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Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

Alfredo de Palchi

Domanda: Chi è il poeta Alfredo de Palchi?

Risposta: Alfredo de Palchi è nato a Legnago (Verona) il 13 dicembre, 1926, e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italiano residente negli U.S.A., a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua individualità stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento e di questi anni. Il suo primo libro, Sessioni con l’analista, esce in Italia nel 1967, con Mondadori, grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni; poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è ancora tutto da spiegare, un destino davvero singolare ma non difficile da decifrare. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione, (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri delle celle durante la detenzione del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo. Estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica degli anni che seguiranno la seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza letteraria italiana, per di più il giovane poeta era visto con estremo sospetto per via della sua scelta di affiliazione, ancorché giovanissimo, tra le file della Repubblica di Salò.

Laboratorio 5 zagaroli

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Perché una monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi?

Risposta: Perché Alfredo de Palchi è un poeta asintomatico e che non è possibile irreggimentare in una corrente o una scuola o una linea correntizia della poesia italiana del Novecento. E poi direi che il maledettismo di de Palchi non è nulla di letterario, non è costruito sui libri ma è stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana fu colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non è stata mai compresa in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini di schieramento politico-letterario. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neoavanguardia, la poesia di de Palchi venne messa in sordina come «minore» e «laterale» e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso e segnato. Finita in fuorigioco, chiusa dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava, e risulta ancor oggi, incomprensibile e indigesta alle istituzioni poetiche nazionali, era una fattura stilistica e poetica troppo dissimile da quella letterariamente riconoscibile della tradizione secondo novecentesca. Quella particolare «identità», quella convergenza parallela di vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di estraneità alla tradizione italiana. Probabilmente, la poesia di de Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica «europea», come espressione adiacente alla poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie. Diciamo, con una formula eufemistica, che quel manufatto era allora «oggettivamente» indisponente e indigeribile da parte della società letteraria del tempo. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia «migliore» di quella di Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci.

Laboratorio gezim e altri

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Pensi che oggi i tempi siano maturi per una rilettura priva di pregiudizi ideologici della poesia di de Palchi?

Risposta: Oggi, ritengo che i tempi siano maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo», per citare una dizione di Brodskij, da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano. Per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” da Pasolini nel 1963 perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo; questo almeno nelle intenzioni di Pasolini, artefice di quella operazione. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile» per motivi politici e di politica estetica, e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo e con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione storico-estetica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Domanda: Un capitolo della tua monografia è denominato «L’anello mancante della poesia del Novecento italiano». Vuoi spiegarci che cosa significa e perché questo titolo?

Risposta: La dizione non è mia ma di Luigi Fontanella che l’ha coniata per primo, che ritengo fortunata ed azzeccata. L’esperienza poetica del de Palchi di Sessioni con l’analista (1967) è centrale per comprendere la diversità esistenziale e stilistica della sua poesia nel contesto della poesia italiana del secondo Novecento, la irriducibilità di una esperienza poetica legata a doppio filo con la sua esperienza biografica e umana. Se si salta la poesia di de Palchi non si capisce nulla della poesia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. È incredibile, a confronto con la poesia depalchiana la poesia che si faceva in Italia non ha nessun punto di contatto, sembra quella di un marziano che scriva sul pianeta Marte.

Domanda: Una dichiarazione di sfiducia totale per le opere di storicizzazione.

Risposta: Sfiducia totale.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo de Palchi

Domanda:  I sei anni di carcerazione preventiva subita dal diciottenne Alfredo de Palchi con l’accusa infamante di omicidio di un partigiano, sono anni di letture intensissime da parte del giovanissimo poeta. Scrive Luigi Fontanella:

«Gli anni nel penitenziario di Procida, duri e vessatori da un lato, ma assai ricchi di letture, di stimoli e fantasie letterarie. de Palchi divora una montagna di libri che vertiginosamente (ma anche con diligente intento cronologico) vanno dalla Bibbia, Dante (specialmente quello delle rime petrose) e Cavalcanti, fino ai moderni e contemporanei, passando attraverso qualche rinascimentale, per arrivare, appunto, ai vari Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Quasimodo, Ungaretti, Montale,  l’amatissimo Cardarelli (su cui, sempre in carcere,  scriverà un breve saggio che, inviato a Cardarelli in persona, a quel tempo direttore della ‘Fiera Letteraria’, uscì su questa rivista,  suscitando scalpore e un certo dibattito),  fino ai suoi,  quasi coevi,  maestri o ‘fratelli’ maggiori: Sinisgalli, Sereni, Caproni, Erba, Zanzotto, Cattafi. Dalla lett(eratu)ra italiana passa poi a quella francese, non importa se – a quel tempo – con scarsa conoscenza di questa lingua, venendo conquistato in particolare da François Villon (non pochi eserghi tratti da questo poeta verranno poi utilizzati da de Palchi), Charles Baudelaire, Gerard de Nerval e, su tutti, Arthur Rimbaud».

Risposta: Il discorso poetico di de Palchi ha preso congedo dalle «fondamenta» pascoliane della poesia italiana del Novecento. Pascoli e D’Annunzio sono saltati di netto. È il primo poeta italiano del secondo Novecento che si libera anzitempo della zavorra stilistica pascoliana e dannunziana. In tal senso, è il poeta più realista del Novecento.

Laboratorio 4 Nuovi

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: E questo ai tuoi occhi è un distinguo importante?

Risposta: Nella mia visione dello sviluppo della poesia del Novecento questo è un punto decisivo.

Domanda: Torniamo agli anni Sessanta Settanta. Qual è a tuo avviso il distinguo dell’esperienza poetica di de Palchi rispetto alle coeve esperienze poetiche che in quegli anni si facevano in Italia?

Risposta: Nel libro, ho scritto: «Alfredo de Palchi sterza vigorosamente dalla poesia di impianto simbolistico-auratico del primo periodo montaliano, da una poesia meramente fonetico-musicale della tradizione lirica italiana dove l’io si auto conserva entro l’impianto dell’alienazione dell’«io» e del «corpo», per aderire ad una poesia dell’immaginario e della internalizzazione degli oggetti; fa una poesia afonetica, amusicale, anti auratica, fantasmatica non inscritta in alcun pentagramma melodico tonale. Un po’ in consonanza con quello che avveniva nella musica di avanguardia degli anni Sessanta da Giacinto Scelsi, John Cage a Luciano Berio, a Morton Feldman che apriranno nuove prospettive alla musica contemporanea». Non mi sembra cosa di poco conto.

Domanda: La poesia di Alfredo de Palchi come esempio di un nuovo tipo di realismo?

Risposta. Direi che non ci possono essere dubbi in proposito. Nel libro scrivo:

«Leggiamo alcuni sprazzi di «materia poetica» di de Palchi all’argento vivo, da «Un ricordo del ’45» in Sessioni con l’analista (1967):

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
[…]
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

Si tratta della poesia che ha consumato la più alta capacità di combustibile dagli anni del dopo guerra, un veicolo ad altissimo dispendio energetico, che non conosce il principio del risparmio di carburante, che va allo scontro frontale con l’entropia delle scritture detritiche dello sperimentalismo in auge negli anni Cinquanta e Sessanta, attraversa i decenni con una incredibile fedeltà alla propria intuizione stilistica ed arriva all’epoca della stagnazione stilistica e spirituale dei giorni nostri sempre con l’allegria del naufragio prossimo venturo».

Laboratorio quattro

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

ALFREDO DE PALCHI COVER GRIGIADomanda: Hai scritto nella monografia:  “Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo de Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967». Ritieni questo un punto qualificante della esperienza poetica di de Palchi?”

Risposta: Lo ritengo un punto assolutamente qualificante.

Domanda: Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore».

