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Giorgio Agamben, Stralci sull’arte, L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica, sulla metafora, Il contemporaneo, il nichilismo, il nostro tempo, techne, la topologia, la metafisica, Poesia di Francesco Paolo Intini, Trend Commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

 

[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020, la foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino…] (g.l.)

.

Giorgio Agamben

Idea della musa 

«A Le Thor, Heidegger teneva il suo seminario in un giardino ombreggiato da alti alberi. A volte si usciva, invece, dal paese, camminando in direzione di Thouzon o del Rebanquet, e il seminario aveva allora luogo davanti a una capanna sperduta in mezzo a un’oliveta. Un giorno che il seminario volgeva ormai al suo termine e gli allievi gli si stringevano intorno senza più frenare le domande, il filosofo rispose soltanto: “Voi potete vedere il mio limite, io non posso”. Anni prima, aveva scritto che la grandezza di un pensatore si misura dalla fedeltà al proprio limite interno, e che non conoscere questo limite – e non conoscerlo per la sua prossimità all’indicibile – è il dono segreto che l’essere, rare volte, può fare. Che una latenza sia mantenuta, perché possa esservi illatenza, una dimenticanza custodita, perché possa esservi memoria: questo è l’ispirazione, il trasporto musaico che accorda l’uomo alla parola e al pensiero. Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di dettato: dev’esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, perché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipolata da un soggetto. (Io – è chiaro – non posso ispirar-mi). Ma questa latenza è, anche, il nucleo tartarico intorno a cui si addensa l’oscurità del carattere e del destino, il non-detto che, crescendo nel pensiero, lo precipita nella follia.
Ciò che il maestro non vede è la sua stessa verità: il suo limite è il suo principio».

«Non vista, inesposta, la verità entra nel suo occidente, si chiude nel proprio Amente. “Che un filosofo cada in questa o quella forma di apparente incoerenza per amore di questo o quell’accomodamento, è concepibile: egli stesso può esserne stato cosciente. Ma ciò di cui egli non è consapevole, è che la possibilità di quest’apparente accomodamento ha la sua radice più profonda in un’insufficiente esposizione del suo principio.
Se, dunque, un filosofo è veramente ricorso a un accomodamento, i suoi discepoli devono spiegare in base all’intimo, essenziale contenuto della sua coscienza ciò che, per lui stesso, ha preso forma di coscienza essoterica”. L’insufficiente esposizione del principio lo costituisce come limite musaico, come ispirazione. Ma, per poter scrivere, per poter diventare anche per noi ispirazione, il maestro ha dovuto smorzare la sua ispirazione, venirne a capo: il poeta ispirato è senz’opera. Questo spegnimento dell’ispirazione, che trae il pensiero dall’ombra del suo occidente, è l’esposizione della Musa: l’idea.»1

Il nostro tempo

«Il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse».

Il contemporaneo

«Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. […] È dalla nostra capacità di dare ascolto a quell’esigenza e a quell’ombra, di essere contemporanei non solo del nostro secolo e dell’“ora”, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato, che dipenderanno l’esito o l’insuccesso del nostro seminario».3

L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica

«L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica – e la sua apparente comprensione a partire dall’aisthesis dello spettatore – non sarebbe allora un fenomeno così innocente e naturale come siamo ormai abituati a rappresentarcelo. Forse nulla è più urgente […] di una distruzione
dell’estetica che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’opera d’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile
distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte e l’aprirsi di fronte ad essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare. Ma forse proprio tale perdita e un tale abisso sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno se vogliamo che l’opera d’arte riacquisti la sua statura originale. E se è vero che è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, noi siamo forse oggi in una posizione privilegiata per comprendere il senso autentico del progetto estetico occidentale».
(L’uomo senza contenuto, p. 17)

«Se e quando l’arte avrà ancora il compito di prendere la misura originale dell’abitazione dell’uomo sulla terra, non è perciò materia su cui si possano far previsioni, né possiamo dire se la poiesis ritroverà il suo statuto proprio al di là dell’interminabile crepuscolo che avvolge la terra aesthetica. La sola cosa che possiamo dire è che essa non potrà semplicemente saltare al di là della propria ombra per scavalcare il suo destino».
(L’uomo senza contenuto, p. 155) Continua a leggere

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Due poetesse della nuova ontologia estetica, Marie Laure Colasson, Marina Petrillo, Commenti di Carlo Livia, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa, Le parole oggigiorno si sentono superflue. Tra quelle più adatte, la gran parte è disoccupata, La metafora si trova in uno Zwischen, in un framezzo

giappone-geisha-in-glass

Marina Petrillo

Irraggiungibile approdo tra diafanie prossime alla perfezione.
Digrada il mare all’estuario del sensibile
tra risacche e arse memorie.

Si muove in orizzonte il trasverso cielo.
Fosse acqua il delirio umano perso ad infranto scoglio…
Sconfinato spazio l’Opera in Sé rivelata.

Conosce traccia del giorno ogni creatura orante
ma antepone al visibilio il profondo alito se, ingoiato ogni silenzio,
ritrae a sdegno di infinito, il brusio della spenta agone.

E’ nuovo inizio, ameno ritorno alla Casa della metamorfosi.
Saprà, in taglio obliquo, se sostare assente o, ad anima convessa,
convertire il corpo degli eventi in scie amebiche.

Un soleggiare lieve, di cui non sempre appare l’ambito raggio.

*

Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.

Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti
da brividi albescenti.

Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.

Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.

[Marina Petrillo vive a Roma dove è nata. Nel 1986 pubblica Normale astratto e, nel 2019, materia redenta con Progetto Cultura da cui sono tratte le poesie]

Carlo Livia

In una glossa alla sua poesia scrive la Petrillo: «Dal “Vuoto” nasce la costola dell'”Assoluto Presente”. Apnea dello spirito in sommersa ampolla. […] Trasformazione alchemica giunta all’apice di un processo in cui l’amore suicida trasmuta in vita. Le epistole transitano nel detto sapienziale e il percorso sentimentale affiora in forma archetipica, esplorando l’aspetto divino insito nel viaggio esperienziale. L’esoterismo di Goethe nutre le molecole di un dialogo interiore in cui gli elementi si combinano e le fasi, nel senso immaginale (Mundus Imaginalis), contaminano una visione interiorizzata.
Il sogno depone il suo vanto in rarefatta armonia, associando all’immagine l’improvvisazione grafica, attraverso segni, guazzi, pittura steineriana, volti a ricomporre l’Alto Cielo di Amore». Commenta Mauro Pierno: «Il tentativo di rinunciare agli oggetti, nella poesia della Petrillo, diventa il linguaggio stesso contaminato».

Apparentemente in controtendenza rispetto alla ribellione e desacralizzazione del modernismo, la poetessa romana utilizza lessico e forme retoriche sofisticate, inusuali, frequenta vertici e anfratti del pensiero speculativo ormai in abbandono. Ma la sua attualità e modernità si evince dalla divergenza rispetto ai percorsi noetici abituali, e dai prodotti mistificatori che ne derivano. La sua ricerca di nuove verità non si manifesta con metafore o catacresi incongrue e irrazionali, come nella pratica simbolico-ermetica; in questo caso è tutto il piano della significazione che viene spostato su un piano di sublimazione, svuotamento e inafferenza, producendo una semantica incoesa, metamorfica, poliedrica, inafferrabile, fatta di risonanze melodiche, prospettive mobili, echi, trasparenze, richiami, sogni, esili, paesaggi svuotati, inesperiti.

«La Petrillo giunge alla curvatura elicoidale del linguaggio, proprio per evitare qualsiasi contaminazione. Poesia che si ciba come un corvo o un gabbiano, dei rifiuti malmostosi del nostro mondo e della nostra lingua,  parte integrante di questa grande discarica all’aperto qual è diventato il nostro mondo». (Giorgio Linguaglossa)

Marie Laure Colasson

da Les choses de la vie

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant 

En flottant reviennent

Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven

Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères

Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses

Les perles se propagent sur les planets
Astrocinématographique confusionnel

Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha qui sort du bar
Eglantine défait sa robe aigue-marine

*

Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo

Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando

Galleggiando tornano

Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven

Tasti di piano ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie

Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale

Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha che esce dal bar
Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina

 [Marie Laure Colasson  nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi, Bruxelles,  Roma, Banja Luka, Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea] Continua a leggere

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La Struttura Dissipativa della metafora in opera nel linguaggio poetico della Nuova Ontologia Estetica, Concetto scientifico di Struttura Dissipativa, Poesie di Francesco Paolo Intini, Lucio Mayoor Tosi, Immagini, Strutture dissipative di Marie Laure Colasson

coronavirus

            Coronavirus Covid19, immagine al microscopio

Il concetto, dovuto a Prigogine, di Strutture Dissipative soggette a “biforcazioni” periodiche non lineari porta un contributo enorme alla comprensione scientifica del nostro mondo, permettendo di descrivere il processo evolutivo di qualunque sistema aperto, in qualunque punto del nostro universo. Tale processo si ripete milioni di volte ogni minuto nelle nostre cellule; presiede anche all’evoluzione dei regni della natura, dei pianeti, delle galassie e, in particolare, della nostra coscienza.

La metafora può essere anch’essa pensata come una «struttura dissipativa» soggetta a biforcazioni e deviazioni non lineari che opera all’interno di un «sistema aperto» per eccellenza quale è la lingua. In ogni lingua in ogni momento della sua vita il «processo conglobativo» quale è la metafora si ripete milioni di volte presso ogni atto di linguaggio e presso ogni parlante, talché possiamo tranquillamente affermare che anche e soprattutto nel linguaggio poetico, come vediamo in queste due poesie di Francesco Paolo Intini e Lucio Mayoor Tosi è in opera la «struttura dissipativa» della metafora.

(Giorgio Linguaglossa)

Per struttura dissipativa (o sistema dissipativo) si intende un sistema termodina micamente aperto che lavora in uno stato lontano dall’equilibrio termodinamico scambiando con l’ambiente energia, materia e/o entropia. I sistemi dissipativi sono caratterizzati dalla formazione spontanea di anisotropia, ossia di strutture ordinate e complesse, a volte caotiche. Questi sistemi, quando attraversati da flussi crescenti di energia, materia e informazione, possono anche evolvere e, passando attraverso fasi di instabilità, aumentare la complessità della propria struttura (ovvero l’ordine) diminuendo la propria entropia (neghentropia).

Il termine “struttura dissipativa” fu coniato dal premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine alla fine degli anni ’60. Il merito di Prigogine fu quello di portare l’attenzione degli scienziati verso il legame tra ordine e dissipazione di entropia, discostando lo sguardo dalle situazioni statiche e di equilibrio, generalmente studiate fino ad allora, e contribuendo in maniera fondamentale alla nascita di quella che oggi viene chiamata epistemologia della complessità. In natura i sistemi termodinamicamente chiusi sono solo un’astrazione o casi particolari, mentre la regola è quella di sistemi termodinamicamente aperti, che scambiano energia, materia e informazione con i sistemi in relazione e, grazie a questo scambio, possono trovarsi in evoluzione.

Fra gli esempi di strutture dissipative si possono includere i cicloni, la reazione chimica di Belousov-Zhabotinskyi, i laser, e – su scala più estesa e complessa – gli ecosistemi e le forme di vita.

Un esempio molto studiato di struttura dissipativa è costituito dalla cosiddette celle di Bénard, strutture che si formano in uno strato sottile di un liquido quando da uno stato di riposo ed equilibrio termodinamico viene riscaldato dal basso con un flusso costante di calore. Raggiunta una soglia critica di temperatura, alla conduzione del calore subentrano dei moti convettivi di molecole che si muovono coerentemente formando delle strutture a celle esagonali (ad “alveare”). Con le parole di Prigogine:[1]

«L’instabilità detta “di Bernard” è un esempio lampante di come l’instabilità di uno stato stazionario dia luogo a un fenomeno di auto-organizzazione spontanea».

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa B 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa B, acrilico su tavola 50×70, 2020

Le strutture dissipative

Alla fine del XX secolo, Ilya Prigogine ricevette il premio Nobel per le sue scoperte sulle “strutture dissipative”. Le sue ricerche sulle leggi che regolano il funzionamento dei sistemi l’avevano portato ad addentrarsi nel campo della termodinamica, dove da più di un secolo gli scienziati osservavano un’apparente contraddizione tra due leggi naturali. Infatti, la seconda legge della termodinamica dichiara che il grado di disordine, di casualità o di caos, chiamato entropia, cresce costantemente nell’universo. D’altro canto si osserva però che molti aspetti della vita, inclusa la Vita stessa, crescono e diventano sempre più ordinati, meno casuali. Da un bel pezzo gli scienziati si chiedevano come potesse accadere che alcune cose si evolvessero, si strutturassero sempre di più e crescessero, mentre la tendenza generale dell’universo sembrava andare nella direzione opposta.

Fu allora che Prigogine fu indotto a definire i cosiddetti “sistemi aperti”, cioè sistemi che hanno la capacità di scambiare energia e materia con il loro ambiente. Qualsiasi sistema “vivente” o in crescita nell’universo può essere considerato tale: un fiore che spunta, un’organizzazione che si arricchisce, una società che si struttura, un ecosistema che si sviluppa, un pianeta che si muove nello spazio, o… un essere umano che si evolve attraverso i continui scambi, a vari livelli, con il suo ambiente.

Una caratteristica comune di questi sistemi “aperti” è che sono in grado di mantenere la loro struttura e persino di crescere e di evolversi in sistemi ancora più complessi perché sono capaci di adattare le loro strutture in base agli scambi che effettuano con l’ambiente, il quale assorbe il loro disordine. In altri termini, ciò significa che hanno la capacità di “dissipare la loro entropia” nell’ambiente. In questo modo la quantità globale di entropia effettivamente cresce, rispettando alla fine la seconda grande legge della termodinamica. In compenso, questi sistemi mantengono il loro ordine, e addirittura lo accrescono, a spese, entropicamente parlando, del loro ambiente, e perché ciò accada i sistemi aperti devono possedere qualità come la flessibilità, la fluidità e la capacità di adattarsi alle fluttuazioni dell’ambiente.

Il punto di biforcazione

– Eppure, ed è qui che tocchiamo un primo punto chiave molto importante per il nostro discorso, questa capacità di adattamento ha i suoi limiti. Esiste una soglia di adattabilità oltre la quale il sistema non è più in grado di adattarsi, cioè di dissipare l’entropia per mantenere il proprio equilibrio e la propria crescita. Questo limite dipende dalla complessità del sistema, dal suo grado di evoluzione, dalla complessità e dalla flessibilità della sua organizzazione interna. Quando l’impatto esterno diventa troppo forte e viene superato questo limite di adattamento, il sistema, al suo interno, diventa instabile e caotico.

– Ed ecco un secondo punto chiave: se l’impatto continua ad essere troppo forte, il sistema registra una tale instabilità che si ritrova per un attimo in uno stato di fluttuazione estremamente delicato.
In quel momento la minima influenza può indurre un’infinità di risposte possibili, e il sistema diventa imprevedibile nelle sue reazioni. Alla fine, in queste condizioni molto particolari, il sistema, secondo l’espressione usata da Prigogine, giunge a un “punto di
biforcazione”. Si presentano allora due possibilità:

o collassa completamente e scompare, dissolvendosi nell’ambiente;

o si riorganizza completamente, ma a un livello superiore.

– Ed ecco un terzo punto chiave: la caratteristica sorprendente di questa organizzazione completamente nuova è che non ha niente a che vedere con l’organizzazione precedente, e non ne costituisce affatto un miglioramento o una continuazione dotata di maggior capacità di adattamento. Viene ricreata su princìpi completamente diversi, che non hanno assolutamente alcun legame con quelli precedenti, perché funzionano all’interno di un’altra realtà. E quello che viene chiamato “salto quantico”.

Il concetto, dovuto a Prigogine, di “strutture dissipative” soggette a “biforcazioni” periodiche non lineari porta un contributo enorme alla comprensione scientifica del nostro mondo, permettendo di descrivere il processo evolutivo di qualunque sistema aperto, in qualunque punto del nostro universo. Tale processo si ripete milioni di volte ogni minuto nelle nostre cellule; presiede anche all’evoluzione dei regni della natura, dei pianeti, delle galassie, e in particolare… della nostra coscienza di esseri umani.

http://www.mauroscardovelli.com/PNL/Consapevolezza_di_se/Strutture_dissipative.html

L’utilità e l’importanza del concetto di entropia nei sistemi sociali, così come in quelli fisici e biologici, diventa evidente quando si fanno certe considerazioni. Nel mondo fisico la “freccia del tempo” sembra puntare verso un inevitabile aumento dell’entropia, in quanto gli atomi e le molecole di cui è costituito il mondo tendono verso la loro configurazione più probabile, e il disordine aumenta. La vita, al contrario, dalla sua prima apparizione fino allo sviluppo e all’evoluzione delle società umane complesse, rappresenta una diminuzione, invece che un aumento, di entropia, cioè partendo dal disordine tende verso un ordine sempre maggiore. La seconda legge della termodinamica sembra implicare un decadimento finale dell’universo, mentre la vita è un movimento nella direzione opposta.

Talvolta la vita viene considerata semplicemente una manifestazione locale di diminuzione dell’entropia, senza implicazioni per l’intero universo, cioè soltanto come una via più tortuosa verso la fine inevitabile. Tuttavia alcuni scienziati contestano questa ipotesi. A esempio il chimico belga Ilya Prigogine ha dedicato i suoi studi ad allargare il campo della termodinamica in modo da includere gli organismi viventi e i sistemi sociali. Prigogine, che ha vinto il premio Nobel per la chimica nel 1977, ha sviluppato modelli matematici di quelle che lui chiama strutture dissipative, cioè sistemi in cui l’entropia decresce spontaneamente. Tali sistemi sono stati osservati in certe reazioni chimiche e trasformazioni fisiche, così come nel fenomeno della vita. Il termine dissipativo si riferisce alla loro capacità di dissipare entropia nell’ambiente circostante, aumentando perciò il loro ordine interno. Le idee matematiche di Prigogine, e le conseguenze riguardanti l’interazione creativa fra energia e materia, hanno attirato l’attenzione dei sociologi e degli economisti, così come dei fisici e dei biologi. *

* da https://statidicoscienza.wordpress.com › 1967/04/18 › strutture-dissipative

Struttura dissipativa B

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa Ordo Rerum, acrilico su tavola 50×50, 2020

Francesco Paolo Intini

A mio parere una metafora non è altro che un cristallo dotato di simmetria per cui due concetti come due parti di un oggetto si corrispondono. Ed è davvero incredibile come il linguaggio poetico possa intrecciarli! Un esempio di quello che penso:

(…) Io ho sponde basse
Se la morte sale di due centimetri vengo sommerso

(…) (Carillon, T. Tranströmer)

La prima corrispondenza è tra soggetto e barca con le sponde basse.
La seconda è tra l’acqua di un fiume o del mare e la morte.
La terza tra la possibilità di turbolenza o marea e l’ineluttabilità della morte
La quarta tra la fragilità della condizione umana e il viaggiare in barca.

Un cristallo per stare a Prigogine, tra le forme organizzate è l’oggetto che forse più di tutti, dissipa entropia.
Infatti, il terzo principio della termodinamica, non meno importante dei primi due, recita che allo zero assoluto il valore della sua entropia è zero.
Non è difficile osservare la deposizione di cristalli. Il ghiaccio ne è un esempio. Nella sua formazione c’è una parte di calore che si disperde e fa aumentare l’entropia dell’ambiente. Nel bilancio finale tra diminuzione nel cristallo e aumento nell’ambiente c’è sempre un segno positivo che spinge spontaneamente il processo portando ad un aumento complessivo del disordine nell’universo.
Lo stesso calore lo si riconosce nella costruzione del verso di sopra come qualcosa che scioglie l’attenzione e coinvolge i sensi fino a presentarsi alla vita del lettore, scompaginando le sue strutture portanti.
Sottopongo a tale proposito una mia vecchia poesia, pubblicata su web nel 2017 e dunque in epoca non NOE. Un caro saluto

Poeti, strane creature 

Poi ci sono i poeti, tra le stranezze e le fonti di calore.
Recitano, scrivono, imbrattano muri come colombi felici
e incendiano le notti nelle periferie.
Non c’è pace tra loro ed il patrimonio.
Faranno le loro cose sempre nell’erba,
porgeranno la mano tra le auto e allatteranno i bimbi al seno.
Incuranti dei gas ai semafori,
si faranno attraversare dalla follia dell’estraneità verso qualunque società.

Non c’è più grande storpiatura di una cravatta al collo di un colombo di città.

Gendarmi vengono per mettere ordine.
Sono numeri. Non c’è pace tra numeri e poeti.
Non è il timore delle persone,
ma la paura che l’errore venga preso per modello.
Il calore-non tutto-è soltanto scarto,
irrecuperabile degrado di una forza che spinge in un seme di margherita.
I numeri hanno il manganello, il fascismo scritto nelle menti,
il potere di scrivere punto nella natura delle cose.
L’esattezza ed il rigore del calcolo costituiscono il “fatto”, non il verso.

La guerra ha visto perdite incolmabili!
Nei fumi delle ciminiere sono passati Rimbaud, Baudelaire, Campana, Majakovskij e gli altri scheletri
Perché fanno conferenze su questi signori?
Perché hanno rifiutato il potere, si sono messi di traverso?
Che soffi un sottile caldo spirito nella serpe del mondo?

Niente è eccezionale, niente sfugge alla potenza delle cifre.
Fa così piacere spargere lacrime dunque,
che vien voglia di conservarle, pesarle e venderle.
L’organizzazione è perfetta.
Il logo dice: sterminateli tutti e vendetene gli occhiali, le protesi d’oro…
C’ è più mein kampf in un’equazione di primo grado che nel Novecento.
Ma la matematica è molto di più di una proporzione a portata di bambino

Ed i poeti?
Sono in questo tentativo di dare addosso alla forza che scrive morte, dissolvimento.
Rispondendo:-Bellezza!
e recuperandola dal secchio dell’inservibile.

