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Giorgio Ortona, Palazzina romana, 1997, olio su tavola, Poetry kitchen, poesie di Letizia Leone, Alfonso Cataldi,

Giorgio Ortona Palazzina sulla Colombo, 1997 olio su tavola 20x14 cm

(Giorgio Ortona, Palazzina sulla Colombo, 1997 – Olio su tavola 20 x14 cm)

Un ricordo del 1998 della entusiasmante avventura esistenziale e artistica con Giorgio Ortona: una veduta urbana che non esiste più inghiottita nel magma delle nuove costruzioni.

Palazzi. Un volo radente sulla città che intrappola interi quartieri, stretti primi piani di un muro condominiale, la luce opaca che ingoia la Prenestina, il taglio prospettico di un edificio che irrompe invasivamente sulla tela: è l’apparizione di Roma nella pittura. La scelta di esporre una serie di quadri sul paesaggio urbano romano non è casuale in un artista che ha eletto la sua città come fonte inesauribile di “materiale” estetico. E poi la pittura, il senso del mestiere, la necessità e l’urgenza di recuperare e affermare il valore della pittura come mezzo moderno di ricerca e sperimentazione. “Sono convinto che dopo il duemila la pittura acquisterà sempre più senso come lavoro lento, come approfondito processo di conoscenza estetica di contro al mondo-fotocopia” afferma Ortona. La sua è una ricerca attenta che parte dallo scandaglio di zone romane e laziali recuperate al degrado attraverso la visione estetica. Solo costruzioni, un accavallarsi di palazzi che lasciano lo spazio ad altri palazzi, né macchine, né presenze umane; solo lo studio sulla forma, sulla luce, sul colore. Ricordo mattine luminose o pomeriggi a girare per strade alla ricerca di luoghi definitivi da regalare all’arte, era come se le visioni chiamassero: un palazzo isolato sulla Colombo (che ormai non esiste più, coperto dalla nascita dei condomini), prospettive geometriche su campi verdi con una luce felice che riusciva a riscaldare i residui tumorali di un orizzonte industriale. Una sorta di romanticismo freddo lo definisce Ortona, e passa a dipingere nature morte; sacchi di cemento. E come se a questa mancanza di pittura si sopperisse in modo energico ponendo pesantemente sulla tela il materiale da costruzione, la corposità, il dato fenomenico, la datità da cui riprendere il cammino nel segno di un radicale e originario mestiere. Nella qualità della materia pittorica.

(Letizia Leone “Studio su Roma”)

Danto iniziò la sua carriera come pittore prima di accorgersi che la pittura non aveva futuro, letteralmente, e fu allora che decise di dedicarsi solamente alla filosofia. Negli anni Sessanta la necessità storica di uno stile nei confronti di un altro viene meno: nell’analisi critica dell’arte si crea una divaricazione tra l’interpretazione e la identificazione artistica dell’opera. Innanzitutto, questa viene meno, o almeno si riduce ad un’ombra di sé. Perché dalla Pop all’Iperrealismo all’arte concettuale essa si avvicina sensibilmente all’identificazione letterale. Questa tendenza può essere già avvertita nelle astrazioni minimali di Reinhardt (1960-66). Possiamo ben dire che c’è una superficie di una certa dimensione, macchiata di un certo colore; a partire da questa identificazione letterale l’osservatore compie una identificazione: Questa tela è una pittura astratta in quanto così è stata pensata ed eseguita dall’artista. L’interpretazione a questo punto cessa, non c’è più alcun bisogno di alcuna interpretazione visto che l’opera d’arte è auto evidente di per sé e non richiede alcun intervento ermeneutico dall’esterno. In effetti, l’arte moderna post anni ’60 non richiede alcun intervento dall’esterno che la legittimi o la spieghi ai non vedenti o ai non capenti. L’arte è diventata un manufatto non ermeneutico e la critica viene a perdere il terreno da sotto i piedi, non c’è ermeneutica che possa legittimare un qualcosa che non richiede di essere legittimata. È accaduto che in ambito artistico qualsiasi cosa sia divenuta possibile. Ma, se qualsiasi cosa può diventare arte, la conseguenza appare ovvia: nessuna cosa più è arte. 

Il vero problema dell’arte contemporanea, cui Danto riferisce col termine “poststorica”, è la saturazione,  o meglio, il dissolvimento, dello spazio interpretativo che fino all’arte Pop intercorreva tra l’identità letterale dell’oggetto e quella della resa del medesimo oggetto in arte. La parola «arte» non ha più senso, è un’entità storica e letteraria terminata: adesso l’arte vive solamente all’interno della narrazione dell’arte. Si ha narrazione in quanto si ha comunicazione.