Risposta: Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

Domanda: So  che hai letto l’ultimo libro inedito di de Palchi Eventi terminali. Che cosa mi puoi dire su questo lavoro?

Risposta: Siamo circondati dalle parole-chat: radio, televisione, internet, giornali, riviste di intrattenimento e di nicchia, simil-poesie in plastica, miliardi di parole che sciamano con un ronzio inquietante e imperioso nella nostra mente. Anche le opere letterarie sono promulgate in parole chat. Purtroppo non abbiamo altra scelta che credere fermamente in una utopia: che soltanto una grande letteratura può bucare la rarefatta atmosfera fatta di sciami di parole insulse, inutili e perniciose. Le parole sono importanti per mantenere viva e vigile la coscienza estetica di una comunità nazionale. La decadenza delle parole di un popolo è l’indice del progressivo sfacelo di un paese e di una lingua. Una lingua è una precisa concezione del mondo e una immagine della identità di una comunità linguistica. Modificando le parole cambia la lingua, muta la concezione del mondo di quella lingua e muta l’immagine riflessa della identità di una comunità.  Il senso dell’identità dell’io è una costruzione linguistica e, come insegnava Lacan,  quello che per un soggetto è il significante non coincide con quello che per il medesimo soggetto è il significato; tra significante e significato si apre una voragine. Quando l’identità di una nazione è in crisi, si offusca anche il linguaggio dei suoi poeti migliori; de Palchi con quest’ultimo lavoro inedito, Eventi terminali, avverte, come per telepatia, la grande crisi del paese Italia, e la traduce in una scrittura anche sgrammaticata, sforbiciata ma di forsennato vigore. Una scrittura che vuole bucare il linguaggio poetico maggioritario dei nostri giorni, e lo buca a suo modo, con una forza effrattiva che lascia sgomenti. È un linguaggio testamentario che qui ha luogo: de Palchi ritorna, ossessivamente, ai luoghi e ai fatti della sua prima giovinezza, deturpati e violentati, prende per il bavero il più grande poeta italiano del novecento: Eugenio Montale e lo irride mettendo a confronto la edulcorata scrittura letteraria del poeta ligure con la propria irriflessa e istintiva. È l’ultimo atto testamentario del poeta Alfredo de Palchi.

In senso teleologico, il critico ideale è il lettore ideale. Comprendere l’«esperienza» che le parole di un poeta ci offre, questo è il compito del lettore ideale e quindi del critico. Abito del critico è la dichiarazione di valore letterario di un testo. A volte, non basta il primo incontro con un testo; di frequente il lettore vigile ritorna a riflettere sull’opera. Legge e rilegge la stessa opera, magari a distanza di anni. La riflessione è il primo stadio del processo di comprensione ma, inevitabilmente, in ogni atto di lettura è implicita una valutazione. Il lettore ideale si dovrà chiedere: a chi si rivolge quest’opera? Da dove proviene? In quali rapporti sta con le altre opere sue contemporanee? Come si colloca a fronte delle opere del passato? Come si colloca nel panorama del  contemporaneo? Cos’è che rende importante un’opera nei confronti di un’altra? Qual è il rapporto che collega un’opera ad altre contemporanee? Il giudizio critico implica sempre una collocazione non solo dell’opera ma anche del lettore ideale. Ma un giudizio critico è sempre «aperto», non può essere «chiuso», altrimenti sarebbe un dogma teologico; nel giudizio rientra la ricerca del confronto con altri giudizi; ciò a cui il lettore ideale tende è un confronto con altri lettori che lo induca a riesaminare il precedente giudizio. Paradossalmente, il critico ha bisogno, più del poeta o dello scrittore, del confronto con un pubblico. Senza di esso, l’atto della lettura critica diventa un responso soggettivo. Credo che debba esistere nell’ambito della comunità una élite di lettori intelligenti in vista di un accordo sul giudizio estetico. Privo del supporto con un pubblico intelligente, il lavoro del lettore ideale diventa un fatto utopico, al pari di quello del critico. In fin dei conti, anche la scrittura di un critico è un atto testamentario, al pari di quello del poeta.

Quando una società non dispone di una letteratura in salute, l’esercizio dell’attività critica risulta dimidiata e offuscata, la comunità dorme il suo sonno ontologico. La stessa democrazia è in pericolo. La valutazione delle «cose pubbliche» della comunità non è cosa diversa e distinta dalla valutazione delle «cose private» qual è un  libro di poesia.

La difesa di un libro di poesia ha a che fare con la difesa della democrazia. Occuparsi di un’opera di poesia, difendere un buon libro di poesia, un autore è dunque un esercizio altamente «politico», è un atto da cittadino della polis, un atto che ha a che fare con la libertà individuale e collettiva. È, in definitiva, un atto pubblico.

Domanda: Un’ultima domanda, pensi che sia utile in quest’epoca di grande confusione in materia di poesia scrivere una monografia critica su un poeta vivente?

Risposta: Sono fermamente convinto che nella attuale situazione di confusione indotta dei valori poetici sia indispensabile proporre delle monografie critiche sui poeti veramente significativi. 

Laboratorio lilla

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Alfredo de Palchi, Poesie
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
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Alcuni paradigmi dell’opera poetica di Alfredo de Palchi – saggio di Antonella Zagaroli – Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni ricchi di creatività

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Per il novantesimo compleanno di Alfredo de Palchi, uno dei grandi poeti italiani di ieri e di oggi, nato il 13 dicembre 1926 a Legnago (Verona), la redazione de L’Ombra delle parole augura altri cento anni come questo riproponendo un saggio di Antonella Zagaroli sull’opera e la personalità del poeta italiano che vive a New York

 Alfredo De Palchi potrebbe definirsi un crogiuolo di esperienze umane e artistiche, la sua poesia un unicum delle une e delle altre nonché una tantum nel panorama letterario italiano. È a mio avviso cioè una singolarità italiana che precede il pensiero occidentale contemporaneo e anche futuro.

La vita e l’espressione artistica si fondono in lui in modo indissolubile come è sempre avvenuto per ogni autentico artista spesso dai suoi contemporanei isolato, tenuto da parte perché non integrabile nella generalità che li accomuna. Sonia Raiziss sua sublime traduttrice e compagna di vita per un lungo periodo ebbe a precisarlo in modo molto netto: “With Alfredo De Palchi the poet is the man. What he has known, what is has lived, is what he writes(…) The poet is the sufferer and the experience is the metaphor closest to itself.

Lo sottolinea bene Luigi Fontanella all’inizio di uno dei tanti saggi che il poeta e professore universitario (anch’egli diviso fra Italia e Stati Uniti) dedica a De Palchi: “credo che in pochissimi poeti della Modernità il nesso vita/poesia sia stato così stretto, così immediato, così fatalmente necessario, come in quella di De Palchi.1

E dopo aver letto attentamente la sua opera tutta io direi che i “paradigmi” tradizionali non solo della poesia ma anche del pensiero e del comportamento soprattutto di un uomo occidentale non si addicono a De Palchi. Daniela Gioseffi lo definisce “non conformista”2, Roberto Bertoldo parla del “suo piglio unico e dell’assoluta novità di linguaggio che si faceva sentire già nei tardi anni quaranta”3. La lettura evolutiva delle sue poesie ci introducono in un viaggio temporale che arriva oltre la contemporaneità sia nei temi sia nei registri stilistici utilizzati.

