956).
Entra una sventola, dice che è la controfigura di Ursula Andress,
invece è una ladyboy di Rekjavik, una famosa pornostar,
adesso sta orinando davanti alla webcam.
Il Cavaliere di Coppe cita Wittgenstein: Il mondo è una scacchiera
e noi gli scacchi.
Lilli Gruber grida alla telecamera: «Ridatemi il mio vero volto!».
Xabratax gridò: «L’imperfezione del nulla è il reale!»,
e si richiuse nel loculo da dove era improvvidamente sortito.
Il tenente Sheridan appende la giacca sull’attaccapanni,
dice che Ingravallo non capisce niente.
Marilyn ritornò sulla scena con il famoso vestito rosso che si sollevava al vento.
Ci fu un gran fracasso di telecamere.
Un gabbiano beccò la testa di un corvo. E sparì.
È la scena finale di À bout de souffle di Godard (1960):
Jean Paul Belmondo viene raggiunto dalla pallottola di un poliziotto.
Fugge. Caracolla. Inciampa e muore sull’asfalto.
Le ultime parole…
Scusate, ho dimenticato le ultime parole.
Stamane ho aperto un libro di un autore di poesia di oggi molto noto, milanese. Ecco il brano iniziale di una sua poesia:
Da che luce d’altopiano da che crollo
memoria di boato o di schianto
viene l’uomo che adesso si appoggia
al muro di un sottopassaggio
e piange e sembra grugnire scuote una ringhiera
dicendo tra le lacrime…
Si tratta di una monodia, una litania, con quell’abbrivio: “Da che…” che introduce un tempo approssimativo che va dall’imperfetto al presente secondo lo schema della ontologia poetico-narrativa maggioritaria di questi ultimi decenni: Ricordo + personaggio + descrizione + io fuori quadro… secondo uno schema poetico collaudato e consunto dal retrogusto letterario di seconda mano, È chiaro che qui si fa poesia professionale, si fa della poesia una professione, la poesia diventa un linguaggio monodico, litanico, schiava del referente posto nel ricordo in un punto preciso della memoria, come se la memoria fosse un deposito di bagagli di una stazione ferroviaria. Da questa concezione della memoria come deposito di bagagli e di oggetti smarriti ne viene anche lo stile degli enunciati che corrisponde a quel deposito di bagagli dimenticati di una stazione ferroviaria. Il testo è immobile e l’io lo può descrivere dall’esterno, da un punto fisso dell’esterno. Del testo si perde anche la polisemia del linguaggio poetico il quale è il prodotto riflesso e meccanico del punto di vista dell’io narrante. Il dicibile non proviene dall’indicibile ma dal dicibile. Tutto è detto, tutto è esplicitato. Non c’è nulla da capire e da carpire, il lettore capisce tutto.
Heidegger dice che il linguaggio poetico è “polisenso […] . La polifonia del poema […] proviene da un punto unificante, cioè da una monodia, che in sé e per sé, resta sempre indicibile. La molteplicità dei significati propria di questo dire poetico non è l’imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere”.1
“La poesia è istituzione in parola [Worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione,ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”.2
Chiosa Gianni Vattimo:
“quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”.3
1 M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, p. 74
2 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, p. 50
3 G. Vattimo, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in AA. VV
Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, p. 293.
Autointervista
Domanda.
«Come distinguere il ciarpame da ciò che non lo è?. Una domanda ingenua, una domanda assurda. Possiamo solo avanzare su quest’assurdità. E andare oltre. In questa catastrofe nella quale ci troviamo nel mondo del Covid19, ci troviamo a dover decidere che cosa è ciarpame e cosa non lo è.»
Risposta n. 1:
«Tutto è ciarpame, ma nel ciarpame ci sono continue bellezze.»
Risposta n. 2:
«si tratta di una risposta di comodo. Fa comodo rispondere con il panegirico della bellezza e altre amenità. Io ad esempio non trovo alcuna bellezza nella volta stellata o nel corpo nudo di Marilyn. Se guardate da vicinissimo il corpo nudo di Marilyn al microscopio e la volta stellata con il telescopio, ne vedreste di orrori!
In realtà ciò che chiamiamo bellezza è semplicemente il nostro punto di vista antropogenetico.
Dal «ripostiglio di sartoria teatrale» all’attuale miniera di rifiuti e di stracci
Prendiamo, ad esempio, una poesia di Gino Rago o di Mario Gabriele e della nuova ontologia estetica e confrontiamola con quella del tardissimo Montale, quello del Diario del ’71 e del ’72. Il disallineamento fraseologico, la compresenza di salti e sovrapposizioni temporali e spaziali, l’intervento e la compresenza di interferenze e l’impiego di Avatar, Icone, Luoghi e personaggi svariati danno alla poesia della nuova ontologia estetica una mobilità e una imprevedibilità assolutamente originale. Nella NOE non c’è più il «soggetto» che commenta, glossa, legifera o delegifica intorno ad un oggetto, anzi, l’oggetto si è liofilizzato, è diventato polistirolo liquido, si è atrofizzato e non se ne trova più traccia… se non nelle discariche, nei rifiuti urbani e suburbani, nei retrobottega del Monte del Banco dei Pegni, nei retrobottega dei rigattieri e nei magazzini di Porta Portese…
La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei piú) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.
Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72
Dal «ripostiglio di sartoria teatrale» all’attuale miniera di rifiuti fetidi e di stracci delle discariche abusive di oggi che noi della nuova poesia abbiamo preso ad oggetto della nostra poesia, dicevo, dal 1972, dal Diario di Montale ne è passato di tempo. La sola musica che io personalmente sopporto è quella che promana dagli stracci e dai depositi di liquame fetido delle discariche. Spero che questo sia anche il Vostro intendimento cari amici di cordata.
In tal senso, noi rinnoviamo e proseguiamo la tradizione. Siamo noi i veri alfieri della migliore e più critica tradizione del novecento italiano. Questo almeno lo dovranno ammettere i nostri accusatori-detrattori.
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Antologia di poesie e immagini a cura di Carlo Livia
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Dialoghi e Commenti del 29 e 30 settembre 2018 sul Punto di vista, la poesia monocratica, la nuova ontologia estetica, la nuova poesia – Poesie di Eugenio Montale, Keepsake, Carlo Livia, Alfonso Cataldi, Mauro Pierno
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«La scarpa da donna dipinta da Maria Rosa presenta un vistoso errore: dal punto di vista compositivo è decentrata a sinistra. Maria Rosa non ha tenuto conto della superficie da occupare, non la ha preventivamente organizzata, e ha certo disegnato in modo frettoloso. Pare il fotogramma di una carrellata cinematografica scelto a caso. Tuttavia a me è piaciuta proprio per questo errore: è possibile che la scarpa si trovasse alla sua sinistra, a sinistra del tavolo dove Maria Rosa stava disegnando. Anche nella scrittura a frammenti può capitare che la “cosa” si presenti nel posto sbagliato, a interrompere un pensiero, oppure per creare una situazione imperfetta, casuale.
Credo si possa dire che la casualità è una delle componenti estetiche della Nuova ontologia estetica. Ovviamente si tratta di casualità voluta, composta con elementi estranei al discorso. Parole e cose decentrate, esattamente come la scarpa di Maria Rosa, concorrono a creare quell’anarchia compositiva che è parte costitutiva della scrittura viva. Così come appare nella percezione, la realtà è autentico disordine.»
Giorgio Linguaglossa
caro Lucio,
il problema è molto semplice. Il problema è: se noi osserviamo il mondo dal punto di vista della logica dell’identità, tutti gli oggetti, tutta la variabilità del mondo ci appariranno da quel punto di vista identitario: il punto di vista dell’identità che risponde alla logica di un «soggetto» monocratico che legifera attraverso le parole e la sintassi e le regole retoriche. Il fatto molto semplice che i poeti di fede non riescono a capire che il mondo è composto da una infinita quantità di variazioni e di variabili e voler ridurre tutta questa variabilità ad un discorso monocratico è un atto di sciocchezza estrema e di arroganza illimitata (le due cose vanno insieme)… quella «anarchia compositiva» cui tu accennavi, è una autentica fortuna, infatti Maria Rosa deve ringraziare l’errore del «punto di vista» se ha fatto un dipinto interessante… un pittore più professionale non avrebbe commesso quell’errore e avrebbe raffigurato una «scarpa» che rispondesse alla logica di un soggetto monocratico e identitario…
Quello che noi stiamo cercando di spiegare in tutti i modi a chi ci legge è che anche nella poesia le cose non cambiano: se si accetta senza pensare il pregiudizio, la logica del punto di vista unico, monocratico, identitario, si finisce inevitabilmente per scrivere una poesia monocratica, forzosa, forzata a rispondere alla logica identitaria, cioè una poesia già scritta una infinità di volte…
Il poeta, il pittore, lo scultore, l’architetto etc se fanno professione di fede, se compiono un atto di fede, creeranno delle cose che fanno tutti e che saranno presto dimenticate, cose antiche, antichizzate, replicate miliardi di volte…
caro Giorgio,
ero indeciso se inviarti una mail per ringraziarti di questo tuo ulteriore intervento sulla mia poesia perché tutto rimanesse in forma privata. Poi ho ritenuto che tutto si svolgesse alla luce del sole e alla conoscenza dei lettori dell’Ombra. Devo confessarti una cosa: tu hai ricoperto il vuoto che la critica ufficiale del Secondo Novecento ha lasciato sulla mia poesia, fatta eccezione per Giuseppe Zagarrio che mi ha inserito nel suo Repertorio della poesia italiana degli anni 1970-1980. e di altri riscontri critici, svolazzanti di qua e di là. Non è, sia ben chiaro, che io li richiedessi. Non me ne sono mai interessato. L’unica cosa a cui tenevo era produrre una buona poesia per me e gli altri. Forse, alla fine, ci sono riuscito, non lo so.Certo è che mi trovo a mio agio con un postmodernismo linguistico che fa da ponte con i miei sensori psichici,con un notturno metafisico che giustamente e con grande sensibilità Carlo Livia ha messo in evidenza in un precedente post, rispetto alla poesia di Eliot. Per questo ho un grande debito con te, che mi accompagna nel corso della giornata. Sta qui l’elemento di riconoscenza che non si dissolve nel tempo e che diventa motivo in più per non dimenticare. Grazie.
Carlo Livia
Sentieri Interrotti
per Mario Gabriele
Ogni fanciulla è un rifugio dell’amore.
Ogni amore un fiore del tempo.
E il tempo è un pensiero di Dio.
Un pensiero d’amore.
Nessuno volle più abitare il silenzio.
Preferirono il nulla.
Quando nasce la musica
l’eternità lascia le rovine del sonno
Chi mi ama prende la mia forma
e siede sull’orlo del precipizio.
Fra la moltitudine dei paradisi
scegliamo sempre il più lontano.
Il mondo che mi aveva visto sparire
si coprì d’una pallida tenerezza.
Mi fermai per sempre nel cuore del mistero
e tutti gli sconosciuti mi chiesero perdono.
Un sospiro fra altre grida:
il Signore muto mi fece cenno.
Che dire, gentile Carlo Livia, del suo testo poetico? I distici risuonano di una musica verbo-iconica che si armonizza con l’uso del frammento. Lei opera con disinvoltura anche sul piano della nuova ontologia estetica, inserendo scatti esistenziali e metafisici all’interno di una scrittura poetica che si lascia leggere volentieri. Con cordialità e grazie.
Alfonso Cataldi
In un sussulto
«Lasciarsi alle spalle il bouquet
in un frangente di tiepido sole»
ammise il life coach, di ritorno
da un breve volo interno.
La curva vagabonda di lamiere e fiamme sorseggiava un drink
il maltempo fu deviato dai ritagli di giornale.
Un accumulo di ordini e contrordini
arrestò il malessere
l’attività della buca delle lettere
al culmine del dibattimento
è necessario svenire, fingere un collasso
nel covo inesplorato di corpo contundente
[…]
L’assistente si toglie il grembiule.
Esce fuori dallo story-telling
coi primi lampi del mattino
distrae il giro della morte
al Nürburgring. L’incubo d’oro è sotto controllo
tra lingue biforcute e calici serrati
si nutre dei rantoli di luce la chiaroveggenza
in un sussulto di selvaggia abnegazione.
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IL GRANDE PROGETTO: USCIRE DAL NOVECENTO Alfredo de Palchi, Eugenio Montale, Angelo Maria Ripellino, Giorgio Caproni, Alda Merini, Amelia Rosselli, Helle Busacca, Salvatore Toma, Giuseppe Pedota, Roberto Bertoldo, Giovanna Sicari, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura, Mario M. Gabriele, Letizia Leone, Donatella Costantina Giancaspero, Francesco Nappo, Cesare Viviani, Luigi Reina – a cura di Giorgio Linguaglossa, – le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate»
…quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).
Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista come Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. La poesia di Ripellino nasce in controtendenza, estranea ad un orizzonte di gusto caratterizzato da un’ottica ideologico-linguistica dell’oggetto poesia, e per di più, in una fase di decollo economico che in Italia vedrà l’egemonia della cultura dello sperimentalismo. Che cos’è il «modernismo»? Si può dire che il modernismo in Europa si configura come un atteggiamento verso il passato, una sensibilità di continuità verso la tradizione unite con un senso vivissimo della contemporaneità. La poesia modernista europea si configura come un vero e proprio dispositivo estetico: un campo di possibilità estetiche che trovano la propria energia da uno scambio, una cointeressenza, una convivenza tra le varie arti, una simbiosi di teatro e poesia e una interazione tra i vari generi. Di fatto, però, nella poesia italiana del primo e secondo Novecento risulta assente un movimento «modernista» come quello che si è verificato in altri paesi europei durante la prima parte del secolo (Eliot e Pound, Pessoa, Halas, Holan, Achmàtova, Cvetaeva, Mandel’stam, Rafael Alberti, Machado, Lorca, e poi Brodskij, Milosz, Herbert, William Carlos Williams, Cummings, Wallace Stevens sono da ascrivere alla schiera dei poeti modernisti); questo ritardo ha oggettivamente condizionato la nascita e lo sviluppo di una poesia modernista ed ha fatto sì che in Italia una poesia modernista non ha trovato il modo di attecchire e di mettere salde radici. La poesia di Ripellino arriva troppo presto, in un momento in cui non c’è uno spazio culturale che possa accoglierla. Il poeta siciliano crea, di punto in bianco, un modernismo tutto suo, inventandolo di sana pianta: un modernismo nutrito di un modernissimo senso di adesione al presente, visto come campo di possibilità stilistiche inesplorate, e di sfiducia e di sospetto nei confronti di ogni ideologia del «futuro» e del «progresso» e delle possibilità che l’arte ha di inseguire l’uno e l’altro. Quello di Ripellino è un modernismo che ha in orrore qualsiasi contaminazione tra arte e industria, o tra linguaggio poetico e ideologia, un modernismo privo della componente ideologica della modernizzazione linguistica, un modernismo intriso di un vivissimo senso di conservazione culturale che ingloba e attrae nel proprio dispositivo estetico la più grande massa di oggetti linguistici come per neutralizzarli e tentare di disciplinare stilisticamente l’indisciplinabile, il non irreggimentabile. È stato anche detto che la poesia di Ripellino piomba nella letteratura del suo tempo come quella di un alieno. È vero. E del resto l’autore ne era ben cosciente quando scriveva: «La mia confidenza con la poesia di altri popoli, e in specie con quella dei russi, dei boemi, dell’espressionismo tedesco e dei surrealisti francesi, era un peccato di cui avrei dovuto pentirmi». Gli rinfacciano di essere uno «slavista», stigmatizzando il suo essere al di fuori delle regole, un non addetto ai lavori.
Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane e; nel 1976, il suo lavoro più impegnativo: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985); il suo è un personalissimo itinerario che non rientra né nella tradizione né nell’antitradizione. La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.
Un tirocinio ascetico la cui spia è costituita da uno stile intellettuale-personale con predilezione per gli attanti astratti (la Rosselli), una predilezione per gli attanti concreti (la Merini), e per il vissuto-concreto (la Busacca), spinge questa poesia verso una spiaggia limitrofa e liminare a quella del tardo Novecento sempre più stretta dentro la forbice: sperimentalismo-orfismo. Direi che il punto di forza della linea modernista risiede appunto in quella sua estraneità alla forbice imposta dalla egemonia stilistica dominante. La forma della «rappresentazione» di questa poesia, il suo peculiare tratto stilistico, il tragitto eccentrico, a forma di serpente che si morde la coda, è qui un rispecchiamento del legame «desiderante» della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto. Gli atti «desideranti» (intenzionali) del soggetto esperiente definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio» e di «possesso», oscilla tra desiderio e possesso; è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto.
È perfino ovvio asserire che soltanto il riconoscibile entra in questa poesia, con il suo statuto ideologico e il suo vestito linguistico, mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e, quindi, non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica non può che procedere attraverso il «conosciuto», il «noto». Questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico (intimamente antinomico) di una poesia attestata tra il desiderio e la rivendicazione di un mondo «altro», tra la vocazione e la provocazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Di fatto, non si dà intenzione poetica senza una macchina desiderante dell’oggetto (con il suo statuto linguistico e stilistico). La poesia che si fa strada consolidandosi appresso alla propria ossatura linguistica allude al tragitto percorso dalla contemplazione alla rivendicazione. Una tautologia: la Poesia Modernista degli anni Settanta resta impigliata dentro l’ossatura del paradigma novecentesco: ma non quello maggioritario, eletto a «canone» (attraverso le primarie e le secondarie delle istituzioni stilistiche egemoni), ma quello laterale, e ben più importante, che attraversa la lezione di Franco Fortini passando per la poesia di un Angelo Maria Ripellino, fino a giungere ai giorni nostri.
La contro rivoluzione al linguaggio poetico sclerotizzato del post-orfismo e del post-sperimentalismo è impersonata dalla parabola di un poeta scomparso all’età di 36 anni: Salvatore Toma. Il suo Canzoniere della morte (edito con venti anni di ritardo nel 1999), ci consegna il testamento di una diversità irriducibile vergato con il linguaggio più antiletterario immaginabile. Una vera e propria liquidazione di tutti i manierismi e di tutte le oreficerie, le supponenze, le vacuità dei linguaggi letterari maggioritari. Ma anche qui il semplicismo letterario prende il posto di una narrazione del personale biografico. Affine alla sorte de poeta pugliese è il tragitto del lucano Giuseppe Pedota con la riproposizione di un personalissimo discorso lirico ultroneo (Acronico – 2005, che raccoglie scritti di trenta anni prima) che sfrigola e stride con l’impossibilità di operare per una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica: propriamente, nella post-poesia.
In una direzione «in diagonale» e in contro tendenza si situa invece la poesia del piemontese Roberto Bertoldo, il quale si muove alla ricerca di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo, salvando del simbolismo il contenuto di verità stilistica, aspetto che appare evidentissimo in opere come Il calvario delle gru (2000), L’archivio delle bestemmie (2006), Il popolo che sono (2015), da cui queste due poesie:
La satira di Dio
Ho parlato con le note di una luna pipistrello
che sgocciola dalle nuvole
ho parlato di sporche assenze nella mia patria divelta
ma senza suoni e immagini
le parole sono l’autoaffezione dei vili
allora ho parlato con le bestemmie e le rivolte
ma si sono divelti anche gli occhi dei miei fratelli
i loro abbracci hanno perso la pelle
e così ho ricamato Dio sul dorso delle poesie
e Dio ha sputato la farsa delle mie dita
e mi ha cresimato
“agnello dalla gola profonda”. Continua a leggere
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Invettiva di Giorgio Linguaglossa ai poeti di oggi – Il monito di Franco Fortini: Spostare il centro di gravità della poesia italiana – Il monito di Eugenio Montale: La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio di sartoria teatrale

dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Giorgio Linguaglossa
26 settembre 2017 alle 14:17
In onore di Alfredo de Palchi, pubblico qui questa mia invettiva:
LA VOSTRA GENERAZIONE SFORTUNATA
à la maniére di Trasumanar e organizzar (1971)
Cara generazione sfortunata dei poetini di vent’anni,
di trent’anni, di quarant’anni, di cinquant’anni, di sessant’anni…
Vi scrivo questa lettera.
Guardatevi intorno:
dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti
vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,
leghisti, sfigati, banali, balneari…
Che tristezza vedo nelle vostre facce,
che ambiguità, che feroce vanità, che feroce mediocrità:
CL, PD, PDL 5Stelle, Casa Pound, destra, sinistra, pseudo destra, pseudo sinistra,
immigrati, emigrati, referenziati con laurea, senza laurea,
con diplomi raccattati, rattoppati, infilati nel Sole 24 ore,
settore cultura, nella Stampa,
a scrivere le schedine editoriali degli amici e degli amici degli amici,
nelle case editrici che non contano più nulla…
Guardatevi allo specchio: siete sordidi, stolidi, non ve ne accorgete?
Guardatevi allo specchio! Siete dei Buffoni, dei malmostosi!
Che tristezza questa italia defraudata,
derubata, ex cattocomunista, leghista, cinquestellista, renzista…
Voi, Voi, Voi soltanto siete responsabili
della vostra inaffondabile mediocrità,
e non chiamate in causa la circostanza della mediocrità altrui,
della medietà generalizzata,
la responsabilità è personale ai sensi del codice penale
e del codice civile…
Voi, unicamente Voi siete i responsabili
della vostra insipienza e goffaggine intellettuale…
Che tristezza: non avete niente da dire, niente da fare,
disoccupati dello spirito e disoccupati
della stagnazione universale permanente che vi ha ridotto
a mostri di banalità con i vostri pensierini
paludosi e vanitosi alla ricerca di un grammo di visibilità
nei network, nei social, con il vostro sito di leccaculi e di paraculi,
svenduti senza compratori…
Che tristezza vedervi tutti abbottonati, educati e impresentabili
in fila dinanzi agli uffici stampa degli editori
a maggior diffusione nazionale!