(Giorgio Linguaglossa)

reinhardt black paintings anni 60 David Zwirner Gallery

Reinhardt, black paingings, David Zwirner gallery anni ’60

Letizia Leone

LETIZIA LEONE è nata a Roma. Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (Roma, 2000); L’ora minerale, (Perrone Editore, Roma, 2004); Carte Sanitarie (Perrone Editore, Roma, 2008); La disgrazia elementare (Perrone Editore, Roma, 2011); Confetti sporchi (Lepisma Edizioni, Roma, 2013); Rose e detriti (FusibiliaLibri, 2015); Viola norimberga (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018)  Premio L’albero di Rose, Regione Basilicata, 2019; Notazioni sui fastidi del sonno (Ensemble Edizioni, 2020). Tra le numerose antologie: Antologia del Grande Dizionario della Lingua Italiana, UTET, Torino, 1998; La fisica delle cose, a cura di G. Alfano, Perrone Editore, Roma, 2011; Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, Giulio Perrone Editore, Roma 2007, dalla quale è stato messo in scena lo spettacolo Le invisibili, Teatro Valle, 2009; “Come è finita la guerra di Troia non ricordo” a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016; Sorridi sei a Nettuno, Fusibilia edizioni, 2018; l’antologia americana How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Edition, 2019, New York.  Redattrice della Rivista Internazionale L’Ombra delle parole e della rivista di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole (Edizioni Progetto Cultura), organizza laboratori di lettura e scrittura poetica a Roma.

I

Il sangue allaga per spaziature ametriche.
Notturne dense fiumare.

Certi odori attecchiscono
Sul simbolo sacro della Tetraktys.

Coscia, ossobuco, le mascelle. Tagli bovini
Incartati nel fieno dello scritto. 

Metti lo strutto nella tua formula di pesante incanto.
La megalopoli è Illuminata.

Odore di bruciato, che notte alla finestra!

II

«Allora rinunciamo ai saperi che sono spariti?»
«Chi ha voglia di sfogliare incunaboli?»
«Libri di conoscenza? Lana sudicia sugli scaffali?»
«E le tenebre superiori? le avete viste?»

C’è una folla sanguinolenta di suini. Tagli e zecche.

Certe domande bisogna farle al buio.

III

Hanno disarticolato migliaia di zampe ai pipistrelli.
Un pensiero fisso. Poeticamente frivolo.

Nostra Stella di Iside asfissiata.
Così in un lampo dalla Storia alla preistoria.

Per assestarsi nel movimento il suino dovrebbe calibrarsi
al moto di rotazione terrestre da ovest a est.

Vite brevi a suon di tamburo.
E infine un Virus li scaraventò nell’Epica.

Alfonso Cataldi

 Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Omaggio contemporaneo Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

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La kermesse delle ampolle da riempire

Le albicocche in offerta hanno il verme con la sindrome di Asperger.
All’OVS sono andate a ruba le t-schirt “Save the planet”

Il National Geographic ci ha stampato il logo sopra
ma “visto mai?” prosegue ad esplorare il piano B. Mars. Seconda stagione.

L’impatto umano sul pianeta rosso dopo la colonizzazione.
I Benetton serviranno una cameriera ?

Bombe di testosterone neutralizzano bombe d’acqua
la pazza gioia è alle costole dell’uomo scimmia.

«A quindicianni non ho mai salvato un pomeriggio dalla noia.»
I vicini carteggiano la voce per un karaoke tenebroso.

«La matricola 249, nome in codice Clara, è appena fuggita dai concetti basilari.»
I pappagalli gracchiano sugli alberi di Roma Est.

Christine Granville spunta tra i rami consapevole della missione
deve convincere i volatili a disertare la kermesse delle ampolle da riempire

prima che Sheldon Cooper li minacci col bazooka spaziale.
Ma Van Gogh si uccise veramente?

In questa poesia di Alfonso Cataldi abbiamo un esempio di autonomizzazione degli enunciati. Ogni enunciato, ogni atto di parola, va per la sua strada e tutti insieme fanno un gran fracasso, una grande confusione. Ogni enunciato pesca in cucina le parole dismesse, usate e gettate via e, tutte insieme, indicano molto bene la nostra condizione storico-esistenziale, assai più di quanto lo possano fare migliaia di poesie monadiche e monodiche bene educate ed equipaggiate che si fanno oggi.
Questa è, propriamente, la poetry kitchen, l’ultima e recentissima propaggine della ricerca di una nuova ontologia del poetico che prendesse le misure e le distanze alla ontologia estetica del novecento e di questi ultimi due decenni.