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De Palchi è nella vita e nell’opera un paradigma, non a caso è il titolo che lui stesso ha dato al libro che raccoglie quasi tutta la sua produzione poetica, eccetto gli scritti dal 2004 in poi. Paradigma è un titolo plurisemantico, è sì il paradigma, il modello, l’esempio che l’autore si riconosce desiderando altresì che da tale presupposto si rivolga l’attenzione alla sua poesia, contemporaneamente io lo intendo nel significato di enunciazione delle forme fondamentali del verbo (Verbo e anche forma verbale l’aspetto che dà alla scrittura il movimento), dei temi da cui derivano tutti i tempi. Non sono certa che De Palchi abbia volutamente attribuito un tal senso plurimo a tutta la sua opera poetica, sono però convinta che anche da questo punto di vista dovrebbe cominciare ad essere esaminato il suo lavoro. Dovrebbero cominciare a studiare i temi e i tempi dell’opera depalchiana quei critici seri e ascoltati che hanno la possibilità di far raggiungere la sua poesia al maggior numero di lettori possibili.

La poesia di De Palchi affonda profondamente nelle radici, nell’essenza di ogni essere umano, è una poesia terrestre per i temi e sublime per l’anelito, il gusto, il desiderio che lascia dentro chi la legge facendolo sentire accomunato al poeta e anche meno solo. Non è questo il sentire che stimola da sempre la grande poesia?

I tempi dell’evoluzione di pensiero, di scrittura e di esperienza personale li srotola lo stesso autore ponendo puntigliosamente, direi, ogni data precisa dopo ogni poesia.

De Palchi, che già dalla fine degli anni ‘40 ha coniato il neologismo “scentrato”, è proprio uno di quegli artisti che si nutre del punto focale di sé stesso e da questo fa scaturire la sua poesia. Come dirò in seguito il neologismo ha un significato tutt’altro che schizoide. In polemica con coloro che hanno parlato di eccessivo autobiografismo nella sua opera vorrei rilevare che ogni artista potente è stato ed è per forza di cose autobiografico. Coincidono cioè in lui/lei il movimento ideale e concreto che caratterizza il personale stile di vita, le sue scelte e quanto esprime tramite e nella propria arte. A questo proposito mi piace spesso citare una grande pittrice Frida Khalo, a cui sono molto legata. La Khalo a chi le chiedeva perché dipingeva essenzialmente autoritratti rispondeva che era spesso sola e se stessa era la cosa che conosceva meglio. Questo il punto, si scrive, si dipinge, si compone musica, si progettano sculture e architetture, si dirigono film partendo dalle cose che più si conosce. Che poi queste diventino patrimonio comune dipende dalla ricerca severa delle modalità che ogni creatore dovrebbe proporsi per raggiungere al meglio ciò che lo muove nell’azione espressiva.

Credo non esistano creatori autentici scissi da se stessi, possono essere separati, isolati dal contesto sociale perché troppo avanti (nella storia della cultura tutta quasi sempre è accaduto) ma non dal loro centro personale. L’arte e la cultura prodotte nell’ottica della scissione, cioè “cosa faccio di me è cosa diversa da quello che realizzo”, possono vivere il fuoco fatuo del successo, della fama in vita, delle vittorie, ma appartengono più al potere. La cultura è stratificazione di scoperta continua, di ricerca instancabile nella quale si intravede, si intuisce la visione dell’insieme. Un artista autentico non parte dall’idea di canonizzarsi e quindi segue il canone formatosi nei secoli, un artista autentico segue la spinta interna e cerca di realizzarla al meglio se poi ciò accadrà in vita o meno dipende anche dalla sua fortuna individuale (di solito legata al carattere), ma anche dalle difficoltà concrete (come accade per i tanti creatori perseguitati dal potere durante tutta la loro esistenza in passato come nel presente) e soprattutto dal coraggio di scavare senza remore ciò che vuole profondamente e di restituirlo senza ambiguità agli altri. Entra così nel canone, nel flusso ondulatorio, cioè, in cui gli esseri viventi sono immersi sapendo che “ è inutile pretendere, ognuno / è per se stesso / e sta in se stesso.” 4 come scrive De Palchi.

A questo proposito nell’intervista che Bertoldo pone come preliminare della raccolta di saggi dedicati a De Palchi l’autore dice espressamente: “La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina” Il senso paradigmatico del verbo cui facevo riferimento sta proprio in questo saltellare delle parole, è lì il loro movimento.

Ho saltellato anch’io lungo questa mia prima analisi della sua poesia così variegata.

Il criterio che ho seguito è quello tematico (seguendo soprattutto ciò che mi è affine e per esperienza e per poetica) e non cronologico. La buia danza di scorpione e Un ricordo del 1945 li ho trattati non con grande approfondimento, certo non per disinteresse o perché a me poco attinenti, tutt’altro, soltanto perché molti critici sono partiti o hanno centrato la loro analisi proprio su questi due testi, evidenziandone sia l’importanza poetica rispetto a scritti di altri poeti coevi, sia la matrice profonda da cui deriva tutta la poesia depalchiana e io volevo differenziarmi nel mio primo contributo critico a De Palchi.

Ho deciso di affrontare la complessità della sua poesia secondo un criterio personalissimo, soffermarmi o su testi che sono stati affrontati dalla critica in modo forse troppo tradizionale, anche se profondo, come Sessioni con l’analista, o su tematiche ricorrenti in molte raccolte che ho tentato di ricomporre in un puzzle unitario: la desolazione e l’alienazione dell’individuo in tutto il novecento fino ai primi anni del nuovo millennio, la vita resa sacra dalla “terraqueità” della donna, dal sesso, l’incontro-scontro con l’ultimo lembo dell’essere terragni, ciò che forse ossessiona di più la contemporaneità, il rapporto con la Morte.

La poesia di De Palchi è composta dal sangue suo e di quanti sono stati coinvolti nelle sue esperienze ma è il sangue, la materia, la mente che ha scoperto dentro di sé, materia complessa che poi lo lega, collega a tutto il resto.

Sono
—– questo il punto / idea connettivo.
l’unto dell’acqua l’insettivoro petrolio
sigillato da eruzioni
pozzi sotto il fondale, l’oceano grasso
di corpuscoli, plancton che funziona
con premura per i crostacei
per il pesce cui serve ad altro pesce
e avanti secondo l’inevitabile alimento
e grossezza ¬¬- coriaceo predatore, secco
rogo di pinne dorsali e pettorali
su peduncoli e trampoli
da suggerire tracce di membra
e la spina un tubo
di cartilagine: il coelacanth
non estinto.

Parto da questa poesia proprio perché è la chiave del rapporto dell’autore con tutto ciò che lo circonda, una raggiunta consapevolezza esistenziale che ha inizio dagli anni della detenzione e poi dell’espatrio dall’Italia rivissuti e ricostruiti  interiormente e artisticamente nel poemetto Sessioni con l’analista pubblicato in Italia con Mondadori nel 1967 e finalista al premio Viareggio dello stesso anno. È fondamentale ricordarsi questa data per capire il passo in avanti di De Palchi come autore rispetto al contesto letterario italiano e non.

In Sessioni con l’analista egli entra nel racconto poetico del percorso di scandaglio interiore proprio della psicoterapia quando la cultura italiana era ancora in gran parte digiuna dell’importanza della conoscenza e dell’approfondimento personale base della crescita interiore e artistica. Anzi questo percorso è stato molto spesso snobbato dalla cultura letteraria italiana non soltanto degli anni sessanta e settanta ma anche successivamente.

E cosa fa letterariamente De Palchi nella sua opera, anticipando qualsiasi successivo tentativo simile?

Il testo è una sorta di nuovo percorso dantesco, prende forma dalla necessità di un uomo di 40 anni “nel mezzo del cammin” della vita per gli uomini e le donne del XX e XXI secolo, che ripercorre l’inferno e il purgatorio delle esperienze esterne e più intime affrontate senza inibizioni dall’uomo e dall’artista De Palchi. Una delle prime indicazione della cifra di questo autore è proprio il coraggio, la non necessità personale di affidarsi a comode finalità editoriali che seguano la moda del tempo.