Ecco, tutto qui: potere contro potere,
lotta tra chi ha più diritto sulle leve del comando.
E la bellezza è il potere supremo,
la moneta con cui il poeta diventa padrone del disordine universale

Sottrarla alla spontaneità del dissolvimento è la posta in gioco.

(2017)

Marie Laure Colasson Trittico 3

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa A, acrilico su tavola 30×30, 2019

Giuseppe Talia

A proposito della questione metafora, se essa sia precedente al linguaggio, dentro il linguaggio stesso, oppure collocata in una zona fluida quindi in sé e al contempo fuori di sé, mi pare che l’affermazione di Linguaglossa, “è la metafora che fonda il linguaggio”, sia pertinente. Se la metafora precede il linguaggio, allora essa lo fonda, senza di essa non ci sarebbe linguaggio (realtà, come la traduci? Il pensiero, come lo comunichi? attraverso il linguaggio impregnato di metafore). Di conseguenza, la metafora fondando il linguaggio lo permea e quindi la metafora è dentro il linguaggio stesso. Ma la metafora è anche fluida, essendo fondazione e permeazione, nel senso di penetrazione e moltiplicazione, essa è dentro e fuori al contempo.

Leggendo un saggio di Raffaella Scarpa, Secondo Novecento: lingua stile metrica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011, riguardo alle tecniche reticenti, essendo la “reticenza” affidata alla capacità interpretativa, «se si considera l’ampiezza della mossa cooperativa prevista da alcune figure quali l’ellissi, la litote, la preterizione, la perifrasi, l’eufemismo si vede come nella reticenza tale ampiezza sia massima» (C. Caffi, Reticenza, in Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica, a cura di G.L. Beccaria, Torino, Einaudi, 1994)

Ecco che la reticenza diventa la figura del “silenzio” per eccellenza. La pausa tra un frammento (rumoroso) e l’altro, come può essere la pausa tra un distico di pensiero concluso e l’altro successivo legati non solo dal silenzio reticente come anche da un successivo fragore pensiero che del primo ne riprende o ne lascia totalmente soggetto e oggetto.

Questa è una parola che si aggirava accanto alle parole,
una parola sul modello del silenzio

(P. Célan)

Marie Laure Colasson Trittico 1

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa A, acrilico su tavola 53×30, 2019

Una sola stella.

di Lucio Mayoor Tosi

Aperta la bocchetta dell’aspiratore, un gioco da ragazzi.
Anche la canna dei fumi, è sistemata.

Luna a sinistra, in parte nascosta dall’aletta del cargo.
E’ una bella sera, se così si può dire. Restano pochi murphy.

Domattina le sentinelle si attiveranno, ne arriveranno altri.
L’esposizione al sole sveglierà le menti. Troveremo presto

un nuovo orizzonte. Il sopra e il sotto. Quindi anche il tempo.
Tra il neo sulla spalla e il seno. Pianeti sconosciuti. Distanze

incalcolabili.

.

Scrivere in una sera un intero libro di poesie.  Si può fare.
Come costretti a cantare per sempre l’inno del paese.

Prendersi a schiaffi davanti a un mazzo di mimose.
Robespierre in A2. Coppa gelato e pastis.

Due rubicondi davanti all’altare della biancheria d’asporto.
Le gambe sotto il tavolino del bistrò. Le mani tue, le mie.

Astaroth, Belzebù. Con radice di gelso. Occhio pregnante.
E dunque la saliva.

.

Freddo e malcapitato inverno. Epatite dei monchi.

Nel frantumato raccolto noi due, quale sia il braccio.
Quale nube di sospiri e tavole.

Vogliamoci bene. Togliamoci le cravatte. Spertichiamo
l’inverosimile. Chi sei tu, chi sono io.

I nostri cervelli hanno forma diversa. Anche le mani.
Gauloises e tintarella. Che ci stiamo a fare qui, insieme?

.

Teniamo compagnia a quest’uomo impaurito.
Ha le stringhe marce per quanto ha camminato

strascicando i piedi sul volume otto-negletti.
Abbandonati al loro destino, come si suol dire

quando le palpebre fanno da paralume: la corte
a sonagli aspetta solo che passi un rinoceronte

a travolgere le sembianze. Ahimè! Se tu non fossi qui
io neppure potrei esserci. All’origine del cartesiano.

Devo poter muovere un braccio.

.

Uno scheletro in pizzeria. Moncherino in bocca
allo squalo bianco.

– Interrompiamo la spesa. Comunichiamo i nomi
dei vincitori del concorso “Ammazzete, una reliquia”.

Quattro involtini napoletani seduti al cloroformio:
– Chi di voi sa cosa fece Cagliostro ai debitori di spade,

prima che lo spartissero mari e fiumi da ogni parte?

.

L’anello del tuo fidanzamento con me. La scarpiera
dove tieni l’accendino. Il libro di tutte le fiabe.

Il flauto di amici in partenza per boschi e valli d’or.
Diverse cucchiaiate di budino crema e caramello.

Senza dire mi-raccomando, ti voglio bene. L’abitino
di chiffon, tratto da un libro di scavatrici nascoste

nel basso fondo di promesse ancora da formulare.
Quel modo di sollevare lo sguardo in amicizia.

Come sulla vetta di una montagna, a un passo
dal niente che sovrasta.

.

Approvati, ciascuno partirà per la propria atmosfera.
Ma collegati da pistilli trasparenti. Pensieri di lingua

mortale e follia. I senza-radici, le figlie del vento!
Ahi, come lacrime in Portofino. Sul ciglio della strada

scostarsi dalle guance. Ragnetto, muschio profumato.
Alloro. – Segui l’orma all’orizzonte.

Avvia il motore ancora freddo, all’ex discoteca.
Pronto a nuove superfici da percorrere. Fermo

in te stesso – Centro di rieducazione per schiave
superstar, trasferite nel tempo, da un secolo all’altro

degli squilibri di natura. / Elegiaco signor Dei Tali,
deponga le sue scritture sulla sedia, all’ingresso!

.

Nè maschi né femmine. Neutrini, bambini. Ringraziamo
il giorno per essersi presentato puntuale.

Gioiscono e arrossiscono per ogni nonnulla che si mantenga
nella matematica degli eventi futuri a rapporto.

Nell’abitacolo scorre un fiume di lucette scomparse, a risalire
le braccia, ridiscendere e stare. Sebbene in nessun posto

siano ferme. Intorno è cielo di rondini e nubi sparse.
Vale la pena di lanciarsi in un grido – raro, di fenicottero

accanto a una festosa fontana. Sugli scalini. Paese di naviganti,
Re di cespugli e vertici di aghiformi.


[…]

Vita è sollevare rifiuti dal dicastero delle perdite continue,
prima che sia troppo tardi, e uscire di senno al parking.

Scrollati di dosso i faraoni, senza più dinastie da mantenere
con fatica, ora senza ragione alcuna defluire.

Vivi, come per sempre innamorati di quel niente
che non si lascia dire.

.

Meglio fermarsi qui. Eravamo in stand by ormai
da diverso tempo. Fammi le condoglianze. E’ morto

l’anello mancante, l’idea partorita nel vagone dismesso
di uno spezzato piacersi. Come baciarsi tra sconosciuti

sul ballatoio. Tutti sposi. Riprendo il cappello,
trascrivo la marca sul registro. Diversi lasciti e il sospeso.

.

Le parole sono sempre sole. Parole e luce.
Non hanno forma e nella mente nemmeno suono.

Sono memorizzate nell’apparato costitutivo del corpo.
Cappuccette bianche, una simile all’altra.

Piacciono alla lingua dei mentitori, quelli che indossano
maschere da velieri nei loro teatri: l’extra-ordinaria vicenda

della ragione sconfitta da se medesima. In tante salse e tragedie.

.

Di notte, una ventata di ore tre primaverili. Essenza di buio
in buio di luce gialla. Al tepor dei villici.

Come tra una guerra e l’altra deporre i nostri figli;
tra le azzurre scansie di un vetrofoglio pieno di coloranti.

Entrano continuamente parole  future. Come a casa loro.
Una ragazza tiene stretta la piega del tovagliolo.

Altri si ubriacano. Così sono i poeti. I maestri del mondo.
Che lavorano gratis. Per maledizione divina. Per aver ripetuto

il suono di una stella irregolare. Forse perché viva
tra le morte. Una sola stella. Meno di un’abat-jour.

La chicca dei granelli che sempre davano spettacolo.

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L’Evento e la Metafora come processualità autofagocitatoria del linguaggio, Poesia di Francesco Paolo Intini, Riflessione di Giorgio Linguaglossa

[Lucio Mayoor Tosi, Trittici, acrilico 2018]

 

Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)

Giorgio Linguaglossa

L’Evento e la Metafora come processualità autofagocitatoria del linguaggio

a) La metafora è un atto di predicazione. La teoria della nominazione è del tutto insufficiente per spiegare la metafora.
b) La teoria della deviazione in sé non spiega in modo esauriente l’emergenza di una nuova congruenza di significato.
c) La nozione di un senso metaforico implica una diplopia del referente propria del discorso poetico.

C’è una tesi secondo cui l’enunciato poetico anche se non contiene alcuna parola che sia direttamente metaforica, anzi che evita accuratamente la metafora, può avere una risonanza metaforica che risulta dall’insieme non metaforico. Non discuto sulla plausibilità di questa idea della metafora, che però andrebbe indagata e approfondita, io penso che è il linguaggio, quando è in vita, ad essere naturalmente metaforico, pur contro l’intenzione di ogni enunciato, pur contro ogni intento azionatorio del linguaggio. Per Levinas il linguaggio non è un sistema di nomi che designano un insieme di oggetti già presenti nel pensiero. Parlare è piuttosto «dare un senso figurato, designare al di là di ciò che è designato» e non semplicemente associare un segno a cose, qualità, azioni e relazioni. «La metafora», afferma in modo significativo Levinas, «è ciò che sostituisco all’idea di nome».1 Levinas fa un passo oltre il concetto tradizionale della metafora come nominazione, e ipotizza che la metafora mostra le «figure» del linguaggio, che sono quelle entità che eccedono, vanno oltre la significazione del linguaggio costituito, lo ampliano in quanto lo de-costituiscono. Eccedendo continuamente la fissità di un significato in relazione ad un altro, il linguaggio diventa un orizzonte di significati possibili in rapporto alla struttura intenzionale e inintenzionale del «gioco» nel quale ogni parola è una «figura» di altro. Ogni «figura» abita uno spazio in cui si disloca al di là della messa in scena di somiglianze e di dissimiglianze.

Proprio intorno a questo punto – l’intreccio inevitabile di ontologia, linguaggio e metafora – si articola uno dei passaggi decisivi della lettura decostruttiva di Derrida di Totalità e infinito, in particolare a partire dal sottotitolo dell’opera levinassiana, Saggio sull’esteriorità. Se Levinas, intende mostrare che la vera esteriorità non è spaziale, che c’è un’esteriorità assoluta, infinita, quella dell’Altro, non-spaziale perché lo spazio è il luogo dello Stesso, tuttavia egli deve far uso dell’espressione «esteriorità» per dire questo rapporto non-spaziale. L’opera di Levinas mostrerebbe, suo malgrado, la necessità del pensiero di «abitare la metafora in rovina», l’inevitabilità della metafora, che implica anche l’inevitabilità dell’ontologia: «Prima ancora di essere procedimento retorico nel linguaggio, la metafora sarebbe l’insorgenza del linguaggio stesso. E la filosofia non è altro che questo linguaggio; nel migliore dei casi e in un senso strano del termine, non può che parlarlo, dire la metafora stessa, il che significa pensarla nell’orizzonte silenzioso della non-metafora: l’Essere» (J. Derrida, Violenza e metafisica , cit., p. 143). Tuttavia questa complicità fra metafora e ontologia sarà messa in questione successivamente da Derrida in La mitologia biancaLa metafora nel testo filosofico (in Id. Margini della filosofia , tr. it di M. Iofrida, Torino 1997).

L’arte, come luogo della trascendenza e del gioco, per Levinas non impedisce, anzi, consente il ritorno a sé e all’essere: non è una legge, o un comandamento. Al contrario, la metafora ponendo l’al di là, finisce per legittimare il radicamento nell’essere, abroga ogni tentativo di evasione dall’essere, è il miglior antidoto alla trascendenza. La sentenza appare definitiva: «Ogni metafora resta nell’immanenza».

Heidegger si esprime così, evitando di restare impigliato in soluzioni definitorie del problema:

«Il carattere poetico (Der Dichtungscharakter) del pensiero è ancora velato.
Là dove si mostra, somiglia a lungo all’utopia di una ragione semi-poetica.
Ma la poesia pensante è in verità topologia dell’Essere (des Seyns).
Ad essa dice la dimora del suo essere essenziale (die Ortschaft seines Wesens).»3

Voler espungere la metafora dal linguaggio è un mestiere di Sisifo, nessuno può riuscirci. Ma anche esprimersi con un linguaggio integralmente metaforico è destinato al fallimento, la metafora non si lascia dominare, non si presenta all’appello dell’alzabandiera. Non risponde a chi non si corrisponde. Metaforico è il rispondimento e l’interrogativo, che si danno sempre all’unisono.

Strilli Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Voler costringere il linguaggio ad un intento azionatorio-predicatorio è già in sé un atto intimidatorio che la lingua tende ad espellere come un corpo estraneo. Al contrario, la metafora è l’azione del linguaggio che riconosce l’Estraneo, il non-nominato. Nominando il non-ancora-nominato il linguaggio dimostra di essere in vita, di non essere morto. E questa nominazione è, propriamente, l’atto della metafora.
La metafora è il gioco di specchi che fa apparire, rende manifesto, il gioco del linguaggio. Proprio come due specchi posti l’uno di fronte all’altro, essi riflettono il nulla che si cela al loro interno. E questo nulla è la metafora.

Nella Erörterung (la ricerca del Luogo) è coinvolto il problema della metafora. Si tratta della sfiducia del pensatore tedesco nei confronti del linguaggio ordinario. Per l’ultimo come per il primo Heidegger, il linguaggio ordinario resta sotto il segno dell’anonimato del man, dell’opinione, della chiacchiera e del senso comune, che promana sempre già da una concezione impropria e deietta della vera natura del linguaggio. Il linguaggio ordinario è ordinario proprio perché esso non è che l’uso della lingua; in questo uso, le parole sono destinate a logorarsi, all’usura permanente. L’uso delle parole implica la loro usura. Le «parole» (Worte) diventano «vocaboli» (Wörter). In ciò consiste la morte del linguaggio. Questa usura comincia quando le parole sono rappresentate come dei «recipienti» destinati a ricevere un certo contenuto significante. Il senso che riempie così le parole è già un’«acqua stagnante», dice Heidegger. A questa immagine dell’acqua stagnante, il filosofo tedesco oppone l’immagine del pozzo e della sorgente.

L’Ereignis, nella concezione di Heidegger, presenta una somiglianza inquietante con la metafora, concepita come uno scarto del linguaggio. Scarto come qualcosa che viene espulso dal linguaggio per poi farvi ritorno. In questa accezione Ereignis e metafora sono intimamente collegate nel linguaggio, esse si rimandano dall’uno all’altra come in un gioco di specchi e di maschere. Si corrispondono: dove si dà l’uno c’è anche l’altra. La metafora raccoglie ciò che viene scartato dal linguaggio. La metafora che fa ritorno al linguaggio è l’evento a cui il linguaggio stesso si dà, così il circolo del linguaggio viene ripristinato e la lingua può continuare a vivere. Si tratta del circolo metaforico che è in vigore in ogni atto di linguaggio. Possiamo allora dire che in questa processualità autofagocitatoria del linguaggio riposano insieme l’Ereignis e la metafora. E il gioco di specchi può continuare.

La poesia in quanto ha la funzione di preparare l’incontro con l’Estraneo, con l’a-topon sotto tutte le sue forme, esige un’apertura massima dello Erörterung e della visione come apertura all’Inatteso che è compreso nel linguaggio come suo attore fondamentale.

L’aspetto iconico della metafora è proprio del modo di essere del linguaggio, infatti, l’essenza dell’«icona verbale» non è quella di copiare o di riflettere un originale, ma di far vedere-apparire il non-nominato e di imprimere la sua immagine in un elemento che le è estraneo. La funzione iconica del linguaggio non è una semplice funzione descrittiva, poiché essa deve fare precisamente altro rispetto a riprodurre la realtà, deve varcare la soglia della significazione del linguaggio ordinario, compiere un passaggio essenziale, nominare l’Estraneo.

Il linguaggio poetico è Sage (Dire originario) in quanto mostra, fa apparire (die Zeige) la parola. L’uomo non è padrone del linguaggio; Il linguaggio non è uno strumento. Per Heidegger non c’è che il «gioco» del linguaggio, il linguaggio «gioca» con gli attori che lo abitano. Questa idea del linguaggio come «gioco» non deve essere confusa con l’idea dei «giochi linguistici» del secondo Wittgenstein. Per Heidegger ciò che è importante è il gioco stesso, non i giocatori. In queste accezione si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo e, giocando con lui, lo rende umano al più alto grado, lo umanizza. Gli uomini che sono «giocati» dal linguaggio sono i poeti, coloro che si lasciano «giocare». L’Ereignis è il «luogo dei luoghi», il luogo dove «gioca» la metafora.

La metafora è il luogo dove si svolge sempre di nuovo il «gioco» della Identità e della Differenza. C’è l’Ereignis perché si dà la metafora. E, viceversa, c’è la metafora perché si dà l’Ereignis.
Il luogo in cui si danno le nozze concubine tra l’Ereignis e la metafora è il discorso poetico.

1 E. Levinas, Note filosofiche varie, in Quaderni di prigionia e altri inediti, tr. it. a cura di S.Facioni, Milano 2011, pp. 233. Cfr. Levinas: au-delá du visible. Études sur les inédits deLevinas, des Carnets de captivité à Totalité et Infini, Cahier de philosophie de l’Université de Caen, n. 49/2012, a cura di E. Housset e R. Calin; C. Del Mastro, La métaphore chez Levinas. Une philosophie de la vulnérabilité, Bruxelles 2012
2 E. Levinas, Note filosofiche varie, cit., p. 336
3 M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens, Pfullingen 1954 – Dall’esperienza del pensiero.1910-1976, tr. it. di N. Curcio, Genova 2011, p. 23.

La relazione di coappartenenza tra l’essere e il linguaggio

Come abbiamo detto, il linguaggio è in relazione di coappartenenza con l’essere, non si pone rispetto all’essere dall’esterno, ma dall’interno, per questa ragione il linguaggio è cieco rispetto all’essere, non lo può vedere. Però la metafora è la modalità con cui il linguaggio si riferisce alla realtà. In tale accezione si può parlare di evento creativo del linguaggio, per cui la «verità metaforica» si trova in relazione profonda con la «verità dell’essere» perché si fonda sulla sospensione e sulla epoché del modo diretto e descrittivo di dire la realtà. Scrive Paul Ricoeur:

«Ciò che viene annullato è la referenza del discorso ordinario, applicata agli oggetti che rispondono ad uno dei nostri interessi, il nostro interesse di primo grado per il controllo e la manipolazione. Sospesi questo interesse e la sfera di significanza che comanda, il discorso poetico lascia essere la nostra appartenenza profonda al mondo della vita, lascia-dirsi il legame ontologico del nostro essere agli altri esseri e all’essere. Quello che così si lascia dire è ciò che chiamo la referenza di secondo grado, che in realtà è la referenza primordiale».19

Per Ricoeur gli enunciati metaforici rimodellano la realtà, la ridescrivono, stabiliscono una corrispondenza tra il «vedere-come» sul piano del linguaggio e l’«essere-come» sul piano ontologico. Così il filosofo francese può affermare che il discorso poetico è retto dalla funzione metaforica del linguaggio, che

«porta al linguaggio un mondo pre-oggettivo entro il quale ci troviamo già radicati, ma anche un mondo nel quale noi progettiamo i nostri possibili più propri.Bisogna dunque spezzare il regno dell’oggetto, perché possa esistere e possa dirsi la nostra primordiale appartenenza ad un mondo che noi abitiamo, vale a dire un mondo che, ad un tempo, ci precede e riceve l’impronta delle nostre opere. In una parola, bisogna restituire al bel termine “inventare” il suo senso, a sua volta,sdoppiato, che vuol dire, ad un tempo, scoprire e creare».20

La procedura metaforica infrange, va al di là del linguaggio descrittivo fondato sul dualismo soggetto-oggetto, e stabilisce il circolo ermeneutico, una relazione circolare tra essere e linguaggio. Si dice l’essere mediante la procedura metaforica.  La funzione strumentale propria del linguaggio descrittivo concepisce il mondo come manipolabile. La funzione metaforica sospende l’abitudine a considerare il linguaggio esclusivamente per la sua funzione strumentale. Con la funzione metaforica emerge un nuovo universo dove la realtà e  la verità si trovano in una relazione speculare.

È la configurazione dell’esperienza temporale dell’uomo ciò che consente la configurazione metaforica del linguaggio.

19 P. Ricœur, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in AA. VV., Savoir, Faire, Espérer. Les limites de la raison, Pubblications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles1976, pp. 212-213. Questo testo è stato incluso in Du texte à l’action, Paris 1986)., pp. 212-213.
20 P. Ricoeur, La metafora viva, cit., p. 405

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

Francesco Paolo Intini

«Non esiste un sistema che non sia instabile
e che non possa prendere svariate direzioni».
(Ilia Prigogine)

L’ORA DELL’ He


Luna ridens. Lo zoo frustato dal vento.
Straripano le foibe

e tra i denti una gengiva provoca la lingua.
Un mamba in giro per la città.

La boccuccia di un bruco mette spavento
Perché non c’è gelso da mangiare.

Sul ramo si discute di scorbuto
I bambini graffiano radici.