Scrive Giorgio Agamben in uno stralcio postato sopra:

«La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato».

Un amico che fa poesia mi ha detto ieri al telefono che non riesciva a capire la poesia di Marie Laure Colasson, quella enumerazione gli sembrava stucchevole. Al che io gli ho risposto semplicemente che il suo gusto è stato rovinato dalle migliaia di pseudo-poesie bene educate che si sono fatte in Italia e si continuano a fare oggi. E che magari dovrebbe leggere con più frequenza le poesie dell’Ombra delle Parole.

(Giorgio Linguaglossa)

Mario M. Gabriele

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso (Molise) nel 1940. Ha pubblicato per la poesia le seguenti opere: Arsura (1973, La Liana (1975), Il cerchio di fuoco. (1976, Astuccio da cherubino (1978),  Carte della Città Segreta (1982), Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992), Le finestre di Magritte (2000), Bouquet (2002), Conversazione galante (2004), Un burberry azzurro (2008), Ritratto di Signora (2014), L’erba di Stonehenge (2016), La porte ètroite (2016), In viaggio con Godot (2017), Registro di bordo (2020). Ha pubblicato  opere di saggistica e monografie di Autori  italiani del Secondo Novecento. È presente in Febbre furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, (1983), Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, (1994), Poeti in Campania di G.B. Nazzaro (2005), Le città dei poeti, di Carlo Felice Colucci (2005), Psicoestetica di Carlo Di Lieto (2006), in Critica della Ragione Sufficiente (verso una nuova ontologia estetica) di Giorgio Linguaglossa (2018) e nella Antologia AA.VV. Come è finita la guerra di Troia, di Giorgio Linguaglossa, con traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb e prefazione di John Taylor, Chelsea Editions 2019. Alcuni suoi polittici sono stati pubblicati su la Repubblica di Sabato 15 Giugno 2019. La critica più qualificata si è interessata alla sua opera su Tuttolibri, Quinta Generazione, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri e su L’Ombra delle parole.

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Ti parlo, ma non mi ascolti.
Come è andata con Omar? Si è innamorato di Salomè?

Allora si spiega tutto
perché ha ucciso il serpente a sonagli.

La signora Hanna odia i positivisti
dopo aver letto la Pontificia Opera Cristiana.

Ogni giorno cerco nella cassetta
una piuma dal cielo.

Piqueras e Sweneey
non attendono le donne di Michelangelo

All’ultima curva della strada aspetto Milena
con Panetti e Shoppers.

Guardo il vestito, la maglietta a pailettes.
Controllo i Covered Bonds e le fake news.

Tommy è venuto a potare la siepe
per lasciare il posto al ruscus di Settembre.

Mark Strand si è rifatto ai quadri di Edward Hopper
diventando spiritualista.

Guardando la camera da letto di Van Gogh
sono riuscito a dormire senza EN.

Il Servizio urbano si è rinnovato
inaugurando vicoli con l’insegna: La tomba è il bacio di Dio.

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Mario M. Gabriele POESIE SCELTE da “L’Erba di Stonehenge” (Progetto Cultura, 2016) pp. 90 € 10 con un Commento di Letizia Leone “Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco”; “Il mondo della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista”

mario gabrieleMario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014 e L’erba di Stonehenge (2016). Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Commento di Letizia Leone

Come collocare nello scenario poetico attuale la poesia lavata da ogni emozione di Mario Gabriele? Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco esulano da categorie di appartenenza, canoni o mini-canoni poetici e confinano con esperienze artistiche di matrice neo-concettuale come certi esperimenti di Anish Kapoor, si pensi alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture per esempio.
In un certo senso questa è una poesia concettuale, dal forte impianto estetico-filosofico, “metapoesia” come è stata definita e scrittura superficiaria dove “la parola non esplode, non fruga, non le è data la funzione di levarsi in armi di fronte all’oggetto per cercare nel vivo della sua sostanza un nome ambiguo che la riassuma: il linguaggio non è qui violazione di un abisso ma dispiegamento sopra un’intera superficie”: così riferisce Barthes in merito all’opera di Robbe-Grillet, con il quale Gabriele ha sicuramente almeno un punto di contatto fondamentale, la “promozione del visivo”, l’oggettività, la “resistenza ottica” del rappresentato svuotato completamente dal “focolaio di corrispondenze”:

Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I,come Ipèrbato, O,come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