Le poesie di Sessioni con l’analista, anticipatorie e più compatte di tanto sperimentalismo italiano, appartengono, a mio avviso, allo stesso fiume creativo innovativo di The sound and the fury di  W. Faulkner, di alcuni momenti dello Ulysses di J. Joyce. Come in quelle operazioni narrative nel poemetto di De Palchi vengono proposti stilemi linguistici consoni alla struttura evolutiva di una comunicazione interiore stravolta dal disagio emotivo. De Palchi percepisce dentro di sé una situazione intrapsichica che si diffonderà sempre più consapevolmente nelle persone più sensibili dal secondo dopoguerra in poi. Sono gli anni in cui l’essere umano, ancora immerso in un contesto frantumato che propaga schegge continue, quasi in modo esponenziale si rende conto dell’isolamento, dell’alienazione a stesso e  agli altri, all’altro. Per inciso la realtà attuale è impregnata di questo sentire nonostante il new deal degli ultimi 50 anni essenzialmente tecnologico e di facciata.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

Sessioni con l’analista per chi, come me, abbia avuto esperienze professionali e/o  personali di terapia (anche se De Palchi al momento della scrittura non ne aveva avute, come racconta in molte sue interviste) sa bene che l’accavallarsi di pensieri fra ricordi diversi e momenti presenti, la ricerca della parola che aiuti a dipanare i nodi che si aggrovigliano in colui/colei che si trova in uno stato di disagio esistenziale, di malessere continuo che lo blocca in ogni azione, è esattamente il momento in cui si arriva a chiedere un aiuto psicoterapeutico.

Così cominciano le Sessioni e De Palchi in 23 momenti riporta poeticamente tutta l’evoluzione linguistica propria del processo terapeutico.

La prima sessione comincia con “ – difficile – / dico ” e prosegue con una sorta di elenco di oggetti seguiti da un aggettivo “pietrificato / quanti milioni di anni? –”, questo è proprio lo stato d’animo iniziale di chi comincia un percorso di consapevolezza psicologica. Ogni paziente comincia con parole che esprimono lo stato di difficoltà in cui si trova. Ci si guarda intorno nella banalità quotidiana, ci si scopre rigidi, pietrificati. La volontà di chi è spinto a cercare un aiuto psicologico è proprio quella di muoversi dalla fissità, dallo stallo emotivo e fisico, dalla impossibilità di trovare modi di essere diversi da quelli che fanno star male. E la prima sessione continua con

“non so come, da quale mia geologica età
cominciare: estrarre il magma;
impossibile
cominciare il gergo inconcluso
attorcigliato…….”

Queste sono quasi esattamente le parole di chiunque comincia un iter di consapevolezza interiore. Fantastico l‘aggettivo “impossibile” voluto solitario nel bianco della pagina. Ogni paziente sente che ciò che vuole fare è difficile e va avanti si ferma e poi si dice e dice che è “impossibile” continuare. Il linguaggio dei pazienti in analisi si struttura in un andirivieni fra l’avere coraggio di proseguire per scoprire che si hanno altre possibilità per se stessi e che è proprio quel blocco “bianco….difficile….gelido” che non fa trasformare le parole in un “gergo udibile”.

La seconda sessione dispiega il paradosso dell’“ (incomunicazione) ” e del produrre “frammenti”, termina con un’altra parola preceduta dal prefisso inincompiutezza”. È tale parola la prima goccia dello scioglimento del “gelido” e compare qui anche un’altra chiave comunicativa di ogni paziente: “perché”. “Perché” torna più volte in tutte le 23 sessioni, come torna “la segretaria”, il personaggio pseudo interlocutore delle sessioni. “Perché” è indice del tormento, dell’ossessiva ricerca di una spiegazione che non viene data e che il paziente stesso non si dà.

Nella terza sessione il ghiaccio si è rotto e comincia la narrazione terapeutica dei fatti. Si parte dal passato più lontano, dall’infanzia: “ragazzo timido, chiuso” e poi, ad “esempio”, racconta un episodio chiave per la lettura della persona, l’uccisione non realizzata completamente di un coniglio. Analiticamente parlando il paziente comincia a svelare se stesso. “——- anni dopo il coniglio (dicembre 1944).

Nella ottava e nona sessione l’autore arriva al momento iniziale della consapevolezza: “oggi”, “—incomunicabile—-” entrambi isolati nella pagina bianca. È l’essere umano De Palchi che si svela e il poeta De Palchi evidenzia la significazione profonda col suo stile unico di parole isolate costituenti un unico verso e contenute da linee continue.

Nella nona il “che significa, devo sapere, poi…—–” all’ultimo verso crea la continuità dell’azione e il desiderio di sapere di più e in lui e nel lettore.

I frammenti degli episodi si collegano nella decima e undicesima sessione fino alla tredicesima con  “sesto senso” “attendo il sesto che unisce il tutto” “in unisono—–”,  il sesto senso dell’unicità in De Palchi fino alle opere successive è quello dell’incontro, della comunicazione, dell’unione con la donna.

Nella quindicesima i ripetuti “non capisco” e “non capisci” rivolti alla sua gatta analista ma anche a se stesso e poi “difficile capire” e “non capisci che una parte di me / è oltre la realtà (…)” indicano esattamente il momento terapeutico in cui il paziente inizia ad andare oltre le sue ossessioni e la propria immobilità. Sta finalmente accettandosi così com’è, nella difficoltà di comprendere tutto.

Da qui comincia a reinserirsi nel mondo anche se con “—–la testa ad uovo/ e il corpo a pesce—-

Nella diciottesima viene indicato quale può essere il legame fra i frammenti, “il libro” e arriva la dichiarazione: “la mia comunicazione è stabile—–”. La comunicazione stabile è dunque la scrittura e viene apertamente dichiarata anche al lettore.

La chiusura analitica inizia dalla diciannovesima sessione con i tre versi finali:

“non è ch’io voglia essere capito, nessuno
capisce nessuno: voglio me
in me stesso, il perché del tuo “perché”

Credo che ogni psicanalista o psicoterapeuta vorrebbe un tale consapevole paziente e ogni poeta vorrebbe far coincidere nelle parole scelte il sentire profondo suo che coincide con quello d’ogni essere umano, anche se De Palchi in molte sue interviste nega la volontà di partecipazione ai problemi degli altri esseri umani. Ma De Palchi nella sua esasperata autenticità conferma la chiave di ciò che lo lega agli altri e lo rende esemplare artista. Se si parte dal se stesso profondo, dal focus personale che crea il movimento in vita, non preoccupandosi mentalmente di voler arrivare agli altri, proprio allora ci si mette in comunicazione, anche nostro malgrado, con chi ci ha preceduto, ci seguirà o è a noi contemporaneo. De Palchi uomo non si proclama amante dell’umanità anche se la sua poesia propone situazioni, espressioni, sentimenti che coinvolgono l’umanità e non soltanto nelle poesie erotiche come più volte sottolineato da molti critici.

Dalla ventesima alla ventitreesima delle Sessioni con l’analista la consapevolezza entra anche nella storia di sé ricomposta:

(il barcone della ghiaia
nell’Adige: corpo
primordiale che mi narra:
lievita la scia in cui divento
una lisca
ex pesce——questo
paesaggio d’apocalisse
acqua
pietra
è crudezza essenziale
e il fiume / prima speranza/
non sente non
sa della mia naufraga esistenza
non sente
non sa dell’arcaico presente)——-

nella ventiduesima scrive:“non mi occorrono radici per sapermi / sentirmi esistere(…)”.

Nel corso dell’ultimo appuntamento con “l’analista” il lettore è indotto ad autoanalizzarsi  attraverso il poeta, i versi in essa contenuti, infatti, potrebbero costituire una lunga grande domanda-risposta per ognuno di noi davanti alla realtà interna ed esterna. E potremmo tutti dire alla fine del percorso “—-solo, incomunicato, incomunicabile—-”.