13 dicembre 1969, zero Celsius della geometria euclidea.
Occorre fare perno sullo zero assoluto.

La paura messa in cima ai potenziali,
il fluoro da ossidare. Reagiranno le vetrine?

Scontro di placche sotto la val padana
Il monte Bianco schizza sangue sull’ Adriatico

Nel breviario di aguzzino l’abc delle consolazioni.
Un getto raggiunge Atene. Rimbalza peste.

A dirla facile, il bubbone ricuce il petto
Ritornano in sede i denti estinti.

Nemmeno il tempo per un ricovero
che zampilla una budella.

Qualcuno ha messo mano all’onnipotenza.
I microbi ci ripensano questa volta.

La malafede dei microscopi fa pendant con la vergogna.
Non piace essere a grandezza d’uomo.

Donne non hanno pace tra i prigionieri.
Il latte scarseggia tra mammelle.

Si trova scampo nell’ aria liquida
Forse tra gameti ci si intende meglio.

Ma qui passano aerei che atterrano nelle banche
I bimbi tornano negli uteri. Un caveau abortisce topi.

L’invasione dei sogni ha il rumore di locuste.
Così gratuito da competere sui mercati.

Non ci sono facce che occupano il risveglio
lo stomaco manda a dire che unico è l’intestino.

Kennedy parla sulle porte Scee.
Cambia sesso il campo magnetico.

Le cassette postali però respirano
Urlano in mutuo. Minaccia l’RCA.

Conosce l’inchiostro il posto degli indirizzi.
Si diventa kalashnikov a ogni stretta di mano.

Ingioiellarsi di formiche, sostenere il jazz con un sms
Il valore della mortalità alla portata degli angeli.

Ci sarà un concerto d’api. Pink Floyd in lattina.
Chitarre bottinatrici e punti ristoro per le bottiglie.

Per farla breve tutto è già in ambra. I nostri Io
pretesi sani. Coleotteri sul collo di Proserpina .

Il femminile recita in troiano.
I voli da e per, cancellati.

Una particina da borsa, fatta brillare.
Il puzzle della bomba alla mimosa.

Trovare il modo per uscire da Guernica
Nella bocca del cavallo la vagina.

Credevi che avrebbero messo la tua faccia
su un passaporto?

Un cordone attraversa il Muro.
Si respira plasma stamattina.

Lingue mute nell’ attraversare, prossime al vagito
o dentro l’elica di un Jumbo al parto asciutto.

(Inedito)

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

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Marie Laure Colasson, Tre poesie dalla raccolta inedita Les choses de la vie, Commento di Giorgio Linguaglossa, Lo spostamento linguistico, la metafora, fa senso, produce senso, Un Appunto di Edith Dzieduszycka

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage, Notturno, 30×30, 2010

Giorgio Linguaglossa

Lo spostamento linguistico, la metafora, fa senso, produce senso

 

Riguardo al lavoro sulla somiglianza e sulla sostituzione di una parola con un’altra, come avviene nella poesia della NOE – in particolare nella poesia di Francesco Paolo Intini e in quella di Marie Laure Colasson – dobbiamo fare alcune considerazioni  preliminari sulla natura della metafora per una adeguata valutazione della portata dello spostamento linguistico che caratterizza la procedura di sostituzione delle tessere frastiche.

Occorre sottolineare non soltanto l’aspetto della deviazione linguistica che si ha nella metafora ma anche l’aspetto della innovazione introdotta nel linguaggio. L’innovazione semantica è il prodotto della deviazione lessicale. L’aspetto fondante è dunque l’innovazione semantica, lo spostamento semantico che opera nel funzionamento interno della proposizione come operazione predicativa, grazie alla quale una nuova congruità linguistica è costituita in modo tale che la frase di per sé «produce senso» [makes sense]. Il creatore [maker] di metafore è un artigiano dotato di abilità verbali e immaginative, colui che da una frase insignificante ad un’interpretazione letterale traccia una frase significante per una nuova interpretazione che merita di essere chiamata metaforica perché genera la metafora non soltanto in quanto deviante rispetto alla normale significazione ma in quanto funzionale ad una nuova significazione.

In altre parole, il significato metaforico non risiede soltanto in un contrasto semantico ma anche in un nuovo significato predicativo che emerge dalle rovine del senso letterale, ovvero, dalle rovine del significato. È la rovina del senso, in poesia, che «fa senso», è dalla rovina del significato che sorge un altro significato. La poesia si nutre, vampirescamente, delle rovine del senso e del significato. È questa la sua più profonda natura e il suo telos. Il linguaggio poetico a differenza del linguaggio descrittivo relazionale incide il linguaggio e il reale, non si limita ad indicarlo. Questa incisione è un atto di depotenziamento delle funzioni referenziali del linguaggio e, al contempo, un potenziamento del dispositivo depotenziante. Non si tratta di un gioco di parole, tramite la metafora non si ha impiego del linguaggio, ma è il linguaggio ad esser «piegato» alle esigenze del «senso» [Sinn], piuttosto che a quelle del significato (Bedeutung]; si tratta di una complessa strategia che implica  una sospensione della referenza ordinaria legata al linguaggio descrittivo. La funzione della sospensione o epoché della referenza  ordinaria è la prova migliore sulla validità ontologica del discorso poetico.

C’è una figura che Aristotele chiama metafora per analogia, ovvero la metafora proporzionale: A sta a B come C sta a D. La spada sta ad Ares come lo scudo sta a Dioniso. Quindi possiamo dire: lo scudo di Ares come la spada di Dioniso. Abbiamo qui un permutazione dei termini propri tra due proposizioni. Si introduce una innovazione linguistica mediante un atto di ostensione del linguaggio, che è un lasciar vedere le cose. Le cose vengono alla visibilità tramite la metafora, che è un meccanismo immaginativo che porta le parole alla visibilità della visione. E questa è, propriamente, la proprietà produttiva-innovativa della metafora. Possiamo affermare quindi che ogni nuovo avvicinamento di elementi linguistici lontani semanticamente suscita l’opposizione di tutte le categorizzazioni pregresse che tenderanno ad opporre una resistenza alla innovazione.1

La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma. Una soluzione, certo, enigmatica, per cui le cose lontane sono date per vicine. È qui, nella mutazione caratteristica dell’innovazione semantica, che la somiglianza e quindi l’immaginazione giocano un ruolo decisivo. Ruolo che non può che essere frainteso fintantoché si ha in mente la teoria humiana dell’immagine come impressione debole, ovvero, come un residuo percettivo. Non è compresa meglio la natura della metafora se ci si sposta su un’altra tradizione,  quella secondo la quale l’immaginazione può essere ridotta all’alternanza fra due modalità di associazione, o per contiguità o per somiglianza, come invece è stato assunto da importanti teorici, tra tutti, Jakobson, secondo il quale il processo metaforico è opposto al processo metonimico nello stesso modo in cui la sostituzione di un segno a un altro all’interno di una serie di somiglianze è opposta alla concatenazione fra segni lungo una serie di contiguità. Ciò che dev’essere sottolineato è il modo di funzionamento della somiglianza e della dissimiglianza e quindi dell’immaginazione che sono fattori immanenti, ovvero non estrinseci, al processo predicativo stesso. In altre parole, il lavoro della somiglianza dev’essere appropriato e omogeneo alla deviazione, alla bizzarria e all’impertinenza dell’innovazione semantica. Il problema decisivo è il passaggio dall’incongruenza letterale alla congruenza metaforica fra due aree semantiche diverse e lontane. È come se un mutamento a distanza fra significati accadesse all’interno di una scacchiera dove i giocatori spostano i singoli scacchi. La nuova pertinenza o congruenza propria di una frase metaforica significativa procede dal tipo di prossimità semantica che improvvisamente si ottiene fra termini lontani nonostante, anzi, grazie alla loro distanza. Cose o idee che erano lontane, appaiono ora prossime tramite la congruenza metaforica.

La metafora è una proprietà del linguaggio, una sorta di collante che unisce punti anche distantissimi del linguistico, un meccanismo tipo entanglement o parallasse che presiede alla composizione, al dispiegamento e al funzionamento di ogni lingua umana. Il transfer di significato, non è nient’altro che questo movimento o questo spostamento nella distanza logica, dal lontano al vicino. E questo è il motore proprio di ogni lingua, che consente il rinnovamento della significazione e del linguaggio tramite l’apporto costruente dell’immaginazione. Il transfer di significato, non è nient’altro che questo duplice movimento o questo spostamento nella distanza dei significati, dal lontano al vicino, e dal vicino al lontano.

I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti

Nei versi citati di Marie Laure Colasson abbiamo un esempio significativo di transfer di significato: i «paleontologi» diventano «spogliarelliste» e «pianeti» vengono invasi da «perle». Sarebbe pelonastico andare a cercare in questi versi il significato consolidato  e condiviso dalla comunità dei parlanti, della connessione ad un referente, insomma, ricercare in essi un significato consolidato e condiviso, qui il piano del referente è stato depotenziato e messo in sordina, in secondo piano; viene invece in primo piano il «gioco gratuito» eppur serissimo del linguaggio che procede verso la nuova linguisticità per il tramite del depotenziamento, dell’epoché del linguaggio che si esplica in bizzarrie, deviazioni, permutazioni, scarti, estraneazioni che operano nuove congruenze linguistiche dove viene ad evidenza il ruolo dell’immaginario e del simbolico nel linguaggio.

La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico», un «polittico dismetrico», un «polittico distopico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici,  disarticolazioni e disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo, di ribaltamenti temporali e spaziali, di sovrapposizioni. In questo genere di procedura poetica il testo cessa di essere quella cosa che il critico può solo indagare per consegnarlo, intatto e intonso alla tradizione, esso è piuttosto il «gesto» che, nel testo, esibisce se stesso, la propria gestualità gratuita la quale tradisce un gigantesco gap di memoria. Il «gesto» in realtà dissimula un sottostante difetto di parola. È per il tramite della procedura metaforica che viene alla piena visibilità la solitudine delle parole; strette, costipate a miliardi di miliardi nei campi di concentramento dell’etere del mondo cibernetico amministrato.

Il «polittico» reca con sé i segni della rovina del tempo, della rovina del senso e del significato. Forse, tra cento anni, sopravviverà di essi il loro mero involucro formale, uno scheletro di segni divelti da ogni significato. E questo sarà già tanto.

La vita che ha dimenticato la vita, le parole che hanno dimenticato le parole sono al centro del dispositivo poetico della Colasson. «La vie […] c’est ce qui est capable d’erreur […] La vie aboutit avec l’homme à un vivant qui ne se trouve jamais tout à fait à sa place, à un vivant qui est voué à “errer” et à “se tromper”», ha scritto Foucoault. La poetessa francese riprende da qui, dal vivente-parlante che non si trova mai al suo posto, condannato ad essere sempre fuori luogo, ad errare. Infatti, i personaggi delle poesie della Colasson sono sempre fuori posto, provengono da un altro luogo e si trovano, all’improvviso, deiettati in un luogo del tutto sconosciuto e condannati ad errare.

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

I personaggi avatar che intervengono nelle poesie colassoniane non  hanno più a che fare con le questioni classiche della verità, della soggettività e del fondamento ma con quelle dell’errore e dell’erranza, della finzione e del simulacro, della copia e del manichino. Personaggi-account, personaggi-avatar che costituiscono il modo d’essere più proprio dell’uomo nel mondo contemporaneo.

 

1 Cfr. Paul Ricoeur

https://www.academia.edu/12110000/Tropi_del_pensiero._Retorica_e_filosofia_XVII_2015_I_?email_work_card=view-paper p. 98 «L’assimilazione predicativa coinvolge in tal modo un tipo specifico di tensione, che non è tanto fra un soggetto e un predicato quanto fra incongruenza e congruenza semantica. La visione della somiglianza è la percezione del conflitto fra l’incompatibilità precedente e la nuova compatibilità.La “lontananza” è conservata nella “prossimità”. Vedere il simile significa vedere il medesimo nonostante e mediante il differente. Questa tensione fra identità e differenza caratterizza la struttura logica della somiglianza. L’immaginazione,quindi, è questa abilità di produrre nuovi generi mediante assimilazione e di produrle non al di sopra delle differenze, come nel concetto, ma nonostante e attraverso le differenze. L’immaginazione è questa tappa nella produzione dei generi in cui un’affinità generica non ha raggiunto il livello di ordine e quiete concettuale, ma resta catturata nella guerra fra distanza e prossimità, fra lontananza e vicinanza. In questo senso, possiamo parlare con Gadamer di un fondamento metaforico del pensiero, nella misura in cui la figura del discorso, che chiamiamo “metafora”, ci permette di scorgere il processo generale attraverso il quale produciamo concetti. Perciò nel processo metaforico il movimento verso il genere è arrestato dalla resistenza della differenza e, per così dire, intercettato dalla figura retorica.»

Marie Laure Colasson esistenzialista 2020

[Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari. (Kommerel)]

 Un Appunto di Edith Dzieduszycka

Penso che la poesia di Marie Laure Colasson sia entrata a pieno titolo nella ormai tradizione della Nuova Ontologia Estetica – e capisco che Giorgio si sia interessato sia all’una che all’altra! – Anzi, Marie Laure è quasi l’anticipatrice di questo frammentismo, dato che scrive in questo modo da più di tre decenni, sempre in francese, successivamente tradotto in italiano. Forse un bel giorno scatterà la scintilla, e scriverà come me, direttamente in italiano. Ma non ci credo tanto, è profondamente attaccata alla sua lingua.

Direi che la sua poesia le assomiglia: imprevedibile, colorita, chatoyante, leggera, danzante, scorre in tanti rivoli e strade sorprendenti, e non c’è da stupirsi, conoscendo la sua professione di ballerina e il suo talento artistico (fotografia e collage). Non abborda un tema che subito se ne discosta, una piroetta, un entrechat, lasciando sconcertato il lettore sull’orlo d’un’evidenza, d’una sorpresa, di un bandolo da riafferrare. Il suo mondo è popolato da personaggi numerosi e variegati, appartenente alla letteratura, alla mitologia, alla cronaca, al suo entourage e ai suoi affetti. Li trasporta tutti nella ronda saltellante dei suoi pensieri sempre vigilanti e in allerta.

Bello il verso che piace a Gino Rago:

…il metronomo ritma la polvere della realtà…

e che vorrebbe come titolo della raccolta. Ma penso invece che Les choses de la vie, titolo primordiale basato appunto sulle cose e sui fatti, evidenti e visibili, confrontati ai pensieri nascosti découlant da quelle cose e da quei fatti o luoghi o incontri o reminiscenze, sia quello giusto e corrisponda alle intenzioni di Marie Laure Colasson.

(7 febbraio 2020)

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage, Notturno, 30×30, 2010

Marie Laure Colasson

Tre mie poesie dalla raccolta inedita Les choses de la vie

Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea.

25.

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant

En flottant reviennent

Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven

Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères

Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses

Les perles se propagent sur les planètes
Astrocinématographique confusionnel

Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha

Eglantine défait sa robe aigue-marine

*

Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo

Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando

Galleggiando tornano

Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven

Tasti di pianoforte ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie

Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale

Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha

Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina

*

26.

Eredia trouve dans son sac crocodile une chaise
recherche du DNA

Larbi entre dans les parenthèses
présence du vide

Ciseaux et couteaux à l’horizon
un mocassin met son profil sur facebook

Mac Cormack ferme les interstices
tactique stratégie sans bureaucratie

Un nez regarde la chaise
un pied bat un rythme infernal

Les objets dansent avec frénésie
les condamnés réclament le silence

Orgie grotesque
vols planés de chaises ciseaux couteaux mocassins

Larbi s’assied dans le vide

*

Eredia trova nella sua borsetta coccodrillo una sedia
ricerca del DNA

Larbi entra nelle parentesi
presenza del vuoto

Forbici e coltelli all’orizzonte
un mocassino mette il suo profilo su facebook

Mac Cormack chiude gli interstizi
tattica strategia senza burocrazia

Un naso guarda la sedia
un piede batte un ritmo infernale

Gli oggetti ballano freneticamente
i condannati reclamano il silenzio

Orgia grottesca
voli planati di sedie forbici coltelli mocassini

Larbi si siede nel vuoto

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Giorgio Agamben,  La «patria originaria dell’uomo», la sua «origine trascendentale» è una patria linguistica, L’in-fanzia come esperienza originaria del linguaggio, dunque della storia, Poesie di Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Francesca Dono, Lucio Mayoor Tosi

Foto fuga nel corridoio

il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e del significato

Giorgio Agamben

Sulla originarietà dell’esperienza della parola

«La ‘somiglianza’ e l’intersezione semica non preesistono alla metafora, ma sono rese possibili da essa e assunte poi come sua spiegazione, così come la risposta di Edipo non preesiste all’enigma, ma, da esso creata, pretende, con una singolare petizione di principio, di offrirne la soluzione. Ciò che lo schema proprio/improprio ci impedisce di vedere è che nella metafora nulla si sostituisce in realtà a nulla, perché non esiste un termine proprio che quello metaforico è chiamato a sostituire: solo il nostro antico pregiudizio edipico – cioè uno schema interpretativo a posteriori – ci fa scorgere una sostituzione dove non vi è che una dislocazione e una differenza all’interno di un unico significare […] in una metafora originaria sarebbe inutile cercare qualcosa come un termine proprio. […]
La dislocazione metaforica non avviene, infatti fra il proprio e l’improprio, ma è una dislocazione della stessa strutturazione metafisica del significare: il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e del significato in cui emerge alla luce la differenza originale su cui si fonda ogni significare […] il paradosso centrale del significare che la metafora mette a nudo: il  semainen è sempre originalmente una synoxis di adunata, una commessura d’impossibili.»
(Stanze, pp. 177-179)

«Porre all’inizio una scrittura e una traccia, significa mettere l’accento su questa esperienza originale [cioè:che l’esperienza originale sia sempre già presa in una piega, che la presenza sia ineludibilmente sempre già presa in un significare], ma non certo superarla. […] La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce, il venire in luce del suo fondamento negativo e non certo il suo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l’eredità metafisica della semiologia moderna, ciò che resta per noi ancora impossibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza,fosse soltanto una pura e indivisa stazione nell’aperto. Quel che possiamo fare è riconoscere l’originaria situazione del linguaggio, questo “plesso di differenze eternamente negative”,  nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l’accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L’algoritmo S/s deve perciò ridursi alla sola barriera: /; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere solo la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni, il cui modello abbiamo cercato di delineare nell’ainos della Sfinge, nella malinconica profondità dell’emblema, nella Verleugnung del feticista.»
(Stanze, pp. 187-188)

Come infanzia dell’uomo, l’esperienza è la semplice differenza fra umano e linguistico.
Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questo è l’esperienza.
(G. Agamben, Infanzia e storia)

L’origine di un simile “ente” [l’umano] non può essere storicizzata, perché è essa stessa storicizzante, è essa stessa che fonda la possibilità che vi sia qualcosa come una “storia”.
(G. Agamben, Infanzia e storia)

L’in-fanzia come esperienza originaria del linguaggio, dunque della storia

Che cosa vuol dire, agambenianamente, esperienza originaria del linguaggio (dunque della storia) come in-fanzia? La prima, più generale esplicitazione da compiere è forse il fatto che esperienza, linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto origine – ma anche che origine, esperienza e linguaggio coincidono in quanto in-fanzia, che origine, esperienza e in-fanzia coincidono in quanto linguaggio e che origine,linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto esperienza.
È questa coincidenza a consentire il dispiegamento della storia, a fondare «la possibilità che vi sia qualcosa come una ‘storia’»
(IS, p.47).

«L’in-fanzia, ovvero il fatto che l’uomo non sia sempre già (stato) parlante, che il linguaggio giunga all’uomo necessariamente sopraggiungendo, vale a dire necessariamente scindendosi e articolandosi in lingua-e-discorso, semiotico-e-semantico, essenza-ed-esistenza, si annuncia come quel luogo che, incastonandosi alla soglia, al limite delle scissioni (nel loro punto d’insorgenza ed’arresto), inaugura la loro destituzione nella forma della di loro originaria esperienza – cioè: nella forma dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. In questo modo essa, l’in-fanzia, è di necessità esperienza (dell’origine) della differenza – differenza in quanto esperienza; ciò che implica, anche, esperienza della storicità»:

Si deve insistere sul termine ‘coincidenza’: Agamben ne farà, ne L’uso dei corpi, ma anche altrove, un uso filosoficamente chiave.

«Se noi non possiamo accedere all’infanzia senza urtarci al linguaggio che sembra custodirne l’ingresso come l’angelo con la spada fiammeggiante la soglia dell’Eden, il problema dell’esperienza come patria originale dell’uomo diventa allora quello dell’origine del inguaggio, nella sa doppia realtà di lingua e parola»,
IS, p. 46. Come giustamente ricorda C. Salzani, nell’infanzia agambeniana risuona il «profondo e costante interesse di Benjamin per l’infanzia, il gioco e il giocattolo», e «di particolare importanza per il progetto agambeniano è poi il potere liberatorio, “messianico”,che Benjamin attribuiva all’infanzia e al gioco», così come la considerazione benjaminiana dell’infanzia «da un punto di vista ontologico».
(C. Salzani, Introduzione , pp. 35-36).

Sennonché, va ricordato che «allo stesso tempo questo riferimento può essere fuorviante, perché evoca una naturale connessione con il bambino [Benjamin cominciò a scrivere dell’infanzia dal 1918, vale a dire dalla nascita di suo figlio Stefan], che non è certo in questione nella problematizzazione dell’infanzia da parte di Agamben. Anche per questo motivo Agamben, in seguito, rinuncerà quasi completamente al termine “infanzia” e adotterà quello di“potenza”»
(ibidem).