Che tristezza nazionale!
Caro Pier Paolo, quel giorno di novembre del 1975
io ero a Roma, scendevo alla fermata del bus 36
(catacombe di Sant’Agnese) per andare a via Lanciani
al negozio di scarpe di mio padre quando seppi del tuo assassinio…
Capii allora che un mondo si era definitivamente chiuso,
che sarebbero arrivati i corvi e i leccapiedi
e i leccaculo, i mediocri, i portaborse…
Lo capii allora scendendo dal bus la mattina,
erano le ore 8 del mattino o giù di lì,
e capii che era finita per la mia generazione e per quelle a venire…
Lo ricordo ancora adesso. È un lampo di ricordo.
(scritta in diretta, su L’Ombra delle Parole)

Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti/ vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,/ leghisti, sfigati, banali, balneari…
Il monito di Franco Fortini
Scriveva Franco Fortini nei suoi «appunti di poetica» nel 1962:
«Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi».
«La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».
Ritengo queste osservazioni di Fortini del tutto pertinenti anche dopo cinquanta anni dalla loro stesura. I problemi di fondo, da allora ad oggi, non sono cambiati e non bastano cinquanta anni a modificare certe invarianti delle istituzioni stilistiche. Vorrei dire, per semplificare, che certe cattive abitudini di certe istituzioni stilistiche, tendono a riprodursi nella misura in cui tendono a sclerotizzarsi certe condizioni non stilistiche. Al fondo della questione resta, ora come allora, il «consenso sui fondamenti della commozione». Insomma, attraverso la lettura e l’ingrandimento di certi dettagli stilistici puoi radiografare e fotografare la fideiussione stilistica (e non) che sta al di sotto di certe valorizzazioni stilistiche; ed anche: che certe retorizzazioni sono consustanziali alle invarianti del gusto, del movimento delle opinioni, alla adesione intorno al fatto poetico… insomma.
Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966): «La menzogna corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con “martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue più preziose ipocrisie ossia la consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto più importante smascherare l’altra ipocrisia, quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in definitiva, l’ordine economico che le sostiene».
In Italia è stato dismesso il pensiero sulla poesia Continua a leggere
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Raffaele Urraro, Eugenio Montale, La Poesia: Che cos’è la poesia secondo Montale? – La genesi della poesia – Il fare poetico – Metodo compositivo – forme chiuse e forme aperte – Il linguaggio poetico – La dimensione musicale del verso

Che cos’è la poesia secondo Montale?
1 – Premessa
Eugenio Montale non ha lasciato nessuna trattazione organica sulla poesia e sul fare poetico. Ha lasciato invece un considerevole numero di articoli pubblicati nel tempo su giornali e riviste, parte dei quali – i più importanti – sono stati raccolti da Giorgio Zampa in un volume che può ritenersi la summa del pensiero poetologico del più grande poeta italiano del Novecento. (Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976).
Su questo testo abbiamo condotto la nostra indagine estrapolandone i passi utili alla trattazione dell’argomento che affrontiamo in questo nostro lavoro. Sono i passi nei quali più direttamente Montale affronta il tema della poesia e del poiein, e cioè quello del rapporto tra il poeta e il tempo storico, quello della poesia e della sua genesi e del suo farsi, quello del linguaggio. Relativamente ad ognuno di questi argomenti abbiamo selezionato, raggruppato e analizzato i vari passi.
2 – Che cos’è la poesia?
Che cos’è la poesia secondo Montale?
L’11 aprile 1954 il poeta, in una lettera – a quanto pare ancora inedita – inviata a Vittorio Masselli, che si accingeva a curare l’Antologia popolare di poeti del Novecento assieme a Gian Antonio Cibotto pubblicata l’anno seguente da Vallecchi, formulò un concetto di poesia con il quale mirava a coglierne l’essenza stessa. Ma, ahimè!, come spesso capita alle formulazioni più note e famose, il concetto non è stato compreso da tutti nel suo vero significato, tanto che ancora oggi risulta spesso travisato, distorto, maltrattato. E difatti, nella più gran parte delle citazioni, si fa passare Montale per il teorico di una poesia volutamente e programmaticamente oscura, incomunicabile, la cui funzione fondamentale sarebbe proprio quella di non essere capita.
Ebbene, a parte il fatto che una tale dichiarazione di principio risulterebbe inspiegabile e assurda, tuttavia spesso ci si è presa la libertà di banalizzare e travisare un principio poietico di grande momento. Affermava, dunque, Montale nella succitata lettera:
Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano. Ciò non accade solo ai poeti reputati oscuri. Io credo che Leopardi riderebbe a crepapelle se potesse leggere ciò che di lui scrivono i commentatori.
Certo, se ci si ferma alla prima proposizione – e purtroppo molti lo hanno fatto, precludendosi la possibilità di comprendere veramente il senso delle dichiarazioni del poeta –, si potrebbe avere l’impressione che Montale veda la poesia come un’attività che si consuma nella chiusa bottega alla lucerna, e il poeta vien visto come incurante degli altri ai quali non si degnerebbe di comunicare le verità o i pensieri elaborati. Ma ad una lettura più attenta si coglie già in questa espressione un principio più profondo e serio: non è quello di “farsi capire” il problema che deve affrontare il poeta nel suo lavoro creativo, nel senso che, se questo fosse il suo scopo fondamentale farebbe ricorso ad altre forme comunicative. Il problema non riguarda la “comunicazione”, ma l’essenza stessa del fare poetico e le modalità del suo realizzarsi, come risulta dal prosieguo del discorso di Montale che non si può ignorare se si vuol penetrare a fondo e compiutamente il suo pensiero. E infatti il poeta aggiunge subito che il “problema” vero del fare poetico è di “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”. Che cosa significa questa seconda, importantissima, proposizione? Significa che il problema della comunicazione è ben presente al poeta, ma che viene spostato su altri aspetti ed è incentrato non sull’intenzione di comunicare le cose con i versi, ma sulla finalità del poeta di “far capire” ciò che le parole “da sole” non avranno mai il potere e la forza di trasmettere. Un esempio concreto può servire a far comprendere ancor meglio il senso delle affermazioni di Montale. Vogliamo riferirci, visto che il Montale subito dopo cita scherzosamente Leopardi, proprio al poeta di Recanati. Ebbene, se Leopardi avesse voluto esplicitare e “far capire” agli altri il suo concetto di “infinito”, non avrebbe avuto bisogno di scrivere il famosissimo idillio in quanto egli aveva formulato tale concetto in diversi luoghi dello Zibaldone, e quasi con le stesse parole usate nel componimento poetico. Ma Leopardi – come del resto tenta di fare ogni vero poeta – voleva proprio “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”; e quel quid egli raggiunge con la forma poetica, e quindi con l’elaboratissima struttura generale del testo, con il ritmo dell’endecasillabo, con l’armonia della versificazione, con la selezione e combinazione originali dei segni, con la struttura retorica che egli realizza, con la stessa creazione di un’atmosfera fatta di sospensione e di attesa, con la configurazione di uno spazio-tempo immaginoso e pur reale che egli riesce a creare. Sicché alla fine il poeta, con i suoi versi, dice altro rispetto al concetto di “infinito” filosoficamente espresso nello Zibaldone.
A questo serve la poesia. E perciò tutti i poeti tendono a dire l’oltranza delle parole, non ad essere oscuri. Ed allora è vero che se il “problema” della poesia fosse soltanto quello di “farsi capire”, cioè di comunicare concetti, nessuno scriverebbe versi per il semplice motivo che non sarebbe necessario né indispensabile far ricorso alla poesia: basterebbe esprimersi oralmente a parole, oppure con un articolo di giornale, con un saggio specialistico o con un’altra delle tante possibilità comunicative. La poesia è altro e serve ad altro. Ed anche se si fa con le parole essa vuole giungere a ciò che è inesprimibile con le parole. Al quid di cui si è parlato.
Con questo si risponde alla domanda sull’essenza vera della poesia. Ma ci sono altri interrogativi relativi al problema di che cosa essa sia. E infatti nell’Intervista immaginaria del 1946 (1) il poeta le riconosce innanzitutto una grande importanza per chi l’esercita: essa “è una delle tante possibili positività della vita”, un valore, un mezzo per realizzare sogni e illusioni o, più semplicemente, per dare comunque un senso alla propria esistenza. Tanto che Montale confessa di avere approfondito il rapporto vita-poesia e di essersi anche impadronito di “un’infarinatura di psicanalisi” per comprendere meglio l’essenza del problema.
Pervenne così ad una conclusione, “che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato”.
Si potrebbe, quindi, pensare al poeta come ad un uomo che non può o non sa vivere, un “separato”, uno che cerca di realizzare nell’arte, e quindi nella poesia, ciò che non riesce a realizzare nella vita. E qui l’influenza di Freud è palese e innegabile. Ma Montale, a scanso di equivoci, si preoccupa subito di aggiungere che “ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che si incarica di sfuggirgli” (2).
Come a dire che il poeta non abbandona mai il tentativo di vivere, né quello di vivere con/tra gli altri uomini i problemi di tutti, neanche quando egli si accorge che è la vita che continuamente si incarica di tradirlo non consentendogli di realizzare ciò che egli vorrebbe.
Nella stessa Intervista, però, Montale riconosce che la poesia stava diventando “più un mezzo di conoscenza che di rappresentazione” (3). Ma di quale conoscenza si tratta? Si tratta della
ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell’uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile (4).
E perciò egli sembra proiettato verso l’affermazione di un concetto di poesia che coniughi le esigenze e i problemi del poeta-soggetto con quelli degli altri. Sono esigenze e problemi reali, colti nella loro vera consistenza. E difatti Montale dichiara apertis verbis di non pensare “a una poesia filosofica” perché, come afferma in un suo Dialogo, “la poesia filosofica esprime idee che sarebbero valide anche se espresse in altra forma. In certi casi (Lucrezio) questa poesia è vera poesia. Ma lo stesso non può dirsi di tanti filosofanti in versi (5).
3 – La genesi della poesia
Prima di affrontare lo specifico argomento della genesi della poesia, è necessario chiarire preliminarmente taluni aspetti del problema.
Innanzitutto Montale, come afferma in un suo articolo (6), non crede alla figura del poeta-vate, già caduta, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, in una crisi inevitabile e meritata: i poeti “hanno da tempo rinunziato al loro «ruolo» di annunziatori e di profeti, almeno nel vecchio senso della frase, e credo sia un bene. Pensate al Pascoli «poeta civile» e ne sarete persuasi. E difatti erano cambiati i tempi, e quindi era inevitabile che cambiassero gli atteggiamenti dei poeti di fronte al reale e, di conseguenza, le modalità stesse del fare poetico:
ho seguito la via che i miei tempi m’imponevano, domani altri seguiranno vie diverse; io stesso posso mutare. Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale. Non posseggo l’autosufficienza intellettualistica che qualcuno potrebbe attribuirmi né mi sento investito di una missione importante. Continua a leggere
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PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale

Eugenio Montale e La crisi della civiltà borghese occidentale
Fu all’uscita di Satura, nel 1971, nonostante ci fossero state già alcune sparse anticipazioni, che da più parti della critica si levò l’interrogativo nei confronti delle “novità” dell’ultima poesia di Eugenio Montale. E non mancarono, a caldo, le dichiarazioni di involuzione, di tramonto di una vocazione, di inconsapevole slittamento verso l’impasse delle forme prosastiche della poesia contemporanea. Non pochi tra i critici militanti si trovarono nell’impaccio di dover dare sistemazione a una produzione di cui non si aspettavano questi “altri” esiti e molti elusero il compito ripiegando sull’elogio retrodatato del poeta ormai codificato e definitivamente catalogato sotto l’etichetta delle sue precedenti tre raccolte di versi.
Da Ossi di seppia (1925 e 1928) a Le occasioni (1939) a La bufera e altro (1956, comprendente i testi della raccolta Finisterre del 1943) si disegna il campo poetico montaliano del “male di vivere”, dell’incomprensione del mondo e di ogni suo senso possibile, dei “fantasmi” che nonostante tutto ci salvano dal vuoto riconciliandoci sentimentalmente con la vita, e si decide definitivamente la catalogazione critica dell’esperienza di Montale nei termini di un “realismo dell’oggetto” da cui con perplessità gli addetti ai lavori hanno guardato alle prove successive del poeta. Lo stesso Contini, che meglio di tutti aveva individuato la chiave della poesia montaliana fino alla Bufera nella potenzialità infinita innescata dalla somma degli oggetti inventariati dal reale, non si era sentito di chiudere il cerchio dell’interpretazione, firmando il risvolto di copertina di Diario del ’71 e del ’72, preso nel viluppo non ancora dipanato del Montale vecchio/nuovo, primo/secondo, uno/due.
Altri critici, nel rispetto di quella etichetta ermetica-postermetica, avevano imboccato la strada della “diversità”, della “seconda stagione”. Ma la convinzione di un presunto rinnovamento radicale della poesia di Montale, a partire da Satura, ha inquinato la valutazione che della produzione successiva la critica ha dato, chiudendola in equivoci di salti e ribaltamenti.
Tra gli addetti ai lavori delle nuove generazioni, presso i quali Montale non aveva mai riscosso grandi simpatie (divisi com’erano, anche se di formazione ermetica e specificamente montaliana, tra l’impegno di un risorto canto civile e l’esperimento linguistico delle prove di avanguardia e, comunque, contro la scelta del poeta, legati più o meno direttamente alla concezione dell’intellettuale “professionale”) Satura suscitò allora più che perplessità, diffidenza e sospetto, per i territori apparentemente più avanzati nei quali l’autore sembrava avventurarsi persistendo sulla pista di un’assoluta e limpidissima tradizione.
Ricordo, per avervi partecipato polemicamente, alcuni seminari presso la facoltà di lettere dell’università di Bologna e della Statale di Milano nel 1972, dedicati alla poesia. Il Montale di Satura era uno dei bersagli ricorrenti. Da parte di molti, nella deviante prospettiva di quei momenti della “globalità” del politico, gli veniva l’accusa, in sé ingenua e addirittura assurda, di “riformismo letterario”, di “tattica dell’aggiornamento”. E del resto, a fare lo spoglio della bibliografia critica di allora, si possono rintracciare le stesse prese di posizione da parte dei recensori, giovani e meno giovani, della pubblicistica di sinistra.
Quanto poi ai fedeli lettori di Montale (tra i lettori di poesia, nel 1971, gli appassionati montaliani avevano superato tutti i quarant’anni d’età), Satura fu per loro, pur nell’adesione immediata, incertezza di valutazione complessiva e sospensione del giudizio.
Eppure c’era da aspettarsi che, insieme con le successive prove di Montale dal Diario del ’71 e del ’72 del 1973 a Quaderno di quattro anni del 1977, arrivasse l’aggiustamento di tiro da parte della critica: l’attenuazione delle pretese “novità” e il riconoscimento dei molti legami, anzi dell’assoluta corrispondenza con la precedente produzione. Si sarebbe dovuto chiarire, all’esame dei testi, che non si trattava di un “secondo” Montale, nella frettolosa definizione del momento, ma che Montale era sempre quello e che la sua stagione poetica non era ancora tramontata, solo aveva avuto naturale evoluzione e si era compiuta in modi e tempi più distesi. Invece la critica militante perseverò, nella maggioranza dei casi, nella contrapposizione di un “prima” e di un “dopo”, giungendo a consolidare una divaricazione di cui si mise a cercare le motivazioni profonde con le tecniche più raffinate e sofisticate.
La verità era un’altra. Valeva ancora una volta la constatazione che lo scrittore di qualità, varianti comprese, riscrive sempre lo stesso libro. E il “libro” di Montale si ispirava alla stessa idea di poesia, continuava ad essere il vagheggiamento di una “poesia pura”, e basterebbe leggere a questo proposito il discorso “È ancora possibile la poesia” tenuto da Montale all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel. Una “poesia pura”, perseguita per vie più traverse e indirette (a causa del complicarsi stesso, sempre più confuso, della vita) e recuperata dall’incontro, dalla lettera, dalla notizia di giornale, da ogni occasione minima e più oscura in cui riconoscere (o tentare di riconoscere) se stessi e il proprio passato. Continua a leggere
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Tomaso Kemeny, Poesie da Boomerang (2017), Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – La problematica dell’«Incontro con la Realtà»

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto
Tomaso Kemeny (Budapest 1938), vive a Milano dal 1948. In qualità di anglista, professore cattedratico presso l’Università di Pavia, ha scritto libri, saggi e articoli sull’opera di Ch.Marlowe, S.T. Coleridge, P.B. Shelley, Lord Byron, Lewis Carroll, Dylan Thomas, James Joyce e Ezra Pound. Ha pubblicato undici libri di poesia tra cui Il guanto del sicario (1976), Il libro dell’Angelo (1991), La Transilvania liberata (2005), Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (2012), 107 incontri con la prosa e la poesia (2014) e Boomerang (2017). Ha scritto libri di poetica come L’arte di non morire (2000) e Dialogo sulla poesia (con Fulvio Papi, 1997); un romanzo Don Giovanni innamorato (1993); un testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996).
Con Cesare Viviani ha organizzato i seminari sulla poesia degli anni ’70 presso il Club Turati di Milano (1978-79). Tra le sue curatele La dicibilità del sublime (con E.C. Ramusino, 1989), Le avventure della bellezza, 1988- 2008 (2008) . E’ tra i fondatori del movimento internazionale mitomodernista (1994) e del movimento “Poetry and Discovery”(2016) nonché della Casa della poesia di Milano (2006).

Incontro con Dio
da Tomaso Kemeny, 107 incontri con la prosa e la poesia, Milano, edizioni del verri, 2014
Incontro con Dio
Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.
Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo.
Vertigine.
Entro nella luce divina.
Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.
Incontro con Dio
Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa dle giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.
Incontro con una pagina bianca (la prima luce)
.
.
Incontro di Christian con la signorina Vodka
“La signorina cento chili
con la sua trippa molliccia sommerse
le mie cosucce
a prova di donna cannone:
fu il suo alito iper-alcoolico
misto a sperma
d’ignota provenienza
a contagiarmi le tonsille
infettandomi anche l’urina.
Ma prima, con immensa foia
l’inculai sul tavolo da cucina”.

Tomaso Kemeny in azione mitomodernistica a Milano, 2016
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
La problematica dell’«Incontro con la Realtà» di Tomaso Kemeny
«La Poesia è morta? Essa ha il suo sepolcro nell’opera», scrive Guglielmo Peralta. Oggi un’opera di poesia degna di questo nome non può parlare d’altro tema che della propria morte. «Senza resurrezione». «Il solenne cenotafio» di se stessa.
La Nuova Poesia? Il Nuovo Romanzo? La Nuova Critica? – L’elefante sta bene nel salotto, è buona educazione non nominarlo, fare finta che non ci sia, prendiamo il tè in punta di spillo, con i guanti bianchi. «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?», beh, come gli indigeni dell’isola di Pasqua, faremo la fine che hanno fatto loro
Sono ormai cinquanta anni che un elefante si aggira nel salotto.
Con la sua proboscide ha fracassato il vasellame, sporcificato la tappezzeria,
rovistato nei cassettoni stile liberty e post-pop,
ha mandato in pezzi anche il lampadario di Murano e la cristalleria di Boemia…
«La realtà giunge nuda e cruda, e con un brivido, poco prima dell’alba. È la Sig.ra Tohil a chinarsi su di me, a rimettere la mia testa al suo posto e a sussurrarmi: “Tutto si può dire, anche l’impensabile, il proibito, non c’è più da avere paura, ormai non c’è speranza. Il sonno non riposa. L’acqua non disseta. L’aria sta per diventare irrespirabile. Le pesti succedono alle piaghe e la morte è oggi l’unica affermazione di vita, mentre la corruzione ci ha portati ad accettare ogni forma di accecamento Il veleno della verità mantiene la nostra civiltà in perenne agonia, stiamo per giungere all’apoteosi dell’immortalità della decadenza”.
Mi sporgo oltre l’orlo di ciò che resta di un muro del mio studio e vedo gli inquilini riunirsi nel mio salotto: chi se l’è fatta addosso per la paura; chi ha perso i guanti; chi riacquista il colorito e perde la parola e chi riacquista la parola e perde il colore. Ciò che nessuno sa dirmi dove e quando è scomparsa la Sig.ra Tohil».
«Il mondo è un insieme caotico di frammenti»; «il mondo mi appare come la ruota della fortuna spezzata in fondo a un uovo marcio in grado di assorbire l’universo intero»; «mi apro le vie di Milano intasate da imputati per furto, altri per incendio volontario, saccheggio, di omicidio, di evasione e persino di antropofagia», scrive Tomaso Kemeny nei 107 incontri.
Non c’è dubbio che in questi ultimi due libri Kemeny abbia percorso a velocità forsennata lo spazio che passa dal mitomodernismo degli anni ottanta/novanta all’attuale nullismo o nichilismo di questi ultimi anni. È nel frattempo avvenuto che l’«Incontro con la Realtà» è diventato molto più dispendioso, «la Realtà» si è dissolta sotto i nostri occhi, si è de-moltiplicata e frammentata, si è miniaturizzata ed è definitivamente scomparsa dall’orizzonte degli eventi. Quella scrittura che ancora nei primi anni novanta era pur sempre un contenitore delle tensioni stilistiche e linguistiche, oggi risulta del tutto inidonea a suturare stilisticamente e linguisticamente quelle tensioni. Kemeny si è scontrato con questa aporia: rappresentare linguisticamente in poesia oggi «la Realtà» è come voler rappresentare il «niente», la mente si avvicina a quella zona dove la rappresentazione classica fallisce, è questo il punto.