De Palchi non termina il suo inferno-purgatorio come Dante in una visione paradisiaca, ci riconduce nel mondo occidentale che dalla metà del novecento arriva fino al nuovo millennio. L’incomunicabilità, la solitudine, luoghi emotivi e fisici della poesia depalchiana, sono anche i paesaggi dell’attuale era globale, virtuale, in cui la comunicazione autentica e veritiera è ancora apparente anzi può spaventare se diventa trasparenza.

Trovo che l’atmosfera di molta parte della poesia di De Palchi è l’ideale proseguimento della The waste land di T. S. Eliot, a sua volta erede delle visioni di W. Blake e della concretezza marcia di A. Rimbaud. Con la rabbia di F. Villon, a lui molto caro e del quale si riconosce erede, De Palchi, non cercandolo fuori accademicamente ma esclusivamente attraverso l’esperienza personale entra nel mondo del “Thunder rolled by the rolling stars / Simulates triumphal cars/ Deployed costellated wars / Scorpion fights against Sun” eliottiano. Quasi presi a caso dalla rilettura di The waste land  in questi due versi ritroviamo due titoli delle opere di De Palchi, La buia danza di scorpione e Costellazione Anonima. Quest’ultima soprattutto e Reportage (New York 1957) riportano la mente alla prima parte di East Coker e alla seconda parte di Little Gidding dell’opera di Eliot. In Reportage De Palchi scrive:

“sul pietrificato fra macchine autocarri
autobus (sudaticcio afrore
di crematorio) fumo di benzina
nera polvere granulosa
osservo
la elettro-
esecuzione dei colombi che piovono dalle finestre
(…)
la desolazione piatta delle muraglie di vetro
tralicci impalcature
barboni con bottiglia all’ascella
stravaccati su carta di giornale”
(…)
si apre l’industria religiosa:
il mercato è saturo
non c’è spazio
troppa gente vi partecipa
per sociale prestigio
o paura di guerre:
prestigio
guerre
ottimi affari——e voci al megafono:”
In Costellazione Anonima torna quasi ossessiva tutta la polvere di Eliot:
“Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno
su me un cadavere continuo di polvere dal soffitto
sul letto tappeti bottiglie dalle pareti
che mi serrano nella morsa del mio futuro cadavere
già sepolto sotto il cumulo di polvere di questa
polvere che rassodata nello spazio gira su se stessa
e intorno il sistema termonucleare come me cadavere
che rigiro su me stesso e spostato di quel tanto
dal mio centro intorno me stesso:
costellazione anonima.”

La distruzione delle macerie del mondo creato dall’uomo ha già invaso e del tutto distrutto la natura:

“la sequenza di agitazioni distrugge
a catena le forme compatte:

la foglia arsa o verde
tarlata d’insetti sbilancia l’albero che oscilla
crostaceo o in torbo rigoglio all’aria”

(…)

scogli atolli continenti
in tumulto di uccelli e animali senza scampo
nelle nevi e siepi di orizzonti
dei gelidi groppi di abitati
arresi alla non-ragione”

In questi versi anche la musicalità è aspra, piena di suoni sonoramente duri usciti da una gola piena di dolore e rabbia. È una musicalità teutonica, ricorda la musica tedesca del settecento e del novecento ma che ha, altresì, alcune assonanze con la musica dodecafonia. Sì, gran parte della poesia di De Palchi non ha il ritmo delle sdolcinature linguistiche italiane, nonostante sia scritta in italiano. Anche questo rende singolare l’opera poetica di De Palchi.

La voce della desolazione, della rabbia, dell’impotenza nei confronti del potere che ha devastato l’uomo e la natura, assume a volte la forza di Urlo di Munch 5perché diventa l’urgenza di esistere comunque differenziandosi dal contesto o comunque tentando di rimanere appartato dallo sfacelo del mondo moderno. In che modo? Sempre “spostato di quel tanto” fino a descriversi con chiarezza dolente e non assuefatta nella poesia con l’esplicito riferimento al termine eliottiano:

Ho trovato questa analogia prima di aver letto quanto avevano magistralmente rilevato, anche se per momenti poetici diversi, sia Luigi Fontanella che Daniela Gioseffi. Riferendosi a La buia danza di scorpione Fontanella scrive: “Il “no/no/no” risuona come un Urlo (alla Munch) cosmico, rabbioso, che non vale solo per il poeta che ha avuto il coraggio di esprimerlo – ma è un Grido di rivolta per tutte quelle vittime della storia che ebbero a patire crudeli ingiustizie e disumane sofferenze(…) Un Urlo rivolto a tutti, “for all of us, swallowed by pragmatism or apathy, against man’s inhumanity to man- Gioseffi 1996

e più oltre,
vedo me, uomo

la sua agonia di animale
di sentore mortale
di mente s-centrata

che in una stretta si uncina e sulla sabbia
flotta il “Verbo” semplice,
gira sul proprio sangue e si inginocchia
a vedere la finale malevolenza
di sé, uomo sbilanciato dalla voragine
desolata della terra promessa”.

L’attributo “s-centrato” utilizzato per sé in tutta la sua opera sembra operare un tentativo di auto salvazione anche se ammette amaramente:

——-adottato dalla bruttura
e violenza ora
la collera della mia età è uno strappo
di vesti / è l’essenza
entro me lacerato.”

Ecco allora che l’opera nata con una Premessa scritta a Parigi nel 1953 posta ad invettiva e dichiarazione di visione del suo tempo 5] si trasforma in una galleria di visioni apocalittiche.

Altro punto cardine della poesia di Alfredo De Palchi è il rapporto col sacro e con l’idea cristica. La figura di Cristo per De Palchi è la matrice che si frammenta nella consistenza di un uomo. Cristo, vero e proprio perché umano, è nominato più e più volte nelle sua poesia fino al riconoscimento alla consacrazione di se stesso in lui.

Mi
immedesimo in te, Cristo,
spirito incolume della mia religione
carnalmente di bestia umana—- la mia comunione sacra
è la manifestazione di quanto esprimi spezzando il pane
“prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
e porgendo vino
“bevete, questo è il mio sangue”.

Mi spezzo, come il pane della cena,
e dissanguo, come offerta di vino—simbolo del sangue
prezioso; sono il carnivoro
il cannibale che lingueggiando divora il suo corpo
e beve il sangue della ferita
perché si ricordi di me;

I versi di questa poesia stigmatizzano il senso dell’esistenza stessa di De Palchi come uomo e come artista. Qui si esprime compiutamente anche da un punto di vista filosofico. Questa poesia è una dichiarazione quasi lapidaria di consapevolezza. L’essere umano cristico, uomo o donna che sia, è isolato dai suoi simili, da lui troppo distanti soprattutto per sensibilità. Perché è indubbiamente complesso, faticoso, soprattutto in un momento storico in cui tutto è delegato alla egoistica visibilità che illude di elevarsi a onnipotenti, scendere dentro se stessi fino a comprendere l’essenza che  rende vivi.

E De Palchi può scrivere tali versi proprio perché è passato dall’esperienza personale e poetica del guardarsi dentro: La buia danza di scorpione, Un ricordo del 1945, Sessioni con l’analista e guardarsi intorno con occhio “s/centrato“ di Costellazione Anonima, Reportage.

Ma per il poeta il sacro non è nella religione, che in alcuni momenti anzi si arrischia a sfidare, al contrario di molti poeti che invecchiando si sono avvicinati alla consolazione di una fede. De Palchi fino agli ultimi scritti del 2009 rimane legato alla religione della natura, della materia, ma non nel senso politico del termine.