Foto Jason Langer 1998 lo specchio

È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio

Gli animali non entrano nella lingua: sono sempre già in essa. L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, scinde questa lingua una e si pone come colui che, per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io. […] Allora la natura dell’uomo è scissa in modo originale, perché l’infanzia introduce in essa la discontinuità e la differenza fra lingua e discorso. Ed è su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano. Solo perché c’è un’infanzia dell’uomo, solo perché il linguaggio non s’identifica con l’umano e c’è una differenza fra lingua e discorso, fra semiotico e semantico, solo per questo c’è storia, solo per questo l’uomo è un essere storico. […] È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio. Per questo Babele, cioè l’uscita dalla pura lingua edenica e l’ingresso nel balbettio dell’infanzia […] è l’origine trascendentale della storia. Il mistero, che l’infanzia ha istituito per l’uomo, può infatti essere sciolto solo nella storia, così come l’esperienza, come infanzia e patria dell’uomo, è qualcosa da cui egli è sempre già in atto di cadere nel linguaggio e nella parola. Per questo la storia non può essere il progresso continuo dell’umanità parlante lungo il tempo lineare, ma è, nella sua stessa essenza, intervallo, discontinuità, epoché [diremmo: «dialettica in stato d’arresto», cairologia, «tempo che resta»]. Ciò che ha nell’infanzia la sua patria originaria, verso l’infanzia e attraverso l’infanzia deve mantenersi in viaggio.
(ivi, pp. 50-52)

Questo (Er)Fahren, questo essere-in-cammino verso e nell’infanzia, sancisce il luogo inaugurale della storicità e, al tempo stesso, quello ontologico dell’esperibilità del linguaggio nel suo aver-luogo – ovvero la via, il sentiero (interrotto?) per quel «messianismo cairologico» di cui abbiamo
tracciato le linee e che è in questione nella seconda parte del testo. Siano i due saggi heideggeriani, Die Sprache (1950) e Der Weg zur Sprache (1959), entrambi contenuti in Unterwegs zur sprache (1959). Nel primo, dopo aver chiarito che noi vorremmo riflettere sul linguaggio e soltanto su di esso. Il linguaggio è linguaggio e nient’altro. Il linguaggio è il linguaggio. L’intelletto educato alla logica, uso a tutto sottoporre al processo calcolante, e perciò appunto il più delle volte presuntuoso, chiama questa proposizione una vuota tautologia. Dire due volte nient’altro che la stesa cosa: linguaggio è linguaggio, come è possibile che questo ci porti avanti? Ma noi non vogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di giungere là dove già siamo. […] Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa [heimisch] per trovare una dimora per l’essenza dell’uomo. Riflettere sul linguaggio significa pervenire al parlare del linguaggio in modo che questo parlare avvenga come ciò in cui all’essere dei mortali è dato ritrovare la propria dimora.

In cammino verso il linguaggio, (pp.28-29),

Heidegger si lancia all’ascolto della «parola pura» (ivi, p. 31) e lo fa leggendo la poesia di Trakl Ein Winterabend. Nella dissertazione introduce la quadri partizione del Geviert, e la dinamica filosofica del rapporto (dell’intimità, Innigkeit) tra mondo e cosa:

Mondo e cose non sono realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi, i Due passano attraverso una linea mediana [eine Mitte]. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il frammezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione [Verschmelzung]. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei Due, nel frammezzo di mondo e cosa [In der Mitte der Zwei, im Zwischen von Welt und Ding], nel loro inter, in questo unter, domina la cesura [Schied]. L’intimità di mondo e cosa si dispiega essenzialmente [west] nella cesura [Schied] del frammezzo, si dispiega essenzialmente nella dif-ferenza [Unter-Schied]. Il termine dif-ferenza è qui sottratto all’uso corrente e consueto. Non indica un concetto generico, nella cui area rientrino molteplici specie di differenza. La dif-ferenza, di cui qui si parla, esiste solo come quest’una. È unica. La dif-ferenza regge – non però con essa identificandosi – quella linea mediana [her die Mitte ] nel moto e nella relazione alla quale e grazie alla quale mondo e cose trovano la loro unità. L’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante [das Einigende], di Ciò che differenziando porta e compone. La dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al loro esse cose. Portandoli a compimento, li porta l’un verso l’altro. La composizione operata dalla dif-ferenza non è qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi la dif-ferenza sopraggiungesse recando una linea mediana e con questa congiungesse mondo e cose. La dif-ferenza, in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l’uno per l’altro, di questo fondando e compiendo l’unità. […]La dif-ferenza non è né distinzione né relazione [weder Distinktion noch Relation]. La dif-ferenza è semmai la dimensione del mondo e delle cose. Ma in questo caso “dimensione” non significa una regione a sé stante,dove questo o quello può prender dimora. La dif-ferenza è la dimensione, in quanto misura nella sua interezza,facendolo essere nella sua propria essenza, lo spazio di mondo e cosa. […]
Nel nominare, che chiama cosa e mondo, quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza.
(In cammino verso il linguaggio, pp. 37-38)

Heidegger chiosa:

“Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario [die Sage] in quanto Mostrare [die Zeige].
Il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno, ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità d’essere segni. […] Perfino là dove il Mostrare si realizza grazie a un nostro dire, c’è sempre un lasciarsi mostrare che precede questo nostro mostrare come additare e rilevare. Solo quando si consideri il nostro dire in tale prospettiva, è possibile una determinazione adeguata di quel che è essenziale in ogni parlare. […]Ma il Dire originario in se stesso cos’è? È esso qualcosa di staccato dal nostro parlare, sí che per giungervi dovrebbe venir prima gettato un ponte? O è invece il Dire originario il fiume della quiete, che già di per sé collega le sue rive, il Dire e il nostro ri-dire, nell’atto stesso che le fa essere?”
(ivi, pp. 199-200)

Possiamo dunque, a questo punto, affermare che nell’«in-fanzia» di Agamben parla, consapevolmente o inconsapevolmente, la Sage heideggeriana, l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio si situa nella traccia heideggeriana, quel «mostrare» che origina il linguaggio nel suo Geflecht, di quel fiume originario della Stille «che già di per sé collega le sue rive […] nell’atto stesso che le fa essere». Continua a leggere

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Critica della ragione sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) Roma, Progetto Cultura, 2018, pp. 512 € 21 – Lettura critica di Mario Gabriele – Oltre il limite elegiaco e alcyonesco della poesia italiana – Poesie di Dunya Mikhail, Ewa Lipska, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Traduzioni in inglese di Adeodato Piazza Nicolai

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Questo Repertorio critico dal titolo: Critica Della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica), Edizioni Progetto Cultura, gennaio 2018, di Giorgio Lingualossa, nasce come proposta di cambiamento del linguaggio poetico, rispetto alla palus putredinis che ha caratterizzato un lungo periodo di immobilismo estetico, fatta eccezione per le poche alternative sperimentali, che non sono andate mai al di là del loro riscatto formale. In questa situazione di stabilità linguistica, era più che logico ridiscutere sui vecchi parametri  senza proporre alternative rivoluzionarie, ma solo il distacco dalla Tradizione massonica del potere editoriale, che ha influito su generazioni intere nell’arco di un secolo: il Novecento.

Questo avanzamento critico lo si attendeva da tempo, a monte della incomprensibile staticità espressiva che ha ridotto al minimo ogni proposta innovativa del linguaggio. Trattasi di un rapporto complesso, ampiamente supportato da parametri ontologici, che introducono una  morale estetica rispetto al grande depistaggio informativo rimesso in discussione, grazie a un nuovo tracciamento ermeneutico. Un’opera dagli innumerevoli profili estetici; una chiara riconduzione agli aspetti variabili della transizione e formalizzazione del logos e dei suoi derivati, portati allo scoperto e immessi in un tempo rimodernizzato  dopo la crisi della cultura occidentale e della forma poesia.

Linguaglossa ci fornisce le coordinate per la lettura dei testi esaminati, liberando il bendaggio metaforico all’interno della parola. Il critico finisce con l’essere un produttore di materiale merceologico di diversa griffatura e peso specifico. La questione del Soggetto-Forma diventa essenziale per articolare ogni discussione sulla nuova ontologia. Dato l’ampio ventaglio critico non sembra di trovare un paragone di allineamento come le antologie poetiche in Italia, che hanno sempre avuto un ruolo omissivo, sostenuto da una critica militante con le chiamate a correo di altri antologisti come Porta, Berardinelli e Cordelli, Mengaldo, Cucchi e Giovannardi e i tanti rapporti sulla poesia sempre più  elitàri e riduttivi, che solo per ristabilire la verità si dovrebbe permettere anche agli altri il diritto di rivelare la parola negata. Cosa che ora avviene con la Critica Della Ragione Sufficiente, in opposizione  alle  mappe di semplice replay. Quando si parla di antologie, il pensiero corre subito ad un curriculum di opere e di poeti su tutto il territorio nazionale; cosa difficile a realizzare, mentre dovrebbe essere più che accettabile produrre opere innovative, in contrasto con l’atteggiamento critico e poetico, di ieri e di oggi.

 

[Lucio Mayoor Tosi, acrilico]

Nella Critica Della Ragione Sufficiente, si potrebbe dire che gli spazi dedicati alla nuova ontologia diventano dispense critiche tra Soggetto e Oggetto, Tempo Interno e Tempo Esterno, Quadridimensionalismo, Fugacità dell’Essere, e Messa in opera del Frammento, nonché le varie sezioni relative al “Concetto del reale” all’Evento”, al “Problema del linguaggio”, a “L’esserci del tempo”, al “Concetto di traccia e di metafora” e a tutte le altre categorie inerenti lo Strutturalismo. Se leggiamo questo ampio repertorio, ci si rende subito conto che l’autore innesta un discorso autoptico sulla poesia sclerotizzata. Scrive Linguaglossa:”I tempi sono talmente limacciosi che dobbiamo ritornare a pensare le cose semplici, elementari, dobbiamo raddrizzare il pensiero che è andato disperso, frangere il pensiero dell’impensato, ritornare ad una “ragione sufficiente… per una nuova ontologia estetica della forma poesia, un orientamento verso il futuro, anche se esso ci appare altamente improbabile e nuvoloso, dato che il presente non è affatto certo”.

Qui si saldano insieme ottimismo e pessimismo sulla scorta di come sono andate le cose in letteratura e nel groviglio delle proposizioni  antologiche e poetiche. La curvatura tra il vecchio linguaggio e il nuovo è evidente; diventa percezione tattile, testuale nel ricambio estetico. Scriveva Sanguineti che l’antologia “è un genere letterario anfibio, oscillante tra il museo e il manifesto”. Nulla di tutto questo è rilevabile nella nuova ontologia critica di Linguaglossa, nella quale vi si accede attraverso tangenziali di diversa diramazione per le nuove generazioni poetiche, in quanto quelle di vecchia data vivono in un museo a sé. Il progetto linguaglossiano ha la discontinuità col passato, ne traccia il limite elegiaco e alcyonesco, prende atto che l’immobilismo linguistico fa parte di una  atmosfera senza ossigeno.

Qui non si tratta di omologare l’extraletterarietà, ma un nuovo punto di sopravvivenza della poesia, e chi ne mette in dubbio ha da rivedere  il proprio modo di affiancarsi al passato rispetto alla post-modernità. Questo revisionismo intorno allo stile e alla forma, determina una epoché fenomenologica di singolare novità. Le  alternanze linguistiche che si sono susseguite dagli anni Sessanta ad oggi, sono derivate dalla necessità biologica di avere una nuova lingua, e chi ha accettato il ricambio poetico, ha lasciato sempre una traccia dalla quale poi si è venuto a determinare il protocollo del proprio tempo linguistico.

Anche nell’antologia La parola plurale (2005), il prefatore, Andrea Cortellessa, conclude che “la poesia si è confrontata con la sua storia, passata e in corso. Ha sostenuto il governo della nostra lingua in un momento nel quale nel mondo essa si è ridotta, per altri usi… l’ha fatto perché ha mantenuto sempre aperta  l’ipotesi, la – speranza – del nuovo”. Che poi le tematiche plurioggettive di ricerca sulla metafisica, sulla ricapitolarizzazione scientifica dell’Universo, sull’uso e abuso dell’oggetto-significante, e delle figure retoriche come l’allegoria, l’anacoluto, l’anafora, l’antitesi e l’anticlimax ecc. siano o meno gli attrezzi d’officina adoperati dal poeta, questo è prerogativa dell’Homo Faber e di come egli si colleghi con la realtà.

Linguaglossa  scandaglia il fondo della seconda metà del Novecento, facendone un bilancio volumetrico di opere e di autori diversi per linguaggio e sensibilità. L’operazione tende a mettere in luce un umanesimo culturale volto al ricambio estetico con la NOE (nuova ontologia estetica), come elemento di comunicazione espletato attraverso la coscienza di scrivere per arginare il declino e la democrazia totalitaria del linguaggio tradizionale. Le indicazioni di chi sta  operando un cambiamento, sono da intendere come effetto di superficie di ogni autore che ha ritenuto di riprogettare la poesia secondo una propria scala di valori. C’è, infatti, una idea che è Progetto e Forma secondo l’effetto d’urto con il mondo esterno. Ciò non toglie al lettore il diritto di rimanere vincolato alla  propria “dipendenza” estetica, di fronte a quello che gli si propone, soprattutto come aggiornamento culturale. Gli autori trattati, e qui ci si riferisce a quelli che hanno una diretta adesione alla NOE, hanno un ritratto esegetico del loro percorso.

“Il concetto di contemporaneità (come il concetto  di «nuovo» – scrive Linguaglossa -) è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è la situazione dalla quale ripartire. Ricominciare a pensare in termini di Discorso poetico – scrive Giorgio Linguaglossa – significa adagiarlo stabilmente entro le coordinate della sua collocazione post-moderna”; un discorso poetico che è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato”. In questo caso Giorgio Linguaglossa finisce con l’essere un apripista che realizza il senso di una nuova ontologia estetica dai tratti filosofici, metalinguistici, stilistici e analitici, nel segno della vitalità corporea correlata al logos.

Sono considerazioni queste che se metabolizzate dal lettore, portano verso la dimensione intuitiva del pensiero poetante, senza azioni di frenaggio da parte di chi ha altri obiettivi. In altre parole, la poesia non deve mai rinunciare al suo sviluppo cellulare, biologico, semantico ecc. Le istanze innovative del linguaggio sono, a parità di sviluppo mentale della personalità del lettore e del poeta, l’insieme delle loro qualità, che non devono mai retrocedere a comportamenti regressivi o di semplice ideologia ostruttiva. La pietra lanciata da Giorgio Linguaglossa avrà sicuramente onde di ritorno  sulla battigia che rimane un approdo sicuro dopo il suo tour critico.

(Mario M. Gabriele)

Collana-Il-dado-e-la-clessidra-nera

[Il dado e la clessidra, simboli della omonima Collana di poesia di Progetto Cultura]

Gino Rago

Condivido pienamente la lettura critica di Mario Gabriele la nota psicofilosofica di Giorgio Linguaglossa sulla poesia di Tiziana Antonilli [del precedente post], quest’ultima davvero in grado di introdurre nella stagnazione diffusa dell’epigonismo debole un’autentica novità d’accenti nell’energia espressiva di versi che mi ricordano echi assai prossimi alla voce per me più alta della poesia europea contemporanea: Ewa Lipska, della cui poesia -del ciclo del “cara Signora Schubert” – mi sono irresistibilmente invaghito.
Invito i lettori a leggere ad alta voce le dense composizioni di Tiziana Antonilli tenendo in mente questo capolavoro di

Ewa Lipska

Il protagonista del romanzo

“Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Io non sono in grado di aiutarlo.
Si tira dietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo,
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum
su internet scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
affermano che taceranno su questo argomento.”

 

Giorgio Linguaglossa

cara Signora Schubert

alla maniera di Ewa Lipska

Cara Signora Schubert, che dire?, la protagonista del mio romanzo
un tempo è stata carne viva, si portava sempre dietro
una borsetta con tutto il necessaire per il trucco
e la cipria per coprire le rughe del viso…

È andata in giro per l’Europa
per inseguire il suo uomo… Amsterdam, Amburgo, Vienna,
Venezia, Budapest… che dire?,
oggi lei non rimpiange nulla, perché nulla è reale,
ha amato Herr Cogito quando amare era diventato problematico,
lui non aveva avuto il tempo per ricambiare il suo amore
e così teneva la sua foto nella tasca interna della giacca,
ogni tanto la tirava fuori per ammirare
i suoi riccioli biondi, mentre viaggiava con la valigetta diplomatica
lì sul treno blindato che trasportava Lenin
verso il fronte russo…

sa, amarsi sul treno blindato non è proprio l’ideale…
così il tempo passò che alla guerra
era stato fissato…
ma poi iniziò subito dopo un’altra guerra,
e riprese ad inseguire il suo amore per le città bombardate dell’Europa…

poi anche quella guerra finì come finiscono tutte le guerre,
i soldati ritornarono alle loro case
e ritornò anche Cogito,
in un telegramma con un indirizzo: via delle ciliegie
4° edificio presso il cimitero Dorotheenstädtischer Friedhof, in Chaussestraße
alla periferia di Berlino est.
Magnolie e margherite.

Traduzione di Adeodato Piazza Nicolai

Ewa Lipska

Protagonist of the Novel

“Dear Misses Schubert, the protagonist of my novel
drags a wardrobe trunk, In it the mother, sisters, the family,
war, death. I am unable to help him.
He’s dragging that trunk for twohundred and fifty pges.
He no longer can stand on his feet. And when he finally exits the novel
they steal all he owns. Looses the mother,
the sisters, the family, the war, death. In an internet
forum they write that he deserved it all.
He’s maybe a hebrew or a midget? Witnesses
declare they will remain mute on this matter.”

Giorgio Linguaglossa

dear Misses Schubert

in the style of Ewa Lipska

Dear Misses Schubert, what can I say?, the protagonist of my noverl
was once living flesh, she always brought with her
a small bag with all necessities for make-up
and the face powder to cover her wrinkles.

She went around in Europe
to follow her man… Amsterdam Hamburg, Vienna,
Venice, Budapest … what is there to say?
today she has no regrets since nothing is real,
she loved Herr Rogito qhen loving had become problematic,
he didn’t have the time to return her love
and so kept her photo in the inside pocke of his jacket,
from time to time he pulled it out to admire
her blond curls while he travelled with his diplomatic bag
on the armoured train taking him to Lenin
toward the Russian front…

you know, loving each other on the armoured train really wasn’t the best…
thus time passed that was fixed
by the war…
but then immediately started another war,
and he began again to chase after his love in the bombed-out cities of Europe…
then also that war ended like all wars come to an end,
soldiers returned to their homes
and even Rogito came back,
in a telegram addressed to : Street of the Cherries
4th Building, next to the cemetery Dorotheenstadtischer Friedhof in Chaussestrasse
at the periphery of East Berlin
Magnolies and marguerites,

© 2018 English transltion by Adeodato Piazza Nicolai 2 poems: one by Ewa Lipska and the other by Giorgio Linguaglossa. All Rights Reserved.

Mario Gabriele da In viaggio con Godot (Progetto Cultura, 2017) Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa: L’intervento del fattore T.  nella poesia di Mauro Pierno, Dieci poesie –   Apparso come commento il 22 dicembre 2017 alle 8.25

Gif homo invadens

L’ingresso del fattore T. (tempo) è anch’esso centrale nella «nuova poesia»

 

In una certa misura la problematica del fattore T. (tempo) è anch’essa centrale nella «nuova poesia». Qui Mauro Pierno si arrischia a scrivere una poesia fatta tutta nel «presente», una poesia irriflessiva, estemporanea, casuale… si badi, non affatto parole in libertà quanto parole del presente, che galleggiano solo nel presente. Cosa affatto semplice. Incredibile. Anche questa è una modalità per catturare il Fattore T.

Io, invece, adotto un’altra strategia. Lascio le mie poesie per molti anni sempre vive, nella memoria del computer (fattore T.) e nella mia mente (due modi di esistenza del fattore T.); in questo modo la poesia resta aperta come sul tavolo dell’obitorio, dissezionata… All’improvviso accade durante gli anni che varie esperienze di letture e di vita mi portano nuovi stimoli, nuove idee, nuove frasi che mi chiedono di entrare in quella o in quell’altra poesia… Così le mie poesie crescono e concrescono, come foreste tropicali, grazie all’ausilio attivo del fattore T.

In questo lavoro di attivo coinvolgimento del fattore T., il Tempo interviene attivamente, si introduce nella casa linguistica come un padrone; io, il mio Ego, si è nel frattempo fatto da parte, anzi, è stato fatto sloggiare. Adesso la casa linguistica è abitata solo dal fattore T., è esso che guida la composizione verso il suo sviluppo. Proprio ieri, ascoltando delle canzoni jazz della cantante svedese Gunhild Carling con la sua band straordinaria, ho avuto in regalo la visita del Fattore T.: molti spezzoni di frasi hanno bussato alla porta delle mie case linguistiche e sono entrate, alcune sono entrate di prepotenza senza neanche bussare o chiedere permesso, sono loro, mi sono detto, i veri padroni delle mie case linguistiche!.

Invece, Mauro Pierno procede in modo opposto, vuole abitare esclusivamente il «presente». Ma, caro Pierno, il «presente» assoluto non esiste! Questo lo sappiamo da Agostino di Ippona e da Derrida i quali hanno fatto una disamina precisissima della inesistenza del «presente»; anche Husserl ha precisato che il «presente» in sé non esiste, che il «presente» è fatto di un «non-presente»… E allora cosa dovremmo dedurne? Che la poesia di Mauro Pierno non esiste? In effetti è così, la poesia di Mauro Pierno nei suoi momenti più riusciti, è fatta di presente e di non-presente, di presenza e di assenza.