Ed ecco spiegato il non-stile del linguaggio cosmopolitico dei due ultimi libri di Tomaso Kemeny. È che non c’erano vie di mezzo o altre strade che potessero condurre ad una «nuova» rappresentazione della «Realtà», e così è caduta la stessa idea di una rappresentazione linguistica in poesia, la stessa possibilità di una rappresentazione purchessia. «L’incontro con la Realtà» si è dimostrato più problematico che mai, e Kemeny da poeta acuto ne ha presto atto e ne ha tratto le conseguenze giungendo ad un linguaggio-ircocervo, un meta linguaggio iperteatrale, impermeabile, revulsivo in grado di conglobare in sé le istanze e le pulsioni espressionistiche e quelle mimico-realistiche. Però, pur sempre entro le coordinate della ontologia del novecento. Finalmente, nella poesia italiana ha fatto ingresso, in maniera non ortodossa e in modo massiccio, la vera questione del nostro tempo: il nichilismo, il lutto, la perdita di valore delle forme poetiche tradizionali con i riflessi che questo fenomeno ha avuto sulle scritture letterarie e, in particolare, sulla forma-poesia. Ci voleva un poeta di origine ungarica come Kemeny, nato nel 1938, per dare questo strattone scossone alla poesia maggioritaria che tuttora si continua a fare e a stampare.
«Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca […]
Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano, che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte». 1]
La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.
La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa che provoca il «niente».
1] Ernst Jünger Martin Heidegger, Oltre la linea Adelphi, 1989 p.179 € 14
Ecco un brano di un mio libro, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2013. In anticipo (o in posticipo) sull’auspicabile discussione, a proposito della tesi di un ritardo storico della poesia italiana del Novecento a causa della sua «impalcatura piccolo-borghese» e della primogenitura della linea maggioritaria del minimalismo romano-milanese.
Il ritardo storico della poesia italiana. Gli Anni Dieci. Continua a leggere
Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa
Franco Fortini pseudonimo dello scrittore Franco Lattes (Firenze1917 – Milano 1994); rifugiatosi durante la guerra, per ragioni razziali, in Svizzera, partecipò alla Resistenza in Val d’Ossola. La sua opera poetica, nata all’insegna dell’ermetismo, riuscì negli anni a conferire alla scontrosa severità di una ispirazione civile e politica una classica misura: Foglio di via e altri versi (1946); Una facile allegoria (1954); la raccolta complessiva Poesia ed errore, 1937-1957 (1959); Una volta per sempre (1963); Questo muro (1973); l’altra complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 (1978); Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983 (1984). Rare le sue prove narrative: Agonia di Natale (1948; col tit. Giovanni e le mani, 1972); Sere in Valdossola (1963); La cena delle ceneri (1988). Nel ruolo di coscienza inquieta degli intellettuali di sinistra, dai tempi del Politecnico di Vittorini, del quale fu redattore, fino ai Quaderni piacentini, F. costituì un sicuro punto di riferimento per le giovani generazioni, applicando l’intelligenza penetrante del saggista a temi non soltanto letterarî ma anche politici e culturali: Dieci inverni: 1947-1957 (1959); Verifica dei poteri (1965); I cani del Sinai (1967); Ventiquattro voci (1969); Saggi italiani (1974); Questioni di frontiera (1977); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990). Tradusse Proust, Éluard, Brecht e Goethe; una sua raccolta di traduzioni apparve con il titolo Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982). Del 1990 è l’ampia silloge di Versi scelti: 1939-1989, in cui F. riunì il meglio della sua produzione poetica. Si devono inoltre ricordare la raccolta degli scritti in versi e in prosa di carattere epigrammatico e satirico (L’ospite ingrato: primo e secondo, 1985), il recupero di due racconti rimasti a lungo inediti (La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, 1988) e alcune raccolte di saggi (Nuovi saggi italiani, 1987; Non solo oggi: cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, 1991; Attraverso Pasolini, 1993). Nel 1994 apparve il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur. Numerose le pubblicazioni postume, a partire dal volumetto di Poesie inedite (1997, già apparso in edizione fuori commercio nel 1995), curato da P. V. Mengaldo. Sono seguiti: Breve secondo Novecento (1996; nuova ed. 1998); i due volumi di Disobbedienze (1º vol. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985, 1997; 2º vol., Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, 1998); i quattro studi raccolti in Dialoghi col Tasso (a cura di P. V. Mengaldo e D. Santarone, 1999); Il dolore della Verità: Maggiani incontra Fortini (a cura di E. Risso, 2000), un’intervista del 1983 allo scrittore M. Maggiani; le conversazioni radiofoniche del 1991 pubblicate col titolo Le rose dell’abisso: dialoghi sui classici italiani (a cura di D. Santarone, 2000).

Franco Fortini, grafica di Lucio Mayoor Tosi
Una lettera di Montale a Franco Fortini del 1951
Nel 1985, in occasione del conferimento a Franco Fortini del premio Montale-Guggenheim, il poeta narra questo aneddoto:
«Trentaquattro anni fa, il 6 ottobre 1951, Montale mi scriveva per darmi un giudizio assai severo e, a ben considerare, assai giusto ed equilibrato, di un fascicolo di una cinquantina di poesie manoscritte che gli avevo mandato. Avevo allora 34 anni, il mio primo libretto di versi era del 1946 e mi pareva lontanissimo; e andavo cercando confusamente e senza neanche sapere di cercare, dopo qualche plaquette, i versi per la mia seconda raccolta, che venne dodici anni dopo la prima. Montale, fra l’altro, mi scriveva:
«L’ispirazione che ti muove è una ispirazione religiosa, non però, beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese. Dei due fili che vi si intrecciano (l’umiltà e l’orgoglio, la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo… Ammetto, insomma, che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile, più vera. In complesso, credo che la cosiddetta “arte” ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra in gioco anche l’orgoglio di cui t’ho parlato. Ti rassegneresti poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi sin qui e basta? Ti adatteresti a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe sentire che c’è in te una parte inutilizzata e forse inutilizzabile? E una parte che in un certo senso è la migliore di te? Tali sono i guai, le umiliazioni, le sofferenze che toccano agli artisti. Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi) l’impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t’ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; da altri che apparentemente non pensano o pensano meno di te».
I miei ascoltatori non hanno bisogno di essere avvertiti: qui Montale parla anche – e quanto – di se stesso. E questo spieghi perché la lettera fu per me tanto sconvolgente quanto deprimente. I rilievi negativi erano inconfutabili, ma la via indicata m’era impercorribile proprio a causa di quel nesso di dedizione e di rivolta che Montale mi aveva diagnosticato. Quella lettera faceva mancare il respiro. Quando mi ripresi mi mossi, come un ragazzo protervo, in direzione opposta. Valgano gli eventi di quegli anni. Fu erranza, errore e, almeno in parte, poesia. Altri e quali anni ci sarebbero voluti perché acquisissi la certezza o la pretesa testamentaria di aver veduto e detto alcunché «una volta e per sempre».
Montale aggiungeva: «Qua e là troverai segnato a lapis qualche luogo che mi è particolarmente piaciuto». Scorsi il dattiloscritto. Un segno accompagnava una breve poesia intitolata Parabola. Vi paragonavo la mia sorte a quella del grappolo trovato immaturo e non colto (ero già sulle tracce di un mio Manzoni!) e, non giunto a dolcezza, l’inverno lo avrebbe macerato. Con una leggera scrittura a lapis, Montale aveva aggiunto: «Speriamo di no».
Ho sperato anch’io, ecco tutto.
Parabola
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliar
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
Franco Fortini. L’intellettuale isolato e il conflitto su tre fronti
Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:
«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1 Continua a leggere
Andrea Margiotta POESIE SCELTE da Diario tra due estati, Edizioni L’Obliquo, Brescia, 2000 Prefazione di Fernando Bandini e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Andrea Margiotta è nato a Lecce nel settembre del 1968; ha vissuto in varie città tra le quali Forlì, Torino, Bologna e Firenze, per poi trasferirsi a Roma, lavorando come sceneggiatore di cinema; benché appassionato di cinema d’autore (allievo di Gianni Rondolino nei primi due anni di università a Torino), ha collaborato come sceneggiatore con firma a grandi successi di pubblico quali Natale sul Nilo e, senza firma, a Manuale d’amore, prodotti da Aurelio De Laurentiis; e come lettore di sceneggiature per Fandango, autore televisivo per la Rai e ricercatore di filmati d’archivio in un programma per Sat 2000 (oggi Tv 2000).
In poesia, ha pubblicato alcuni testi sulla rivista “clanDestino” e il libro Diario tra due estati, Edizioni l’Obliquo, Brescia, 2000.
http://lnx.fondazionemarazza.it/premio-marazza/
Testi di Andrea Margiotta sono presenti nell’antologia: Riccione Parco Poesia 2004 edita da Guaraldi ed una poesia è contenuta nella pubblicazione artistica dallo spettacolo del poeta Stefano Maldini: Foglie di luce dal mare, ediz. Risguardi (Cartacanta) di Forlì, rappresentato in vari luoghi.
Per la Rai Tv, ha ideato, scritto e condotto un programma di cose poetiche e di poeti trasmesso, in dieci puntate, su Rai Due e un altro su Dante e Beatrice, in tre puntate su Rai Uno (replicato, un anno dopo, su Rai Scuola).
Negli ultimi anni, ha lavorato come assistente del regista Ruggero Cappuccio in tre opere liriche (di Rossini e Donizetti) rappresentate al Teatro dell’Opera di Roma (Costanzi) .
Prefazione di Fernando Bandini
Ecco come ho conosciuto il poeta Margiotta. Sedeva in fondo all’aula, staccato di una o due file, nel laboratorio di scrittura poetica che tenevo a Bologna, organizzato dal «Centro di Poesia». È un elemento costante della mia esperienza didattica, realizzata nei più diversi contesti e situazioni, l’immaginare che ci sia tra chi mi ascolta qualcuno molto informato e criticamente attento che soppesa senza pietà quanto vado dicendo. Durante quelle lezioni avevo individuato il personaggio di questi miei timori in quel giovane uomo.
Alla fine ho letto le poesie di Margiotta ed è nato un rapporto di confidenza, come sempre succede quando qualcuno ti affida un testo perché tu lo legga e ne dia un giudizio. Andrea Margiotta conferma una tendenza fondamentale della poesia d’oggi, che si riscontra, sull’estremo confine di questo secolo, in altre notevoli giovani voci: da una parte una attenzione alle esperienze pregresse del Novecento, non più marcate da rigide scelte di poetica né tanto meno da costringenti fedeltà a ideologie. Quanto viene offerto dai lavori della poesia del Novecento (un secolo poeticamente fertile come furono soltanto il Due – Trecento) viene espropriato e assunto nel proprio dire con una disinvolta ma meditatissima libertà, il cui unico rischio è forse quello, nei meno rigorosi, di un certo eclettismo dello stile. E tuttavia le ragioni della poesia, le attestazioni – immanenti ai testi – della sua necessità, appaiono (come nel caso di Margiotta) lampanti. La poesia diventa strumento di un’operazione autre (il «dirsi» e il senso nascosto), che riscopre la lezione di Rimbaud e tuttavia trascende l’orfismo come si è affermato da noi nelle sue concrezioni passate e recenti. Limite dell’orfismo era la nebulosità del linguaggio poetico (non l’oscurità, che è inevitabile, ma la nebulosità, l’incapacità cioè di ritagliare e incidere oggetti fermi e chiari nel proprio discorso, il vizio di confondere l’approssimativo col numinoso). Nel Margiotta degli esiti migliori la cosa autre irrompe nella compagine del vissuto, in una verità umana che precede il possibile (indispensabile ad ogni non caduca poesia) arrivo del nume. Lì, in forme talvolta anche di elegia, Margiotta affida ai tempi verbali del racconto la propria verità. Ma l’elegia non è in lui la rinuncia agli «universali», non è il rifugio dopo la sconfitta nelle serre di una ingannevole «calda vita». Per questo può scrivere singoli versi bellissimi, pieni di profonde risonanze, anche dove il contesto può sembrare qua e là non del tutto compiuto e risolto. È perché Margiotta mantiene una costante fedeltà a una sua idea alta della poesia, idea nella quale confluiscono anche i suggestivi e pertinenti ricordi di pregressi dettati danteschi e stilnovistici, quasi un segnale di appartenenza a qualcosa che si pretende staccato da mode e maniere, che però cerca, anche tra gl’inevitabili scacchi, una diversa collocazione della propria modernità.
Margiotta, nelle sue dichiarazioni verbali, dice di amare molto Conte e il suo «mito del mito». Ma da Conte lo distanzia l’attenzione allo smalto del linguaggio (proprio nell’ accezione di materiale netto e duro), la sua attenzione a una misura nitida del verso, oltre che la renitenza a farsi divorare e cancellare dagli dei. Conte, nella sua poesia, realizza un monologo dilagante dell’io, che si fonde entusiasticamente nel risucchio delle proprie immagini, mentre la poesia di Margiotta sembra sbattere, come quella di Ritsos, contro un muro che non permette nessuna sacrale fusione, anzi il suo discorso si rivolge a interlocutori che, ahimé, non rispondono. Ma non gli si può muovere rimprovero di questa sua contestabile opinione di sé, fenomeno che è abbastanza frequente anche in poeti importanti. In verità il lettore dei versi di Margiotta avverte il confluire, nella sua poesia, della doppia suggestione di Luzi e Caproni. L’ircocervo – di un Luzi attento in prima istanza ai sensi metafisici che gravitano sul mondo, e di un Caproni che parte materialisticamente dalla storia per incontrare quei medesimi sensi, – realizza questa vicenda sospesa della poesia di Margiotta, che indica e promette territori ulteriori nei quali forse potrà sfociare con maggior sicurezza e perentorietà. Ma cosa può dire un poeta vecchio mentre affettuosamente sta presentando un poeta giovane? Questi futuribili si estendono oltre la sua esistenza, sono una scommessa, e se Margiotta vivrà nel discorso della poesia futura, spero che almeno si ricorderà di me.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Se leggiamo con attenzione, la poesia di Andrea Margiotta ci rivela subito le sue ascendenze e le sue discendenze, i suoi «nodi». Prendiamo ad esempio tre versi delle prime due poesie:
La città rischiarata dai lampioni verdi
Ondeggiano nuvole d’argento
Le verdi bianche anime dei pesci
Dei versi che si collocano nella imagery della poesia espressionistica tedesca tra Heym e Trakl; poco più sotto troviamo il verso:
hai i seni bagnati d’uva e di luna
che potrebbe stare tra Alfonso Gatto e Girolamo Comi; se procediamo nella lettura, possiamo individuare versi che appartengono alla costellazione del tardo linguaggio post-ermetico di un Sandro Penna: Continua a leggere
TRE DOMANDE DI GIORGIO LINGUAGLOSSA A FRANCO DI CARLO SULLA QUESTIONE DI SATURA (1971) DI MONTALE E DEL NODO irrisolto DELLA NORMATIVIZZAZIONE DEL LINGUAGGIO POETICO A LINGUAGGIO STANDARD MASSIFICATO – Evento accaduto inROMA, LABORATORIO DI POESIA DEL 30 MARZO 2017 Libreria L’Altracittà
COMUNICATO ALL’ANSA
Notizia inedita pubblicata sul numero odierno della Rivista telematica di Letteratura L’Ombra delle Parole. Due mesi prima di essere assassinato, l’11 gennaio 1975, P.P. Pasolini confida ad un giovanissimo studioso, Franco Di Carlo, che aveva in mente un Nuovo Progetto, che sarebbe stato necessario il Rinnovamento del Linguaggio Poetico e della Lingua della Poesia, attraverso la mescolanza (alchemica) Plurilinguistica e Pluristilistica di Atti Espressivi e di Stile, secondo l’Esempio il Modello e il Paradigma Dantesco
L’11 gennaio 1975 Pier Paolo Pasolini ad un incontro nella biblioteca di Genzano di Roma con Franco Di Carlo, confida al giovanissimo critico che con Trasumanar e organizzar (1971), l’ultimo suo libro, era già evidente che il Progetto, già ideato e programmato, fin dall’inizio degli anni Sessanta, era giunto ad un punto di non-ritorno: la transumanazione, eternizzazione e “santificazione” (il Mistero) di se stesso in quanto Poeta attraverso la sua Pragmatica Azione e Organizzazione del “Fare Poetico”. Per scrivere nuova poesia, sarebbe stato necessario il Rinnovamento del Linguaggio Poetico e della Lingua della Poesia, attraverso la mescolanza (alchemica) Plurilinguistica e Pluristilistica di Atti Espressivi e di Stile, secondo l’Esempio il Modello e il Paradigma Dantesco (Divina Mimesis), di provenienza alto-colta, medio-parlata, giornalistica e mass-mediatica: un messaggio e un linguaggio non-chiaro, criptico, ancipite, Ambiguo (“finché è vivo”), che solo con e dopo la morte sarebbe dovuto divenire Espresso, essere esplicito. Con questa strategia “comunicativa” e con questo Codice Espressivo-Formale, tutto da decifrare, Pasolini consegnò i Segni-Segnali-Archetipi dell’unicità e irripetibilità del suo Progetto filosofico-poetico-esistenziale (e con questo noi intendiamo una sua possibile “solitaria avanguardia personale“), ben consapevole ormai della definitiva inesistenza del pubblico della poesia e dell’avvento e sviluppo di un universo orrendo e di una società e politica degradate e in rovina, dove sta già avvenendo la borghesizzazione del proletariato ed anche la proletarizzazione della borghesia, con conseguente omologazione e massificazione antropologica, esistenziale, linguistico-espressiva e culturale.
1) Domanda: Il dattiloscritto de Le ceneri di Gramsci, composto da undici poemetti scritti tra il 1951 e il 1956, venne spedito da Pasolini a Garzanti nell’agosto del 1957. L’opera, come già era successo per Ragazzi di vita, accese un contrastato dibattito critico ma ebbe un forte impatto sul pubblico che in quindici giorni esaurì la prima edizione. Al premio Viareggio, che si tenne nell’agosto di quell’anno, il libro venne premiato insieme al volume Poesie di Sandro Penna, e Quasi una vicenda, di Alberto Mondadori. Italo Calvino aveva già espresso, con dure parole, il suo giudizio nei confronti del disinteresse di alcuni critici marxisti sostenendo che per la prima volta “in un vasto componimento poetico viene espresso con una straordinaria riuscita nell’invenzione e nell’impiego dei mezzi formali, un conflitto di idee, una problematica culturale e morale di fronte a una concezione del mondo socialista“
Risposta: Calvino coglie in modo preciso e puntuale l’importanza e la novità dei Poemetti delle Ceneri di Gramsci (1957) e della ricerca teorico-estetica del Pasolini di”Officina”, del saggista e critico di Passione e ideologia, oltre che del narratore di Ragazzi di vita :il superamento del neorealismo puramente documentaristico e cronachistico nonché il prevalere della spinta politico-etica su una strumentazione linguistica e formale ancora carente e poeticizzante. Le Ceneri di Gramsci rappresentano, in poesia, l’esito più alto e riuscito di una poesia realistica, di matrice marxista, in vista di una resa espressiva appropriata e attrezzata anche sul piano dei mezzi espressivi utilizzati: di qui il suo impianto dantesco-pascoliano con lasciti evidenti da Foscolo e Leopardi, eroico-contestativi e combattivi, oltre che dal Gramsci “marmoreo” e “carcerato”: Una poesia che non ha nulla di decadentistico o irrazionalistico, di squisito e raffinato o addirittura aristocratico o di alessandrinismo ideologico (come affermano negativamente i vari Salinari Trombatore e poi Asor Rosa). Accanto all’insaziabile vitalismo passionale e “privato”, infatti,troviamo, come rilevò Fortini, l’adesione programmatica e progettuale, al plurilinguismo e quella, antinovecentesca e antiprospettivistica, al poemetto narrativo e ad una stilizzazione in senso storico-organico e razionale, emblematizzata nella figura “leopardiana” e nel pensiero del Gramsci “sepolcrale” e “cimiteriale”. È quindi normale che i neoavanguardisti (Guglielmi e Sanguineti in particolare) insieme ad alcuni critici comunisti,polemizzarono in modo molto accentuato e severo,non riuscendo a cogliere il vero significato di questo ritratto a nuova,progettuale e insieme “classica”, poesia pasoliniana. Merito di Franco Fortini, G.Barberi Squarotti, G.Caproni, F.Leonetti e poi G.Scalìa, che seppero, invece, individuare gli stimoli e gli esiti innovatori,a livello sia di contenuto sia di forma e tecnica espressiva, presenti nell’opera di Pasolini, in rapporto anche alla nuova situazione storico-politica inaugurata dal XX Congresso del PCUS.
2) Domanda: Il divario e lo scontro tra Pasolini e Montale rappresenta bene un nodo irrisolto della storia d’Italia, tra un intellettuale che si limita a fare poesia al chiuso della propria stanza e un altro intellettuale che invece fa letteratura, poesia, cinema e teatro uscendo dalla propria stanza, andando alla ricerca dello scontro con il mondo. Qual è il tuo pensiero?