Nel Preliminare a Paradigma scritto nel 1950 si succedono fonemi e sintagmi da nascita del mondo:

la genesi—-materia
rivolgimenti indurimenti centrifughi di polvere
gas il fuoco liquefa glaciali rocce
e ancora rassodamenti vapori
una goccia la genesi lunga nella goccia
(…)
genesi senza punto evoluzione senza punto
solo materia—–la nemesi

Nella poesia da cui trae il titolo dell’opera singola Paradigma, De Palchi utilizza un linguaggio quasi filosofico, ci riporta all’uovo primordiale, al senso della conoscenza insito nella metafora del serpente ma anche, forse, dell’ourobus dell’Opera alchemica.

l’occhio della serpe è un qualsiasi dio—-
(….) e con la spirale centripeta spazza
il quotidiano lasciano al raso
il reale più fecondo”
(…)
testa piatta a triangolo a stemma
di religione—-(…)
Ogni uovo di serpe contiene compatto un uomo
qualsiasi, l’uragano è la realtà che fabbrica
il piede: la mano stupenda—–il paradigma

I suoi versi qui, scritti nel 1964, ricordano l’atmosfera di un testo di difficile interpretazione, Favola di W. Goethe.
Fin dall’inizio e poi negli ultimi scritti il sacro di De Palchi si concretizza nella terra, nella donna come origine del tutto. La sua religione si propaga dentro e fuori il corpo femminile. Il percorso linguistico di Essenza Carnale, ad esempio, è costellato di parole che raccontano gestualità tratte dalla religione, anche se il poeta sembra riscrivere questa religione rendendola umana.

aprimi la cerniera, infila la mano
e come all’altare in ginocchio immergi
il viso acceso di sangue nella cesura
adescando abilmente il pesce simbolico a guizzare
nella cognizione della tua bocca che si affida
alla mia profezia:

la messa continua della mensa.”

L’amplesso e la congiunzione religiosa sono emblematiche in tutte le poesie degli anni 2000:

nella tua esistenza di Maddalena in amore
del mio risveglio in un corpo di Cristo” ;
“sono il tuo sacrificio l’agnello”.

Le sue donne carnali e ideali, intuite in profondità oltreché amate per la loro reale presenza, sono, a mio avviso, il tramite che lo conchiude e lo riconduce alla nascita. In questo senso la sua religione personale, nonostante sia uomo vissuto appieno e nel centro del novecento occidentale, lo può far avvicinare a idee e filosofie tipiche dell’oriente, dell’India soprattutto.

“potessi scatenarti nella spiritualità del tuo corpo”;
“religione della tua fluttuazione,
sostenenza dell’ostia splendente sulla mia faccia”;
“avvolgi nell’ideare il mio calvario infiammato
vinto con la religione della tua essenza
carnale—-(…)
riempiti del tuo salvatore” ;
“uguale al serpe ti assorbo intera
e tu da madre terraquea
chiami alla nascita il mio ritorno nell’aurora
del grembo, la dimora
di ascendente devozione per lo spirito in frammenti.”

Qui la donna è sì concreta ma anche madre, forse la Grande Madre che contiene la natura e gli esseri umani e che lascia traccia di se stessa in modo più visibile nella femminilità.
Come non avere la sensazione dopo aver letto i versi precedenti che per De Palchi ogni donna reale, che può essere anche stata amata dal poeta, è poi trascesa proprio attraverso la sua carnalità? È trascesa ma non per essere angelicata, come avrebbe inteso un epigone della poesia petrarchesca di cui la poesia italiana ancor oggi rigurgita preferendo quello stile alla crudezza, a volte anche blasfema di Dante.
Con gli anni la visione della donna nella poesia di De Palchi è diventata l’ostia necessaria all’uomo per sentirsi più umano. Già nelle Viziose avversioni scritte fino al 1996 la sua idea della donna era chiara, “ogni oggetto inanimato o animato è donna,”, anche se spesso con immagini ambigue e negative. Successivamente la femminilità si amplifica diventa Essenza Carnale perché la compagna donna che De Palchi recita è il suo stesso femminile, la sua sensibilità stordita dalla morte del coniglio nel ricordo iniziale delle Sessioni con l’analista, poi da “il tonfo del gatto”, dal pudore che deflagra all’interno di se stesso “Spasimo scoppio / erompo sesso in aria / rimanendo zitto.”

La donna diventa l’anima sangue da ingurgitare, da lasciarsi ingurgitare per diventare più totale.
Questa è forse la chiave per comprendere i versi erotici depalchiani che non sono mai volgari nemmeno quando descrive amplessi e ricorre a parole vividamente comuni. Le sue costruzioni poetiche erotiche sono fiumi in piena di anima, sangue, cervello dell’uomo De Palchi.

Tremando entro la circonferenza dell’amplesso
esponi lo spirito acceso
a bocca che ansima; mi prendi nella sua cavità, vuoi
che la scopi e raggiunga
il profondo della sua gola; vuoi
che il tuo sesso sia scavato
quando dici “sfondami tutta, completami
—– il colloquio reciproco è il gioco
utile per invigorirti del tuo stesso assioma.

Mi piace citare a questo proposito quanto scrive il critico John Taylor, lettore e studioso acuto dell’opera di De Palchi: “De Palchi’s erotic vision nearly always goes beyond the corporal per se. Present in his erotic poems is a cosmic dimension, an experience of amorous union and the epiphanies of pleasure surely, but also a yearning for the primeval, the primordial, the ab-original.”7
Aspetto fondamentale per comprendere Foemina Tellus, l’ultima opera al momento pubblicata, è il rapporto di interscambiabilità fra donna e terra già presente in Essenza Carnale:

la luminescenza in evoluzione del sole scoperchia
e alimenta di energie le radici terragne
quanto la trasparenza coniugale della tua vena
con luminosità accecante mi contatta nutrendo la radice
concretamente buia——
séguita a custodire ogni
senso di sensualità che ci possiede insieme
nella derisione nella melma nella depurazione
ed infine nell’intimo sconvolgimento con la coscienza
di che si ha e di che si è;”.

Se ci si addentra nella lettura delle poesie di Essenza Carnale e poi di Foemina Tellus sembra di entrare in una galleria di quadri di Tiziano, di Courbet, anzi soprattutto di quest’ultimo. Come il corpo femminile indagato da Courbet possiede una componente erotica tanto marcata da scuotere la sensibilità della classe benpensante del suo tempo ma anche di ora (emblematico L’Origine du monde), così le poesie della passione amorosa depalchiana scuotono la morale ma anche l’abitudine dei critici perché mostrano l’essenza terrestre, lo scontro incontro sessuale non scissi ma integrati verso una ricercata spiritualità. Il sesso è rappresentato naturale, sublime e innocente, origine del desiderio della vita.

Averti come sei—-
lo straccio addosso con spigliatezza
e gioielli di avena
con il papavero che infuoca le spighe
attorno le forme collinari e le valli

qui oso fermarmi
sgolo di potenza
e tu mi raccogli nella ramaglia

o nel vorticare intorno
a quella vulva che ingoia
crescite e pianeti

e sprofonda il tremore terrestre
nell’ovulazione del tuo ventre.

In questa poesia ci sono i due passaggi concentrici della spiritualità di De Palchi: dalla terra, “i gioielli d’avena”, il papavero, le spighe, le colline e le valli, alla donna carnale che concentra su di sé il centro del mondo “o nel vorticare intorno / a quella vulva che ingoia / crescite e pianeti”,
e sprofonda il tremore terrestre / nell’ovulazione del tuo ventre.”
L’amplesso con la donna è la messa e la mensa e soltanto il maschio-uomo, consapevole della sua cristicità non fideistica, tramite questo rito può diventare parte di una religione tutta al femminile in cui continua a vivere la Grande Dea dal cui ventre nascono il mondo, le religioni.
In Foemina Tellus il poeta dispiega completamente il suo credo: “il leitmotiv mi accompagna al ventre / accogliente di Kundry: / vita terra spirito Cristo.”
Il verso “all’ape /del miele che sei”della poesia a pagina 49 sintetizza in modo unico una donna frutto essa stessa di quella terra espressa qui con la metafora dell’ape.
In questo libro le poesie più direttamente legate alle donne hanno anche un chiaro profilo di aspra ironia sempre presente in tutta l’opera di De Palchi.