È proprio questa l’aporia della «cosa» di cui dicevo in un precedente commento, la «cosa» che esiste soltanto nel «presente», o che addirittura è scomparsa dal «presente» perché si è persa, è andata distrutta, è stata rubata etc… Ecco, dicevo, quella «cosa» misteriosa costituisce una insopprimibile aporia del mio pensiero, sta qui e non sta qui, è nella mia memoria e non più nella mia memoria… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà…

Per fare un esempio diverso, la poesia di Donatella Costantina Giancaspero è tutta basata su fotogrammi impressi nella memoria. Si tratta di ricordi che sono stati elaborati dall’inconscio e che si sono fissati, raggelati. In quei fotogrammi il fattore T. è stato raggelato, fermato, se ne sta lì, immobile, tagliato fuori dalla vita reale, dall’esistenza nel presente. Il lavoro della poetessa si muove «attorno» e «dentro» questo fotogramma dandogli uno sviluppo metaforico e metonimico. La metafora e la metonimia sono i due binari lungo i quali si sviluppa la sua poesia, sono i trasformatori che traslocano la pulsazione debole del fotogramma in icone linguistiche, in segni, in parole. È una strategia di cattura del fattore T., del tempo. Il tempo viene messo in scatola, viene inscatolato, e così neutralizzato. E questa è ancora un’altra procedura tipica della sensibilità della «nuova ontologia estetica». Non più una poesia a pendio elegiaco come quella della tradizione del novecento italiano ed europeo, ma una poesia della pianura della prosa, che impiega fraseologie piane, ipotoniche, lessico basso e raffreddato, ritmi ipotonici, toni cloridrici…

Foto true love for ever

Quella mano che non ritrovo/ quando a letto ti accarezzo

Mauro Pierno
Abbiamo bisogno di nuovi miti, commento apparso il 22 dicembre 2017 alle 18.42

Il tempo stesso presente è azione incondizionata. “Questo Natale si è presentato come comanda Iddio”… La poesia dimostra con la sua esistenza la storia…” Co’ tutti i sentimenti si è presentato! “Il passato è esistenza viva da salvaguardare.
Il poeta combatte con il proprio metodo questo presente inesistente che si sfalda inesorabilmente. ”Fa freddo, fa freddo, il freddo non l’ho inventato io.”
L’aporia non l’ho inventata io, come l’inverno di Luca Cupiello, “fa freddo…”.
Lo deve fare, è il tempo suo.

“Il advient que notre coeur soit comme chassé de notre corps.
Et notre corps est comme mort.”

“Avviene che il nostro cuore sia come
cacciato dal corpo. E il corpo
è come morto.”
Due rive ci vogliono,

(René Char-Vittorio Sereni)

*i titoli di questa piccola silloge sono tratti dal testo Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo.

*

È incominciato il telegrafo senza fili

Evidentemente come gli occhi socchiusi
che piangono, che a mente
ricordano i sogni, la vita,
la tua, Francesco, un breve scroscio divenne.
Mista così ad una giornata
di sole, la pioggia, che riconoscesti
acerba, fugace.

*

Sei vecchia, ti sei fatta vecchia!

Artistica sei
come la Maraini,
la Wertmüller,
gli occhiali sulla fronte di Squitieri,
immodificabili;
tu però anche
ti porti in fronte
la voglia matta della vecchiaia,
il sigillo canuto, lo strazio,
il canto, la voce amara di un sorriso
pieno, un cuore aspro solo
umano, in comunicato
solenne, sincera
dimenticanza d’esistere. Continua a leggere

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Mariella Colonna TRE POESIE (inedite): Chissà se Goya, Quattro cavalieri, Democrito diceva – Una interessante versione della «Nuova poesia ontologica» – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto-ispirazione

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa: «La nuova poesia ontologica»

Nella poesia di Mariella Colonna si verifica lo spostamento del baricentro narrativo, dal tempo cronologico, (fondato sul presente, sull’«hic et nunc», assunto come unica realtà), al tempo simultaneo e compossibile. Si tratta di una scelta non da poco, per un duplice motivo. In primo luogo, per l’intrinseca labilità che sembra avere questa dimensione, testimoniata dalle immagini e dalle espressioni che usiamo tutti i giorni quando parliamo del presente, dicendo, usualmente che esso “passa”, “scorre”, “fugge” o, addirittura, “vola”. In secondo luogo,  per la difficoltà che il pensiero filosofico e scientifico in generale hanno di confrontarsi con l’esperienza fenomenologica immediata e con l’affermazione di «presenza» di una situazione, nonostante il fatto che essa sia di natura pubblica e appaia fondata su una condivisione di esperienza tra tutti i soggetti ‘presenti’ in comunicazione diretta.

Questa difficoltà è ben testimoniata dall’analisi della struttura nomologica della fisica, all’interno della quale la nozione di presente, se non intesa in senso pragmatico, è del tutto assente. Le leggi della fisica, infatti, non possono dipendere dal particolare istante di tempo in cui le consideriamo, né vale certo, come possibile confutazione di questo assunto, il riferimento alle condizioni iniziali, che, anche a voler prescindere dal fatto che, nell’ambito della cosmologia, non possono essere così chiaramente distinte dalle leggi di natura, dipendono solo dallo stato precedente del sistema fisico in esame, e non da uno specifico istante di tempo. L’omogeneità del tempo della fisica fa infatti sì che nessun istante possa essere privilegiato come unicamente esistente o distinto dagli altri.

La fisica non si interessa dell’accadimento di un determinato eventoné guarda le cose dal punto di vista temporale associato a un insieme particolare di eventi, secondo una prospettiva, cioè, che renderebbe del tutto naturale affermare che, in quel particolare tempo, solo quegli eventi esistono. Nell’ambito di essa viene invece assunta un’esistenza di tipo più generico, intesa nel senso di esistere a un qualche (e non in un determinato) istante di tempo, corrispondente dunque a considerare le cose sub specie aeternitatis. 

Non si tratta soltanto di una mera «variazione di significato» ma anche di un mutamento di paradigma e del concetto stesso di «reale», che diventa l’insieme o la somma di tutti i punti di vista possibili, cioè di tutti gli eventi che esistono indipendentemente da quando accadono. E questo è il concetto guida delle poesie di Mariella Colonna, come della «Nuova poesia ontologica», il cui concetto di «reale» presuppone la compresenza e la contemporaneità di eventi lontanissimi nel tempo e nello spazio.

L’io (moi) non è il soggetto (Je).

Il primo, appartiene a una dimensione immaginaria, il secondo coinvolge il piano simbolico e concerne ciò che Lacan chiama «soggetto dell’inconscio». E l’inconscio, dirà Lacan nei suoi Scritti, «è il discorso dell’Altro». La soggettività è una dimensione aperta, trascesa, ma ferita dall’intervento del significante. L’essere del soggetto non si esaurisce nell’Io (moi), perché quest’ultimo è un miraggio, il luogo di una dis-locazione e affonda le sue radici nella nientificazione. Esiste una sfasatura tra moi e Je e questa sfasatura è ciò che Lacan chiama soggetto dell’inconscio. Vediamo di cosa si tratta. L’inconscio è strutturato come un linguaggio ed il linguaggio parla. La struttura simbolica del linguaggio dell’inconscio non conosce la rigida partizione del tempo: passato, presente e futuro, né la rigida partizione dello spazio degli eventi, ma il tutto comunica con il tutto. Il discorso poetico di Mariella Colonna è strutturato come la dimensione inconscia del linguaggio dove il soggetto è un «assente» che parla in quanto abitato dalla dimensione linguistica del simbolico.

Ne L’interpretazione dei sogni Freud vede nel lavoro onirico, nella condensazione (Verdichtung) e nello spostamento (Verschiebung)

i meccanismi tipici, eminenti, di quel lavoro onirico che la censura dell’Io applica dando vita al sogno. Metonimia e metafora diventano la trascrizione in termini retorici di questi meccanismi. Per Freud il sogno, i sintomi, i lapsus, il motto di spirito, sono rivelatori di un qualcosa che accade all’insaputa del soggetto, che svelano la presenza nella vita del soggetto di pensieri e desideri di cui egli non ne sa nulla ma che insistono nella vita e nell’esperienza di tutti i giorni in termini inconsci. Freud può affermare che il sogno è la «via regia» per l’inconscio, in quanto ha potuto osservare come, attraverso le operazioni che chiama di condensazione e di spostamento, vi sia un al di là dell’io, una dimensione che si esprime attraverso un discorso che oltrepassa la volontà esplicita del soggetto che a sua insaputa continua a manifestarsi nella vita del soggetto.

La poesia di Mariella Colonna prende forma dalla assimilazione di questi due procedimenti all’interno della traslazione simbolica in un discorso poetico che è la dimora stabile dell’Altro dal soggetto, che parla per interposta persona come discorso dell’Altro.

Mariella Colonna in queste poesie fa un discorso dell’Altro, narra di eventi e personaggi lontanissimi come se fossero vicinissimi, letteralmente, vede i suoi personaggi muoversi come da un cannocchiale del tempo e dello spazio, come nella poesia «Quattro cavalieri», vero apice della poesia colonniana, dove i cavalieri sembrano sbucare dalla notte del tempo, al galoppo, tra «la polvere di stelle» mentre la reietta Raquida sta partorendo in solitudine… Nella poesia della Colonna il prosaico è sempre in diretta correlazione con il sublime, l’empireo; gli angeli sono sempre in correlazione diretta con i reietti, l’età dell’oro del tempo mitico con l’età del ferro dei nostri giorni opachi.

La poesia «Chissà se Goya» è una vera passeggiata lunare con le stampelle da equilibrista, ci porta nella Parigi dell’Ottocento attraverso le Folies Bergère in rue Richter, 32 dove c’era stato Toulouse Lautrec, per passare poi al CERN di Ginevra dove hanno scoperto «la particella di Dio», e poi attraverso rocambolesche peripezie si arriva ad un misterioso poeta che abita a Roma nel secolo presente. Il tutto è davvero ardito, c’è una compresenza di eventi e di personaggi che provengono da secoli e mondi diversi, ma, si sa, che nella «Nuova poesia ontologica» tutto è possibile, il tutto confluisce nel tutto e defluisce nel nulla. Si avverte la presenza del «vuoto» che aleggia un po’ dovunque. E questo è il segreto della poesia ontologica di Mariella Colonna, che non c’è più alcuna legislazione che valga per tutti gli aspetti del reale, ammesso che il reale sia quello che ci hanno raccontato e non sia altro.

Essere e linguaggio, insomma, obbediscono a leggi diverse:

si dà ordine del senso, a livello ontologico e proposizionale, solo nella misura in cui ne va dell’essere, e cioè nella misura in cui la sfera dell’essere resta incisa dal linguaggio, evirata, se così si può dire, della sua integrità e della sua mitica purezza. Nell’unità dell’essere, in questa unità ideale e pre-simbolica, il linguaggio appare così come discorso dell’Altro,  introduce il segno come traccia, iscrizione di un Altro, del «poeta invisibile» al quale viene indirizzata la poesia, o quel  Nikandros, figlio di Nessuno, o figlio prediletto dell’io narrante…. Ed è grazie al gioco di presenza-assenza che il significante dischiude sempre nuove possibilità fiabesche e narrazionali. Il discorso poetico diventa così il luogo in cui il soggetto si annulla. Nel discorso poetico il soggetto incontra la propria nientificazione, il proprio essere-per-la-morte, quella inaugurale sottrazione che scinde la presenza ripetitiva del «godimento» lacaniano, del piano della pienezza dell’eessere dalla rappresentazione di cui il significante, come luogo in cui il soggetto evanesce, è marca della disparizione.

Alienazione e separazione, metafora e metonimia, costituiscono così il binario duale della poesia colonniana.

Nella «dimensione fantasmatica» che abita una topografia fantasmatica vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto di fronte al mancare della «Cosa», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il «fantasma» è così al contempo, il limite del simbolico e un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa» come fondamento dell’essere del soggetto. Ciò che mi preme sottolineare è proprio l’aspetto scenico della poesia colonniana, la sua natura squisitamente letteraria dove  il soggetto si ritrova come osservatore e autore al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la narrazione della sua mancanza, del suo venir meno. Il fantasma è infatti, in ultima istanza, una entità frastica che rappresenta lacanianamente il limite del simbolico. A livello linguistico simbolico esso si presenta come una proposizione; a livello immaginario, è una scena e si presenta in modo ricorsivo, come il ritorno del «fantasma» nella poesia colonniana e, più in generale, nella «nuova poesia ontologica», attraverso la rappresentazione di personaggi simbolici in azione.

Si veda J. Lacan, La direzione della cura, in Scritti, cit. p. 633.

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Chissà se Goya

mi avrebbe accompagnato, a Paris, in rue Richter 32,
allo spettacolo delle Folies Bergères!
Ci andò, a fine Ottocento, Toulose Loutrec per vedere
gli illusionisti, l’incantatrice di serpenti Nala D.,
la danzatrice Loie (con dieresi), che si avvolgeva e svolgeva
nel ballo in lunghissimi veli.

(Ma ora non è più tempo di simili follie, ora gli scienziati
al CERN di Ginevra, hanno scoperto il Bosone,
la particella di Dio e che la materia è, per il 64% “oscura”,
invisibile e perciò non si conosce di che cosa sia fatta:
troveranno il modo di scoprirlo?)

So che sembra incredibile, ma io ero presente a Les Folies
quando Manet dipinse il vivacissimo BAR
con la deliziosa cameriera in nero e la bella
Mademoiselle Bois de Rose corteggiò, scoprendo la caviglia
e anche più su, un grande poeta critico assai hot, oggi più che allora,
ma non ebbe successo perché il cuore del poeta era già perso
dietro una fascinosa cantante vestita di nero
con una rosa rossa nei capelli.

Ah, le temps d’antan toujour present que j’adore!
Il profumo del peccato sfiorato, del fiore non colto
visto da lontano, le souvenir de la mémoire,
de l’inconnu e poi fuggire via, LibertèVeritéFraternitè,
libera come una rondine più di una rondine!
Ma adesso ci sono altri spettacoli, gli tsunami
della morte liquida, le aurore boreali ai tropici e poi
la “caduta delle nuvole” a Ravenna
fotografate da un passante
(non la caduta dalle nuvole, roba del passato!)

Il poeta che incontrai chez la Rome de France
e che incontro online nella Roma de Roma
è un genio della parola che, per la parola in versi, delira
e la connota in tutte le direzioni e in tutti i sensi,
significante – significato, destinatario – mittente
(e viceversa) la parola – immagine, la parola –
musica e quella ontologica e psicanalitica
(la mia) e attraverso queste molteplici funzioni
e pulsioni analizza vite poetiche,
universi dentro – fuori e multiversi, per non parlare
della Storia e della Filosofia che, grazie a lui,
si integrano disintegrano in presenza dell’analogia.
Questo critico, cultore estremo della parola
e dell’ombra della parola, quando scrive poesie ci fa sognare
con memorie, frammenti di realtà eventi di storia
e di vita vissuta. Poi si allontana, scompare.

Non vi arrendete: se vi considera veri amici
e veri poeti ritornerà…
ma prima, se la notte è serena, farà un salto sui tetti
del Moulin Rouge
per contemplare le stelle. Credo sia un grande romantico fuggito
dal secolo XIX.

Nella II metà di quel secolo
c’ero anch’io
a Parigi.
foto-teatro-dei-pupi

Quattro cavalieri

Quattro cavalieri di enorme statura
mantelli ricamati in oro e argento, armi scintillanti,
cavalli neri come la notte,
mi vennero incontro sollevando una nuvola di polvere stellare.

Alle mie spalle, il mare in tempesta, onde fino al cielo
e uno strano profeta che divorava un piccolo libro.
Ruggiva il mare leone inferocito,
sembrava volesse ingoiare la terra.

Io, Raquida, nascosta dalla nuvola di polvere stellare
dentro un bozzolo creato dal vento che mi vorticava intorno,
tormentata dalle doglie del parto imminente,
piegai le ginocchia sulla sabbia
e, aperte le braccia, cominciai a pregare.
A sud i travolti dall’acqua gemendo imploravano aiuto.
A nord, ineffabile musica astrale, il canto dei quattro cavalieri
di fronte al mulinello di vento che mi nascondeva.

Un mondo spaccato in tre. E io nel terrore di partorire sola,
senza mia madre e le sorelle in quell’inferno.
Il mio grido di dolore si levò più alto, fece tremare il cosmo
come un dardo lanciato da un guerriero,
raggiunse Allah. Egli sentì nel suo cuore la mia sofferenza,
ne soffrì come fosse la sua, provò pietà.

Si domandavano in molti quale prodigio
stesse trattenendo la mano di Allah sulla terra e in cielo.
Fu allora che la gente della spiaggia
si avvicinò al mulinello di vento:
mi videro assorta nella preghiera
E si misero in ginocchio sollevando le mani verso l’alto.
Vidi dei cavalieri soltanto gli occhi
che penetravano l’anima.

Mi alzai in piedi e dissi: “Sono Raquida, irakena”
devota ad Allah, ho perduto mio marito in mare…e adesso
mio figlio sta per nascere. In vita mia non ho mai visto
un mare così, sembra che voglia divorare la terra!”
“Raquida, questa è l’Apocalisse: e tu la vuoi fermare
con la preghiera?”. “Guardate laggiù” risposi.
Anche le onde immense si erano calmate,
sembrava che il mare dormisse.
“Il mondo non può finire adesso, proprio adesso
che devo dare alla luce mio figlio!
Allah il Misericordioso ascolterà la mia preghiera.”
“Sei sicura che sia Allah ad ascoltare la tua preghiera?”
“Puoi anche cambiare il suo nome: chiamalo Dio,
a Lui non importa d’essere chiamato con un nome o un altro.”
“Ragioni rettamente, Raquida. Nelle Sacre Scritture
Dio ha detto: «metto la mia legge nei vostri cuori»
In tutti i cuori. Perciò ogni atto di vera fede,
da qualunque religione venga, ottiene la sua misericordia. ”

La donna partorì un bimbo robusto e sano:
con le forze che le rimanevano lo affidò ad un’amica
che aveva tre figli e lo prese come uno dei suoi,
ma Raquida spirò mentre stringeva tra le braccia il figlio
ringraziando Dio per la sua vita
e un rivolo del suo sangue raggiunse il mare.
Uno dei cavalieri la prese in braccio, saltò
in sella al cavallo e i quattro con Raquida
volarono verso regioni più lontane del cielo,
lasciandosi alle spalle l’umanità smarrita.

Quanto vi ho narrato accadde moltissimi secoli fa.
Sembra che dopo la tempesta sia ritornata
in tutta la sua furia, ma senza le montagne d’acqua
che avrebbero sommerso il mondo.

Questa leggenda dice che il mondo si salvò
per la fede il coraggio e il sacrificio di una madre.
Possiamo anche pensare che non sia vero, ma allora,
credetemi, è tutta un’altra storia.

 

mariella-colonna-image

Mariella Colonna

Democrito diceva

che la preghiera muove gli atomi…
io dico che le tue parole fanno danzare le particelle.
Tu insegui il movimento degli astri dai il là alle parole
che adesso io scrivo.
Una musica molto originale: il tuo greco arcaico lineare B,
in alternanza con il mio barbarocretese geroglifico lineare A.
Se tu non scrivessi più si fermerebbe il movimento
dei miei pensieri legato a quello dei mari e degli oceani
e il fiume della nostra città
annullerebbe il tempo che ci lega alla Storia.

Le tue parole cadono nella loro ombra
sassi nell’acqua creano cerchi concentrici
che raggiungono le costellazioni.
Il cuore della notte che la tua mano incide sul bianco
della carta è luce.

Non penserai che, sdoppiandomi, io parli di me stessa?
Un po’ è vero, in parte io sono anche te, ma mia grande passione,
lo sai, è la magia evocativa: se tu me lo chiedi
e se ti domando “Tu chi sei?” un motivo c’è.
Quando sarò certa che tu sia tu, potrò chiederti:
“Dalle parole d’ombra… fammi sorgere il sole!”

Ora so che sei tu e aspetto paziente il sole
sulla spiaggia di un’isola nel Pacifico,
mentre il cielo rosarancio annunzia già l’aurora.
E mentre aspetto raccolgo per te sassolini colorati
conchiglie di madreperla e le altre piccole cose
che ti piacevano tanto da bambino.

Mi domandi come faccio a saperlo. Non ricordi?
In riva al mare noi giocavamo insieme
a chi trovava le pietruzze o le conchiglie più belle,
un po’come facciamo adesso con le parole.
Quando hai fatto nascere il sole da una nuvola
mi hai detto “Te lo regalo.” Da allora il sole è mio.

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Ubaldo De Robertis La poesia italiana dal dopoguerra ad oggi, per ragioni storico-culturali, ha sottovalutato e abbandonato la metafora – La metafora e l’immagine sono una zavorra per la poesia? Una poesia di Tadeusz Różewicz : La caduta, traduzione di Paolo Statuti

Caro Giorgio Linguaglossa,

 tu scrivi:

 “ La poesia italiana dal dopoguerra ad oggi, per ragioni storico-culturali, ha sottovalutato e abbandonato la metafora quale via privilegiata al discorso poetico, l’ha trattata come una sorella bruttina e stupida da non mostrare in pubblico nelle occasioni pubbliche. Il risultato è stato che, senza rendercene conto, abbiamo sposato l’idea assurda che facendo guerra alla metafora si potesse scrivere poesia moderna. Così, privando il discorso poetico della metafora, scrivere poesia è diventata una cosa di estrema facilità, era (ed è) sufficiente mettere in linea (come nella prosa) delle parole, magari lambiccate o prosasticamente attrezzate, per fare poesia. A mio avviso, era (ed è) una via errata che ha finito per portare la poesia italiana in un vicolo cieco.
Basti pensare ad una cosa estremamente evidente: quando sorge il bisogno di una metafora? (lo chiedo ai poeti e ai critici), ma è semplice: la metafora sorge quando ci si trova dinanzi ad una «assenza», quando non abbiamo parole per indicare una «cosa» che altrimenti non potremmo nominare: una «cosa» non esiste se non abbiamo la corrispettiva parola che la indica; e questo che cos’è se non una metafora? La parola (al suo sorgere) è naturalmente una metafora, che poi l’uso di milioni di persone durante decine o centinaia di anni svigorisce e appanna fino a farla diventare parola normale, cioè consunta, consumata, e quindi insignificante. Senza la metafora non potremmo nominare ciò che linguisticamente non appare, ovvero, ciò che è «assente». Se ne deduce che Parola e Metafora vanno di pari passo.”