Risposta: Anche se tra i due poeti il preferito fu sempre Ungaretti, la posizione assunta da Pasolini nei confronti della poesia di Montale fu sempre di grande stima e ammirazione, ad eccezione del saggio su Satura (1971), dove il giudizio si mostrò quasi del tutto negativo e polemicamente ironico, in particolare sul versante ideologico e ideologico-letterario. Ma già dagli anni della tesi su Pascoli (1944-45) e poi nell’ampio e approfondito intervento critico su “Pascoli e Montale” (1947) e infine nel saggio (1957) su La bufera (1956), Pasolini delineò un ritratto esaustivo e completo della poesia montaliana, individuandone i cardini fondamentali nella “poetica degli oggetti” (di origine pascoliana) proporzionali alla vastità del cosmo e alle sue “occasioni” infinite: il mondo degli oggetti subisce una dilatazione iniziale, quasi metafisica, per poi essere assunto a toni spazi, tempi, temi e stilemi “minori” e “minimi”, eccentrici e periferici. Dati che fanno pensare Pasolini più ad un universo di oggetti che non ad una vera e propria poetica dell’oggettività. Con Satura il discorso pasoliniano si fa più serrato inclusivo e conclusivo: il bilancio su Montale non è positivo, in quanto emerge un poeta che costruisce il suo “laconico” e “grigio”, indifferente, “cinico”, snobistico stoicismo, ironicamente”sfiduciato”, di buona e conservatrice medietà borghese: una sorta di descrizione romanzesca di se stesso, come sostiene Pasolini, dando luogo ad nuovo “sistema stilistico”, quello del “mezzo parlato”, una nuova oggettività che continua il discorso iniziato con Ossi di seppia (1925), che diviene più esplicito e diretto nella satira, determinandone quindi anche la forma espressiva, che appare in tono “parlato” e colloquiale, “minore”. Ma è la scelta, pragmatica e ideologica, invece che morale, che, secondo Pasolini, non è giusta: gli errori della scienza e della filosofia positivistiche e di quella di Hegel, fanno dedurre a Montale quelli del marxismo: non c’è progresso nei tempi e nei mondi migliori. In realtà, evidenzia Pasolini, questo è vero, ma vale anche per la filosofia e la pragmatica “borghesi”, che, come quella marxista, parlano del”domani” e del “tempo” e del “mondo migliore”: quindi anche il Potere e le Istituzioni hanno un loro ruolo nell’illusione del futuro, e tutto ciò che avviene ed è “descritto in”Satura”, è basato sulla”naturalezza del potere”.
La “reazione” di Montale fu molto dura, aspra, violenta, aggressiva e spesso anche offensiva: basti pensare ed osservare attentamente l’ultima parte della Lettera a Malvolio-(Pasolini), dove, come ricorda Claudio Magris (“I puntini di Montale”, in “Corriere della Sera”, 12 agosto 1987), Montale, in un biglietto, mise i puntini al posto del nome di “Malvolio”-(Pasolini). La risposta di Pasolini, come si evince, fu molto breve e pacata. La distanza si fece enorme e incolmabile.
(Da precisare,infine, che i riferimenti a Leopardi da parte di Pasolini, esposti da F. Gherardini, non uscirono nel saggio “Satura”, in “Nuovi Argomenti” (n.s., 21, gennaio-marzo, 1971), ma sul settimanale “Tempo” il 18 ottobre 1974, poi in “Descrizioni di descrizioni”, Torino, Einaudi, 1979, pp.398-399, in una breve recensione del vol. di Iris Origo,”Leopardi”, Milano, Rizzoli,1974)
3) Domanda: Ecco la Lettera a Malvolio di Montale indirizzata a Pasolini. Leggiamola con attenzione. Continua a leggere
La grande crisi della poesia italiana del Novecento. Il processo di de-metaforizzazione e La democratizzazione della Poesia – la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico a cura di Giorgio Linguaglossa
L’Epoca della stagnazione stilistica si profila
Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.
La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.
«dissolvenza» di tutti i concetti «forti»
Oggi va di moda
Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo Satura (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna (Stige, 1992) che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca (I quanti del suicidio, 1972) come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo
Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio
linguaggio poetico.
Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.
La de-fondamentalizzazione del discorso poetico
Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che ingloba la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
positivizzazione del discorso poetico
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini”

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo
Riprendiamo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento” sempre secondo Gianfranco Contini, perché a nostro avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni e tutte le questioni come linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri.
(n.d.r.)
21 dicembre 2015 alle 11:42 Modifica
«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »
Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*
* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

eugenio montale e il picchio
Gino Rago
21 dicembre 2015 alle 16:31 Modifica
L’invito alla lettura di Campana fa onore a Pasquale Balestriere e a L’ombra che lo ospita e lo propone. Dalla ricerca incentrata sui Canti Orfici (1914), si avverte in tutto il suo tragico incanto il senso di una sostanziale fusione fra l’artista e l’uomo, fra una vocazione d’arte e la parabola di una esistenza. Così come rumoreggia fra le parole di Pasquale Balestriere la storia d’un singolare “déraciné”, fratello spirituale dei poeti maledetti francesi, amante ed esperto di Wagner, di Masaccio, di Giotto, della grande tradizione plastica toscana, ma con l’occhio, ben educato all’arte, rivolto anche a De Chirico, ai futuristi, ai cubisti.
La precisazione di Giorgio Linguaglossa, estratta dal suo Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, è quanto mai opportuna nel suo carico di verità… Neanche Gianfranco Contini, fra gli altri, comprese la grandiosa scommessa campaniana di sporgersi oltre la musica e la plastica, per giungere in quel luogo misterioso dove suono e visione si fondono per farsi una cosa sola. Sibilla Aleramo, amandolo fino alle soglie della follia, aveva chiara in sé, nel teppismo, nel nomadismo di Dino Campana, la forza d’un uomo disposto a varcare monti e a solcare oceani nel coraggio supremo della fedeltà alla poesia, senza preoccuparsi né del pane né dell’avvenire, ma guardando al fanciullo di Whitman come mito segreto a chiudere i Canti Orfici “…erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo.”
Una pagina indimenticabile. Grazie Pasquale, grazie Giorgio.
Gino Rago

giorgio caproni, foto di Dino Ignani
Pasquale Balestriere
29 dicembre 2015 alle 0:56 Modifica
E pensare, gentile Gino Rago, che Gianfranco Contini, peraltro finissimo lettore e notevolissimo rappresentante in Italia della critica stilistica, ha addirittura etichettato Campana come un poeta “visivo, che è quasi la cosa inversa” rispetto a “veggente” e a “visionario”!
Stupisce constatare come l’acuto Contini non veda con chiarezza (come pur dovrebbe) una cosa elementare, lapalissiana, e cioè che il dato visivo (quando c’è, la qual cosa accade -a dire il vero- piuttosto spesso) non è mai fine a se stesso ma è solo iniziale, propedeutico e funzionale allo sviluppo torrenziale dell’impeto creativo di Campana che si concretizza e trova la sua maturazione nella fase del poeta veggente e/o visionario. Contini, insomma, si ostina a negare l’evidenza di un atto poetico di rara potenza, che trova la sua più evidente realizzazione e conclusione in un deragliamento sensoriale nel quale, quasi miracolosamente, si compongono in meraviglioso concento le percezioni più diverse della vita (spazio, tempo, suoni, colori, forme, rumori, voci…).
E spiace anche che Contini, nella sua visione riduttiva della poesia campaniana, non abbia tenuto conto dei pareri positivi di altri illustri critici, come Boine, De Robertis, Cecchi, Solmi e dello stesso Montale, per non dire di altri, contemporanei e successivi.
Pasquale Balestriere

Giuseppe Ungaretti
29 dicembre 2015 alle 8:27 Modifica
Caro Pasquale Balestriere,
il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi “politici” a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.
Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato”La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico” (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà molte novità e approfondimenti. A mio parere la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.
Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».
L’identificazione di una Linea dominante è un atto critico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il più grande poeta dopo Montale. Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne “La beltà” del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria, avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.
Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

Dino Campana
Pasquale Balestriere
29 dicembre 2015 alle 13:55 Modifica
Sono sostanzialmente d’accordo con quanto sostieni, caro Giorgio Linguaglossa, soprattutto nella parte finale del tuo intervento. Quello invece che da tutti i critici, ma in particolare da uno del livello di Contini, mi sento di pretendere è la totale onestà intellettuale, messo da parte ogni motivo “politico” o anche qualsiasi teoria precostituita o presunta, finalizzata a raggiungere uno scopo predeterminato. L’atto critico deve essere operazione aperta, senza altro limite che non sia richiesto dalla competenza e dalla serietà dell’indagine.
Pasquale Balestriere.
Giorgio Linguaglossa: «La Riforma del Discorso Poetico post-Montale», l’«immediatezza espressiva dell’estetica post-letteraria delle odierne scritture poetiche», «pseudo-letteratura», «post-presente», «super-post-fantascienza», «post-fantasy», «Paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico» La «forma-poesia» della poesia Dopo il Novecento
Richard Millet ne L’inferno del romanzo (2012) parla di «autenticità dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria» del nuovo romanzo; e così prosegue:
«Nel postletterario, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio», o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico». L’autenticità data dall’immediatezza sarebbe quindi l’obiettivo dello scrittore post-letterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria»; «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento».
Con le dovute differenze, credo che possiamo estendere la categoria dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria anche alla poesia contemporanea. Anch’io ho parlato spesso di «post-contemporaneo» e di «post-poesia», intendendo sostanzialmente un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato anche la debolezza delle direzioni di ricerca di quello che ho definito «minimalismo». Lo ammetto, meglio sarebbe stato aggiornare tale definizione con quella di «post-minimalismo» delle scritture poetiche di massa, nel senso che oggi in tutto ciò che accade sembra d’obbligo far precedere l’etichetta «post»: post-sperimentalismo quindi, post-esistenzialismo, post-chatpoetry, post-del-post. Tutto ciò che avviene nella pseudo-letteratura del tempo mediatico sembra presentizzato in un post-presente, il presente diventerebbe la dimensione unica, una dimensione superficiaria unidimensionale, ciò che sembrerebbe confermato anche dalle tendenze del romanzo di intrattenimento che dal fantasy e dalla fantascienza sembra spostarsi verso le forme ibride di intrattenimento di post-fantasy e di super-post-fantascienza. Quello che tento di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca sono impegnate in una forma-scrittura dell’immediatezza, quasi che l’autenticità del romanzo e della scrittura poetica la si possa agganciare, appunto, con l’esca dell’immediatezza espressiva.
Nulla di più errato e fuorviante! Per quanto riguarda la mia tesi del paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico, entro il quale la quasi totalità delle scritture poetiche contemporanee rischia di periclitare, detto in breve, volevo alludere non al concetto di «egemonia», fuorviante e inappropriato quando si parla di poesia contemporanea, ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca, del diario e del quotidiano) sarebbero perfettamente digeribili dalla lettura della post-massa acculturata del Medio Ceto Mediatico. Certo «professionismo dell’a capo», come stigmatizza il critico Sabino Caronia diventa l’arbitrio di un a capo che può avvenire in tutti i modi, con le preposizioni, con le particelle avversative, con i pronomi personali, e chi più ne ha più ne metta. Vorrei però prendere le distanze da una facile tendenza a voler stigmatizzare la «dittatura del Medio Evo Mediatico» in quanto questa posizione sottintenderebbe un approccio moralistico al problema del paradigma moderato e unidimensionale che sembra aver preso piede negli uffici stampa degli editori necessariamente impegnati in una difesa delle residue quote di mercato editoriale dei libri.
La situazione descritta sembra essere ancora più grave per la poesia, che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità anche ai piani alti della cultura poetica italiana, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta non hanno più creduto possibile una difesa della forma-poesia: Montale, Pasolini, Sanguineti e altri di seguito. Da questo punto di vista, paradossalmente, una difesa della forma poesia è più evidente nei Quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, il più drastico atto d’accusa del «sistema Italia», che non ne La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, il quale si appoggia ad una struttura strofica e timbrica ancora tradizionale, ma è una difesa della tradizione che va in direzione di retroguardia e non di apertura all’orizzonte dei linguaggi poetici del futuro. È un po’ tutto l’establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa, credendo che una sorta di neutralismo o di prudente e ironica apertura nei confronti dei linguaggi telemediatici costituisse un argine sufficiente, una misura di sicurezza verso una forma-poesia aggiornata, con il risultato indiretto, invece, di rendere la forma-poesia recettizia della aproblematicità dei linguaggi telemediatici.
Quel neutralismo ha finito per consegnare alla generazione dei più giovani una forma-poesia sostanzialmente debole, minata al suo interno dalle spinte populistiche e demotiche provenienti dalla società della massa telemediatica. La storia della poesia degli anni Ottanta e Novanta sta lì a dimostrare la scarsa consapevolezza di questa problematica da parte della poesia italiana.
A questo punto, ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto da chi sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche della poesia del Novecento. Non escludo che ci possano essere nel prossimo futuro dei poeti di valore (e ce ne sono), quello che escludo è che finora nessun poeta italiano degli ultimi quarantacinque anni, cioè dalla data di pubblicazione di Satura (1971) di Montale, è stato capace di fare quella Riforma del discorso poetico nelle dimensioni richieste dal presente stato delle cose. Certo, ci sono stati l’ultimo Franco Fortini di Composita solvantur (1995), Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca (I quanti del suicidio del 1972), e poi Maria Rosaria Madonna (con Stige, 1992), Anna Ventura (Antologia Tu quoque 1978-2013), Roberto Bertoldo (Pergamena dei ribelli, 2011), ed altri ancora che non posso nominare, poeti di indiscutibile talento che si sono mossi nella direzione di una fuoriuscita dal novecentismo aproblematico, ma resta ancora da scalare la salita più ripida, c’è ancora da sudare le sette fatidiche camicie. In una parola, c’è da porre mano alla Riforma di quel discorso poetico ereditato dalla impostazione in diminuendo che ne ha dato Eugenio Montale. Leggiamo una poesia da Pergamena dei ribelli:
Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.
Ad esempio, per la poesia di un autore ancora inedito in volume in Italia, Antonio Sagredo, di cui però è uscito in edizione bilingue per la Chelsea Editions un volume antologico della sua poesia a New York, ho scritto di recente: «la parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso». Ecco una poesia dell’ultimo Antonio Sagredo:
Prove mostruose
(8)
La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…
Ed ecco una poesia di Anna Ventura apparsa di recente su questo blog:
La vergine di Norimberga*
La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.
*notizie storiche sulla Vergine di Norimberga
La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.
La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.
Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).
*
Per tornare al nostro discorso, intendevo dire che una riforma linguistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di immediata riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di rottura determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica di chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di naufragi. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.
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TRE POESIE – TRADUZIONI IN LINGUA SERBA di MILAN KOMNENIĆ (1940-2015) di EUGENIO MONTALE, GIUSEPPE UNGARETTI e CESARE PAVESE – a cura di Duška Vrhovac
Quando un poeta muore,
La morte dissolve la nebbia dai suoi versi. (Ljubomir Simović)
A Belgrado, si è spento di recente, il 24 luglio, il poeta e traduttore Milan Komnenić. La commemorazione si è svolta nell’aula dell’Assemblea della città di Belgrado (dell’Assemblea cittadina di Belgrado), in presenza degli amici, della famiglia e dei colleghi dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e la tumulazione è avvenuta nel Nuovo cimitero di Belgrado, nel Viale dei cittadini illustri. Alla notizia della morte di Milan Komnenovic, l’attuale ministro della cultura ha indirizzato alla famiglia di Milan Komnenić un telegramma di condoglianze in cui si dice: “Ricorderemo Komnenić come eminente poeta, traduttore, e redattore, per lunghi anni, di riviste letterarie e, a suo tempo, anche ministro della cultura, che con la sua poesia, i saggi, il lavoro nel campo dell’editoria e l’impegno politico si è dedicato a trovare le risposte ai complessi interrogativi del destino storico del popolo. Inoltre considerevole è stato il suo contributo alla collaborazione internazionale nel campo della letteratura mediante un copioso lavoro di redattore e traduttore. Ora ci accomiatiamo da un uomo che con la sua attività ha contribuito in modo rilevante alla cultura serba e alla trasformazione democratica della società.” Tuttavia, anche se Komnenić ha svolto in due occasioni alte funzioni pubbliche, prima come segretario di stato per l’informazione e la cultura e poi anche come ministro della cultura, nessuno dei funzionari di stato ha partecipato né alla sua commemorazione né alle sue esequie funebri, che non hanno visto neppure la presenza di colleghi preposti al Movimento serbo di rinnovamento, partito di cui egli era stato cofondatore. La morte ha confermato che il poeta e traduttore, in questo caso, hanno prevalso sul politico.
Milan Komnenić era nato l’8 novembre 1940 a Pilatovac (Bileća) in Montenegro. Studente e laureato della Facoltà di Filologia di Belgrado, redattore della casa editrice „Prosveta“, nel cui ambito ha dato vita a tre edizioni di prestigio: „Erotikon“, „Prosveta“ e „ Hispanoamerički roman“/ “Il romanzo latinoamericano“/, ha redatto anche le riviste letterarie „Vidici“, „Delo“ e „Relations“; inoltre ha tenuto lezioni presso università di Francia, Italia e USA.
Alla produzione letteraria Komnenić cominciò a dedicarsi nel 1960. Ci ha lasciato un’opera ampia e varia: 21 raccolte di poesie, quattro libri di saggi, sei tra antologie e miscellanee, tre monografie, duecento tra articoli e testi specialistici, pubblicati in periodici di tutto il mondo. È stato insignito del riconoscimento per il sommo contributo dato alla cultura della Repubblica di Serbia e rimane destinatario di prestigiosi premi letterari per la poesia e per la traduzione.
Milan Komnenić, come traduttore, è stato instancabile. Ha tradotto cinquanta libri dall’ italiano, dal francese, dallo spagnolo e dal tedesco. Con queste sue traduzioni egli ha fatto conoscere alla giovane generazione i poeti italiani Ungaretti, Montale e Pavese, pubblicandone le opere presso rinomati editori della Jugoslavia. Nel 1975, per i tipi dell’allora grande casa editrice BIGZ, Komnenić ha curato e tradotto la raccolta di Ungaretti, Sentimento del tempo, per cui ha scritto la prefazione e le note. Nel 1977, la casa editrice Rad (Belgrado) nella sua edizione „Reč i misao“ /“Parola e pensiero“/ pubblicò la sua traduzione della raccolta Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese, mentre nel 1982 sarà ancora una volta l’editrice BIGZ a pubblicare Ossi di seppia di Eugenio Montale nella traduzione di Komnenić.
In omaggio al poeta e traduttore Milan Komnenić e ai suoi prediletti autori italiani riportiamo, nell’originale e nella traduzione, una poesia di ciascuno di questi tre libri.
Giuseppe Ungaretti, Sentimento del tempo
Selezione, traduzioni, note e prefazione di Milan Komnenić
Đuzepe Ungareti, Osećanje vremena, BIGZ, Beograd, 1975.
Izbor, prevod, predgovor.i napomene Milan Komnenić
L’Isola
A una proda ove sera era perenne
Di anziane selve assorte, scese,
E s’inoltrò
E lo richiamò rumore di penne
Ch’erasi sciolto dallo stridulo
Batticuore dell’acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide;
Ritornato a salire vide
Ch’era una ninfa e dormiva
Ritta abbracciata a un olmo.
In sé da simulacro a fiamma vera
Errando, giunse a un prato ove
L’ombra negli occhi s’addensava
Delle vergini come
Sera appié degli ulivi;
Distillavano i rami
Una pioggia pigra di dardi,
Qua pecore s’erano appisolate
Sotto il liscio tepore,
Altre brucavano
La coltre luminosa;
Le mani del pastore erano un vetro
Levigato da fioca febbre.
Ostrvo
Na obalu gde vajkadašnje beše veče
Onih pradrevnih šuma, siđe
I ukaza se
Prizva ga lepet krila
Što se ote trpkom damaranju
Uzavrele vode,
I priviđenje (što je čilelo
I opet živelo) spazi;
Smotri, krenuvši naviše,
Da to beše nimfa i da je spila
Uspravna grleći brest.
Lutajući u sebi
Od privida do žežena plamena
Stiže na livadu
Gde se senka gusnula
U očima devica
Kao veče u maslinjaku;
Grane su cedile
Lenju kišu strela,
A ovce su dremale
U slatkastoj mlitavosti,
Druge su pasle
Svetli pokrovac;
Ruke pastira behu staklo
Brušeno potajnom groznicom.
***
Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Selezione e traduzioni di Milan Komnenić
Česare Paveze, Doći će smrt i imaće tvoje oči
izbor i prevod Milan Komnenić, Beograd, Rad 1977
.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
(22 marzo ’50)
.
Doći će smrt i imaće tvoje oči
.
Doći će smrt i imaće tvoje oči-
ta smrt što nas saleće
od jutra do večeri,besana
i gluva,kao stara griža savesti
ili besmislena mana. Tvoje oči
biće uzaludna reč,
prigušen krik, muk.
Vidiš ih tako svakog jutra
kada se nadnosiš nad sobom u ogledalu.
O draga nado,
toga dana i mi ćemo znati
da jesi život i ništavilo.
Za svakoga smrt ima pogled.
Doći će smrt i imaće tvoje oči.
Biće poput ispravljanja mane,
kao zurenje u ogledalo
iz koga izranja mrtvo lice,
kao slušanje zatvorenih usta.
Sići ćemo u bezdane nemi.
Eugenio Montale, Ossi di seppia
Traduzione da italiano di Milan Komnenić
Euđenio Montale, Sipine kosti, BIGZ, Beograd, 1982.
Preveo sa italijanskog Milan Komnenić
Corno inglese
.
ll vento che stasera suona attento –
ricorda un forte scotere di lame –
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l’orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D’alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
Engleski rog
Vetar što večeras smotreno svira
– nalikuje silnom lepetu limarije –
na instrumentu gustog borja
i mete bakarna obzorja
kuda se rojta svetlosti vije
poput zmajeva u ječećim nebesima
(Oblaci promiču, vedra
kraljevstva nebesna! Visokih Eldorada
kapije odškrinute!)
i more što, krljušt po krljušt,
olovno tre
i menja boju bacajući na hridi vrtloge
uzvitlane pene;
da hoće vetar, što se rađa i mre,
dok sumračja stiže čas,
zasvirati večeras
na tebi, razdešeni instrumente,
srce.
Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).
Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.
È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia.
Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:
Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia;
Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia;
Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia;
Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.
Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986)
S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987)
Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988)
Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990)
I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991)
S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996)
Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996)
Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997)
Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002)
Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006)
Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007)
Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008)
Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009)
Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010)
Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011)
Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013)
Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)
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UNA POESIA INEDITA di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin
Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”
Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».
Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.
La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.
La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.
His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.
È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni.»
Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.
È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).
Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.
È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.
Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.
TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE
Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre
i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.
Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:
«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero
che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,
non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;
una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,
inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.
Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;
fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.
Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,
sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,
la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,
il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,
lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io
che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato
gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker
parlano alla radio con eloquio forbito.
Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,
il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto
di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,
sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo
un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:
“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.
Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.
La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann
c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra
la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:
tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario
eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:
resta il cigolio della giostra illuminata.
Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.
Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;
al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala
ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento
questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.
Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,
le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;
una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.
Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.
Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano
a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra
alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;
camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)
“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre
la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)
Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,
esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio
con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.
Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto
immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.
Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,
getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.
Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.
Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio
i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.
Una bandiera bianca prende vita dal mare.
Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano
Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi
è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,
irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,
guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.
«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.
Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo
e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,
prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,
fa lo stesso.
Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna
e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.
Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,
il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.
Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta
verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio
e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;
sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali
reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata
che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità
diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –
una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.
Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.
Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,
una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.
Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento
con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?
Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?
Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice
del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –
piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:
il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.
Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:
“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,
replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa
o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,
indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso
ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito
a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,
(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli
e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».
Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco
tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?
Il secolo dei lumi e della tolleranza?
Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein
ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.
Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,
si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi
e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»
(1992-2013)
THREE STILLS IN THE FRAME
The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.
A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.
The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.
Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.
A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.
A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.
Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.
A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.
The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?
A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”
(1992-2013)
A cura di Giorgio Linguaglossa, Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud -5 Poeti del Sud: Sebastiano Adernò Poesie, Valentino Campo da Chronicon, Luigi Celi da Ritorno in Sicilia, Rossella Cerniglia da Antenore e altre poesie, Maria Pina Ciancio Poesie
Giorgio Linguaglossa da Introduzione alla Antologia Il rumore delle parole 28 poeti del Sud Edilet pp. 284 € 18 (Sebastiano Adernò, Valentino Campo, Luigi Celi, Rossella Cerniglia, Maria Pina Ciancio, Carlo Cipparrone, Fabio Dainotti, Marco De Gemmis, Fortuna Della Porta, Giuseppina Di Leo, Francesca Diano, Michele Arcangelo Firinu, Maria Grazia Insinga, Abele Longo, Eugenio Lucrezi, Marco Onofrio, Aldo Onorati, Silvana Palazzo, Marisa Papa Ruggiero, Giulia Perroni, Gino Rago, Lina Salvi, Daniele Santoro, Ambra Simeone, Francesco M. Tarantino, Raffaello Utzeri, Adam Vaccaro, Pasquale Vitagliano)
È vero quanto scrive Umberto Eco in un articolo del 12 marzo 2012 apparso su «La Repubblica»: «L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di “Abbasso il chiaro di luna” aveva distrutto il passato, lo aveva sfigurato: le Demoiselles d’Avignon erano state il gesto tipico dell’avanguardia. Poi l’avanguardia era andata oltre, dopo aver distrutto la figura l’aveva annullata, era arriva all’astratto, all’informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata, in architettura alla condizione minima del curtain wall, all’edificio come stele, parallelepipedo puro, in letteratura alla distruzione del flusso del discorso, sino al collage e infine alla pagina bianca, in musica al passaggio dall’atonalità al rumore, prima, e al silenzio assoluto poi». Ma se leggiamo la poesia che si fa oggi, di cui questa antologia ne è un esempio paradigmatico, ci accorgiamo che non si può più parlare nei termini di un Moderno che si converte in modernismo, in avanguardia e in retroguardia, secondo un classico schema novecentesco di pensiero, oggi siamo tutti diventati qualcosa d’altro, è il post-contemporaneo che si profila, il post-Presente, il Presente si prolunga nel post-Presente; il passato e il futuro entrano nella nebbia e nell’ombra, tendono ad eclissarsi.
Oggi non c’è più bisogno di una avanguardia e tantomeno di una retroguardia, siamo tutti divenuti qualcosa che sta come sulla cresta di un’onda, su un orlo topologico, e la poesia sembra girare attorno a se stessa in un movimento perpetuo, un movimento rotatorio attorno al proprio asse che non porta a nessun luogo e non sta in nessun luogo. Ma forse è proprio questo il suo punto di forza. La poesia contemporanea è rimasta orfana della filosofia, che non pensa ad essa come ad una invariante ma come ad una variante del variabile. E forse questo è un bene. Nel regime post-coloniale delle democrazie occidentali la poesia è considerata per il suo aspetto gastronomico e decorativo. La democrazia del capitale finanziario spinge tutte le arti alla decorazione e alla manifattura di uno stile da esportazione. Alla poesia non viene chiesto niente, ed essa non immagina neanche di rispondere. In mancanza di una verificazione, essa semplicemente non è. La diversità dalla scienza è sorprendente. Ma anche dal romanzo, che almeno ha un regolo, imperfetto quanto si vuole, ma un regolo: il mercato. La poesia non progredisce (e non regredisce), se intendiamo per progresso l’accumulazione di risultati che si susseguono gli uni agli altri, ma ristagna. Tale visione è conforme a un modello di ragione che pensa per invarianti, che prende luogo da un modello storicistico che tende ad appianare i risultati estetici e le problematiche entro il continuum del divenire storico, ignorando le differenze e le diversità. Si impone così, inconsapevolmente, un modello storiografico e un modello di ragione sostanzialmente aproblematico e aproteico dove tutte le vacche sono bigie.
Fine del Moderno, dunque. Fine delle filosofie forti. Fine della poesia forte. Ma, per fortuna, ciò non significa che la poesia non pensi a se stessa se non in diminuendo, anzi, mi sembra che gli autori più avveduti di questa Antologia siano ben consapevoli di come ricomporre il piano estetico della nuova dis-locazione multifunzionale del discorso poetico, che coniuga il «parlato», le immagini e la riflessione, che coniuga il presente con il passato, il quotidiano con la metafisica, alla ricerca di una nuova identità stilistica. La poesia sembra finalmente essersi rimessa in cammino. Parafrasando Gianfranco La Grassa, il quale scrive: «uscire da Marx dalla porta di Marx», potrei dire: «uscire dalla Poesia dalla porta della Poesia». Si tratta di una metafora, di un gioco linguistico. Ma continuiamo il gioco: accettiamo la metafora: che cosa vuol dire «uscire dalla Poesia dalla porta della Poesia»?, tutto e nulla: noi possiamo uscire dalla finestra del «Palazzo chiamato Poesia», dalla finestra del primo piano e scappare, darcela a gambe per la strada, oppure salire all’ottavo piano del Palazzo e saltare giù nel vuoto, e così finiremmo per romperci l’osso del collo. Ma saremmo morti e quindi la partita finirebbe. E poi possiamo uscire dalla porta d’ingresso e dire a tutti gli inquilini del Palazzo: «c’è del marcio in Danimarca», ovvero, «qui i giochi sono già stati fatti, le carte sono state truccate, non c’è motivo per sedermi al tavolo di gioco»; oppure, possiamo decidere di stare al gioco (le cui regole sono state scritte da altri) e fare finta che le carte non siano truccate.
E qui la partita si apre. O meglio si chiude. Oppure, come qualcuno fa, «dobbiamo far saltare tutto: il Palazzo e il sistema-poesia», «bisogna mettere della dinamite alle fondamenta del Palazzo»; simpaticissime boutades, che io trovo divertenti, irriverenti. Non ha fatto così Sanguineti con Laborintus (1956)?, operazione indubbiamente geniale, che andava in consonanza con i tempi di un paese che doveva cambiare la classe dirigente intellettuale in un momento di grande ripresa economica, di grande ottimismo e di grande rigoglio artistico e intellettuale. Ma oggi, chiedo, ci sono queste condizioni? – Quello che vedo è che siamo immersi in una Grande recessione (economica, politica, etica, estetica e spirituale), non vedo all’orizzonte un altro ceto intellettuale di scrittori e di poeti che voglia prendere il timone della vita artistica del Paese: ciascuno va per conto proprio, alla spicciolata, alla ricerca del consenso e del successo.
Le varie proposte che ci sono oggi in circolazione: «poesia corporale», «poesia esodante», «poesia periferica», «poesia allo stato zero», «anti-poesia», «pseudo-poesia», «post-poesia» sembrano indicare un qualcosa che si muove in una direzione tangenziale, verso l’esterno, cioè verso la periferia del «sistema-poesia». Nella mia veste di critico non posso non prendere atto di questo fenomeno ma mi chiedo: verso la periferia di che cosa va la «poesia dello stato presente»?, si allontana del Centro?, e perché si allontana dal Centro?, e che cosa cerca verso la Periferia?, e quando raggiungerà la Periferia che cosa succederà?. E mi chiedo: ci sono oggi le condizioni affinché la direzione della poesia italiana si incontri o si incroci con le istanze dell’istituzione poesia?, con il Politico?, con la Comunità?, che sappia dialogare con la nuova civiltà mediatica?.
Ho l’impressione che la direzione presa dalla poesia italiana di questi ultimi tre, quattro decenni sia quella della deriva di «accompagnamento», prosastica, sempre più disossata, debole, gracile, facile, democratica, piccolo borghese (nel senso di comprensibile a tutti), mediatica, demotica; precisamente da quando il più grande poeta italiano del Novecento, Eugenio Montale, si è anch’egli reso responsabile della scelta di una poesia «in minore», umorale, diaristica, appesa alle «occasioni», ironica, desultoria, sussultoria, da Satura (1971) in poi, così che oggi, a quaranta anni di distanza, giunti alla foce di quel fiume, si scrive una «poesia» dell’«indifferenziato» molto simile alla «prosa», che della «prosa» ha il vestito linguistico e concettuale: vale a dire che si pensa in poesia come pensa chi vuole fare della prosa. E invece è sbagliato, qui c’è un nodo che va sciolto subito, ancor prima di iniziare la riflessione e dire una cosa molto chiara: che la poesia è una cosa che si scrive e si pensa in modo affatto diverso da quello con cui si pensa e si scrive in prosa, quand’anche ritmata. È l’ideologia dell’in-differenziato che qui ha luogo.
Brodskij una volta scrisse che la longitudine e la latitudine cambiano la lingua. Di più, la longitudine e la latitudine cambiano anche il linguaggio poetico; in esso si verificano delle interferenze, dei disturbi, delle influenze; i sostrati storici delle varie civiltà che si sono depositate in un territorio sedimentano, fermentano, e affiorano, prima o poi, nella lingua di relazione e nel linguaggio poetico. Ciò che si credeva «periferia» diventa «centro», e viceversa. La storia si diverte spesso a riposizionare le tessere del puzzle secondo un ordine imprevedibile e inimmaginabile agli inizi. E ciò è avvertibile anche in questa antologia intergenerazionale nella quale c’è una vasta gamma di ricerche stilistiche nella sostanza molto diverse da quelle che si perseguono a nord del Rubicone o al centro del Lazio. Un elemento questo da non sotto valutare che ha una sola spiegazione: la definitiva emancipazione della poesia del Sud da quella che si fabbrica nelle fucine di Roma e di Milano. La poesia del Sud non va a prendere il tè in alcuna contrada esotica, e questo è un buon risultato, non va più a rimorchio della poesia del Nord, anzi, possiamo affermare che la poesia del Sud si è completamente emancipata, ha un passo sicuro, procede in varie direzioni contemporaneamente, ricerca una propria identità. È questa la ragione fondante che può giustificare una antologia della poesia del Sud: la sua centripeta vitalità, il suo andare dentro il linguaggio poetico a far luogo dalla periferia. La diacronia del linguaggio poetico è racchiusa nel moto del pendolo, ad un periodo di espansione e di egemonia del Nord e del Centro subentra un periodo di riflusso e di rilancio della poesia del Sud.
Gran parte anche della migliore produzione poetica delle ultime generazioni sembra scrivere poesia come se fosse dentro una «vacanza» della ragione, della Lingua, ma la lingua ha una sua ferrea legislazione fatta di regole sintattiche e semantiche che nessuno può infrangere. Spesso trovo incomprensibili certi libri di poesia (sicuramente per miei limiti) ma anche perché ormai oggi ciascuno scrive per se stesso, ciascuno si fabbrica in privato un proprio idioletto senza curarsi di quel dialetto della comunità nazionale qual è diventato l’italiano letterario (per non parlare del fenomeno dei dialettismi poetici che sorgono un po’ come funghi in ogni parte della penisola quale epifenomeno del novecentismo tardo novecentesco). La grandissima parte dei più giovani pensa alla poesia come a un affare privato che più privato non si può, che anzi debba essere un privato privatissimo, la privatizzazione del privato, talché la lingua in cui quel privato si esprime ne è il corrispondente linguistico: di qui la «privatizzazione» della lingua in idioletto. È chiaro che in queste situazioni viene meno la necessità di un ermeneuta, il quale non ha più alcuna ragion d’essere. Per fortuna, in questa Antologia mi sembra di notare una inversione di tendenza, ci sono chiari esempi di una poesia che va verso la pubblicizzazione del privato, in cui il privato si allontana dal quotidiano e il quotidiano dal quotidiano presuntivamente posto. E questo è un segnale molto positivo.
Per via del fatto che la poesia si è prosasticizzata è invalso un equivoco: che il limen divisorio tra la poesia e la prosa sia effimero, equivoco; ma gli autori di questa Antologia dimostrano quantomeno di volerlo sciogliere. C’è un nodo, se non si scioglie questo nodo non sarà possibile scrivere una poesia adulta, emancipata. Così, la poesia contemporanea rischia di stare in mezzo al guado, di nuotare in una forma ibrida, nuotare con i salvagente. Basterebbe eliminare gli a-capo e riscrivere tutto in prosa per accorgersi che spesso il testo ne guadagnerebbe in linearità sintattica e alla lettura. E allora, chiedo: perché scrivere in forma-poesia cose che potrebbero suonare meglio nella forma della prosa?; è questo il nodo che la poesia italiana contemporanea si trova a dover sciogliere. Il verso è una «entità» che bisogna provare e riprovare; innanzitutto, come prescriveva Fortini, occorre provare «la resistenza dei materiali», intendendo dire che il verso poetico è un qualcosa che offre una «resistenza» alla lettura (e alla scrittura), come la resistenza che comporta un materiale qualsiasi quando viene attraversato dalla corrente elettrica: in mancanza di questa resistenza il verso non è più un verso ma semplicemente (e rispettabilmente) prosa.
Direi che per la poesia degli autori antologizzati sia prioritario l’atto della narratività. La poesia si costruisce come una riflessione su un oggetto dove il momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della sintesi. Riflessione e meta riflessione, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme. Una procedura che predilige lo scorrimento (a secondo della necessità della composizione) della narratività è una procedura che rimanda ai rapporti di inferenza e inerenza tra gli oggetti, tra le loro qualità e le loro alterità, ovvero, tra le parole. Una strada duale, sostantivale e relazionale, tra le parole e, quindi, tra i significati delle parole e gli oggetti referenziati dalle parole. Questo tipo di procedura non si differenzia da quella perseguita dalle scritture iperrealiste in auge in Occidente, ricade pur sempre nel demanio della narratività.
Narratività ed iperrealismo sembrano andare a braccetto: molti autori di questa antologia prediligono l’ingrandimento progressivo delle unità verbali prese ciascuna per sé collegate insieme mediante nessi sintattici, congiunzioni e/o particelle avversative, ricostituendo un periodare intuitivo (nel senso dell’immediatezza del linguaggio del quotidiano) al fine di rafforzare gli elementi significanti del linguaggio; oppure operano attraverso l’isolamento e l’ingrandimento di singole parole-immagini. Procedura già anticipata da un quarantennio da un film come Blow up di Antonioni, dove un fotografo, che ha scattato numerose fotografie in un parco, rientra nel proprio studio, e qui viviseziona le immagini attraverso ingrandimenti successivi e arriva ad identificare, stesa dietro un albero, una forma supina: un uomo ucciso da una mano armata di rivoltella che, in altra parte dell’ingrandimento, appare tra il fogliame di una siepe. Ci sono autori che tentano di ripristinare il giro frastico su un’orma endecasillabica, altri fingono un endecasillabo che non c’è, altri ancora derubricano la questione. È chiaro che qualcosa è cambiato, c’è un cambio di passo: il passato sembra essersi allontanato, molto di ciò che, nel bene e nel male, doveva cadere è caduto. È crollato non solo il paradigma ma l’idea stessa del paradigma: il canone si è dissolto in mini-canoni, è stato falsificato e clonato e moltiplicato in un brodo di coltura che, paradossalmente, non è escluso che possa dare i suoi frutti nell’imminente presente che si chiama futuro. È anche questa una delle ragioni di una antologia della poesia del Sud.
Sebastiano Adernò
– I –
Punto primo.
Carta mangia sasso
ché nato antico
e morto muto mai negò
il desiderio
di segni ed inchiostro.
– II –
Hai mai sparato per gioco?
Segna otto punti.
Se tra di voi c’è un Santo
riportalo indietro.
– III –
Eravamo in cento.
Dalla notte verso il centro.
La rete. La rete tre volte.
Poi meglio.
– IV –
A Masada comprammo fiori recisi.
Perché la stirpe stramazzata dei primi
tra base e desiderio
non avesse altro unico
di che esser felici.
– V –
Posa del sasso
in ginocchio sul greto.
La polvere è un boato.
Chiamarla storia
non rende l’uomo meno vacuo.
Valentino Campo
da CHRONICON
Libro I
Io Valentino, monaco unto nel letame
lingua di serpe
perché ho già tradito e abiurato, maledetto
il nome di questa terra che mi ha nutrito,
mi appoggio all’ombra della città che dilaga
come macchia scura che la luce non contiene.
Io sciancato, sordo perché non so sentire,
io diafano perché non so vedere
io muto perché non conosco il canto dei filistei
e mi muoiono in gola tutti i nomi di Cristo.
Nell’anno duemilatredici di nostro Signore
pesto le parole come radici
mentre la città scioglie i focolai
e il vento raschia via la pelle bruciata.
San Giorgio ha domato il drago
ma io so che la bestia non è quieta
chiederà nuova carne
sputerà altro fuoco,
si è solo confusa tra la moltitudine,
nel cavo delle narici, nell’increspatura.
Io monatto, medico ed untore
io che mi cibo col pasto dei condannati,
io messo al bando perché ho chiesto a Giorgio
di scendere da cavallo e gettare l’armatura.
Qualcuno sputa sangue nella tazza del vino
prima di consacrarlo a questa città assetata
lo allunga con acqua e brodo,
dice che così dà la biada
alle voci che ogni sera gli entrano come chiodi,
qualcuno racconta di sua madre,
viene da lontano, la peste l’ha risparmiato
come si risparmia un vitello per un’altra mattanza,
ha un campanello al piede che soffoca con l’erba
ogni volta che si caccia nel fitto del bosco.
Si sta in cerchio attorno alla fiamma,
una donna si alza per prendere le fascine,
gli uomini la guardano,
hanno smesso di tossire,
la donna canta mentre rimesta il fuoco
e il bagliore le slabbra il solco delle piaghe,
postremus inimicus evacuabitur mors
la donna intona come se fosse felice
e tutti cantano come se fossero vivi.
La peste non fa sconti, giù in città
è un luccichio di ossa, calce ovunque,
ovunque puzzo di uova marce
e quell’odore di pesce che rode il bianco,
che pare scrosti il bianco dai crinali.
I morti stanno con i vivi
ogni volta che c’è da spurgare le ombre dalla luce,
dal filamento sgrassare l’orlatura.
Nel fossato l’acqua si raggruma
e gli uomini la tengono tra i denti,
omnis qui bibit ex aqua hac sitiet ìterum,
l’arsura si sazia con l’urina
e con le foglie di menta.
Ho già spellato tutti i cardi
quando un tremolio di luce
balena tra il fuoco e la latrina davanti al bosco,
l’alba ha l’odore acre di bestia
che ha appena mutato scorza.
Oggi scenderò in città prima del suo fiato,
lavoro di routine contare le croci sui portoni,
un’addizione di segni, scorporo del dolore.
La città si lascia attraversare
come fanghiglia che tiene la preda,
seguo l’istinto del battitore che cerchia l’ombra,
fiuto la condensa calda del corteo.
Luigi Celi
Ritorno in Sicilia
È solo un sogno ritornare all’isola-culla
consegnata alla luna, al giallo diluviato
dei monti, agli impervi tornanti
ruscellanti pace e violenza.
Terra di calura e di tristezze
per le orecchie d’un Odisseo smagato,
delirio il suo omologarsi alla cultura del sovrappiù …
per chi non vuole udire le partiture del vero
sventaglia spartiti di sirene lungo-codate
tra Scilla e la madreperlacea Cariddi,
nel vento la cetra di Calipso
la voce di Nausica.
Inquietante è il dorso dell’isolapesce
ha spina dorsale di monti e lupare,
nuotano isole piccole su un’unica onda
di lava e antiche memorie.