Cane fedele

ti seguo con le infedeltà
mentali, corpo vivo
nel tuo sorretto dalla costola
che non ti ho dato

gif-video-di-citta

In più mi sembra di scorgere qui una sorta di rifiuto ad aderire completamente al loro potere che coinvolge il suo desiderio.
L’ironia e la rabbia, la crudezza, non certo la rozzezza caratterizza la poesia di De Palchi e assume, infine, una connotazione evidente nei testi in cui il poeta si permette di dialogare con l’ultima grande femmina che attende uomini e donne, la Morte.
E qui intendo parlare proprio di dialogo nel senso etimologico greco del termine -parlare restando separati – e non di colloquio – parlare per cercare un punto in comune – termine con cui il poeta stesso aveva espresso il suo rapporto con la donna.
Una delle poesie di Foemina Tellus in cui viene dichiaratamente espressa la singolare cristicità della sua religione tanto carnale ma oramai proprio per la carnalità, quasi rabbiosa, è quella di pagina 51, una sorta di iscrizione tombale del calvario dell’uomo Cristo. Qui il poeta diventa il commosso soccorritore dell’agonia di Cristo “con la scodella ti lenisco / la lingua tra il rottame nella bocca(…)” e il crudele osservatore di donne Maddalene, “capre nere che espiano la trasgressione / per avere la passione / profana di essere.

La rabbia ha il linguaggio tipico di tutta la poesia di De Palchi ma è una rabbia che include una volontà di purificazione. Il verbo spurgare ritorna più volta nel libro: “per spurgare il seme reietto / e il salivare schifoso” a pagina 38 e “bestia umana (…)/ storia che spurga in rantolo” a pagina 51.
La stessa rabbia si indirizza poi, definitivamente, ad un mondo oltre, l’inferno costruito da De Palchi per tutti i suoi persecutori contenuti nella sezione Le déluge, e alla morte a cui dedica due sezioni del libro, Contro la mia morte I e Contro la mia morte II.
Il poeta si lega alla morte in assoluta privazione di sé e con gli stessi sentimenti che l’avevano visto in giovinezza gridare contro il mondo anche se spesso qui utilizza un autorevole armonioso sarcasmo.
Si rivolge alla “passionaria” con: “il mio corpo, per te / mai abbastanza freddo da leccare”; “hai ossi sgangherati / l’odio indifferente della falce / alle mie gambe rapidissime”; la vulva diventa “chiavica”e lui arriva a dirle “ma ti corteggio con la promessa / che nel lontano futuro sarò tuo”.
La morte è “ospite non gradito”eppure verso la fine la rabbia contro di lei sembra placarsi:

sono tutti defunti
davanti alla tua tenace bruttura
che dalle quinte opera
la potente libidine,
una brezza che ondeggia il vestito
tra le cosce e traccia il rilievo
della tomba sacrilega
che attrae
e mi distrae verso….”

Uomo e donna in tutta la poesia di de Palchi pur incontrandosi mettendo a nudo ogni particella del loro essere natura umana e animale dispiegano le loro peculiarità concrete ma difficilmente i particolari hanno a che fare con la specificità, direi con l‘unicità di una donna se non per ragioni di scrittura. Ogni donna per De Palchi rinnova l’incontro col suo eterno foeminino e in Foemina Tellus egli esprime il femminile maturo all’interno di un uomo maschio. Qui lo scontro, la lotta, la volontà di combattimento fra natura maschile e natura femminile si tramuta poi del tutto all’indirizzo della Morte.

Ma qual è l’origine di questo complesso paradigma De Palchi?
Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, di condividere corrispondenza, conversazioni a telefono, a qualche tavolo di ristorante, seduti in qualche salotto o passeggiando insieme e poi di diventarne amica. In queste occasioni Alfredo mi ha più volte ripetuto che “la poesia esce dalla realtà delle nostre prime intuizioni di famiglia”, che “occorre l‘immaginazione in poesia ma senza l‘esperienza delle varie vicissitudini la poesia è arida”. Io aggiungerei che l’artista autentico non si pone il problema di fare la storia della cultura, l’artista autentico sente profondamente ciò che fa, segue le proprie esperienze di vita non le predispone. È nel suo tempo ed è protagonista di se stesso. Più profondamente e intensamente sono avvertite le esperienze più la comunicazione verso gli altri non rientra nei limiti temporali della sua vita.
Per De Palchi, allora, non è possibile non ricordare e collegare la sua opera alla prigionia vissuta fra adolescenza e giovinezza, alla nascita da una donna nubile.
Le poesie dalla prigione contenute ne La buia danza di scorpione, sono poesie che toccano il nerbo vitale dell’esistenza umana.

Ogni donna abusata, stuprata fuori o all’interno della famiglia, ogni bambino lesionato da ferite fisiche e psichiche, ogni donna o uomo perseguitato per ragioni politiche, religiose o comunque di diversità all’interno dell’organizzazione sociale, non può non sentire suo il senso della ribellione e dell’impotenza con parole simili a quello scritte a vent‘anni da Alfredo De Palchi :

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi dell’intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

——-io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

Chiunque sia passato da una esperienza di segregazione causa l’abuso di potere degli altri o anche solo se l’avverte empaticamente in chi si trova in quella situazione, ha vivo il senso profondo di questi versi che definirei di nudità mente-corpo:

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato—-non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

È questo sentire che gli permette di auto considerarsi Villon redivivo, utilizzato a epigrafe di ogni opera poetica, “solo c’è luogo / nel cranio di Villon”.
De Palchi prigioniero: “Arso dalle azioni di chiunque (…)” impara che la vita “disfa la vita fruga / interpreta le ragioni forma e scombina / codici irrazionali”.
È qui e così che comincia la scrittura poetica e sul muro:

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione d’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

——-io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

alfredo-de-palchi-1

Cover della monografia di prossima pubblicazione sulla poesia e la personalità di Alfredo de Palchi a cura di Giorgio Linguaglossa

Mentre leggevo questi versi ho avvertito immediato il ricordo di altre parole di dolorosa impotenza, quelle del Nobel C. Kavafis nella poesia I muri “Senza riguardo senza pietà senza pudore / mi drizzarono contro grossi muri (…) / murato fuori dal mondo e non vi feci caso”8.
In cella l’isolamento, il sentirsi “s/centrato” rispetto alla comunità umana consente a De Palchi l’approfondimento interiore ed artistico.
I suoi scritti di prigionia parlano agli abusati ai violati di ogni epoca, il suo vocabolo s/centrarsi mi ricorda “lo sguardo estraneo” di cui ha parlato H. Muller la Nobel 2009. Anche quest’artista esule, violata di continuo nel privato attraverso i servizi segreti della sua nazione, accusata soltanto per la sua onestà di donna e artista, racconta di aver acquisito un modo di rivolgersi al mondo che sollecita a non considerare soltanto proprio degli artisti “una sorta di tecnica che distingue chi scrive da non scrive”9. Nello stesso poco più avanti precisa: “Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale” “Per me estraneo non è il contrario di noto è il contrario di familiare”. Lo sguardo estraneo “è un atteggiamento provocatorio” acquisito dalle situazioni dolorose e che presuppone uno stato di difesa continua.