Versi che funzionano come grandi specchi deformanti. Rifrazioni, pulsioni, allucinazioni, Gabriele scherza, si diverte in modo sapiente accumulando sulla superficie specchiante del suo verso i frammenti della Storia, le schegge di un immenso patrimonio letterario e poetico. Ma i “frammenti-citazioni” isolati, strappati alla dialettica del racconto, diventano cassa di risonanza di una Storia che ha perso la sua funzione di magistra vitae, di messaggera dell’antichità dato che, nel momento stesso in cui ne viene negata la funzione pedagogica, smarrisce oltre all’autorevolezza della testimonianza perfino la sua aurea.
Il mondo insensato e indifferenziato della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista.
Il frammento è come l’oggetto da collezione di una società “estetizzata” che ha spezzato ogni linea di trasmissibilità con la tradizione e procede per accumulazione seriale.
La collezione infatti privando l’oggetto del suo valore d’uso, lo archivia ed espone dietro una vetrina quale numero di serie in una carrellata ottica di modelli, codici, segni.
Non a caso lo sviluppo del museo è fenomeno della modernità. I grandi poli museali contemporanei sono le nuove cattedrali per la celebrazione di un culto laico in grado di pilotare le “grandi transumanze” del turismo culturale: “Il museo guadagna terreno un po’ allo stesso modo che cresce il deserto: avanza laddove la vita si ritrae e, pirata animato da buone intenzioni, saccheggia i relitti da essa lasciati”. (Jean Clair)
Accumulazione ed enciclopedia si rivelano i termini di un estetismo atemporale ed extraterritoriale: il flusso della versificazione nei testi di Gabriele sembra, in un certo qual modo, ricalcare lo stesso sogno enciclopedico giocato sull’orlo del non-senso di Bouvard et Pécuchet (1881). In una sorta di astrazione le citazioni, quali apparizioni spettrali, assumono la valenza di segni efficaci:

…Bauli aprivano al passato.
Good Morning Mister President! Good Morning Bagdad!
I crani della storia luccicano sotto i campi di baseball,
come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.
……………………………………………………
Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio
Come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:
…………………………………………………………
L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.

Onto mario Gabriele_1

Già Benjamin aveva capito il potere della citazione di “far piazza pulita, di espellere dal contesto e distruggere”, attimo di straniamento, epifania che si avvale di un meccanismo di riciclaggio degli elementi dormienti del passato come nel caso di Gabriele dove entrano in gioco tutti gli ingredienti dell’attualità in totale promiscuità.
E se ormai ci si può parlare solo per citazioni, questo ininterrotto dèjà-vu attiva una significazione secondaria, carica la scrittura di stimoli e irradiazioni atte a sollecitare un continuo feedback, una multistimolazione che richiede la partecipazione attiva del fruitore. I frammenti lanciando appelli al lettore rendono il testo un sistema aperto.
Il frammento-citazione assume il ruolo di simulacro di un nuovo feticismo culturale e promuove una vertigine di superficie dove non ci sono pieghe in cui infilare lo sguardo perché ormai l’azzeramento di ogni metafisica ha liberato l’oggetto da ogni prospettiva illusionistica, da ogni profondità legata alla percezione promuovendo l’immanenza “poliziesca dello sguardo”, il disincantamento radicale, o come direbbe Baudrillard uno “stadio cool e cibernetico che succede alla fase hot e fantasmatica”.
“Effetto di superficie” è stato definito questo stile che si avvicina molto alla tecnica dell’iperrealismo, alla “reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo – pubblicità, foto, ecc. – di medium in medium il reale si volatilizza, diventa allegoria della morte… Il progetto è già di fare il vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia, tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività”.
L’iperrealismo, afferma Lyotard, è al di là della rappresentazione soltanto perché è completamente nella simulazione.
E se l’arte si assume il compito di liberare o straniare lo sguardo sul mondo, è pur vero che da tempo ha prefigurato questa completa “estetizzazione” della vita, una sovraesposizione dove “tutto si duplica in se stesso, anche la realtà quotidiana e banale” e tutto si confonde con l’immaginario, si spettacolarizza.
La seduzione estetica permea ogni aspetto della realtà, la “carrellata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell’atmosfera cieca e brillante dei simulacri”. Iperrealismo come allucinazione estetica della realtà.

Dunque una poesia che modula la crisi della modernità, questa di Mario Gabriele. E che la poesia inoltre non potesse eludere la rivoluzione della fisica Einsteniana non era sfuggito ad Oscar Milosz: “la poesia di domani nascerà dalla trasmutazione scientifica e sociale che si sta compiendo sotto i nostri occhi”. Infatti da quando il pensiero scientifico, forte del principio di Indeterminazione di Heisenberg, ha aperto la via alle “relazioni di incertezza” un profondo cambiamento è intervenuto nell’approccio gnoseologico alla realtà. Se l’io che giudica o contempla costituisce una modificazione dell’oggetto in sé, l’intervento dell’osservatore non è più rilevante nella definizione o rappresentazione dell’oggetto, lo è invece la consapevolezza delle molteplici relazioni, dei molteplici condizionamenti che ad esso ci legano.
Ecco, la poesia di Gabriele parte proprio da questa ridefinizione dei rapporti tra soggetto ed oggetto… Heisenberg è stato molto chiaro in proposito, quando afferma che “per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso”.