So che la questione è complessa ma penso sia utile al dibattito che stai conducendo sulla poesia i seguenti passaggi che ho tratto dallo studio e dal pensiero di  Różewicz:

punto A)

Se il motto dell’Avanguardia è produrre poesia con “il minimo delle parole e massimo contenuto” facendo un ampio uso di metafore, Tadeus Różewicz ribalta questa strategia che risparmia le parole eliminando la metafora: il verso è libero, senza punteggiatura, si accostano elementi dissimili che offrono nuove possibilità interpretative. Al contrario “la metafora e l’immagine ritardano l’incontro fra il lettore e la materia essenziale del componimento poetico

Miłosz parla così del poeta della seconda generazione dell’avanguardia:«Non conosco nella poesia europea del nostro secolo nulla di più penetrante: il  suo respingere ritmo metro e metafora, indica una specie di orrore per la  grande “arte” come se fosse qualche cosa di amorale, un voler essere completamente nudo di fronte alla sofferenza umana. L’opera degli anni Ottanta si presenta sempre più spoglia di immagini e subisce un processo di sintesi e di diminuzione delle parole. La metafora scompare per lasciar spazio a frasi sempre più elementari.

La musica – il suono e l’immagine – la metafora, non sembrano più delle ali che trasmettono la poesia dal suo autore al destinatario, ma una zavorra di cui ci si deve liberare affinché la poesia si innalzi e che sia pronta non per un ulteriore volo, ma per un’ulteriore vita.

Różewicz si rende conto che questa strada potrebbe portare la poesia al suicidio, o al silenzio, eppure crede che sia necessario correre questo rischio. Nella sua poesia ci sono immagini e metafore ma c’è una continua aspirazione alla rinuncia della metafora-immagine.

Queste sono parole di Różewicz: “Seguendo le orme di Aristotele, i poeti e i critici affermano che la cosa più importante in poesia sia l’uso efficace delle metafore ed esso determina l’individualità e la genialità del poeta. Immaginiamo di aver eliminato l’immagine-metafora, cosa ci resta? La paura di avere tra le mani solo una manciata di parole – la prosa, l’opposto della poesia. Vorrei far notare che l’immagine resta lo scopo principale nella produzione dei poeti contemporanei. I poeti elaborano l’immagine ad uso del destinatario, attraverso l’immagine danno vita a una piccola rivelazione del mondo e dell’immaginazione. Sono come dei residui di rituali magici e di incantesimi. Sono gli sforzi della gente che crede nell’esistenza della poesia in abstracto.

Più la veste esteriore di una poesia è complessa, ornamentale e sorprendente, peggio è per il momento lirico che spesso non riesce a farsi strada fra i decori artificiosi aggiunti dai poeti. Sono lontano dall’imporre a chiunque questo genere di pensieri, eppure ritento in continuazione e attacco l’immagine da tutti i fronti, sperando di toglierla come elemento decorativo e superfluo. A mio parere la lirica moderna sarebbe il risultato dello scontro tra i fenomeni e i sentimenti, tra i sentimenti e le cose. L’immagine in tal caso sarebbe d’aiuto, ma non necessaria. L’immagine che viene ampliata eccessivamente dal poeta si nutre di un’immaginazione artificiale, inventata, distrugge il germe e il seme della poesia lirica. Infine danneggia sé stessa, togliendo l’immaginazione al dramma che si verifica all’interno della poesia . La poesia non si fa tramite il rimando di immagini, esse ne rappresentano lo strato più superficiale. Più la veste esteriore di una poesia è complessa, ornamentale e sorprendente, peggio è per il momento lirico che spesso non riesce a farsi strada fra i decori artificiosi aggiunti dai poeti.

In una certa fase risulta che tutta la nostra esperienza poetica e la capacità di costruire immagini non abbiano senso, benché esse esigano da noi una grande cultura, tanta laboriosità, originalità e altre caratteristiche tanto apprezzate dai critici. Ritengo dunque che il ruolo della metafora “come guida più eccellente e rapida” tra autore e destinatario sia molto problematico.

In pratica il poeta, con l’aiuto dell’immagine, è come se illustrasse il verso, egli illustra la poesia. Intanto ciò che accade nel mondo dei sentimenti non vuole più mostrarsi attraverso le metafore più belle e riuscite, ma vuole apparire da sé. Vuole mostrarsi all’improvviso e nella sua univocità, vuole darsi al lettore.

La metafora e l’immagine non accelerano, bensì ritardano l’incontro tra il lettore e la materia vera e propria dell’opera poetica. A mio parere quell’opera dovrebbe correre dal suo autore al destinatario liberamente, non dovrebbe trattenersi alle belle e affascinanti (dal punto di vista estetico) fermate stilistiche. Questa è la differenza fondamentale tra i miei saggi, la mia pratica poetica e tra ciò che i poeti dell’Avanguardia hanno fatto nella poesia polacca.”

Tadeusz Różewicz

La caduta ovvero elementi verticali e orizzontali nella vita dell’uomo contemporaneo

Tanto
tanto tempo fa
c’era un solido fondo
che l’uomo poteva
toccare

l’uomo che vi giaceva
grazie alla sua sconsideratezza
o grazie all’aiuto del prossimo
era guardato con spavento
interesse
odio
gioia
era additato
ma egli a volte
si alzava
si risollevava
macchiato e grondante
.
Era un solido fondo
si potrebbe dire
un fondo borghese

un fondo era per le signore
e un altro per i signori
in quei tempi c’erano
ad esempio donne corrotte
screditate
c’erano bancarottieri
un genere oggi quasi
sconosciuto
il suo fondo aveva il politico
il prete il commerciante l’ufficiale
il cassiere e l’erudito
un tempo c’era anche un altro fondo
oggi esiste ancora un vago
ricordo
ma il fondo non c’è più
e nessuno può
toccare il fondo
o restare in fondo

Il fondo che rammentano
i nostri genitori
era una cosa costante
sul fondo
tuttavia
si era
specificati
l’uomo perduto
l’uomo smarrito
l’uomo che
si risolleva
dal fondo

dal fondo si potevano anche
tendere le braccia chiamare “dal profondo”
adesso questi gesti non hanno
alcun senso
nel mondo contemporaneo
il fondo è stato rimosso

l’incessante caduta
non favorisce atteggiamenti
pittoreschi posizioni
salde

La Chute la Caduta
è ancora possibile
solo in letteratura
nel sogno nella febbre
ricordate il racconto

sull’onestuomo
non corse in aiuto
sull’uomo che praticava la “dissolutezza”
mentiva era schiaffeggiato
per questa fede

il grande defunto forse l’ultimo
moralista francese contemporaneo
ricevette nel 1957
il premio

com’erano innocenti le cadute

ricordate
le antiche
Confessiones
del vescovo di Hippo Regius

C’era un pero nelle vicinanze della nostra vigna,
che non allettava né per l’aspetto, né per il sapore.
Noi giovani ignobili dopo aver tirato in lungo i
nostri scherzi per le strade, secondo un’infame
abitudine, ci recammo là, nel cuore della notte,
per scuotere la pianta e raccogliere le pere.
Ne cogliemmo una quantità enorme, ma non per
farne una scorpacciata, ma per gettarle ai porci.
Anche se ne assaggiammo qualcuna, fu solo per
il gusto della cosa proibita. Ecco il mio cuore, Dio,
ecco il mio cuore di cui hai avuto pietà, quando
esso si è trovato in fondo all’abisso…

“in fondo all’abisso”

peccatori e penitenti
santi martiri della letteratura
agnelli miei
siete come bimbi al petto
che entreranno nel Regno
(peccato che esso non ci sia)

– Lei, padre, crede in Dio? – gridò di nuovo Stavroghin
– Credo.
– È stato detto che la fede sposta le montagne. Se uno
crede e ordina alla montagna di spostarsi, quella si
sposterà…mi scusi l’indiscrezione, ma m’interessa
sapere se lei, padre, farà spostare la montagna
.
simili domande faceva il “mostro” Stavroghin
e ricordate il suo sogno
il quadro di Claude Lorraine
alla Galleria di Dresda
“qui vissero uomini bellissimi”
Camus
La Chute la Caduta
Ah, mio caro, per l’uomo che è solo, senza
dio e senza padrone, il peso dei giorni è terribile

quel lottatore dal cuore di bambino
immaginava
che i canali concentrici di Amsterdam
fossero un girone dell’inferno
dell’inferno borghese
naturalmente
“qui siamo nell’ultimo girone”
diceva a un compagno occasionale
nel bar
l’ultimo moralista
della letteratura francese
prese dall’infanzia
la fede nel Fondo
Doveva credere profondamente nell’uomo
Doveva amare profondamente Dostojevskij
doveva soffrire perché
non c’è l’inferno il cielo
l’Agnello
la menzogna
gli sembrava di aver scoperto il fondo
di giacere sul fondo
di essere caduto

Invece

il fondo non c’era più
lo capì senza volerlo
una signorina di Parigi
e scrisse un componimento
sul coito buongiorno tristezza
sulla morte buongiorno tristezza
e i lettori riconoscenti
da entrambi i lati
di quella chiamata allora
cortina di ferro
lo compravano
a peso d’oro
quella signorina signora
quella signorina quella signora
ha capito che il Fondo non c’è
che non ci sono i gironi dell’inferno
che non c’è il risollevamento
e non c’è la Caduta
tutto si svolge
nel noto
limitato spazio
tra
Regio genus anterio
regio pubice
e regio oralis

e ciò che un tempo era
il vestibolo dell’inferno
fu trasformato
da una letterata di moda
in vestibulum
vaginae

Chiedete ai genitori
forse ricordano ancora
l’aspetto del vecchio Fondo
il fondo della miseria
il fondo della vita
il fondo morale

la “Dolce vita”
o Cristina Keller
viveva nel fondo
il rapporto di lord Denning
afferma
tutto il contrario
Il Mons pubis
da questa vetta
si stendono vasti
crescenti orizzonti
dove sono vette
dov’è l’abisso
dov’è il fondo

a volte ho l’impressione
che il fondo dei contemporanei
si trovi poco sotto la superficie
della vita
ma forse è un’ulteriore illusione
forse esiste ai “nostri giorni”
la necessità di costruire
un nuovo
Fondo adatto
alle nostre necessità

Mondo Cane
perché questo quadro mi fece
una grande impressione che cresce ancora
che cresce sempre
Mondo Cane ein Faustschlag ins Gesicht
Mondo Cane film senza stelle
Mondo Cane
dove si mangia si balla si uccidono gli animali
“si fa l’amore” si balla si prega si muore
colorito reportàge
sull’agonia
sull’agonia dei vecchi
sulla cucina cinese
sull’agonia di uno squalo
sui condimenti
sull’uccisione delle vecchie
automobili
ricordo lo schiacciamento delle forme
lo schiacciamento del metallo
il frastuono e lo stridore
l’annientamento delle carrozzerie
le viscere metalliche dell’automobile
il cimitero delle automobili
un altro modo di dipingere
i quadri a ritmo di musica celeste
a Parigi l’impronta del corpo su tele bianche
il velo di santa Veronica
i volti dell’arte
le bocche dei milionari e delle loro donne
la frittura di formiche insetti e larve
neri mucchietti in scodelle d’argento
le labbra di chi mangia
labbra rosse in Mondo Cane
grandi lucide labbra rosse
si muovono in Mondo Cane

Poi è iniziata la discussione
sul capitolo III dello schema relativo alla Chiesa
al popolo di Dio e al laicato

Il cardinal Ruffini
ha spiegato
che il concetto di Popolo di Dio
è assai impreciso
poiché il III capitolo
non ha ottenuto la maggioranza qualificata
dei voti è stato rinviato
alla Commissione Liturgica
per essere riesaminato

C’era un pero nelle vicinanze della nostra vigna, che non
allettava né per l’aspetto, né per il sapore…confessò Agostino

avete notato che
gli interni delle moderne case di Dio
rammentano
la sala d’aspetto di una stazione
ferroviaria di un aeroporto

Cadendo non possiamo
assumere la forma
di una posizione ieratica
le insegne del potere cadono di mano

cadendo coltiviamo i nostri giardini
cadendo alleviamo i figli
cadendo leggiamo i classici
cadendo eliminiamo gli aggettivi

la parola cade non è
la parola adatta
non chiarisce il movimento
del corpo e dell’anima
in cui scorre l’uomo contemporaneo

le persone ribelli
gli angeli dannati
cadevano all’ingiù
l’uomo contemporaneo
cade in tutte le direzioni
contemporaneamente
in giù in alto di lato
a forma di rosa dei venti

un tempo si cadeva
e ci si rialzava
verticalmente
adesso si cade
orizzontalmente

(1963 in Volto terzo, 1968)

Ubaldo De Robertis leggeUbaldo de Robertis ha origini marchigiane e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica: Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: G. Linguaglossa, F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie, tra cui l’Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016 a cura di Giorgio Linguaglossa.

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Steven Grieco-Rathgeb POESIE SCELTE da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016 pp. 90 € 10) – un universo supersimmetrico e superdistopico – La poesia come traduzione problematologica – Lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico – Il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito – con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive Steven Grieco-Rathgeb:

«Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto,  anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.
E’ da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.

In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.

L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.

Visto tutto ciò, è opportuno oggi che, in ambito poetico, il senso del dire arrivi al fruitore in modo graduale, “ritardato”, di modo che questi non abbia la possibilità di “consumarlo”. Non parlo di una tecnica artificiale. Un esempio: un mattino di marzo, con il cielo coperto, e noi assorti nei nostri pensieri, attraversando la città in tram scorgiamo inaspettatamente un albero fiorito in un giardinetto trascurato e polveroso. Di fronte ad una esperienza percettiva come questa, di un certo impatto, il processo di interiorizzazione non sarà uniforme: a causa dell’elemento di sorpresa, di gioia, di stupore che l’albero fiorito ha provocato in noi, la sua immagine sarà ripetuta mentalmente (la cosiddetta after-image, scia d’immagine) anche infinite volte nello spazio di qualche secondo. Di tanto è capace l’onnipotenza del pensiero, simile all’universo studiato dagli astrofisici (e ugualmente inafferrabile). Ma il fatto che tale esperienza percettiva non sia liscia e uniforme, apparirà più chiaro alla fine del processo di interiorizzazione, una volta cioè finito il sentimento di sorpresa e l’emozione concomitante, e ancora più chiaro sarà quando tale esperienza vorremo esteriorizzarla in forma descrittiva, narrativa, orale. In un primo tempo il nostro dire uscirà frammentato, interrotto e ripreso, mentre cerchiamo il modo migliore di fare giustizia all’esperienza. E’ solo in seguito che l’esperienza prenderà ad assestarsi nella nostra coscienza, depositandosi e lasciando lo spazio a nuove esperienze percettive, nuovi pensieri, etc. Anche qui sta il fulcro misterioso della visione poetica, che ritroviamo non solo nella poesia in quanto tale, ma in tutti i campi dell’attività artistica.

Un esempio di cosa intendo può essere costituito da certe sequenze “silenziose” del cinema d’arte. Sequenze quasi del tutto prive di sonorità, senza musica, solo forse qualche fruscio dei vestiti o stormire di alberi. Eppure esse possono letteralmente urlare, creare frastuono in noi. Ecco, questo tipo di silenzio può essere anche della poesia contemporanea – o meglio, anche la poesia può interiorizzare la propria dimensione sonora (il suo rumore), e ritrovare la gradualità, la musicalità che così spesso in poesia è precisamente silenzio. Assenza di parole.

…Schwestermund,
du sprichst ein Wort, das fortlebt vor den Fenstern,
und lautlos klettert, was ich träumt, an mir empor.

Il testo kashmiri del IX secolo, Dhvanyaloka, del filosofo Anandavardhana (commentato due secoli più tardi da un altro grande filosofo, Abhinavagupta), studia l’essenza del messaggio poetico. Semplificando assai: la poesia, secondo Anandavardhana, contiene in genere un senso letterale e uno figurato. Il senso letterale ci raggiunge con una certa velocità, mentre quello figurato si stacca dal senso letterale e ci arriva “in ritardo”, ovvero dopo un lasso di tempo maggiore: è questo scarto temporale che crea la suggestione, il senso, il sapore estetico».

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio.

Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.  

La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

Noi abitiamo la domanda come una frase interrogativa, ma questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica, ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Ma in poesia le cose non sono mai così semplici e diritte; in poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in reciproca amicizia-inimicizia.

Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta becera perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare». La poesia di Grieco-Rathgeb abita  un non-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o  commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

Leafing through the pages

I was leafing through the pages, looking
for the word φαινόμενον.

“Our world is fully discovered,” you said.
“We’ve mapped the continents and seas,
classified plants and creatures.”

Your words spread out like a full-blown flower.

“Its mysteries,” you said, ”largely explained,
the future foreseeable and ours by pre-emption.”

This didn’t seem quite right:
but still your argument held its own
and climbed before our eyes,
turning on a sky-blue axis,
so round and well-fashioned we forgot
its nothingness, how it echoes down the aeons
growing stronger, clearer, till it’s One
with the dreamlike deep vibration of existence.

“And for all our achievements, look at us,” you said:
“unknown to our own selves,
outraging what’s left of this world.”

This world, I thought, or just a reflection?
I myself couldn’t tell.

Overwhelmed, we watched it turn silently,
its rugged contours etched
with ever finer, more rending strokes;
offering us the same answers we seek;
feeding with our gaze
its dream.

Florence, 1988

Sfogliavo le pagine

Sfogliavo le pagine, cercando
la parola φαινόμενον.

Tu dicesti: «il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuti i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.»

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

«I suoi misteri – dicesti– ormai quasi spiegati,
il nostro futuro prevedibile e già oggi ipotecato.»

Su questo avrei avuto da ridire:
ma il tuo pensiero resse,
e noi lo vedemmo librarsi nell’aria,
tondeggiando azzurro,
così ben foggiato da farci dimenticare
il suo nulla, come un’eco nei millenni,
sempre più forte, più chiaro, fino a diventare
suono, sonorità inconscia dell’Essere.

«E noi – dicesti – con tutte le nostre conquiste,
sconosciuti a noi stessi;
violando quel che resta di questo mondo.»

Questo mondo, riflettevo, o soltanto
un’immagine? Ero incerto anch’io.

Vinti dalla sua presenza, lo vedemmo ruotare
in silenzio, i suoi rilievi manifestarsi
con crescente, lacerata precisione:
inviarci i segnali da noi stessi desiderati;
alimentando con il nostro sguardo
il suo sognare.

Firenze, 1988

*

Koronisia, 1990

Lights out, the house
– dark

Down the passage to the room,
and in the encircling unfathomable foreignness

a shimmering vegetation—

trill of crickets from the dark-enshrouded olives
—noiseless spider, mantis, gecko

(vermin slithering through the underbrush)

“Don’t touch!“ – a whisper speaks
that same darkness: “now events
shed no light:
but the ever-itself, in thousands,
shapes around the stone-hard
still core, leaping like fish
from wave to wave— ”

Till presence is this dark body, woven
in thoughts: the eyes dark, the heart
woven in its own embrace

inside the wider encircling Gulf
now audible,
washing ashore

where thought, dark swimmer,
swims out
breathing unutterable darkness

Supersymmetries

Koronisia, 1990

Spente le luci, la casa
– oscura

giù per il corridoio verso la stanza,
e in questo cerchio insondabile, straniato

una rilucente vegetazione–

stridio di grilli dagli olivi avvolti nel buio
– silenziosi ragno, mantide, geco

(strisciano immondi sotto i cespugli)

“Non toccare!” – sussurra la
stessa oscurità: “adesso gli eventi
non illuminano:
ma il sempre-se-stesso, a migliaia,
si forma intorno all’impietrito
fisso centro, balza come un pesce
di onda in onda” –

finché la presenza è questo corpo oscuro
che il pensiero intesse: gli occhi scuri, il cuore
intessuto nel proprio abbraccio

nel grande cerchio del Golfo
ecco, si percepisce
lo sciacquio a riva

dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità

Supersimmetrie

Amnesia

Now that you’re up, ashlit moon,
invisibly clear in the early night—
in this silence, like the mind’s quiet,
I wonder how your bright crescent
speaks the dark fullness: the darkness coming
of your round brilliance.

Your speed up there so high
I instantly reach you.
For the deepest transparency,
without glass, across distances,
is only thin air

and the horizon of this world, away.

You speak, ancient poet,
not as a voice within a voice,
but as one divided
in your undivided sound.

May I tonight
forgetting the distance

speak the dark round of your fullness

Supersymmetries, 1995

Amnesia

Ora che sei sorta, luna-cenere,
quasi invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.

Tu lassù così veloce
che ti raggiungo in un istante.
Perché la trasparenza più profonda,
senza vetri, di là dalle distanze,
è solo quest’aria sottile

e l’orizzonte di questo mondo, avulso.

Tu parli, antico poeta,
non come voce nella voce,
ma come uno diviso
nel tuo suono indiviso.

Possa io stanotte
dimenticando la distanza

dire l’oscura sfera della tua pienezza

Supersimmetrie, 1995

*

Rome, Bombay

Via degli Astalli, 1968

Through the deep nights
a fountain in the courtyard dripped
endless water. Fragrance
came over the rooftops, the city
rose in a glimmer to the brim of our being.

Now in my mind’s eye I open the door
and peer down the dimly lighted hallway:
those who came have just left –
I hear the elevator groaning its way
down the shaft

but a suppressed excitement
warps the row of expressionless windows.

I can never remember:
who was standing behind the door,
a glass of dark water in his hand?