*
Sabbie al vento nei cirri-vitigni d’uva-risa
menadi tra piedi strombolati di lava e oleandri,
dal Vesuvio fino all’Etna orizzonti di mafia
e foschi presentimenti …
Grembi partoriscono grembi e lacrime
nella stagione di paglia ardente
e tonfi sulla chiglia, nella rete dei miei lidi
l’alata scogliera ha radici d’olivo
sgorganti oro crudo.
Sul mare l’aria s-marina di biancospino
baluginano vele nell’angiporto …
Protesa alle Eolie Milazzo si inazzurra
tra delfini che incappucciano flutti
sospinti dalla brezza.
Su mutevoli nubi ali di gabbiani tagliano
nebbioline, sogni stagliati tra ombrose alghe
sguardi sperduti in specchi di negrizia …
non lontano migranti affondano in pozze
d’inaridite speranze …
palpebre galleggiano fuori di testa
sulle piccole labbra delle onde.
Rossella Cerniglia
Dalla silloge inedita Antenore e altre poesie
Ad amico immaginario
Oggi ti scrivo, amico mio dell’anima, solo navigante dei miei sogni.
La tua essenza eterea è il fluire in me delle cose che non hanno corpo.
Essere arduo, iperuranio sei, il lontano e vicino orizzonte
dove abita la notte del mio cuore, il contiguo esiziale mio dolore,
mio fratello prescelto dalla sorte di chi nulla possiede,
avventuriero del mio immaginario, ragno di me innamorato
che tesse la mia tela. Se ti cerco è perché il mondo è spoglio,
non ha che pietra e lugubre grigiore. Se ti cerco è perché la strada è sola
e niente dà ristoro: neanche una lusinga da questo cadavere immenso
qui disteso, nessun compagno di viaggio a deplorare
il tuo triste fardello, a compatire il tuo bisogno d’assetato.
Se questa è vita, è qui che giunge il mio sogno disperato:
a te che sei il prescelto, vero compagno della più oscura solitudine,
generato da essa come ombra, ma così pregna del bisogno di non essere sola!
A te, ultimo casto amore, consorte del mio viaggio
entro rive profonde e sconosciute, a te cedo le chiavi del mio cuore,
su te riverso il sogno inquietante e vuoto di una ricerca smisurata e vana
che è stata mia condanna e mia rovina: nella sua essenza invitta
s’inscrive il naufragio dell’umano, la sua inesorabile sconfitta.
.
Sera autunnale
Viene la sera autunnale
e sul sentiero tra gli ulivi
ferma l’alato piede.
Tinge la nera veste fluttuante
l’aria intorno e annera
ogni lucore, abbuia
I contorni delle cose.
L’angelo muto passa
innanzi alla finestra illuminata
e l’attimo trattiene
in un tempo senza tempo.
In un brivido lieve
trascorre
l’esile mistica sera.
Maria Pina Ciancio
*
Tutto ciò che non dico è oltre il Sud
anche questi fiori d’argento alla finestra
e questa gioia (…) così isolata nella sera
– sconsacrata da gesti che ritornano lenti
a un rituale d’avanzi
Anelli che si staccano a scuoterli troppo
e si disperdono per troppa stanchezza
troppa trasparenza d’intenti
2010-12
*
Avremmo dovuto partire
prima che l’Alba
ferisse insensata i nostri vent’anni
prima che le mani
smarrissero i fianchi
(senza sapere né dove, né come)
prima che gli occhi ferissero
altri occhi
Quando l’ingiusto
si impossessa del bene
è così che si esiste
senza parole
senza più grazia
abbozzando alla vita
soltanto uno sguardo fugace
e impoetico
2010-12
*
È dentro i vicoli d’inverno
che arrivano i fantasmi
con loro ombre lunghe
dentro corridoi lunghi
Io sempre avanti
loro indietro
di qualche passo indietro
2010-12
LA CENSURA DI NATALE – TRASCRIZIONE DI UN RECENTE SCAMBIO DI COMMENTI TRA GIORGIO LINGUAGLOSSA E LA SIGNORA CLAUDIA CROCCO SUL SITO “LE PAROLE E LE COSE” CON CONSEGUENTE CENSURA DELLE IDEE RITENUTE NON “PERTINENTI” ALL’ARGOMENTO
Si trascrive per i lettori del blog un recente scambio di commenti tra Giorgio Linguaglossa e la signora Claudia Crocco sul sito “le parole e le cose” a proposito di un articolo della Crocco sulla poesia contemporanea. Crediamo sia interessante il modo con il quale la Crocco e la redazione del sito si siano sottratti a rispondere alle obiezioni di fondo espresse da Linguaglossa operando una censura delle idee, indice, non solo di debolezza teorica, arroganza e presunzione, ma anche di incapacità ad accettare il terreno di un approfondimento critico delle questioni di poetica poste.
LA CENSURA DI NATALE
Pur apprezzando lo sforzo dell’autrice dell’articolo, mi chiedo: come si fa a dedurre delle linee generali di sviluppo della poesia italiana contemporanea se si parte da due libri di ragazzi, lasciatemelo dire, molto modesti; davvero, lasciamo almeno maturare un po’ questi ragazzi e non affibbiamo loro delle responsabilità eccessive. I testi riportati sono più che eloquenti intorno al loro modesto bagaglio tecnico e maturità espressiva. Ci sono autori contemporanei di maggiore livello estetico da prendere in considerazione sui quali costruire un discorso critico, credo.
- Gabriele Fratini
21 dicembre 2014 a 18:56
Se posso chiederti, Giorgio, quali sono? Tu da chi partiresti? Un saluto.
Gentile Gabriele Fratini,
in generale sono restio a fare dei nomi di autori di poesia contemporanei, chi ha curiosità in tal senso può rovistare nel blog lombradelleparole.wordpress.com che faccio con altri autori, ma certo una cosa va detta: è da molti anni che non vedo in giro un autore giovane (diciamo 30 o 40 anni) che abbia maturato una propria maturità espressiva, tutti più o meno scrivono in un buon italiano medio, mediamente coltivato; io cercherei invece in autori più anziani i quali hanno avuto il tempo di metabolizzare il mondo molto complesso di oggi. Potrei fare due nomi di poetesse morte: Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996) e morta nello stesso anno e Maria Rosaria Madonna autrice di un unico libro Stige (1992) e morta nel 2002. Tra i vivi io direi Anna Ventura, autrice che ha iniziato nel 1978 e che ha stampato quest’anno una Antologia Tu quoque (1978-2013) e, tra gli uomini, Roberto Bertoldo (che è anche filosofo) autore di alcuni pregevoli libri, Steven Grieco e Luigi Manzi. Ma, al di là dei nomi, mi sembra che la direzione di sviluppo della poesia italiana del tardo Novecento e di questi ultimi anni sia quella che io ho sintetizzato nella formula “Dalla lirica al discorso poetico” nel mio omonimo lavoro critico “Storia della poesia italiana (1945-2012) stampato con EdiLet di Roma . Il discorso critico sulla poesia italiana di questi ultimi decenni è ovviamente molto complesso e non può certo essere riassunto qui in poche righe, chi è interessato alla problematica della poesia contemporanea può consultare il blog sul quale scrivo.
Cordiali saluti
- Gabriele Fratini
22 dicembre 2014 a 00:23
Grazie Giorgio Linguaglossa, leggerò ciò che trovo di questi autori, e il suo blog. Sono interessato ad approfondire. Tra lei e Claudia Crocco mi avete fornito molto materiale da leggere. Buone feste.

Francesca Diano
Gentile Gabriele Fratini,
trascrivo un mio commento fatto sull’ombra delle parole del 25 maggio 2014 alle 16.11=
«Sono particolarmente contento della qualità delle poesie di questo post: Antonio Sagredo, Annamaria De Pietro, Francesca Diano e Donatella Costantina Giancaspero ci offrono un tipo di poesia che si allontana e di molto dalla poesia che oggi va di moda un po’ troppo facile e, diciamolo pure, abbastanza scontata che tratta il “quotidiano” e il “privato”. L’intento dell’Ombra delle Parole è appunto quello di mostrare che c’è un altro tipo di poesia, che tratta tematiche e non tematismi, che ri-adotta le tematiche eterne, ad esempio quelle del rapporto che lega l’uomo contemporaneo con il Potere, e quella che tenta di decifrare(e leggere) in modo nuovo il Mito (e non usarlo in modo parassitario per abbellire una composizione).
Sono convinto che la scelta di un “tema” diverso è già in sé un atto ESTETICO e POLITICO, di contro all’omologismo che invade le scritture poetiche parassitarie che non pensano neanche a mettere in discussione i propri assunti di partenza. Per fare una poesia diversa bisogna prima pensarla, averla pensata lungamente; è fin troppo facile fare poesia di seconda mano, diciamo assumere come dato di fatto la “secondarietà” come un assioma basandosi sull’assunto che tanto il Novecento ha già detto tutto e che non c’è niente di nuovo a dirsi e a farsi. E allora, occorre dirlo in modo netto..e chiaro: c’è oggi in Italia chi fa, con ottimi risultati una poesia che non assume la “secondarietà” come dogma inconfutabile. La “secondarietà” si confuta da sola: chi continua a scrivere in continuità con la linea discendente di una tradizione che non c’è più tradisce soltanto il buon senso oltre che la logica elementare del pensiero.
È oggi possibile scrivere una poesia che non ricalca parassitariamente le orme di quella passata».
- Gabriele Fratini
22 dicembre 2014 a 13:34
Sì grazie Giorgio lo avevo letto e sono abbastanza d’accordo. Ho lasciato un commento. Sto visitando anche il suo sito
Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc.
La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».
- Claudia Crocco
22 dicembre 2014 a 17:23
@Giorgio Linguaglossa
Non deduco linee generali a partire da due libri: mi pare che il mio discorso sia un po’ più ampio, e che vengano tirate in ballo altre opere. Inoltre, cosa le fa pensare che io non abbia costruito discorsi critici su autori (e periodi) diversi altrove?
Mi fa piacere che abbia avuto modo di esprimere la sua opinione e di segnalare il suo sito. Da ora in poi, però, verranno approvati soltanto commenti in cui si discute il post.
gentile Claudia Crocco,
le faccio presente che mi sono limitato a rispondere alla domanda di Gabriele Fratini. Peraltro, la mia riflessione era intesa ad approfondire e ampliare il discorso da lei avviato. Ritengo che avviare un discorso critico parallelo a partire dal suo post sia utile e interessante per chi voglia capire di che cosa si sta parlando. Forse lei intende la riflessione come un semplice commento interpolazione al suo testo, io invece ho un’altra idea del dibattito critico che credo debba essere una agorà dove si confrontano le tesi e non un luogo dove si emettono dei silenziatori.
- Claudia Crocco
22 dicembre 2014 a 17:49
Gentile Giorgio Linguaglossa,
se avessi voluto mettere dei silenziatori e non dare vita a un dibattito critico, non avrei approvato giudizi negativi sul mio saggio (un paio dei primi). E non avrei approvato cinque suoi commenti, nei quali il discorso critico si basa solo su citazioni da suoi testi (con l’eccezione di Adorno) e dal suo sito. Mi creda, non ho intenzioni censorie.
Mi pare che lei abbia anche risposto a Fratini e che nessuno lo abbia impedito.
Non vedo molta volontà di confronto, però, da parte sua.
Saluti,
C.
gentile Claudia Crocco,
comprendo perfettamente che il suo angolo visuale parte dall’esame di due autori della generazione degli anni Ottanta (la sua medesima) per valorizzarne il lavoro, forse è giusto così, ognuno parte dalla cognizione dei propri interessi, il suo lavoro interpretativo è utile, ma necessariamente parziale, e, per rispetto del suo impegno, non sono entrato a contestare o dimidiare il suo articolo o parti del suo articolo, che va bene così, ha dato il suo contributo critico a una serie di problemi veramente vasti e complessi. Però, suvvia, sia concesso anche all’interlocutore di turno di ampliare l’orizzonte del discorso anche a chi utilizza altre categorie di pensiero critico, non si richiuda a riccio entro il proprio recinto, da parte mia non c’è alcuna intenzione paternalistica ma chiedo che da parte sua neanche ci sia una intenzione censoria.
- Claudia Crocco
23 dicembre 2014 a 00:34
Gentile Giorgio Linguaglossa,
e invece si sbaglia. Parlo di due libri di miei coetanei, è vero, ma poi il discorso diventa più ampio, e altre opere vengono coinvolte. D’altronde, il Novecento è pieno di critici che compiono (senz’altro meglio di me, certo) la stessa operazione. Non penso affatto che parlare di opere della mia generazione sia limitante, né che conduca a usare categorie ristrette. Al contrario, mi sforzo di usare categorie che siano in continuità con la storiografia della poesia che ho studiato, e allo stesso tempo adeguate a ciò che si scrive oggi. Non so quanto mi riesca; però rifiuto del tutto il suo commento generico, superficiale, e paternalista. Ben venga qualsiasi commento puntuale, anche brusco, ma basta con questo tronfio tono condiscendente. Mi faccia pure le pulci, se vuole: you are welcome. Non approverò più commenti autoreferenziali in cui, per “ampliare gli orizzonti”, sponsorizza solo le sue opere e il suo sito.
Saluti,
C.
gentile Claudia Crocco,
mi creda, lo ripeto, non sono entrato dentro la sua argomentazione critica non per snobismo o per (come lei mi accusa) paternalismo, ma perché i problemi sono veramente molto complessi i cui nodi si possono rintracciare (se li si vuole risolvere) ben prima della generazione degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta. Prendiamo ad esempio l’opera del maggior poeta italiano del Novecento: Eugenio Montale. Partiamo da lì.
Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.
La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.
C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro sostiene di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.
Oggi va di moda
Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo “Satura” (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.
Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo
Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.
Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1968), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.
Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.
25 dicembre ore 10,00
Claudia Crocco
@Giorgio Linguaglossa.
Intervengo un’ultima volta per dirle due cose:
1) il suo commento esprime molta presunzione. Questo sito dà spesso attenzione a poeti di valore, e di recente ha pubblicato svariate cose su Fortini. Non mi pare che lei sia l’unico a occuparsi in modo serio di poesia contemporanea, come sembra suggerire qui.
2) Non approverò più commenti di questo tipo.
Saluti,
C.
25 dicembre ore 10.30
Giorgio Linguaglossa
gentile Claudia Crocco,
lei è arrivata al dunque: con tono intimidatorio dichiara che censurerà (“non approverò”) ogni altro mio intervento “di questo tipo”, sottraendosi così al dialogo e all’approfondimento delle questioni estetiche che avevo posto con il mio contributo. Le faccio presente che io non ho espresso pareri irriguardosi o, come lei scrive, “Presuntuosi” nei confronti del suo articolo, anzi, ho scritto che andava bene ma che occorreva ampliare la riflessione sulla crisi della poesia e retrodatarla agli inizi degli anni Settanta. A questa mia legittima obiezione lei non ha risposto. Le ricordo che è lei l’autrice dell’articolo e se un interlocutore le pone una questione (fondata o infondata) è lei che deve rispondere con un approfondimento o una precisazione. Il suo diniego a fornire alcuna risposta è indice di un atteggiamento sprezzante e irriguardoso non soltanto nei miei confronti (che avevo posto la questione) ma nei confronti di tutti i lettori del blog.
Chiedo infine alla redazione del sito se è lei che può decidere di censurare una discussione o se, invece, questo compito spetti alla Direzione del sito.
E questa è una domanda che pongo alla Direzione del sito, che, spero, non vorrà sottrarsi alla mia legittima richiesta. Preciso, inoltre, che anch’io sono direttore di un blog e che non ho mai censurato nessuno tranne commenti che sfioravano il codice penale con frasari offensivi o diffamatori.
cordialità. Giorgio Linguaglossa
Risposta della redazione del sito.
@Linguaglossa
- a) Come sempre, la moderazione del post spetta a chi lo pubblica. In questo caso, a Claudia Crocco.
- b) L’autore del post non “deve” rispondere a un bel nulla. Se vuole risponde, altrimenti no. In generale, si ha voglia di rispondere a obiezioni intelligenti, pertinenti e formulate in modo sintetico e rispettoso. Si ha meno voglia di rispondere a obiezioni autoreferenziali, verbose e palesemente fuori tema. Quando poi le obiezioni paiono servire soltanto a spostare l’attenzione di tutti sull’ego di chi le formula, la voglia di rispondere – o anche solo di leggere – rischia di sparire del tutto. Ci pensi.
(gs)
CONSIDERAZIONI di Alfonso Berardinelli sulla poesia di Mario Luzi
La poesia di Mario Luzi e la riflessione morale che forse ha bisogno di prosa
il Foglio 23 gennaio 2014
Si commemorano quest’anno i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, morto nel 2005. E’ stato il più precoce, dotato, produttivo e colto dei poeti ermetici che ebbero come maestri Ungaretti, Campana, Mallarmé, Novalis. Negli ultimi tre decenni della sua vita e soprattutto, mi sembra, da quando cominciò ad aspettarsi il premio Nobel (che invece fu assegnato a Dario Fo) Luzi diventò ancora più prolifico, si investì del ruolo di “grande poeta”. Dopo il suo libro migliore, “Nel magma”, uscito nel 1963, la “verticalità” del suo stile e il suo esistenzialismo spiritualistico lo hanno spinto sempre più verso un poeticismo quasi involontariamente enfatico, dilatato, cosmologico, che aveva origine nella sua formazione tardosimbolista.
Leggendo l’articolo che domenica scorsa Carlo Ossola ha dedicato a Luzi sottolineandone il carattere di poeta morale e civile, mi sono venute in mente le mie precedenti impressioni. Se si escludono alcune zone della sua opera, Luzi tende a pensare troppo in grande, in generale e al cospetto dell’assoluto per essere un poeta propriamente morale e civile. Il fatto che come uomo e cittadino abbia sofferto per la situazione italiana, non significa che fosse capace di esprimere in poesia questa sofferenza, come hanno saputo fare, con un linguaggio più sobrio, i suoi coetanei Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Basterebbero le citazioni fatte da Ossola per capire che la sensibilità di Luzi si perde, o meglio vuole ingrandirsi e sublimarsi, in una nebbia di entità indeterminate, in un labirinto di allusioni e metafore che risultano nobilmente retoriche. Parla di “forza interiore” necessaria all’uomo, dice che “il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà” (la mancanza di virgole, più che esprimere un crescendo di esasperazione, aggiunge enfasi e toglie concretezza). Parla di “una vita formale, eterna” (su vita, forma ed eternità si potrebbe, o dovrebbe, costruire un’intera filosofia, mentre qui si capisce appena l’accostamento). Esorta i lettori e l’umanità intera: “Trasformatevi dolorosamente / nella vostra incipiente divinità” (suggestiva allusione a un’etica teologica da precisare).
A sua volta Ossola aggiunge astrazione ad astrazione dicendo che Luzi “come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza”. Ora c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici (che Ossola ha studiato) con i suoi versi umili e quotidiani, cattolici e comunisti, ha mirato o no all’essenza? Ha raggiunto il bersaglio? In letteratura e in particolare in poesia, quella dell’essenzialità è forse (con quella di realtà) una delle nozioni più sfuggenti e controverse. Ogni stile ha la sua idea di ciò che è essenziale. Ogni stile ha la sua fisica e metafisica più o meno implicite.
Mi sembra che Luzi, forse immaginando di essere sulle orme di Montale, abbia preso invece tutt’altra strada, si sia sollevato in volo verso l’inconoscibile e abbia perso, in tutti i suoi ultimi libri, che non sono pochi, la distinzione tra fisico e metafisico, tra l’esperibile e il sovrasensibile. Ungaretti (su cui Ossola ha scritto un libro) è il poeta più “essenziale” del Novecento, eppure le sue poesie di guerra (le migliori) sono sommamente circostanziate: di ogni testo si precisa il luogo e la data di composizione. Poi, con il suo secondo libro, ha inventato l’ermetismo perché non sapeva più con precisione che cosa dire.
Ed ecco i versi di Luzi che dovrebbero toccare l’essenza, mentre si limitano a nominarla: “Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza”. Mi sembra che non poca poesia poeticizzante e poeticamente nulla scritta da diversi autori più giovani, sia dovuta all’influenza di questo Luzi che vola verso l’assoluto e nomina categorie morali senza mostrare situazioni morali: che vede la vita e il mondo come “putiferio della mortalità” e il potere politico come “eterna satrapia”. Siamo nel solenne e nel vago, mi pare.
Molto meglio un articolo che Luzi pubblicò sul Messaggero il 7 gennaio 1991 e che Piergiorgio Bellocchio scelse subito per ripubblicarlo sulla nostra rivista Diario, numero 9. Qui Luzi parla come uomo e cittadino e non si preoccupa di fare il poeta:
“Sto studiando se e come sia possibile ancora associare la condizione di italiano e quella di persona civile. Con tutti gli sforzi della buona volontà non ci riesco. Per troppo tempo la carità patria mi ha fatto velo ed ho lasciato, come altri, che lo facesse. Ma, evidentemente, non si può andare oltre un certo limite; poi l’indulgenza si trasforma prima in indignazione e rivolta, infine in sconforto e vergogna quando ci accorgiamo che, non arginata da nessuna decente e rispettata statualità, la disgregazione sociale è divenuta barbarie (…). Non ci sono solo i Sindona, i Gelli e tutta una generazione di politici che sembra avviata a una tremenda catastrofe a testimoniare lo sfracello italiano; ci sono anche i subalterni che alla loro ombra hanno trafficato, corrotto, commesso arbitrii e soprusi; e ci siamo noi che siamo riusciti a sopravvivere in questo marasma come pesci nell’acqua sporca (…). Non solo, ma ne abbiamo più o meno consapevolmente assimilato il criterio, quasi a confermare l’idea di Machiavelli che in uno stato inefficiente la naturale perfidia umana dilaga”.