Strilli Gabriele2 Mario M. Gabriele da “L’erba di Stonehenge” (2016)

(10)

Il riverbero delle ghirlande sulla tastiera
mise in un angolo il Cantico dei Cantici.
Ci furono sismi e allarmi nel querceto.

Uno schutzmann avvisò i fedeli nel tempio,
e quelli che costruirono palafitte
a due metri dal mare,
si accordarono con il guardiano del faro
bruciando la vita come sterpo.
Allora un sacerdote disse a noi:
-Sacrificate un agnello sull’altare di Dio-,
e chi rimase in città,
salì sui monti con il raccolto del mese.
Sulla scrivania c’erano i libri di Bauman
E l’Urlo di Ginsberg.
Abbiamo ridato corda ai violini,
ricaricati gli orologi,
verniciate le imposte.

Era così soave settembre
A pochi passi dall’autunno,
che neanche il gospel turbò la tristezza
degli amici di Praga e di Vienna.
Non di rado, ma a giorni alterni,
la madre di Joe canta: La vie en rose.

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(15)

La casa era piena di arredi
come l’aveva lasciata la ragazza Carla.

Miriam curava le piaghe
Con l’erba mèdica e il miele d’acacia,
e ogni volta che tornava al Majestic,
gli amici del club le donavano fiori di pesco
e cioccolato allo sherry.

Angela Adònica è un dolce poema,
ma al n.5 di rue de Pigalle
i bouquinistes regalano coupon
per “Una stagione all’Inferno”.

-Ci sarà pure una dacia
o un ostello a Smolenskoe-,
disse Karima, stanca di inutili attese
e delle storie infantili di Grigorev.

Restavano i colori del Domuspark.
Ma era tutto un tacito andare
per vicoli e strade
senza sbocchi nella fioriera.

Ora nessuno può dire
che ci sia stato un disastro tra noi,
se la vita è sempre stata la stessa
mentre cresceva l’erba
nel cerchio di Stonehenge.

helmut newton modella

helmut newton modella che fuma

(17)

Finita l’aspra contesa
tornammo a Thomas Kinsella
in Un altro settembre,
senza deliri e metafisiche accensioni.
Mister God, da tempo,
non butta più acqua nei pozzi,
lascia stare le cose così come sono.

Un battito d’ala è sempre un battito d’ala,
come la preghiera di suor Evelina
che è un mistico dire.
La luna ha rinunciato a specchiarsi nel mare
lasciando le ombre attaccate alle mani.
Povera Ketty, senza lo sguardo delle mimose!
Ludmilla porterà di sicuro una nuova stagione.
La sarta ha fatto un vestito a punto-croce.
Principessa, è tempo di fermare l’autunno,
restituire agli alberi le foglie cadute.

 

(22)

La speranza giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.

-Papà modan, papà Modan-, gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.

Al Bristol Hotel c’era gente
Venuta ad ascoltare Save the children.

Candy temeva i mesi più della bufera.

Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fiumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta Godot.

 

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

(23)

Torna aprile sui monti innevati.
Nietzsche, perdute le scarpine,
se ne sta solo nell’aldilà
senza Cristo ed Ezechiele.

Mary nel Getsemani
cerca il pane dell’Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete.

Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il Nasturtiums With The Dance del 1912:
un secolo di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.

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(24)

Tardiva la tua risposta portò
il ricordo di Srebrenica e Zepa,
riformulando metafore e lessemi.

Il museumshop non era il luogo
per aprire reperti fonici,
fare da ponte ad ogni intruso della realtà,
coordinare le latitudini dei ghiacciai,
senza bussole e fischietti di richiamo,
anche se poi di tutto si può parlare
rifacendo i passi nel deserto,
fino al silenzio di Majakovskij
e “niente pettegolezzi”*
per un passaggio discreto a Novodevicij,
senza avvisi di uccellacci e uccellini.

*Frase scritta da Majakovskij su un foglietto, prima del suicidio.

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(26)

Questa strada di industrie in disuso
non ha più profumo di alloro e ligustri.

Cacciato dal cielo, un angelo azzurro
Prese alloggio nella casa di Piera.
Ci fu un discorso su lemmi e stilemi:
carcasse di lingua sepolte nel tempo.