Altmount Rd., 1997

I’m walking up Altmount Road, to reach the top:
the way familiar, peopled with memories
and homes I no longer recognize
in this crowd of alien windows.

Of those I knew some have moved away,
some become estranged.
Others stayed on in their vast apartments,
old friends I’ve come to meet again, brooding
now the sun has rounded the corner.

Down in the garden
children still play on the sparkling lawn
under the pipal tree that has lost its leaves.

And the older siblings,
as good as grown up,
bursting in the front door
with excitement, and… news!

But the afternoon late, the sunset
so deep and self-sufficient,
this life is a full glass
set before us who’ve no thirst to quench.

Soon I’ll reach the top, look out over the city,
I’ll glimpse the Arabian Sea

After dusk, past the balcony’s black void
I sensed that sighing body
spread remotely around the night,
how it encircled our clutch of drinks
and anxious lights

myself mirror-less – and all my profusion of tongues,
the trouble to grasp and express
simply a guide around the well-turned phrase

till words, pointing to their opposite,
left me groping in blindness.

Night follows on dusk, dawn on night:
though closely shadowed, our world is too sudden –
it flows in a manner akin to narration.

Down there, beyond the sprawling city,
ships’ horns are hooting –
crows croak from all the trees
in the smoky air before daylight.

There is no silence anywhere.
Only at the centre of the heart.

Roma, Bombay

Via degli Astalli, 1968

Nelle notti profonde
dalla fontana giù in cortile gocciava
acqua senza tregua. Un profumo
giungeva da sopra i tetti, le luci della città
riempivano fino all’orlo le nostre vite.

Adesso immagino di aprire la porta,
scruto il corridoio in fioca luce:
loro sono venuti e subito andati via –
sento la gabbia dell’ascensore
scendere a terra ansimando

ma una eccitazione soffocata
storce la fila impassibile di finestre.

non riesco mai a ricordare:
chi stava in piedi dietro la porta,
un bicchiere di acqua scura nella mano?

Altmount Rd., 1997

Risalgo Altmount Road, per raggiungere la cima:
la via familiare, popolata di memorie e case
familiari, ormai introvabili
in questa folla di finestre ignote.

Di coloro che conobbi chi è andato via,
chi è diventato estraneo.
Altri sono rimasti nei loro grandi appartamenti,
vecchi amici incupiti che io visito
ora che il sole ha girato l’angolo.

Giù in giardino
i bambini ancora giocano sul prato luccicante
sotto il peepal che ha perso le foglie.

E i figli grandi,
ormai quasi adulti,
irrompono dalla porta d’ingresso
pieni d’entusiasmo… e quante notizie!

Ma la sera inoltrata, il tramonto
così profondo e pago di sé
questa vita è un bicchiere pieno
che non abbiamo più sete di vuotare.

Presto raggiungerò la vetta, guarderò la città dall’alto
rivedrò il Mar Arabico

Dopo l’imbrunire, oltre il vuoto nero del terrazzo
ho sentito sospirare quel corpo lontano,
inanellato intorno alla notte,
come stringeva d’assedio i nostri aperitivi
e le nostre luci inquiete –

Io, irriflesso – e tutta la ricchezza delle mie lingue,
la difficoltà di cogliere ed esprimere
solo una guida per sfuggire alla frase tornita

finché le parole indicandomi il loro contrario
mi lasciarono a tentoni come un cieco.

La notte viene dopo l’imbrunire, l’alba dopo la notte:
il mondo lo spio come un’ombra: ma lui è troppo veloce,
scorre libero come un racconto dei tempi antichi.

Da laggiù, oltre la città sconfinata,
arriva il fischio delle navi –
i corvi gracchiano da tutti gli alberi
nell’aria fumosa prima della luce.

In nessun luogo c’è silenzio.
Solo al centro del cuore.

*

Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo

Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.

What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…

And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!

Supersymmetries – Florence, 1999

*

Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo

il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.

Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …

E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!

Supersimmetrie Firenze, 1999

The painter’s portrait

Before setting to his work,
the painter of this image should remember:
Who is he portraying? and reflect
how the narrow corridor through our world of chance
lies strewn with breakable misery
and fear of violent mishap
and sudden bottomless manholes:

for, clearly, the likeness of a distinguished forebear
or even the vision of all humankind
unlocking in one single flower,
are not what lies in his heart of hearts:

but considering that he may no longer
be shielded from thought of accident,
know the only way to be the way forward,
the whole face he dare not envision.

Then he will do his work in the best of ways,
and accomplish what he had always striven for,
knowing this to move strangely
between waking dream and recognition

and play down the importance of individual traits,
putting them surprisingly
where they are – much as meaning
rises out of words that sleep:
the city at night
resembling itself, intently
outside the window, enveloped in darkness.

So that his image may finally be expressed.

Then the painter will not only render
cheekbones and shading,
not only conjure light in the eyes.

His portrait will be memory itself.

2003

Il ritratto del pittore

Prima di mettersi al lavoro
il pittore di questa immagine ricordi:
Chi vuole rappresentare? e rifletta come
l’angusto corridoio attraverso questo mondo dell’alea
è cosparso di umana disperazione
e del timore di violenti sinistri
e di improvvise botole senza ritorno:

perché la somiglianza di un illustre predecessore,
o anche la visione di tutto il genere umano
schiusa in un unico fiore,
non sono certo quello che lui ha nell’animo:

invece, sapendo di non avere più riparo
dal pensiero di sciagure,
capisce che l’unica via è la via che va avanti,
il volto intero che non osa immaginare.

Allora svolgerà il suo lavoro nel migliore dei modi,
realizzando ciò che da sempre si era prefisso,
e che lui ben sa muoversi strano
fra sogno ad occhi aperti e riconoscimento

e senza dare troppa importanza alle fattezze del viso,
le porrà dove già si trovano:
così come il senso scaturisce
dalle parole che dormono:
città di notte
assorto specchio di sé,
fuor di finestra, avvolta nel buio.

Affinché la sua immagine possa compiersi.

Allora il pittore non avrà solo reso
zigomi e ombreggiature,
non solo evocato la luce negli occhi.

Il suo ritratto sarà la memoria stessa.

2003

*

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was changed into air!

into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid

Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on

My heaven has split from top to bottom

And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

till I thought this life will last forever

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscillo

Il mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni

finché pensai che questa vita durerà in eterno

*

Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream

You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained

– always so decisive – and every blacknight moth alive

every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld

astronomer beyond thin partitions wondering,

every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –

expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment

– tangible, visible splinters to unseen frontiers

and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and

came hurtling like cries!

Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper

with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers

yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet

Via Merulana, 11 February 2013

Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno

Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta

– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena

ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo

astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena

un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso

discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:

tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere

ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano

lanciate come grida!

Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi

inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –

eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco

Via Merulana, 11 febbraio 2012

Beyond, beyond

When the first man sailed past these waters, all humankind sensed the great shadow hovering over lofty marble columns.
This is how we still understand it now – through our modern sense of light and image: transparently blue, seawater lapping against a wooden prow. A dream. A bobbing cosmos.
However late we reached here, our Present contains all time. Only in this moment can we relive the exactness of that ancient moment.
And Ulysses, spoke to all: “here is the wild maze of reality: the colourful markets, the goods, the different peoples thronging the stalls. Here the poet inhabits his prophecy, mathematics glimpses its eternity.
“Don’t believe them, they never sailed past these waters: fearless adventurers, they journeyed physically into the illusory, went further, further, dizzily on into the distance that shadowed their every move. Only to find new markets, new opportunities, new planets. Our undying world.
“All external, empirically observed phenomena became the miracle of the observing, ever-changing mind. This air so thin, a tree can no longer vanish into its greater self.”
And Ulysses asks: “What Blakeian madness is this? In such imperfection, how will life find its upside down? Its inside out?”

Supersymmetries, 2004

Più avanti, più avanti

Quando il primo uomo navigò oltre queste acque, l’umanità intera vide la grande ombra sulle maestose colonne marmoree.
A tutt’oggi è così che concepiamo, grazie al nostro moderno senso di luce e immagine: azzurro limpido, l’acqua del mare che lambisce una prua di legno. Un sogno. Un cosmo galleggiante.
Quale il ritardo con cui siamo giunti qui, il nostro Presente contiene tutto il tempo. Solo in questo momento possiamo rivivere l’esattezza di quell’antico momento.
E Ulisse parlò a tutti: “ecco il folle dedalo della realtà: i mercati pittoreschi, le merci, i diversi popoli che affollano i banchi. Qui il poeta abita la sua profezia, la matematica intravede l’eternità.
Non credete loro, non navigarono oltre queste acque: intrepidi e avventurosi, si spinsero fisicamente nell’illusione, sempre più avanti, vertiginosi, nella distanza che ne spiava ogni mossa come un’ombra. Solo per trovare nuovi mercati, nuove opportunità, nuovi pianeti: il nostro mondo senza fine.
Ogni fenomeno esterno, empiricamente osservato, diventò il miracolo della mente che osserva e si trasforma. Tanto rarefatta è ormai quest’aria, che in essa un albero non sa più trascendere se stesso.”
E Ulisse chiede: “Che follia degna di Blake è mai questa? In tanta imperfezione, come troverà la vita il suo capovolto? Il suo rovescio?”

Supersimmetrie, 2004

1. Istanbul, 1966
remembering Eustacia Hernandez

The secret otherworld paths of youth,
the deeply inspired expectation of nothing
have narrowed to just this,
a slit on nowhere:
but still the living canvas endures
of brilliant thoughts,
myself sailing the Bosphorus,
my beautiful girlfriend beside me;
and with most of the landscape gone
to suggest the unreal joy
I had once so eagerly embraced,
that entire otherworld reflects, moves
over fragments of a mirror
that never was
but so strongly seemed.

May this understanding not slip from itself.
Creation’s innocence
is its immortality.

1. Istanbul, 1966
ricordo di Eustacia Hernandez

I segreti, d’altrimondi sentieri della giovinezza,
l’attesa ispirata di nessuna cosa,
sono rimpiccioliti fino a diventar questo,
una feritoia su nessun luogo:
ma ancora regge la viva tela
dei pensieri sfavillanti,
io in nave sul Bosforo,
la mia bellissima ragazza accanto;
e con quasi tutto il paesaggio scomparso
suggestione della gioia irreale
che con tanto slancio allora abbracciai,
quell’altromondo riflette, scivola
sopra i pezzi di uno specchio
che non fu mai
ma fortemente sembrò essere.

Non si divincoli questa comprensione da se stessa.
Nell’innocenza della creazione
sta la sua immortalità.

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

24 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea

GIORGIO LINGUAGLOSSA DUE POESIE –  IL RINNOVAMENTO POETICO “Cogito è in viaggio su un treno blindato”, “Giocavano a dadi con i meteci”, con un Commento di Mario M. Gabriele a proposito della rifondazione della “forma-poesia”

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

Il Signor Cogito alla guida della Lada di proprietà

.

due poesie di Giorgio Linguaglossa a cura di Mario M. Gabriele

Se è vero che la filosofia secondo Hegel è:“Il proprio tempo compreso con il concetto”, dal quale poi si forma una connessione di elementi che rientrano nella cosiddetta “Fenomenologia” dove si chiarisce il percorso che ogni individuo deve realizzare, partendo dalla sua coscienza; allora tale definizione può anche essere trasferita, pur con le dovute variazioni, alla poesia, al di là di tutte le interpretazioni che sono state elaborate nel corso della Storia. Barthes, ne “ Il piacere del testo”, perviene ad un progetto di ricerca seguendo le sedimentazioni temporali della scrittura che si allarga ad ogni sapere fino a incontrare il lettore, autentico interprete di ogni opera.

Un interrogativo però si pone ed è questo: è il lettore in grado di interpretare il “Profilo Sommerso” legato alle figure retoriche, che costituiscono la “Maschera” con cui si cela l’altro di sé del poeta, il quale agisce su “Espressione” e “Contenuti”, raggiungendo la Forma estetica del verso fasciato di “Allegoria” e “Allusione”,”Metafora”e Metonomia” ecc.? In questa indagine Barthes coinvolge anche la “Simbolica”  attraverso la quale agisce la scrittura polisemantica. Un altro interprete della poesia è stato Saussure il cui nome è legato allo Strutturalimo, contribuendo con le sue ricerche  a fissare i punti di orientamento della Linguistica, come Scienza, attraverso alcune nozioni tra le quali si annoverano la “Sincronia” e la “Diacronia”, la“Struttura”, e la “Commutazione” che, una volta assemblate, includono la lingua  in  un “sistema in cui tutti i termini  sono solidali tra loro e il valore dell’uno risulta soltanto dalla presenza simultanea degli altri”. L’immagine di una poesia immutabile nel tempo diventa mero astrattismo perché la “Critica del gusto”, verso modelli legati  alla fitta rete-semantica, si è sempre indirizzata verso nuove catalogazioni.  Da molto tempo però  l’industria editoriale ha chiuse le porte a molti Autori di ottimo profilo poetico, immettendo nel mercato prodotti secondari,  camuffandoli come  innovazione, tanto è vero che la critica ha rinunciato al suo ruolo di analisi e di valutazione, creando un vuoto culturale fra letteratura e società.

”Osservando il panorama editoriale contemporaneo ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in Case Editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. Ne deriva una situazione di profondo sconcerto che coincide con l’eclisse della critica della poesia.” (Alfonso Berardinelli).

Con questo scempio editoriale la poesia di frontiera è rimasta ai margini di se stessa e della invisibilità. L’impegno e il rinnovamento non sono stati abbastanza sufficienti a determinare il rovesciamento dei gusti e delle proporzioni poetiche. E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato i poeti di diverse generazioni.

Cosa si può fare allora per contrastare  la letteratura del consenso e dello spettacolo? Rimanere onesti con se stessi, a costo di morire nelle catacombe e accettare il motto delle Giubbe Rosse: marciare per non morire. La tradizione e la ricerca devono avere una funzione interagente nel procedimento linguistico, ciò che non si trova  nell’area avanguardistica ricca di segni iconici provenienti dall’informatica e dall’area multimediale. In quest’ambito il vero coup d’aile avviene con il disordine linguistico dei vari Baino, Viviani, Voce, Ottonieri, Bilotta ecc. che invece di formare una valida alternativa alla lingua, si sono smarriti in un universo senza luce e sbocchi. Per fondare nuove alternative, l’uomo deve riscoprire la dimensione del linguaggio. E’ l’unica risposta che si possa dare al necrologio di Baldacci, che ne “Il male nell’ordine: Scritti leopardiani,” Milano, 1988, ha affermato:” l’Avanguardia non è più proponibile”, confessando nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta ed altri medicamenti  (Torino Einaudi, 1989), “che le parole nella poesia sono state tutte adoperate”. Su questo tema si è espresso anche Sanguineti,  in una intervista di Pietro M. Trivelli, su La Repubblica del 16 luglio 2003, pag.19, quando afferma  che:” non ci sono fronti culturali che si contendano una spinta al cambiamento. Non esistono “Gruppi” di poeti. Tuttavia come negli anni 50 c’era più impulso di ricerca tra pittori, musicisti, registi, rispetto alla letteratura, anche oggi è più viva l’inquietudine nelle arti figurative ma prevale il mercato sul dibattito culturale”.

Onto Gabriele

[Mario Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Su un altro versante ha operato Arnold Schönberg sostenendo che dopo la dodecafonia non è più possibile inventare nuovi moduli compositivi se non reinterpretando la musica. Quando “l’oltre” non è più praticabile nelle arti, l’impoverimento espressivo diventa un deserto morfologico, senza il riscatto formale del significante. Hand Freyer in “Società e cultura” rileva che se un autore vuole sopravvivere all’afasia deve necessariamente “attingere a tutte le fonti, raccogliere parole ed espressioni in tutti i vicoli, ma anche nelle miniere più antiche, purché abbia il coraggio di penetrare nelle gallerie in rovina”. Si tratta della medesima concezione di Eliot sulla poesia, vista come una  unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte: ossia la voce dei morti in quella dei vivi. Contro l’omologazione della poesia koinè, è necessario contrapporre il dissenso e l’antagonismo, cercando di agire con la qualità e la ricerca, senza fossilizzarsi in forme e contenuti  di dubbia consistenza, cambiando un poco le regole del gioco  e i luoghi culturali, fino alla contrapposizione di un progetto duraturo e credibile, potenzialmente rivoluzionario.

È un percorso difficile da realizzare, ma percorribile nelle diverse esperienze acquisite,  Tra i vari modi di scrivere versi, la poesia racconto, (ma anche quella di impronta ideologica, così attiva negli anni Sessanta, con Fortini, Pasolini ed altri), ha offerto uno spazio dilatato  e rispettabile di fronte alla fumisteria e all’apnea poetica. E’ stato un genere letterario che ha avuto nel passato illustri nomi da Mallarmè con “Il pomeriggio di un fauno”, a Pascoli dei “Poemi Conviviali”, da Pavese di “Lavorare stanca”, alla poesia straniera con Lee Masters di “Spoon River”, a Withman, Pound, Garcia Lorca, Neruda, Majakovskij e Ginsberg di Kaddish. In effetti l’ampio registro verbale ha legato il lettore ad una struttura linguistica più impegnata. Se poi la poesia racconto è riuscita ad essere anche un contenitore di tematiche esistenziali, meditative, e socio-politiche, in relazione alle cosiddette figure grammaticali individuate da Kopkins, allora”l’universo del discorso” che, ha caratterizzato questa poesia, ha una sua valenza nel variegato panorama dei “Modelli”. Qui non si possono non citare anche gli esiti della poesia visiva, attraverso la rappresentazione eterogenea dei segni iconici e tipografici, simboli del consumismo, slogans e figure geometriche. Il rischio maggiore legato alla poesia visiva è stato l’autolesionismo che ha sublimato e ideologizzato, nella sostanza e nella forma, l’esclusività dei suoi caratteri nell’era del postmoderno, nel momento in cui era necessaria la sua collocazione in un contesto più vasto e progettuale, fuori  dalle maglie troppo strette di uno status propagandistico, per entrare con altri linguaggi e culture, all’interno di un “villaggio globale”.

Secondo Stelio Maria Martini l’elemento visivo, a parità di diritto con quello verbale, va considerato complementare di questo, perché rappresenta meglio di quanto non farebbe con la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente) per non lasciare nelle mani dei mercanti d’arte o dei fotografi dell’immagine, la mistificazione del prodotto  e il ribaltamento della realtà”, fuori da quell’aura propria di cui parlava Benjamin “Dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica”.

Per quanto si possa parlare in questi tempi di un nuovo ordine linguistico, non si può non riconoscere lo sforzo ricostruttivo compiuto da Giorgio Linguaglossa nei confronti della Forma poetica, sempre attento a non offrire ai lettori del circuito italiano ed extranazionale, paraventi linguistici falsamente comunicativi, da ciò la sua preferenza a riformulare la langue su tutte le ceneri linguistiche. Le figure di pensiero sono così veicolate da una coscienza del dire, che è molto spesso una concatenazione di idee e di recupero di volti e nomi all’interno della Metafora, utilizzata per lo sviluppo di  trame che coinvolgono  più soggetti. Ma si dà anche il caso che, a volte, affiorino gradazioni psicologiche, come incremento del significante da cui partono le fratture del tempo storico e contemporaneo. Ne sono testimonianza le opere pubblicate attraverso le varie sigle editoriali, a cominciare dal 1992 con “Uccelli”, seguito da “Paradiso” nel 2000, da “La Belligeranza del Tramonto” e nel 2013 da “Blumenbilder. Natura morta con fiori”, mentre  in “Tre fotogrammi dentro la cornice” Selected Poems (Chelsea Editions, 2015) il lettore entra  in una antologia poetica fatta di  connessioni metaforiche volte  a rappresentare un continuum di tematiche aperte a tutto campo.

Ho conosciuto l’Autore attraverso la lettura di queste due poesie inedite, da me pubblicate su: isoladeipoeti.blogspot.it e da cui poi sono nati “punti di vista”  sul fare poesia di oggi:

Giorgio Linguaglossa

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Stanza n. 73

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Fasci di luci dai riflettori
posti sulla sommità delle torrette blindate.

Sulla terra battuta il passo dell’oca dei soldati.
I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.

Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
sul numero 33.

Giocano con le bambole, giocano con le murene.
Accompagnano al pianoforte la bella Marlene

Che canta il Lied della nostalgia e della morte.
In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.

Beltegeuse è una stella nana, Enceladon è lontana.
Firmamento stellato.
Cogito è in viaggio su un treno blindato,

Sta scrivendo una cartolina ad Enceladon:
«Mia amata, il mio posto è qui».

[…]

Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
Un Signore salta dalla bandella del polittico nella stanza del pittore.

Cammina per la stanza, dice che vuole prendere un po’ di aria fresca.
Non vuole più dipingere Annunciazioni, pastorelli, re Magi, Madonne col bambino.

Un gendarme col berretto a visiera tra gli hangar, agita il frustino
Un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi, intuiscono
gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.

[…]

Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte.
La luce della finestra non li raggiunge.

Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.
Benozzo alla corte degli Estensi.

Un cardellino sul ramo di corbezzolo,
Non c’è più tempo, deve affrettarsi,
il Beato Angelico lo ha chiamato a Roma presso il papa.

«Per fare cosa?», si chiede Benozzo, «ancora affreschi,
polittici da altare, annunciazioni?».

Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.
Inverno. È arrivato il grande freddo.

Berlino. Il lampionista spegne i lampioni lungo la Marketstrasse n. 7.
La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.

«Gutentag Herr Cogito».