Sembra proprio che la riflessione morale e un vero, non retorico moralismo abbiano bisogno di un po’ di prosa. Il più bel libro di Luzi, “Nel magma”, era un libro di situazioni, il più prosastico con i suoi lunghi versi metricamente poco definibili. E’ a quel punto che Luzi aveva trovato la giusta forma per “spingere più oltre (…) la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua”, come scrisse in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. Il poeta ermetico era diventato (come succederà anche a Montale con “Satura”, nel 1971) un poeta che cerca la sua epigrafe più adatta in una satira di Orazio: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus: se non fosse per la misura dei versi, questa non sarebbe altro che prosa”.
Dopo quel libro Luzi ha invertito la sua direzione di marcia, è tornato a quella che Orazio nella stessa satira (la quarta del primo libro) chiama “ispirazione geniale e divina” e “voce capace di toni sublimi”. Quando ha cercato di far fruttare la sua cultura ermetica giovanile dilatandola in un’epica spirituale della vita divina, quando ha voluto accendersi di un sacro fuoco, quando in epigrafe ha cominciato a mettere san Giovanni, Dionigi Areopagita e i Veda (quando ha cominciato a pensare al Nobel, se volete) Luzi ha perso la misura di poeta morale e civile e si è smarrito in una retorica frenesia da veggente.
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La dimensione poetica della parola. Il suono che guarisce e che ricrea (Ariosto, Ungaretti, Zanzotto, d’Annunzio, Montale) Saggio di Marco Onofrio (Parte I)
I
Donde nasce la magia della parola poetica? Perché quelle parole, in quella sequenza, dentro quel verso, suonano in quel modo? Diversamente, cioè, da quando le troviamo isolate, a se stanti, sul vocabolario?
Prendiamo il celebre incipit leopardiano de La sera del dì di festa: «Dolce e chiara è la notte e senza vento». I due aggettivi donano un afflato rasserenante, rafforzato dalla congiunzione che chiude l’endecasillabo. Se proviamo a sostituire anche una sola parola, o a scompaginare l’ordine di quelle che ci sono, l’effetto non è più lo stesso: si spezza per sempre l’armonia melodica, la callida iunctura delle forme. Lo dice ad esempio Orazio Flacco, nell’Epistola ai Pisoni: una parola logora e pedestre riceve nuova luce a seconda delle virtù combinatorie cui è sottoposta, cioè della sua posizione nell’ordine della scrittura; così come una parola “nobile” può, per motivi opposti, infiacchirsi. Questione di alchimie, di energie che sprizzano dall’incontro sonoro delle parole, che sono vive, plastiche, malleabili come creta. La parola poetica, spesso avvincendo, avvolgendo sensualmente, cullando la percezione in termini di incanto, ci trasporta sotto il piano razionale della parola utilitaria, tipica del linguaggio-comunicazione. È un “massaggio acustico” che può liberare, come per una sorta di “regressione” freudiana, energie nascoste e associazioni latenti, comunicando l’inconoscibile e tentando di ristabilire l’armonia perduta: come una “lingua primordiale”.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
La parola poetica s’iscrive in un sistema diverso da quello corrente. Il dire del poeta è ambiguo, irrazionale, evocativo. Talvolta neanche lui ha ben chiaro, se non a livello intuitivo, ciò che sta dicendo. Più che scrivere, è scritto dalla poesia che lo sceglie per manifestarsi. Ovviamente, dinanzi a contenuti così oscuri (l’altro, l’ignoto, il sublime), non gli basta più il linguaggio comune di stampo referenziale. Ha bisogno di inventarsi un’altra lingua, o almeno di forzare quella che già esiste. Una lingua con referente diminuito, o addirittura senza referente: che costruisce da sé altri e nuovi referenti. La poesia si produce, dunque, come “eversione” – voluta cercata organizzata dal poeta – rispetto al linguaggio di uso pratico. Il poeta trasforma dall’interno la parola, le fa dire e non dire e, in questo modo, esprimere più di quel che in prosa potrebbe. Egli oscilla di continuo fra due poli espressivi: la tentazione del canto (in cui le parole tendono a perdere il proprio valore significativo per suonare ed evocare attraverso un alone di suggestione sonora, ritagliandosi una frangia di senso che tocca più contenuti mentali non chiaramente comunicabili – l’istinto, l’inconscio, il preverbale – che l’intelletto) e la necessità del discorso (laddove deve emergere la chiarezza analitica dell’intelletto: necessaria ad esempio se vogliamo raccontare una storia in poesia).
Ciò che insomma distingue un testo poetico da un normale testo comunicativo, i Sepolcri di Foscolo dal bugiardino di un farmaco o dalla lista delle cose da comprare, è che nel testo poetico il “senso” nasce anche e soprattutto dal legame tra le unità che lo compongono, non solo dal loro significato. In poesia è più importante il “modo” che l’“oggetto”: più di cosa viene detto, come viene detto.
Precisa Gian Luigi Beccaria in un suo fondamentale saggio, L’autonomia del significante: «In poesia il significato del discorso non è mai in grado di accogliere tutto il senso (né lo è il significante da solo). Il senso poetico si compie nella combinazione di un significato calato in convenzioni ritmiche vincolanti e liberato in significazioni di suoni».
Il segno poetico ricrea gli elementi della lingua-comunicazione, aprendoli ad una nuova ricchezza di senso che emerge dal rapporto delle unità significanti, “orchestrate” nella struttura del testo. Un testo, quello poetico, che sintetizza ad ogni livello un altissimo grado di informazione. È un “ipersegno”. Spiega Maria Corti nel saggio Principi della comunicazione letteraria: «in poesia tutto è pertinente a livello fonico e semantico, tutto significa». E, secondo Beccaria, «la poesia è fra tutte l’arte più gravata di significati». Il discorso poetico esalta la funzione del linguaggio che Jakobson definisce per l’appunto “poetica”, cioè autoreferenziale, per cui ogni autentico testo poetico genera (e si genera come) uno speciale codice, “altro” e autonomo rispetto al linguaggio comune, dove è il linguaggio, anzitutto, che comunica se stesso. Una poesia non è soltanto “logos”, o – men che mai – dimostrazione scientifica, o nota informativa: il suo messaggio non è altro che la poesia medesima, nella pienezza delle sue molteplici possibilità espressive. La funzione “poetica” esautora quella “referenziale”, la rende complessa, ambigua, polivalente. Densità semantica e polisemia: ogni parola, in un testo poetico, è un fascio di significati che s’irradiano in diverse direzioni. Non solo le parole, dunque, ma anche le strutture retoriche che le organizzano nel quadro complessivo del testo, sulla sua superficie spaziale e tipografica, macro-struttura ad elevata formalizzazione: figure ritmico-sintattiche, parallelismi, iterazioni, assonanze…
Tutto è segno e senso in poesia: anche e soprattutto il suono. La poesia stessa è suono che produce conoscenza. Il suono e il ritmo della poesia hanno un valore iconico speciale, autonomo, determinante. Sono in grado di evocare e rappresentare essi stessi il significato della cosa. Ecco ad esempio come, in suoni scoppiettanti, rende il temporale Ariosto nel Furioso:
con tanti tuoni e tanto ardor di lampi
che par che ‘l ciel si spezzi e tutto avvampi
o, con lo sgusciar del ferro, il sibilo di una spada Pulci nel Morgante:
.
rizzossi in sulle staffe, e ‘l brando striscia
che lo facea fischiar come una biscia
Così, senza ricalcare le suggestive arbitrarietà di Rimbaud, con la sua poesia sul colore delle vocali (e, per quella via, le astruse teorie dell’abbé Bremont), possiamo parlare di fonosimbolismo poetico, di significato referenziale dei suoni; per cui la [s], ad esempio, si presterebbe allo strisciare delle serpi, la [r] al fremito e al movimento, la [i] sembra più chiara di [u] e [o], ecc. Scrive Donatella Bisutti nel delizioso libro La poesia salva la vita: «una parola non è solo il significato di una cosa, ma anche un po’ l’immagine di quella cosa». Una parola come raffica, ad esempio, è veloce e turbina come un colpo di vento improvviso, grazie a quelle [f] che soffiano. Stuzzicare sembra qualcosa che punge, per via di quelle due [z] e di quella [i] sottile: come una zanzara. E ancora: farfalla, con quelle due [f] svolazzanti e quelle due [l] che la sostengono in volo, è «in realtà il perfetto ritratto di una farfalla». La poesia sa adoperare le parole come oggetti, come pennelli intrisi di colore, come tasti di un pianoforte. Ci sono parole «veloci o lente, leggere o pesanti, tenere o aspre, morbide o dure, carezzevoli o taglienti». Prescindendo dalla trascrizione onomatopeica dei suoni (si pensi a Pascoli e a Palazzeschi), leggiamo qualche magnifico esempio di significato rappresentato per vie irrazionali, anche e soprattutto attraverso il suono.
“La luna” di Andrea Zanzotto:
.
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
Distonia vita traviata,
Atonia vita evitata,
Mataia, matta morula,
Vampirisma, paralisi,
Glabro latte, polarizzato zucchero,
Peste innocente, patrona inclemente,
Protovergine, alfa privativo,
Degravitante sughero,
Pomo e potenza della polvere,
Phiala e coscienza delle tenebre,
Geyser, fase, cariocinesi,
Luna neve nevissima novissima,
Luna glacies-glaciei
Luna medulla cordis mei,
Vertigine
Per secanti e tangenti fugitiva
La mole della mia fatica
Già da me sgombri
La mia sostanza sgombri
A me cresci a me vieni a te vengo
Luna puella pallidula.
Il mare slavato e disilluso di Ungaretti:
.
Più non muggisce, non sussurra il mare,
Il mare.
Senza i sogni, incolore campo è il mare,
Il mare.
Fa pietà anche il mare,
Il mare.
Muovono nuvole irriflesse il mare,
Il mare.
A fumi tristi cedé il letto il mare,
Il mare.
Morto è anche lui, vedi, il mare,
Il mare.
(si noti l’eco del “mare”, ripetuta in a capo, che equivale all’inerzia stanca della risacca sul bagnasciuga, quando il mare è plumbeo, inerte, quasi fermo). La freschezza spumeggiante dell’onda di d’Annunzio:
Nasce l’onda fiacca,
subito s’ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene
rincalza, ridonda.
Altra onda s’alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, procede.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s’arruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L’onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s’infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l’alga e l’ulva;
s’allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui ‘l vento
diè tempra diversa;
l’avversa,
l’assalta, la sormonta,
vi si mesce, s’accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d’iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca,
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
E lo sconquasso simbolico della “bufera” di Montale:
… e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Nel messaggio poetico risulta dunque determinante l’aspetto fonico-timbrico della lingua. La poesia è, in questo senso, la risultanza dell’incontro-incrocio degli elementi metrici, ritmici e metaforici. Il piano dei significanti e quello dei significati sono i due poli entro cui oscilla mutevolmente l’ago della comunicazione poetica. Lo stesso ritmo si gioca nel conflitto perenne tra metro e sintassi: il discorso non coincide puntualmente con i versi, tende a forzarne la misura orizzontale in strutture foniche verticali, tessute di corrispondenze e bilanciamenti.
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UNA POESIA DI CORRADO GOVONI (1884-1965)”Dove stanno bene i fiori” commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Govoni, Corrado. Poeta italiano (Tamara, Ferrara, 1884 – Lido dei Pini, Roma, 1965). Poeta dai toni accesi e dall’ostentazione verbale, ma al tempo stesso di una tristezza disincarnata ed elusiva, percorse con originalità il complesso universo che si andava muovendo intorno alla “nuova poesia”, sorta nella prima quindicina del XX secolo, attraversando Pascoli e D’Annunzio, ma soprattutto partecipando direttamente al movimento futurista (collaborò ai Quaderni di poesia diretti da F.T. Marinetti) e facendo tesoro delle esperienze simboliste e tardo-simboliste in chiave impressionistica e crepuscolare. Un’ampia antologia delle sue Poesie (1903-59) ha curato G. Ravegnani (1961).
Fece, da giovane, l’agricoltore e anche il commerciante; costretto, per rovesci di fortuna, a un modesto impiego, a Roma, visse lontano dal mondo letterario, pur appartenendovi in pieno per la copiosità di una produzione che, nella costante fedeltà ai propri motivi ispiratori, seppe trovarsi in sintonia con le correnti più vive del tempo.
Pascolismo e dannunzianesimo confluiscono in misura/misura egualmente larga nel suo originario crepuscolarismo (Le fiale, 1903; Armonia in grigio et in silenzio, 1903; ecc.): il primo ravvisabile soprattutto nel suo amore per la natura, per la vita agreste, e nell’impressionismo nomenclatorio; l’altro, in quella sua sensualità visiva, che gli fa godere le immagini una per una, per accenderle poi e irraggiarle come fuochi d’artificio. Donde una certa affinità del G. col futurismo (Poesie elettriche, 1911; L’inaugurazione della primavera, 1915; ecc.), e l’aspetto di filastrocche o “litanie liriche” che hanno i suoi versi (Il quaderno dei sogni e delle stelle, 1924; Brindisi alla notte, 1924; ecc.). Migliori tuttavia i momenti in cui egli riesce a contenere tanta esuberanza e prolissità entro forme di canzonetta popolareggiante o vagamente epigrammatiche (Il flauto magico, 1932; Canzoni a bocca chiusa, 1938; Pellegrino d’amore, 1941; Preghiera al trifoglio, 1953; Patria d’alto volo, 1953; Manoscritto nella bottiglia, 1954; Stradario della primavera, 1958). Un’intonazione nobilmente elegiaca presiede invece ad Aladino (1946), compianto di un suo figlio trucidato alle Fosse Ardeatine. Il G. scrisse anche prose liriche (La santa verde, 1919), novelle e romanzi, sempre di un autobiografismo riversantesi in immagini e colori. Postuma (1966) è apparsa una nuova raccolta di versi, La ronda di notte.
(da Gli aborti, 1907)
Dove stanno bene i fiori
I ciclami, nei chiostri di marmo.
Le ortensie, nelle rosse Certose.
Le margherite, nei prati.
Le viole, tra le foglie secche
lungo i fossi.
La malva, nelle pentole dei poveri, alle finestre.
Gli oleandri, nei vestiboli dei ricchi.
Le rose, dentro gli orti di campagna.
I tuberosi, nei giardini dei collegi.
Le aquilegie, nei cortili dei castelli antichi.
Le ninfèe, come
bianche lavandaie, sotto i ponti.
Gli edelvai, vicino ai nidi delle aquile.
I convolvoli, nelle siepi delle strade.
I glicini, sui ruderi.
L’edera, come una decorazione verde
intorno agli alberi veterani.
I gigli, sugli altari e in processione.
Le orchidee, simili ad aborti, nei bicchieri.
Le azalèe, nelle chiese protestanti.
Le camelie, nei vasi di maiolica sulle scale.
I narcisi, davanti agli specchi.
I garofani rossi, nella bocca delle amanti.
I crisantemi, sulle tombe e nelle tavole.
I pensè, come maschere curiose alle finestre.
I papaveri, nel frumento.
I begliuomini dai fiori ascellari
simili ad arlecchini, negli orti delle zitelle.
Le violacciocche, lungo i viali delle passeggiate.
I semprevivi, nelle camere dei malati e davanti ai santi.
I gelsomini, alle finestre degli ospedali.
I funghi, nei boschi umidi
nelle travi marcite
e nell’anima mia.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Corrado Govoni è un «classico» indiscusso del primo Novecento, anzi, uno dei «classici» di tutto il Novecento. La poesia, “Dove stanno bene i fiori”, è un esempio impareggiabile dell’estro e della magnifica capacità che Govoni ha di spaziare con le metafore e le immagini, con le analogie e i parallelismi, come mai forse nessun altro nel Novecento. È impressionante quell’andare a briglia sciolta da invenzione ad invenzione, da immagine ad immagine, senza dare tregua al lettore, senza blandirlo con soluzioni languide, servizievoli o ammiccanti, obbligandolo a seguirlo nella sua funambolica ascesa alla immaginazione poetica più sbrigliata e libera di tutto il primo Novecento italiano. Sotto questo aspetto non c’è nessun altro poeta del primo Novecento (con l’eccezione di Palazzeschi) che possa stare al pari della sfrenata libertà metaforica di Govoni; c’è da restare perplessi, smarriti e meravigliati, smarriti dinanzi alle iperboli funamboliche delle immagini che si susseguono senza tregua. Sarebbe ora di rileggere con altri occhiali i grandi poeti del primo Novecento. Torniamo a rileggere la poesia a briglia sciolta di Govoni, vediamo con quale strabiliante svolgimento di immagini Govoni tematizza il tema: prende il tema dei “fiori” e ci fa sopra una poesia che ha una straordinaria brillantezza e «trasandatezza» formale.
Scrive Mengaldo: «Govoni appresta quel repertorio di oggetti e temi che sarà tipico della sensibilità “crepuscolare” (parola tematica che in lui compare presto), e lo fa in modo straordinariamente elementare, e, per così dire, feticistico”, accompagnandolo con “arpeggi di annoiata chitarra” (Solmi). In realtà Govoni è soprattutto attratto dalla superficie colorata del mondo, dalla varietà infinita dei suoi fenomeni, che registra con golosità inappagabile e fanciullesca, quasi in una volontà di continua identificazione col mondo esterno»*
Il giudizio riduttivo di Mengaldo sulla poesia di Govoni è indicativo della cecità e della ristrettezza di campo concettuale con cui il critico citato guarda alla poesia di Govoni. Mengaldo fa una duplice operazione, dimidia il valore della poesia dei crepuscolari per puntare dritto sulla poesia del primo Montale, quello degli “Ossi” e quello delle “Occasioni” per canonizzarlo quale spina dorsale della poesia del Novecento; ma non solo, la idea guida di Mengaldo ripete il cliché del topos accademico che guarda alla poesia del primo Novecento dal punto di vista della poesia maggioritaria del secondo Novecento. Mengaldo svaluta la prima per rivalutare la seconda; svaluta la libertà sfrenata e gioiosa dei grandi poeti del primo Novecento come Campana, Govoni, Palazzeschi, i futuristi, Lucini, Saba, i crepuscolari, per rivalutare la poesia del pedale basso del Montale di Satura (1971) e della poesia post-montaliana del disimpegno e dell’ironia, della cultura dello scetticismo e del disinganno dinanzi alla invasione della società di massa.
Alla luce degli eventi che hanno punteggiato la poesia italiana in questi ultimi tre quattro decenni, dobbiamo rovesciare come un guanto il giudizio critico di Mengaldo e rivalutare quei poeti che nel primo Novecento hanno corso a briglia sciolta sulle ali di una irrefrenabile aria di libertà creativa (Govoni) e di una estenuata malinconia (i crepuscolari). Occorre riparametrare quella presunta centralità della poesia del secondo Novecento che aveva la sua referenza sociale nella piccola borghesia. Ritengo sia giunto il momento di ribaltare i giudizi (anzi i pregiudizi) consolidati. Proviamo a rileggere all’incontrario la poesia del Novecento.
Devo fare un inciso su ciò che ci dice la poesia del minimalismo. Attraverso quella poesia si può leggere in filigrana ciò che stava diventando il paese: un paese invaso dallo scetticismo, dal demagogismo del disimpegno assunto a nuova ideologia di massa, dall’ironizzazione scontata e facile, da una cultura che non aveva cognizione di ciò che stava avvenendo, che continuava a fare una poesia del disincanto, del ritorno al privato, alla cronaca, al quotidiano, al particulare, allo scetticismo. Una cultura celebrativa e inaugurale del Presente fondata sulla digressione e sul bilanciamento tra il quotidiano e il privato. E l’affermarsi di una clericatura di massa dotata di invarianza e di tatticismi e di uno stile cosmopolitico.
A questo punto occorre fare una distinzione tra il correre a briglia sciolta della poesia di un Govoni e di un Palazzeschi del primo Novecento e lo sbocco del paese nel fascismo: non c’è alcun legame tra le due cose; quello che poi emerse negli anni Trenta è stato il richiamo all’ordine di “La Ronda” che la poesia di Cardarelli in certa misura legittima: il ritorno all’ordine politico e il ritorno all’ordine del testo poetico. Occorre leggere la storia della poesia del Novecento con un’altra lente di ingrandimento. E, direi anche con altri occhiali.
Per tornare all’oggi, è utile e salutifero guardare alle esperienze poetiche del primo Novecento con l’occhio critico di chi abita l’omologismo del post-minimalismo di massa dei nostri giorni.
((P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, p. 5, Mondadori, Milano, 1978)
Giorgio Linguaglossa
Marie Laure Colasson, foto, manichino in vetrina, Banja Luka, 2019
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Jacopo Ricciardi
“Oggi, a distanza di cinquanta anni da Satura ho capito che l’unica soluzione a quella crisi della rappresentazione era (ed è) possibile soltanto dall’esterno, e dall’esterno frantumare, dissolvere quella forma-poesia che non era in grado di portare fuori dal labirinto delle forme poetiche. Infrangere con una nuova ontologia estetica quel «muro» che anche tu menzioni, quel «muro» che ha chiuso la poesia italiana post-Satura in un recinto autopoematico.” (Giorgio Linguaglossa)
Quale esterno? Al di qua del muro Montale lavora cercando una porta che non trova; dopo di lui altri poeti sentono il bisogno di cercare un meccanismo dove far girare la chiave per aprire quella porta. Altri dopo di loro si agirano come insetti formicolanti che vorrebbero origliare da quel muro o cercando un interstizio per passare, ma non c’è. Quello che sembrava un muro che doveva avere una porta resta per decine di anni un muro senza uscita. Ora i grandi poeti come Montale e altri hanno presentito che al di là da questo (che da tanta parte il guardo esclude…!) vi era un ‘esterno’.