Spuntarono fiori nei vasi.
Biorin, uscito da un triste calvario,
si fermò davanti a un quadro di Bruegel,

La notte ci fece uguali.
Tornò Gardel con paso doble e caminito.

Violini accennarono arie discrete.
-È una cosa molto rara-, disse il concertista in prima fila.
-Ma seguiamo lo spartito-.

Nel backstage, accanto a prove di fiato e solfeggi,
tornarono di nuovo le violette di marzo.

 

helmut newton in mostra a Roma part

helmut newton in mostra a Roma, particolare

Glossario

«Uno squilibrio in ragione del quale la letteratura si assume il compito di fare vedere il mondo con occhi nuovi, di “straniare” il nostro sguardo per renderci di nuovo reali e presenti gli oggetti più banali e quotidiani». Significativamente, anche nella teorizzazione di Viktor Sklovskij tale compito viene formulato attraverso una serie di metafore visive.
Il potere dell’immagine viene qui assunto in chiave positiva, liberatoria ancora una volta, eppure…

Il sogno di un’Enciclopedia in un’era che ha perso il senso, e forse la possibilità, di una rappresentazione totalizzante:

Se Il titolo, infatti, come diceva Marcel Duchamp, è una parte fondamentale dell’opera.
Tutto ciò che è scritto è in “carenza di senso” secondo l’eccellente espressione di Levi-Strauss. Ciò non vuol dire che la produzione letteraria sia semplicemente insignificante. Essa è in “carenza di senso”. Non c’è il senso, ma c’è come un sogno del senso. È la perdita incondizionata del linguaggio che comincia. Non si scrive più per questa o quell’altra ragione, ma l’atto di scrivere è gravato dal bisogno di senso, ciò che oggi si chiama la significanza (signifiance). Non la significazione (signification) del linguaggio ma proprio la significanza.[4] [4] BARTHES Roland, Magazine littéraire, n°108, gennaio 1976.

Il citazionismo diventa accessorio citazionistico di una merce letteraria andata a male e stipata in immensi magazzini, una collezione di schegge narrative strappate alla loro funzione narrativa, versi denervati, nuda oggettività antipoetica

Il Capitale costatando che “la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico. 
Poetica dell’ Iperreale.

L’erba di Stonehenge è il libro della deflagrazione….

Giocando con l’immaginazione si potrebbe indovinare la risposta che darebbe Brodskij se gli si sottoponessero alcuni versi di Mario Gabriele “La periferia non è il luogo in cui finisce il mondo, – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta”, naturalmente qui si parla di periferia poetica.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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Duška Vrhovac DUE POESIE inedite “In città con Bukovski”, “Liberazione a via del Corso” e altre poesie tratte da “Quanto non sta nel fiato” (2015) traduzione di Isabella Meloncelli con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 