(da Le Risposte del Signor Cogito inedito)

 

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del tramonto, 2006)

Trattasi di un fluire poetico di  autentico “humus psicoestetico, all’interno del quale si può benissimo parlare di poesia perché Linguaglossa ha introdotto un vero e proprio linguaggio ellittico e risolutivo, cancellando l’Expo del linguaggio tradizionale e afasico, rimuovendo il lirismo del dopoguerra, e le fantasie verbali dei poeti pulp, e post-avanguardisti. Da qui il rifacimento di una realtà, con un mutamento linguistico che non è soltanto frattura con la Tradizione, ma  rimozione di un mondo risemantizzato con nuovi “strumenti umani”.  Su queste due poesie l’Autore precisa che «la loro stesura ha riguardato una distanza temporale di 10 anni l’una dall’altra, la prima l’ho scritta nel 2014 mentre la seconda nel 2005. Questo, per dire che c’è stata una continuità tra il primo lavoro e l’ultimo ancora inedito su carta. Poi, in questi anni c’è stato l’aggravamento della Crisi del Paese e la Crisi della Ragione Narrante che mi ha motivato a spingere sull’acceleratore di una forma-poesia che riorientasse la poesia italiana del secondo Novecento. Ho dovuto prendere le distanze perciò dalla poesia di “Satura” (1971) di Montale, il maggior poeta italiano del Novecento, per sterzare in un’altra direzione. Ho dovuto apprestare perciò uno strumento linguistico e stilistico e una metafisica, insomma, ho dovuto munirmi di una  nuova ontologia estetica. È stata una ricerca che è durata 30 anni, perché sono dovuto partire da zero. O quasi. Ho dovuto inventare di sana pianta uno stile modernistico e riallacciarmi alle sorgenti del Modernismo europeo, un lavoro gigantesco che dovrebbe essere visibile nella raccolta di prossima pubblicazione “Il tedio di Dio” che dovrebbe uscire con Progetto Cultura di Roma.»

Nella mia replica, ricordo, sempre tramite post, di aver usato per me, nella ricerca sulla poesia, il termine “speleologo”, che molto si addice al Linguaglossa nel suo lavoro di rifondazione linguistica, formale e lessicale, di contenuti, opzioni salutistiche sulla lingua e al progetto psicoideografico della realtà, asfissiando così l’area poetica venutasi a saturare con il Gruppo ’93, e della terza ondata, e approdando con coraggio a una “rifondazione” della lingua in diversi capitoli estetici, che hanno aperto la lettura a nuovi canoni utili a giustificare “l’assedio” alla poesia, durato 30 anni di ricerca e di impegno ricostruttivo. La novità che intravedo, leggendo le sue poesie, è correlata ad un  umanesimo culturale che affonda le radici in più territori. Ciò viene a determinare un “manifesto poetico” indicativo nel fare poesia.

Fayyum ritratto di Donna romana

Fayyum ritratto di Donna romana

Sul concetto di Arte, con riferimenti anche alla musica e alla poesia, Linguaglossa  centralizza il suo pensiero affermando che: ”Nell’arte degli Anni Cinquanta avviene una”catastrofe”, ovvero l’incrocio tra diversi codici artistici che sfocerà in una libertà fino ad allora impensata. Un artista la cui opera è altamente significativa e densa di conseguenze per chi voglia intendere, è stata la musica e le riflessioni di John Cage  il quale scrive che

“l’arte è un modo di vita, come prendere l’autobus, cogliere fiori”, affermazione che comporta l’abbandono del regno tradizionale dell’estetica e una visione della vita come il regno del non-intenzionale. Nell’opera di Cage vengono recisi i legami con il linguaggio e la teoria musicale tradizionale: i suoni non sono più considerati un veicolo di significati tratti altrove, ad esempio da un testo poetico, e non sono più ordinati secondo un sistema prestabilito (armonico, tonale, atonale, dodecafonico) in cui incasellarli in una gerarchia di suoni. Tale pratica di non-intenzionalità rispetto al suono sollecita un gesto di sospensione autoriale. Il che comporta che i suoni accadano in quanto suoni al di fuori di qualsiasi pentagramma prestabilito.

“Direi che questo assunto,” continua  Linguaglossa, “è utilissimo anche per quel che riguarda la procedura compositiva di una forma poetica. Cage ci ha dimostrato che in musica è possibile trattare i suoni in questo modo. Analogamente, con le parole è possibile operare secondo un procedimento dinamico interno che si spinga fino alla impossibilità di giungere all’opera conchiusa; insomma, mediante una procedura che consenta di creare allo stesso modo con cui si crea l’universo in continua espansione. L’autore quindi si deve limitare a creare una struttura-cornice o un progetto-partitura entro i quali lasciare che gli eventi accadano. Le parole quindi vengono trattate come eventi. Le immagini e le metafore sono nient’altro che eventi. In tal senso la mia poesia può essere letta come una grande scacchiera dove avvengono eventi molteplici i quali creano a loro volta nuovi spazi interni entro i quali si inseriscono altri eventi che accadono in uno spazio-tempo in continua espansione. Con questa procedura si possono ottenere una miriade di spazi che si aprono all’interno di altri spazi, talché avviene che la distanza tra due o più spazi viene ad essere misurata dal tempo (dal tempo vissuto), quale categoria ontologica di seconda istanza. È una procedura di nuovo conio, ma non lontana dalle procedure compositive di Mandel’stam che teorizzava e praticava una poesia basata sulla metafora tridimensionale; una procedura imparentata con la teoria degli equivalenti oggettivi di Eliot e con la teoria dell’imagismo di Pound. Per non parlare delle immagini in movimento di Tomas Tranströmer. Si tratta di uno sviluppo ulteriore degli assunti della poesia modernistica europea”

acconciatura muliebre periodo del principato

acconciatura muliebre periodo del principato

Il 4 settembre.2015 10:29,  così rispondo al Linguaglossa:

“Il pensiero di Cage annulla la funzione statica della musica: una specie di “armonium” che ci ha accompagnato anche in poesia per lungo tempo, quintessenziando il pre e postermetismo (Soffici, Marinetti Sbarbaro, Onofri, Cardarelli e, perché no, lo stesso Montale di “Le occasioni”, per cui di fronte alla impossibilità di creare nuovi stilemi e, andando su un altro versante, quello della musica dodecafonica, anche Arnold Schönberg, ha ripudiato il principio tradizionale di una tonalità non riformabile,  mettendo i dodici suoni della scala cromatica su un piano di assoluta eguaglianza, e ritenendone ognuno parimenti atto ad essere centro armonico e generatore di accordi. Qui sorge lo stesso tuo problema di fronte ad una poesia da rigenerare ex novo. Su questo passaggio la domanda è se dopo la dodecafonia è possibile andare oltre approdando a una nuova musica, ossia, inventare altri moduli compositivi? Su questo tema, a suo tempo, rispose il Maestro Carlo Maria Giulini, il quale alla base della sua esperienza negò altre soluzioni, asserendo che la musica può essere solo reinventata e reinterpretata così come avviene per le metafore che in poesia costituiscono “eventi”, illuminazioni”, “dinamismo iperculturale” come fai tu.”

Il 4 settembre 2015 12:36:

Linguaglossa chiude gli interventi, precisando che “In analogia con gli assunti della musica dodecafonica possiamo ammettere che le parole siano tutte eguali, che partano da uno statuto di eguaglianza per cui ciascuna parola può essere, assumere, il ruolo di centro di gravità (sonora e/o insonora) della composizione poetica. Il centro armonico generatore di accordi quindi può essere rivestito da qualsiasi parola, immagine, metafora, tutte su un piano di parità. Certo, questo assunto implica che l’autore si ritiri nell’ombra, che si situi in una zona fuori dal cono di luce della composizione, fuori visione. Concetto correlato con quello della impersonalità dell’arte moderna e dello svuotamento anche semantico che attinge le parole di oggi nella lingua di relazione e nei linguaggi poetici. Quello che non capiscono i poeti di modesta levatura è proprio questo punto. Impersonalità e disumanizzazione dell’arte implicano l’accettazione di una estetica del vuoto quale quadratura del cerchio (mi si passi l’ossimoro), come unica condizione possibile da cui partire e a cui ritornare.”

Quando Franco Fortini scrisse Traducendo Brecht, aveva già metabolizzato il fallimento della sua idea marxista della società soffermandosi sulla inutilità della poesia come nella chiusa del testo e cioè: “La poesia non muta nulla / nulla è sicuro ma scrivi”; un invito che si adatta molto bene al lavoro di Linguaglossa e alla sua ferrea volontà  di rifondare la poesia partendo da zero. E’ una lezione che ascolteremo fino in fondo, con immutata attenzione e curiosità.

Formalizzati così i “punti di vista”,  rimane ora  indicare l’area dove collocare la poesia  di Linguaglossa. che certamente va agganciata alla poesia modernista ed europea, quest’ultima caratterizzata dallo“stile che nasce dal dialogo cosmopolita alla ricerca di un nuovo linguaggio della poesia. La caratteristica principale del nuovo stile è quella di mirare alla costruzione di testi polifonici, leggibili a più livelli e giustapposti su un unico piano senza distinzione, consentendo così di accostare registri linguistici appartenenti a strati sociali, e culturali diversi” (griseldaonline) E’ una strada, o meglio un obiettivo che si può raggiungere solo con una cultura alle spalle e tanta esperienza da rimuovere la poesia dal suo stato letargico e afasico.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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LA POESIA di PABLO PICASSO E LA QUESTIONE DELLA METAFORA nell’interpretazione di Valerio Gaio Pedini con una scelta di poesie di Pablo Picasso

picasso donna seduta

picasso donna seduta

 Rileggendo  le poesie di Pablo Picasso ho fatto mentalmente una panoramica della poesia italiana del ‘900 e mi sono reso conto di una vistosa lacuna stilistica. Soprattutto nel secondo Novecento è mancata la capacità di utilizzare le qualità comunicative della metafora, anzi, quest’ultima è stata indicata come un corpo estraneo da estirpare dalla poesia, come un orpello, trattata alla stregua di un abbellimento lessicale, un retorismo da evitare a tutti i costi. Ritengo questo fatto un errore grave che ha inciso sulla poesia italiana privandola di un elemento insostituibile del linguaggio poetico. Pregiudizio grave che sarà gravido di conseguenze negative sul piano stilistico per la poesia italiana.

Picasso, da pittore, non ha pregiudizi verso l’immagine, anzi, lui vede il linguaggio poetico come una funzione dell’immagine. Per il pittore spagnolo la metafora è ragguagliata alla immagine, ed entrambe sono impiegate come «fotogrammi» degli «oggetti», alla stregua di una macchina da presa che inquadra gli oggetti e li duplica nel fotogramma; la poesia è vista da Picasso come uno scorrimento di fotogrammi nel montaggio. È una procedura poetica che mette al centro la rappresentazione, la sovrapposizione, il montaggio delle immagini.

La responsabilità maggiore di questa incapacità della cultura poetica italiana ad intendere la funzione e la natura della «immagine» e della metafora è da rinvenire, a mio avviso, nella egemonia che la poesia del Pascoli ha esercitato sulla poesia italiana del primo e secondo Novecento, nel Gruppo 63, nello sperimentalismo di Zanzotto e nella  poesia della linea lombarda. La poesia italiana si avvierà in una via poetica epigonica di matrice lineare-fonetica di derivazione dalla poesia pascoliana. Privata della metafora e dell’immagine che, notoriamente, si sottraggono o mal si adattano ad un pentagramma sonoro di matrice lineare e unidirezionale, la poesia italiana del secondo Novecento si avvierà su un pedale basso lessicale e stilistico che finirà per appiattirla su un piano esclusivamente «comunicativo». La ricerca della «comunicabilità» a tutti i costi renderà un pessimo servizio alla poesia italiana del secondo Novecento. Nemmeno con il primo emetismo si viene a capo di questa vistosa omissione; una poesia come quella di Ungaretti è intuitivo-epifanica ma non riesce a creare una metafora dell’immagine. E tuttora il vuoto è vistoso. Questo vuoto della metafora e dell’immagine ci pone degli interrogativi. Mi chiedo se la poesia italiana sia in grado di formulare una diagnosi critica di questo quadro «patologico». Per il momento, la risposta non può che essere negativa. La più totale omissione è sotto i nostri occhi. E la poesia italiana, a parte eccezioni di pregio che pur ci sono, conserverà una matrice  fonosimbolica unilineare .

Comunque, tornando a Picasso, bisogna dire che la sua poesia è incentrata sul principio del contrasto. Cito Picasso, “l’arte deve trovare, non cercare”, e se l’arte non trova allora vuol dire che la ricerca è fallita. Leggiamo una poesia di Pablo Picasso:

IL CIGNO

Il cigno sul lago a modo suo fa lo scorpione

 Che sorpresa. Solo un verso, un piccolo verso, un miserrimo verso, eppure che immagine, che parallelismo e, come dire, che trovata! Lo si vede il cigno nel lago con il collo inarcato, che si  riflette nell’acqua e appare come uno scorpione pronto a pungere la preda, ad attaccarla e farla soccombere. In questo modo l’aspetto paradisiaco del cigno diventa un’immagine di una incredibile virulenza estetica. E qui si trova una esemplificazione del principio del contrasto nella sua essenza. Eppure non ci sono ribaltamenti bruschi, c’è soltanto un’immagine fotografica.

Picasso  era pittore anche nella poesia, fa pittura in poesia. Ecco, se dovessi indicare una debolezza della poesia italiana del secondo Novecento, direi che essa non ha saputo fare poesia mediante la pittura. Non ha imparato nulla dalla pittura del secondo Novecento. Non ha imparato nulla dalle scoperte della fisica dei quanti. Nel secondo Novecento è sì operato esclusivamente su una piattaforma descrittiva e narrativa sostanzialmente quantitativa, ma è restato fuori dell’interesse della poesia italiana il problema della metafora e dell’immagine.

La poesia di Picasso invece è un esempio vistoso di una poesia che fa perno sulle stratificazioni architettoniche delle immagini. Arriva per una sua via tutta particolare, allo «sguardo sincipitale» teorizzato da Osip Mandel’stam. Una sorta di caleidoscopio in miniatura, un brillante gioco di illusionismi. La poesia di Picasso è ricca di decostruzioni. Osserviamo:

OFELIA

Ofelia cade in un bicchier d’acqua e annega

 

Picasso Jacqueline Roque

Picasso Jacqueline Roque

Gnomismo del paradosso. Picasso utilizza uno gnomismo tipico e lo smonta, e lo rimonta a suo piacimento, tratta le immagini come dei meccani, tratta l’assurdo come normalità. Ma non vi è nulla di assurdo, poiché l’annegamento di Ofelia è trattata come un dato realistico. Oppure:

IL PARTO

La donna che partorisce grida come i vetrai

 Si procede su parallelismi apparentemente sconnessi: cigno-scorpione e via discorrendo, fino ad arrivare a questa che è l’apice della poesia di Picasso. Cosa significa? Che corrispondenza vi è tra una donna che partorisce ed un vetraio? Ce lo dice Picasso: l’urlo. Sì, ma cosa significa? Penso alla rottura delle acque e della forma originaria del vetro. Eppure no, è lo sforzo genetico, lo sforzo della creazione. E allora lì si vede la madre e il vetraio paonazzi che si sforzano di dare origine, di dare vita: compiere un’opera. Questa è una metafora visiva che ci collega subito all’anima dell’arte poetica.

In Italia non avviene nulla di così forte. Ungaretti s’illumina d’immenso ma manca della metafora visiva! E una poesia senza metafora visiva rischia di essere scipita, piatta. L’ermetismo fa una poesia contestualizzata, chiusa dentro i propri asfittici confini stilistici, non riesce a cogliere l’importanza di una metafora visiva (e sonora). Picasso, di origine genovese, è l’unico poeta-pittore ad aver elaborato una poesia delle immagini. Una poesia deve contenere uno sguardo che osserva un oggetto, e l’oggetto viene trasposto e decontestualizzato dagli altri oggetti. Come disse Picasso: “l’artista è anzitutto un uomo politico del suo tempo”.

La poesia italiana del Novecento (compresi il futurismo e il crepuscolarismo), farà deliberatamente a meno della metafora. Ma è nel secondo Novecento che i risultati estetici di questa lacuna saranno visibili: la poesia italiana risulterà canonica, istituzionale, volontaristica, lessicalmente impoverita. Alcuni poeti isolati tenteranno uno sviluppo della metafora visiva, penso a Dino Campana e ai suoi Canti orfici (1914), ma si tratterà di casi isolati. Oggi il mio riferimento va alla poesia di un Antonio Sagredo, questa sì, «inclassificabile» secondo gli schemi di una poesia undirezionale lineare; penso alla poesia del «frammento simbolico» di Giorgio Linguaglossa, alla poesia «rallentata» di Steven Grieco-Rathgeb, alla poesia di «citazioni» e di «frammenti» di Mario M. Gabriele, ma anche alla poesia di Francesca Diano, a quella di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi etc. In questi poeti del tardo Novecento e di questi anni, la metafora visiva non è solo un atto di resistenza alla visione cloroformizzata, normalizzata, ma anche e soprattutto una «nuova visione» degli «oggetti» e del «mondo».

A mio avviso, solo con l’idiosincrasia verso la visione cloroformizzata degli oggetti e con la belligeranza stilistica si potrà fare una poesia esteticamente non educata.

 (Valerio Gaio Pedini)

picasso Sogno

picasso Sogno

(Poesie tratte da Scritti di Pablo Picasso, a cura di Mario de Micheli, SE)

IL MIRACOLO

Il miracolo che il torero frigge
nella piazza del peperone
la precisione del volo attraverso la nuvola
che il cristallo infrange
con la sua cappa.

ESTATE

Passa l’estate
fetta di melone che la cicala accende
e trascina nella sua ferita
la cappa dell’espada.

Il VESTITO DEL TORERO

Al torero
con l’ago più sottile che la nebbia inventò
cuce un vestito di lampade
il toro.

IL TABACCO

Il tabacco avvolto nel sudario
vicino a due banderille rosa
spira i suoi disegni modernisti
sul cadavere del cavallo
e al fuoco del suo occhio
scrive sulla cenere
l’ultima sua volontà.

picasso quote

LA PERSIANA

La persiana sbattuta dal vento
uccide i cardellini in volo
i colpi macchiano di sangue
la spalla della stanza
ascolta passare il candore
la morte porta in bocca aroma d’armonium
e la sua ala tira la corda del pozzo.

I CARDELLINI

I cardellini sono l’aroma
battente con la sua ala il caffè
che riflette la persiana nel fondo del pozzo
e ascolta l’aria passare
nel silenzio della candida tazza.

L’AROMA

L’aroma ascolta passare i riflessi
che il cardellino sbatte giù nel pozzo
e offusca nel silenzio del caffè
il candore dell’ala.

LA FANCIULLA

Fanciulla
bel falegname che inchiodi le assi
con le spine delle rose
non piangere una sola lacrima
se vedi sanguinare il legno.

Picasso quote 1

PREPARATIVI

Lo facciano pure dove vogliono il loro festino i topi
purché non mangino il piccione nel nido
purché non mettano bandiera e lampioncini nelle piaghe
purché il mattino dopo non sia tutto un pianto
quello che si deve fare
è sguinzagliare i cani perché li uccidano
e al punto in cui siamo comprare mobili
non fa niente se l’allegria non nasce
nello stesso momento
in cui s’avvolgono nacchere in risate
e colori di festa in motivi di chitarra
quello che si deve fare
è coronarsi di rose ed esser felici
di vedere le cose laide belle così come sono
e gettar loro la cappa e vestirle di complimenti
e portare la tavola già imbandita di fiori
e cantare e gridare che arriva
e preparare il letto che tra le lenzuola
nasconde l’arcobaleno.

*

lingua di fuoco sventaglia il suo viso nel flauto la coppa
che cantando corrode la pugnalata dell’azzurro
così grazioso
che seduto in un occhio del foro
iscritto nel suo capo adorno di gelsomini
aspetta che gonfi le vele il pezzo di cristallo
che ammantellato nel fendente a due mani
gocciolando carezze
divide il pane fra il cieco e la colomba color lilla
e assale con tutta la sua cattiveria le labbra del limone in fiamme
il corno contorto
che spaventa coi suoi gesti di addio la cattedrale
che sviene fra le sue braccia senza un olé.
mentre scoppia nel suo sguardo la radio di prima mattina
che fotografando nel bacio una cimice di sole
si mangia l’odore dell’ora che cade
e trapassa la pagina che vola
distrugge il rametto che porta infilato nell’ala che sospira
e la paura che sorride
il coltello che salta dalla gioia
lasciando ondeggiare ancora oggi come vuole e in qualsiasi modo
al momento esatto e opportuno
sull’orlo del pozzo
il grido della rosa
che gli getta la mano
come un’elemosina.

(28 novembre 1935)

Valerio Gaio Pedini

Valerio Gaio Pedini

Valerio Pedini nasce il 16 giugno del 1995, di otto mesi, e viene tempestivamente scambiato nella culla: il misfatto viene subito scoperto. Esattamente 18 anni dopo, Valerio, divenuto Gaio, senza onorificenze, decide di organizzare il suo primo evento culturale ad Artiamo (gastrite e l’epilessia e quasi nessuno ad ascoltare); nell’intermezzo ha iniziato a recitare, preferendo l’espressività del teatro di ricerca rispetto al metodismo popolare e a scrivere, uscendo, in collaborazione col circolo narrativo AVAS – Gaggiano, nelle antologie Tornate a casa se poteteRigagnoli di consapevolezza e Ma tu da dove vieni?. Nell’ottobre del 2013 inizia il progetto Non uno di meno Lampedusa, insieme ad Agnese Coppola, Rossana Bacchella, Savina Speranza e ad Aurelia Mutti. A dicembre conosce Teresa Petrarca, in arte Teresa TP Plath, con cui inizia diversi progetti artistici: La formica e la cicalaEssence e Pan in blues e in jazz. Sta lavorando ad una monografia filosofica: Maggiorminore: la disperazione dei diversi uguali. A Maggio 2014 è uscita la sua prima raccolta poetica, con IrdaEdizioni: Cavolo, non è haiku ed è stato inserito nell’antologia Fondamenta Instabili (deComporre Edizioni) e, successivamente, sempre con deComporre Edizioni, uscirà nelle antologie Forme LiquideScenari ignoti e Glocalizzati.

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