Ora la quotidianità abita sia la parte al di qua che al di là del muro e senza accorgersene, ossia avendo lo strumento necessario ma non usandolo; tra loro vivono alcuni poeti che fanno esistere una delle due parti, l’al di qua del muro; ancora non vi erano stati poeti che facevano vivere l’al di là ‘esterno’ del muro. Ora i poeti il cui animo tende all’al di là si chiedono come fare ad abitare poeticamente quel luogo ‘esterno’ che deve esserci perché avvertito da un certo numero di poeti tra cui l’ultimo Montale; come fare ad abitare poeticamente un luogo a cui poeticamente altri poeti si sono tesi fallendo? Si mette in discussione tutto quanto regge il linguaggio dei poeti passati, e, togliendo quello, resta la quotidianità e subito, alle spalle della quotidianità di tutti, la realtà: si deve quindi minare le certezza non del linguaggio poetico passato, che è stato tolto, ma della realtà stessa, mostrando ciò che regge la realtà, per ritornare al linguaggio e alla poesia, facendo di questa un’arma che sconquassa l’apparenza della realtà. La poesia dell”esterno’ è la realtà che si nega, si frammenta, in una più completa realtà che tiene conto dell’oscurità vivente che sorregge l’apparire della realtà, si generano così molteplicità di tempi e spazi mostrati fallibili, baluginanti, perché digeriti dall’oscurità che sta appena sotto l’apparenza della realtà, legata a loro indissolubilmente, e ricacciati fuori in un mondo fisico dalla fisicità imprevedibile. Ora in tutto questo dove sta il poeta? Il poeta è lo strumento della frammentazione della realtà, ossia è quell’appendice che la rende possibile (cercando di ‘cucinarla’ al meglio) e che è totalmente innecessario all’affermazione del contenuto poetico che è, appunto, affermazione di realtà frammentata. Essendo questo tipo di opera immediatamente fatta di realtà, chi la scrive è un assemblatore di meccanismi (ogni poeta è specializzato in un modo di frammentare la realtà), si specializza, e la realtà frammentata apparsa (basterebbe leggere!) è autonoma e funziona immediatamente (come un motore messo in moto) quando tocca la mente che ‘si’ elabora dentro la realtà che si riregola e riordina.
La mente leggendo sta dentro se stessa, e si abita abitando il mondo ‘esterno’.
Questa poesia, al di là del muro, ricalibra la realtà esterna e dà un altro apparire del mondo. Non è semplicemente poesia, è realtà, è mente fisica. Per questo il percorso del dopo Montale è stato difficilissimo e lentissimo, perché l’obbiettivo della nuova poesia era rinnovare la struttura stessa della realtà nella vita di tutti i giorni, e non era semplicemente una variazione poetica, non era un dialogo, era la negazione di un dialogo, poiché il soggetto e i soggetti scompaiono e resta attiva la realtà apparente che è diventata ‘realtà esterna’. La poesia non era più una scelta di un individuo, anche ridotto all’osso quotidiano, ma una condizione, un ‘modo’, di una realtà in lotta con se stessa che si scopre oltre di sé, e il poeta impasta questa materia calcolando bene l’energia necessaria.
Marie Laure Colasson, foto, manichino in vetrina, Banja Luka, 2019
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Giorgio Linguaglossa
Buongiorno Jacopo, hai colto il segno quando scrivi:
«Quale esterno? Al di qua del muro Montale lavora cercando una porta che non trova; dopo di lui altri poeti sentono il bisogno di cercare un meccanismo dove far girare la chiave per aprire quella porta. Altri dopo di loro si agirano come insetti formicolanti che vorrebbero origliare da quel muro o cercando un interstizio per passare, ma non c’è. Quello che sembrava un muro che doveva avere una porta resta per decine di anni un muro senza uscita. Ora i grandi poeti come Montale e altri hanno presentito che al di là da questo (che da tanta parte il guardo esclude…!) vi era un ‘esterno’».
I poeti che sono venuti dopo Satura non vedevano affatto quel «muro» e, di conseguenza, non vedevano alcuna porta e alcuna serratura, hanno fatto poesia senza nemmeno sospettare l’esistenza di quel «muro», hanno fatto poesia «positiva», hanno positivizzato il discorso poetico rendendolo simile ad una scrittura narrativa con degli a-capo di quando in quando e con l’io che girava di qua e di là alla ricerca del proprio «vestito». Ma, purtroppo, c’era quel «muro» che essi non vedevano.
Tu scrivi giustamente: come si fa ad abitare poeticamente quel muro senza andare al di là del «muro»? E io ti rispondo che noi siamo già al di là di quel «muro», solo che non ce ne siamo accorti, dobbiamo solo cambiare gli occhiali, passare da quelli per la miopia a quelli per la presbiopia. La poetry kitchen abita stabilmente al di là di quel «muro», abita un’altra «patria metafisica». Chi non se ne è accorto (anche qui su queste colonne) è perché vede il mondo con gli occhiali di al di qua del «muro», e non vuole toglierseli di dosso perché ciò metterebbe in crisi il proprio modo di vivere e il proprio linguaggio. Lo capisco, è comprensibile.
Ma quel «muro» è caduto, perché era un «muro» immaginario, eretto da un linguaggio che non lo poteva vedere, e che non lo ha mai visto. La poesia italiana post-Satura non ha mai neanche sospettato l’esistenza di quel «muro», ed ha fatto una poesia cieca, guercia, con un linguaggio epigonico ereditato da altri poeti guerci, ciechi, dei ciechi che credevano di vederci benissimo!
La «soglia».
È bastato fare un passo oltre la «soglia», ed il muro è caduto come un castello di carte. Occorreva soltanto coraggio. Erano degli spettri quei linguaggi che non volevano, non potevano vedere quel «muro», linguaggi di spettri ciechi.
Dobbiamo risvegliarci dal sonno lunghissimo che ha avuto la poesia italiana che possiamo datare dal 1971, anno di pubblicazione di Satura di Montale. L’intendimento è quello di rimettere in moto il pensiero sulla poesia… resuscitare un morto…
Quando scrivo che dobbiamo «entrare» in una «nuova patria metafisica» dove ci sono le «parole», questo non è un pensiero facile, è un pensiero complesso. Innanzitutto, come si fa ad «entrare» in una «nuova patria delle parole»? – Il primo ostacolo alla comprensione è: quale atteggiamento prendere? Come vestirsi? E poi: dov’è mai questa «nuova patria»? Dove si trova? Dobbiamo aspettare in anticamera? (come diceva Adorno: «la poesia che non fa anticamera non è vera poesia», cito a memoria). Oppure, possiamo entrare così, di fretta, mangiando un sandwich, come siamo abituati a fare nel disbrigo del quotidiano? – Io penso che dobbiamo entrare in una nuova modalità di pensiero (un pensiero di attesa e di lentezza), quella che Pier Aldo Rovatti chiama «Abitare la distanza», dal titolo di un suo fortunato libro che consiglio a tutti di leggere con attenzione.
C’è un «evento», lì, che ha ripercussione su di me che sto qui. Ecco, poniamo che questo «evento» ci guardi. Capovolgiamo per un momento il nostro modo di pensare (dall’io al tu, all’evento), e pensiamo la direzione contraria. L’«evento» che accade nel mentre che accade. Pensiamo alla poesia di Kikuo Takano. Lì ci sono degli «eventi» che accadono in modo inspiegabile a prescindere dall’io e da noi. Accadono e basta. Allora possiamo capire come sia sufficiente nominare l’«evento» perché esso accada.
Jacopo Ricciardi
“Innanzitutto, come si fa ad «entrare» in una «nuova patria delle parole»? – Il primo ostacolo alla comprensione è: quale atteggiamento prendere? Come vestirsi? E poi: dov’è mai questa «nuova patria»? Dove si trova? Dobbiamo aspettare in anticamera?” (cit. Giorgio Linguaglossa)
Se la parola si plasma sulla cosa reale è un contenitore dove appare quella cosa reale. La parola può perdere il riferimento al di fuori di essa e riempire il suo contenitore del suo essere genericamente quella cosa esterna che ha ora la specificità di se stessa e non più legata a quel dato momento. In questi due casi l’univocità della realtà della parola è mantenuta. Nei due casi o la parola ‘albero’ contiene quell’albero o il contenitore è ‘albero’: nei due casi il contenitore è chiuso su sè e monodirezionale. Se la parola per esistere deve essere poggiata sulla mente e la mente può concepirla per quello che deve essere (in una poesia per esempio) allora e possibile che se si riuscisse a diminuire il peso o l’apparenza della parola, attraverso di essa si potrebbe scorgere la mente che la regge (forse addirittura il funzionamento e il luogo di essa, e avere la possibilità di abitarci, e fare esperienza di quella materia o fisicità mentale, dei nuovi meccanismi che la animano rispetto alla realtà superficiale esterna al cervello). Se io osservo la parola, posso potarla, ossia spaccare in frammenti la sua monodirezionalità, spaccando quel suo contenitore: potare l”albero’ buttando via la pianta e tenendo invece i rami sezionati, perché questi acquistino autonomia (un potare al contrario). Ma come fare praticamente a potare una parola, a renderla più brani di se stessa? Utilizzando la reazione tra parole, rompendo la logica tradizionale; unendo le parole più lontane tra loro, in più alta contraddizione, mettendo tra loro una distanza tale che apre una distorsione che è riempita dall’agitarsi della mente sola. Questa frammentazione di porzioni di mente ha lo scopo di mostrare se stessa, e il lettore si trova in essa per un tempo che non ha alcuna fretta, anzi per un tempo fermato che si produce in diversi tempi dispersi tra loro, nel testo, nella mente, e nella realtà concreta, similarmente.
La mente di un lettore legge una serie di parole in una poesia che mostrano la sua stessa mente (trapela dalle spaccature) attraverso una profondità di scampoli di una mente. La mente de lettore riesce a riconoscere se stessa nel mentre riconosce la mente di ognuno. Questa capacità della mente di trovarsi, corrisponde a trovare il proprio Sé, che è in ognuno.
Le architetture del funzionamento della mente si accumulano nell’esperienza generando una lotta con le altre architetture della realtà apparente, segnando una vittoria, assorbendole e disfacendole, trovando un’articolazione più vera, in una realtà fisica mentale.
Si potrebbe pensare, forse correttamente, che la parola non riceva più una materialità che le viene imposta, che sbatta su di lei e che la riempia costringendola ad adattarsi, ma piuttosto una parola che proietta da se stessa (dalla mente) di volta in volta una sua immagine o un suo senso parziale, frammentato, incompleto, che resta più legato al potenziale proiettivo della mente che alla fissità della realtà delle cose finite. Ossia: se tutto sta nella mente, le cose finite della realtà sono già frammenti che devono solo essere recuperati dalla mente per essere esposti come caos indipendenti con i loro universi di radicamenti apparenti di percezioni apparenti specifici (Gabriele mi sembra un maestro in questo). Tutte le cose perdono fisicità, e la parola stessa e il suo contenitore diventano una teca trasparente (in una poesia di Linguaglossa), la parola è dubbio di se stessa, e quel dubbio è spazio e luogo aperto sul tempo dei tempi. O anche, le parole si radono al suolo prima di venire al mondo, e restano bruciature della mente che può e deve ‘sentirsi’ (le parole in Intini si obliterano mentalmente in un’energia vibrante). Tutte queste parole sono ‘cose’ fisiche della mente in collisioni gravitazionali (e non più linearità mentali univoche simili a maschere). Chi entra in queste poesie non è la maschera di una persona, ma un imprecisabile umano (per esempio eredia senza H e senza accenti, la pronuncia stessa è incerta), un ‘chi’ che è una ‘cosa’ in visita, in uno spazio tanto fisico quanto sospeso (in un’attesa priva di termine e senza durata), un visitatore parziale di materia umana; e la geisha scivola nello stesso spazio fisico come una ‘cosa’ lasciata andare sul “ghiaccio”, intrappolata nella sua fisicità percepita di apparenze che la rendono fisica (nelle poesie della Colasson).
Marie Laure Colasson, foto, manichini dismessi, Bruxelles, 2019
tu scrivi:
«Tutte le cose perdono fisicità, e la parola stessa e il suo contenitore diventano una teca trasparente (in una poesia di Linguaglossa), la parola è dubbio di se stessa, e quel dubbio è spazio e luogo aperto sul tempo dei tempi. O anche, le parole si radono al suolo prima di venire al mondo, e restano bruciature della mente che può e deve ‘sentirsi’ (le parole in Intini si obliterano mentalmente in un’energia vibrante). Tutte queste parole sono ‘cose’ fisiche della mente in collisioni gravitazionali (e non più linearità mentali univoche simili a maschere). Chi entra in queste poesie non è la maschera di una persona, ma un imprecisabile umano (per esempio eredia senza H e senza accenti, la pronuncia stessa è incerta), un ‘chi’ che è una ‘cosa’ in visita, in uno spazio tanto fisico quanto sospeso (in un’attesa priva di termine e senza durata), un visitatore parziale di materia umana; e la geisha scivola nello stesso spazio fisico come una ‘cosa’ lasciata andare sul “ghiaccio”, intrappolata nella sua fisicità percepita di apparenze che la rendono fisica (nelle poesie della Colasson).» (Jacopo Ricciardi)
Si tratta di un processo storico lento, a volte lentissimo, durante il quale la parola, le parole perdono la loro distinzione, la loro significatività, si raffreddano, diventano opache. La parola tavolo mi fa vedere il tavolo. Il tavolo è nella mia mente in quanto ho la parola tavolo, altrimenti dovrò inventare la parola tavolo che indica il tavolo. La parola indica una funzione, una complessità, sta nella mia mente perché si trova anche fuori della mia mente. Ma, se le parole diventano vuoti involucri di significato, ecco che anche «Eredia» e «la bianca geisha» delle poesie della Colasson diventano vuoti involucri, simulacri, avatar, sosia, meri nomen, flatus vocis… diventano omen di quella parola un tempo ricca di significatività.
Il primissimo segnale che ci troviamo dinanzi a una poetry kitchen è questa sottile e diffusa percettività della perdita di significatività delle parole: i nomi perdono nettezza, i luoghi perdono i contorni di realtà… è la realtà stessa che sbiadisce e si opacizza… e allora il poeta deve andare a raccattare qua e là i frantumi e gli spezzoni, gli involucri vuoti delle parole superstiti che galleggiano nella nostra mente intersoggettiva come fa Mario Gabriele, o fa girare le parole e le cose in aria nei suoi distici freddi quasi fossero una girandola come fa Gino Rago con le sue Storie di una pallottola e Storie della gallina Nanin. Questi poeti scoprono così che le loro parole abitano una patria metafisica sbiadita, opaca; la loro patria linguistica è diventata un contenitore di parole deiettate, espulse… il poeta, in fin dei conti, non fa altro che impiegare le parole che trova, che incontra… non può costruirsi le parole che più gli fanno comodo, non può e non deve perché le parole sono il suo Ethos, la sua dimora. È il modo del poeta di abitare poeticamente la terra, la sua abitazione è fatta con quelle parole sbiadite e raffreddate che ha trovato…
Tra l’aver-nome (essere un soggetto che ha) e l’esser-nome (essere un oggetto che è il nome) si situa l’esperienza modale-mediale dell’aver luogo del linguaggio; il progetto processuale della propria ipseità sta nell’andamento della cosa stessa, tra essere e linguaggio, tra essere, linguaggio ed ethos come luogo dell’abitare la terra. La poiesis è questo abitare mai coincidente tra l’aver-nome e l’essere-nome.
…Oramai la poesia passeista
è stata ampiamente rimpiazzata dall’indigesta
cucina della poetry kitchen
(Marie Laure Colasson)
Francesco Paolo Intini
E IN EFFETTI UNA IENA SPIAVA DALLA PRESA
Maneggiavano un manubrio inchiodato a destra.
Due cellule al costo di una.
La stesso Genere sostituì il centravanti.
Quanti goal ha fatto Archimede?
A libro di Tranströmer chiuso
Continuavano a parlare di Clitennestra.
Potrai fare il giro delle dance room
E trovare un cilindro a palla.
La TV si spense sotto i nostri occhi
e una spina raggiunse l’orgasmo.
Prefiche gracchiavano sui pini
Alito di iena dal microonde.
Giobbe in un alterco col calendario
parlava di profeti blu
Fafnir ferito mortalmente perse sangue di pulzella
sognando un piano per rimettere la sfera al centro
Sigfrido alla guida di una Ferrari con gli occhiali di Filini
Un tiro ad effetto fece il giro del San Nicola
E colpì un fianco dell’incrociatore Potëmkin
Guido Galdini
Lavori domestici quattro. Filosofia della cucina
(Kochphilosophie)
asciughiamo più in fretta le posate e le stoviglie
le sistemiamo rapidi negli armadi
per ritornare ai nostri compiti avventurosi
alle riflessioni sull’acrobazia dei concetti
appagati dell’assenza di un filo
intanto ci sono nuove pentole da scrostare
piatti sopra altri piatti, generosi di sugo
la cena è finita e c’è ancora tanto da fare
prima di rimettersi a ingarbugliare e recidere
ma la cucina non si arrende, esercita
la sua filosofia imperturbabile, degna come ogni altra
d’essere valutata per i problemi enunciati
e lasciati fortunatamente irrisolti.
caro Guido Galdini,
mi piace questo tuo modo di leggere e rappresentare il contemporaneo: ontologicamente, eticamente, politicamente, linguisticamente, storicamente e presentemente, diacronicamente e sincronicamente secondo una poiesis della in-compiutezza e della irrisoluzione, che trova il suo luogo nella costellazione alineare di ciascuna delle sue componenti.
Una modalità poetica ontologica o kitchen dovrà, ogni volta, tenere in vigore il costitutivo intreccio poetico (alineare) con il non-poetico e l’extra poetico. Una filosofia della cucina (Kochphilosophie) ben si addice al presente contemporaneo dal quale è stata revocata ogni vocazione messianica, storica. (g.l.)
Giuseppe Gallo
Zona gaming 34
L’Etna affumica i sogni
sui cigli del Mediterraneo.
Robby pescava scintille di niente
sull’orlo del pozzo.
E i gatti e i cani e i topi e i passeri
sempre negli occhi.
Sempre negli occhi
le metastasi della nebbia.
Una pioggia rossa si scontra con una pioggia nera.
È nato un temporale sulle pagine dell’ombra.
Zona gaming
…sembravano ragni…
In una gabbia di sguardi
e tra pareti di sughero.
I trucioli nudi arricciano i riccioli.
I secchielli di plastica slabbrano al sole.
A cavallo! Di ogni nostalgia!
A cavallo dei ragni…
Nei buchi della notte
le domande assassinate
Ecco il treno. Riparte l’attesa.
Robby è rimasta tra le zampe del gatto.
Zona gaming
… aritmie dissolte…
Jacopo Ricciardi, poeta e pittore, è nato nel 1976 a Roma dove vive e lavora. Ha curato dal 2001 al 2006 gli eventi culturali PlayOn per Aeroporti di Roma (ADR) e ha diretto la collana di letteratura e arte Libri Scheiwiller-PlayOn. Ha pubblicato diversi libri di poesia, Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Poesie della non morte (con cinque decostruttivi di Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Sonetti Reali (Rubbettino, 2016), Quarantanove Giorni (Il Melangolo, 2018), le plaquette Il macaco (Arca Felice, 2010), Mi preparo il tè come una tazza di sangue (Arca Felice, 2012), due romanzi Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008) e un testo dialogato Quinto pensiero (Il Melangolo, 2015). Suoi versi sono apparsi nell’antologia Nuovissima poesia italiana (a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi; Mondadori, 2004) e sull’Almanacco dello specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011), e sulle riviste Poesia, L’immaginazione, Soglie, Resine, Levania e altre. Ha partecipato con sue poesie a due libri d’artista, Scultura (Exit Edizioni, 2002 – con Teodosio Magnoni), Scheggedellalba (Cento amici del libro, 2008 – con Pietro Cascella). Ha collaborato con Il Messaggero in una rubrica di letteratura a lui dedicata: Passeggiate romane. Ha scritto di arte su Flash Art online, Art a part of cult(ure) e Espoarte. Ha al suo attivo diverse mostre personali, E fiorente e viva e simultanea, Galleria WA. BE 190 ZA (Roma, 2001), Nella nebbia dell’esistente, Area 24 (Napoli, 2010), Materie senza segno, Lipanjepuntin (Roma, 2010), Dialoghi d’arte, L’originale (Milano, 2011), Una stanza tutta per sé. Visioni da Shakespeare, Casa dei Teatri (Roma, 2012), Paesaggio terrestre, Area24 (Napoli, 2015), e diverse collettive Epifania, Galleria Giulia (Roma, 2000), Maestri di oggi e di domani, Galleria Giulia (Roma, 2001), Biennale del Mediterraneo, interno Grotte di Pertosa (Salerno, 2002), XXIX Premio Sulmona, Ex Convento di Santa Chiara (Sulmona, 2002), Segnare / disegnare Accademia di San Luca (Roma, 2009), ADD Festival 2011, Macro (Roma, 2011), 90 artisti per una bandiera, Chiostri di San Domenico (Reggio Emilia, 2013), Accademia Militare (Modena, 2013), Vittoriano (Roma, 2013), Ex Arsenale Militare (Torino, 2014), Tribù, Area24 (Napoli, 2014). Ha pubblicato due cataloghi d’arte delle sue opere: Jacopo Ricciardi, Nella nebbia dell’esistente, prefazione di Nicola Carrino, Area24 Art Gallery, 2009; Jacopo Ricciardi, Paesaggio Terrestre, opere 2008-2014, a cura di Sandro Parmiggiani, Grafiche Step Editrice, 2015.
Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018).
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Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: Natomaledue è in preparazione.
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Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie, elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano, a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.