cockail di immagini femminili

cockail di immagini femminili

Due poesie inedite di Duška Vrhovac

Commento di Giorgio Linguaglossa

Uno dei problemi comuni che la poesia e il romanzo europei hanno di fronte oggi è l’eccesso di realtà, l’iperrealtà, o di ciò che la maggioranza intende sia la «realtà» e il «realismo» che ne consegue. C’è in giro oggi in Eurolandia il timore dell’infezione della realtà, il timore di essere infettati dalla realtà, di non poterla raggiungere o di non volerla raggiungere, di non poter aggiungere nulla a quanto è stato già detto e scritto. Il romanzo e la poesia del Novecento sono ormai alle spalle, cos’altro resta da fare ad un poeta europeo di oggi che parla e scrive in una lingua di un piccolo popolo come Duska Vrhovac che scrive in serbo?. Il problema è tanto più grande quanto più la comunità dei parlanti di un poeta si restringe, e Duska Vrhovac è un poeta particolarmente sensibile a questa problematica, lei che appartiene ad un piccolo popolo guarda all’orizzonte europeo. Problematica ben viva in Europa tanto più in quanto oggi la poesia è chiamata a svolgere non più un ruolo di «supplenza», «specifico», diciamo, di «nicchia» entro le coordinate stilistiche delle letterature di appartenenza, quanto invece un «ruolo assente», «una funzione inesistente». Ed appunto questa, credo, è la sua funzione, che la poesia non corrisponde mai ad una espressione esistenziale immediata, ma è data sempre nella mediazione delle mediazioni. Voglio dire, e la Vrhovac lo dice con me, che anche una «funzione inesistente» ha, per paradosso, una sua legittimità ed un suo valore. Oggi in Europa accade che alla poesia non venga conferita alcuna funzione socialmente identificabile, ma questo, credo, è anche la sua forza. Anche i Dipartimenti di letteratura contemporanea se ne stanno alla larga dalla poesia. Accade che nell’epoca del disincanto e della stagnazione economica e spirituale oggi non si chieda più nulla ad un poeta. E il poeta, per contro, non chiede più nulla al lettore È questa la crisi, di ruolo e di identità, che un poeta europeo di oggi deve affrontare. Duska Vrhovac ne è consapevole, lei che si muove tra Belgrado e Roma, avverte come l’eco di una minaccia: che la più grave accusa che si muove oggi alla poesia è che essa sia una attività onanistica, turistica, olistica. Accusa non del tutto infondata a giudicare dalla poesia che viene prodotta oggi in Europa, poesia che ha il timbro e il sapore di una saponetta, con tutti gli ingredienti e i profumi eufuistici al loro posto. Ecco spiegata una poesia come quella che Duska Vrhovac scrive passeggiando per le strade di Roma: una poesia fintamente turistica, che narra degli «sconvolti turisti» che passeggiano a «via Del Corso». La composizione comincia in sordina, come una poesia simil turistica del tipo di quella che si scrive in Eurolandia; man mano che la poesia progredisce si cambia il colore, si alza il tono, si amplia l’orizzonte, si cambia discorso, si assume un lessico quasi sacrale. Da un minus ad un majus. Fino al peana finale che sembra quasi una partitura di parole per un coro, una sacra rappresentazione, l’incitamento a scrivere poesia perché non ancora tutto è perduto. C’è un’ultima possibilità, un’ultima tenzone da affrontare. Poesia virile, dunque, questa di Duska Vrhovac, che ha alle spalle non solo la tradizione della poesia serba, ma quella europea, rivissute in modo singolare. Ed è questo, forse, il vantaggio di un poeta serbo rispetto alla nostra disincantata e disillusa tradizione poetica del presente, dove va di moda una cultura dell’ironizzazione, dello scetticismo e del disincanto,Duska, invece, rilancia: «I poeti sono i miei soli veri fratelli». (D.V.)

Duska Vrhovac Miami Airport 2008

Duska Vrhovac Miami Airport 2008

Liberazione a via del Corso

Questo viola, come indurita goccia di dolore
fuggita dal pennello del pittore stanco,
cade sulle mie pupille annebbiate
e nella misteriosa veste del crepuscolo
avvolge Via Del Corso

Come mai qui, fra gli sconvolti turisti,
che, come la serpe la propria coda,
pescano se stessi sui resti dell’altrui storia,
vedo questi sodali di Kéri
dai visi con le tracce delle doglie
negli sguardi sguerci e agli angoli delle labbra?

Che siano diretti all’incontro segreto
con il Don Chisciotte di Farinelli
che in questi giorni mi sta alle costole
ripetendo all’infinito la stessa domanda:
come elevarsi in perpetuo e irreversibile volo
se come albero con le radici
con i tuoi fragili artigli sei incarnito nel suolo?

Passano degli Arabi, offrono meraviglie da poco
un gruppo di giovani emozionati con gli smartphone
fotografa una nota truccatrice
come passasse in persona Dante Alighieri.
Esaltata dal loro fervore
io dimentico il soffitto bucato
della mia casa belgradese
e leggera come il primo verso di un canto nascente
piano, recito a me stessa:

Salve a te Kéri László!
Salve Ezio Farinelli!
Questi esseri di sangue e carne
che portano i nostri nomi sono usurati
scompaiono, il che ci perseguita,
ma non siamo noi questi, amici miei,
noi siamo le nostre tele indistruttibili
e quei libri incombustibili e lettere, versi
come manciate di colori gettate sul viso del mondo.

Contro di noi nulla possono tutte le fabbriche del male
che lavorano non-stop
né i loro incendi o alluvioni
a scadenza infinita!
Con l’immagine e il verso, noi nonostante tutto
penetreremo tutti i bozzoli e le armature
come il guscio dell’uovo cosmico
da cui torneremo a rinascere.
Salve, a te Roma!

(Roma, 15 luglio 2015)

Duska Vrhovac Cop

In città con Bukowski

Tutt’intorno carne
ossa
sangue
collegati da nervi assottigliati.

In alto
nell’arco del cranio
un’energia
che un tempo fu mente.

Nel vuoto
del torace
fischia il respiro stentato
dell’anima consunta.

Incallite le dita
sui secchi rami delle mani
battono
battono, battono.

Manca la gola
manca la voce
mancate voi
manco io.

Andiamocene altrove, Charles
le discariche cittadine sono colme
i manicomi sono al completo
anche al cimitero si stenta a trovare un posto.

*

Credo che per comprendere una poesia come quella della balcanica Duska Vrhovac sia importante partire da questa sua affermazione:

«Io vengo dallo spazio “buio” dell’Europa dove ad ogni generazione è garantita almeno una guerra ogni 20-40 anni; tutto il resto è incerto. E quindi la cultura è agli estremi margini. Per questa ragione anche il rapporto con la cultura era migliore in quello stato marcio e ormai distrutto, inadeguato e chiamato “comunista”, di quanto non lo sia in questo stato democratico che si sta arrampicando sugli specchi per raggiungere gli standard europei che l’Europa ha già superato, distruggendo se stessa nel senso culturale e culturologico».

Ovviamente, qui ci troviamo di fronte ad una diversa prospettiva. Una vera e propria deangolazione prospettica (almeno dal nostro punto di vista italiano) La Vrhovac guarda alla poesia da questo particolarissimo punto di vista, fatto di negatività e di positività, consapevolezza di provenire da una storia di guerre che si sono succedute ad intervalli regolari di tempo, e consapevolezza che alla poesia debba essere richiesta una parola (non di conforto, certo) positiva, esortativa, parenetica. Sta qui, credo, in questo dualismo e in questo spettro la posizione di partenza della poesia della Vrhovac. Sarebbe errato andare a cercare nella poesia della Vrhovac ciò che non c’è, caro Antonio Sagredo, nella sua poesia non ci sono e non ci saranno mai i giochi di parole, le acrobazie millimetriche della poesia che si fa qui in Occidente, nel nostro mondo disincantato e fuggitivo (sfuggente, fitto di vuoto a perdere). Con le sue parole:

Non devo più andare da nessuna parte,
tutti i viaggi possono cessare,
le fughe, le ricerche, ogni cammino…

*

Il diavolo ha da tempo compiuto il suo lavoro

*

Non più solo la morte ha occhi vuoti.
Anche la nostra vita ha ora occhi vuoti.

*

A questa mia unica vita
piccola e personale
quando penso
di rado
potrebbe andare molto bene
sarebbe anzi bella:
un po’ di primavera
erba
fiori
amori
una casetta
dei figli
un marito
un amante
dei parenti
amici
un grammo di carriera
bagliori
un briciolo di talento
giochi di parole
un anno dopo l’altro
occhiali sempre più forti
e anche se
la morte è certa
questa è la vita
qui sono
qui sono stata
ho intessuto un nido
e gli uccellini poi
il canto festivo
ed è così umano
gradevole
caldo
che quasi ti viene da piangere.
Eppure
caro mio
a questa mia vita
piccola e personale
quando ci penso
e mi fermo a guardare
tolti gli occhiali
mi lascio un po’ trasportare
e copro gli occhi con le mani
non mi aiuta neppure la morte certa:
da quando l’uomo esiste
caparbio e abile
mente a se stesso.

*

Inatteso
come un segreto
o una vendetta
per tutta la notte qualcuno
ha martoriato la mia anima
fredda la mano
ruggine il palmo
gli occhi vuoti
non terreni
come se non intuisse
che non sono morta abbastanza:
non lo sono
e non penso
di aprire gli occhi umidi
anche se è buio
e non si vede
né quello che sono
né quello che non sono.

*

Quando gli occhi s’incontrano
e si fissano
dimmi allora
la parola
che ti è rimasta in gola.

Sarà
che sono sfuggita alla morte
come se ci fossimo
riconosciuti ancora.

*

Non sei venuto.
Lo testimoniano il pane
il vino e la voce fievole,
il tavolo su cui tutto freme
nel suo restare confuso
davanti alla porta chiusa,
mentre mi consumo io,
e non la candela.

*

Vorrei scriverti una lettera
comincio e ci rinuncio
tu sai bene da quando.
Mi sembra sempre
che io stessa abbia
una conoscenza incerta
e pallida di ciò che vorrei dirti.
Per cui non dice nulla
ovvero niente di quanto desidero
che tu sappia veramente.
Sulla carta la parola è dura
ma io vorrei che tu la sentissi
ammorbidita, avvolta nel respiro.
Sulla carta ho paura che tu
non mi riconosca affatto
e ancor più che tu comprenda
il mio non saperti dire nulla.

da Quanto non sta nel fiato, (2015)

Duska Vrhovac

Duska Vrhovac

Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).

Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.

È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia.

Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:

Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia;
Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia;
Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia;
Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.

Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986)
S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987)
Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988)
Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990)
I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991)
S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996)
Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996)
Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996)
Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997)
Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002)
Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003)
Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006)
Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007)
Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008)
Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009)
Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010)
Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011)
Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013)
Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)

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