Questo atteggiamento di difesa e provocazione è proprio, a mio avviso, l’atteggiamento di De Palchi uomo e artista.
De Palchi ha attraversato tutto il secondo novecento sia storico che letterario e ha vissuto in prima persona tutte le sue assurdità, offese, deliri. Le ha poi superate attraverso il vivere fuori dal luogo d’origine, in un mondo da lui scelto ma dentro il quale si è continuato a sentire s/centrato. Il suo sguardo in poesia è uno sguardo lancinante, estremo, lucido, sensuale, potentemente tagliente. C’è la spada e a momenti anche l’ambrosia nella sua poesia.
La sua sensibilità gli ha fatto approfondire ogni aspetto della vita, foglie, pietre, acque. Nata dal dolore e nel dolore De Palchi già in cella attraverso ore e ore di lettura e poi di scrittura ha trasformato la sua vita di fuori in un grande muro su cui incidere se stesso.

Vagabondo notturno nelle vie di Parigi quando arriva a New York, sua residenza definitiva, anche se inframmezzata da anni in Spagna e dalle frequenti visite in Italia, De Palchi entra nel pieno brusio, formicolio della consolidata moderna civiltà occidentale captando l’essenza materiale che lo circonda, l’atmosfera di alienazione, di confusione “Brulica la spiaggia / si condensa di cicche, fumetti / carta velina unta, ossi succhiati di pollo / mezzi panini bottiglie lattine/ centinaia di canestri vuoti”; “come si può accettare la storia, la storia / quotidiana, assuefarsi ai grandi e piccoli / insulti”.
Nella vita e nella poetica egli ha ricostruito la propria seconda adolescenza murata viva e lo ha fatto attraverso l’aria, la terra, la donna. La sua poesia si è riempita degli incontri notturni con i clochard, con le bottiglie di plastica sulle spiagge, delle offese ai neri di New York, ma anche degli incontri con gli intellettuali milanesi degli anni ‘50 e ‘60.

De Palchi ha ricucito le cicatrici ancora oggi tipiche del mondo moderno, l’immigrazione, la detenzione, la difficoltà esistenziale di un mondo desolato e desolante sia personalmente che socialmente. È il mondo di un’umanità troppo maschilizzata nel suo modo di essere, maschilizzata come principio che purtroppo è diventato vivo anche in molte donne. Un’umanità che non dovrebbe più avere la necessità di violentare la donna e la terra ma di rientrare, immergersi in essa per ridestarsi rinnovata nel suo ventre. Esattamente il principio ispiratore della poesia di Essenza Carnale e in parte di Foemina Tellus. È l’acqua che comincia i suoi scritti, “l’Adige” che li accompagna in mille forme fino agli ultimi anni, è il pesce, i pesci, i molluschi nel quale si identifica, è l’acqua delle vagine femminili nella e con la quale gli sembra di poter rinascere.
De Palchi ha guardato e continua a guardare se stesso e il mondo tutto in disparte. Anche la scelta di utilizzare la lingua d’origine nonostante viva da più di cinquant’anni negli Stati Uniti è una scelta da eterno estraneo ovunque. In poesia continua a osservare, riflettere, elaborare da s/centrato rispetto al modus letterario italiano. Sì perché la nettezza naturale, il lindore scevro da intellettualismi, tipico di gran parte della poesia composta nell’Italia contemporanea concepita spesso con intenti autoreferenziali o peggio per logiche di potere culturale e politico, nascono anche dal vivere fuori da questi circoli. Il nostro “apolide anarchico” artista De Palchi ha vissuto così il destino comune di molti grandi poeti troppo a lungo dimenticati, evitati dalla diffusione editoriale come Dino Campana e Lorenzo Calogero, o famosi come Ungaretti, Quasimodo, Caproni, letti per anni e poi abbandonati senza amore preferendoli ai deserti poetici dei giorni nostri.

De Palchi ha una forza letteraria, un’etica e una poetica non espropriabile da nessuno. La forza artistica è intimamente connessa a quella che gli è derivata proprio da chi a lui ha dato la nascita e lo ha formato ai fili esistenziali fondamentali, alle radici della vita, sua madre.
Non può essere compreso appieno il suo rapporto col femminile, con la Donna, la terra, la religione di “un cristo” fra gli altri se non si risale come lui stesso ha detto “alle prime intuizioni in famiglia”.
La madre nubile di De Palchi (supportata da un nonno atipico per l’epoca) è colei che ha lottato contro la mentalità del tempo per tenerlo in vita fisicamente e che l’ha nutrito ad una scala di valori forse più appartenente al futuro che ai primi del novecento.

Vorrei concludere con le parole a me scritte da De Palchi in una delle prime lettere della nostra corrispondenza. Sono parole che confermano quella che chiamo la sua avanguardia mentale in tema femminile:

“La famiglia con il potere del capo famiglia si sta sgretolando per sparire. Rimarrà ancora per secoli in quelle nazioni primitive o medievali. Il capofamiglia, contadino, operaio, borghese o signorile si esprimeva, chiedeva il potere del comando, spesso con la frusta in mano; la donna con le chiavi degli armadi comandava in casa ma non poteva uscire, era considerata proprietà riservata, col trascorrere degli anni si trasformava in donna disamata, strega vecchia anzitempo e impotentemente cattiva verso i figli che tacitamente erano accusati di aver distrutto la sua giovinezza, la bellezza, il suo potere di donna. Le donne intelligenti amorose, capaci e con l’idea del potere femminile erano le cosiddette concubine, le mogli morganatiche, le bellezze dei salotti soprattutto letterari e quelle considerate puttane. Le donne oggi sono professioniste, hanno capacità professionali da farsi invidiare dagli uomini, hanno la bellezza folgorante ben in vista, non si nascondono, eppure, nonostante il progresso delle varie società, gli uomini le giudicano leggere se non puttane” .

(Gennaio, 2011)

1 Luigi Fontanella La parola transfuga 2003, 175
2 Alfredo De Palchi A Non Conformist Italian Poet in New York City (Contemporary Italian American Writing, 1999)
3 Alfredo De Palchi La potenza della poesia (Saggi a cura di Roberto Bertoldo Edizioni dell’Orso, 2008)
4 Le citazioni delle opere di De Palchi sono tratte da Paradigma (Mimesis-Ebenon 2006) e Foemina Tellus  (Edizioni Joker, maggio 2010).
5 Mi è piaciuta molto la citazione di Marina Cevtaeva che Gabriela Fantato pone all’inizio di un suo scritto sull’opera di De Palchi “la contemporaneità del poeta è in un certo numero di battiti del cuore al secondo, battiti che danno l’esatta pulsazione del secolo –fino alle sue malattie (…) nella consonanza – quasi fisica, fuori del significato –con il cuore dell’epoca” Per la poetessa russa il poeta non è “specchio” ma “scudo” del suo tempo, poiché è colui che dà “battaglia” agli anni, a meno che non sia mero “portavoce” di interessi particolari o di un gruppo politico (e non, aggiungerei io N.d.a), ma in questo caso non è un grande poeta. (Versi incisi nella pietra –Cfr. nota 3). 
“ATTRAVERSAMENTI” Progetto ideato e realizzato da Adam Vaccaro – Milanocosa, con la collaborazione di Gabriela Fantato – La Mosca di Milano
Antonella Zagaroli poetessa

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli è nata a Roma nel 1955. Opere letterarie: La maschera della Gioconda plaquette (1986) e libro (prefazione di Walter Pedullà Crocetti, Milano, 1988) che rispetto alla plaquette include anche i poemi Pi greco quinto e Coiffeur distratto; Il Re dei danzatori poema teatrale con musiche originali presentato a Roma e Provincia (1992); Terre d’anima, (1996); Come filigrana scomposta – racconto d’amore tango e poesia andato in scena a Roma nel 2001 e dopo la sua pubblicazione (2008) di nuovo a Roma e provincia; La volpe blu, prose poetiche e racconti (2002); Serrata a ventaglio (Roma, 2004); Quadernetto Dalìt saggio e reportage sul lavoro di volontariato fra gli intoccabili indiani poi tradotto in inglese col titolo Dalit Notebook Thoughts and Poems- An experience in India-, prefazione Vincent Arackal, attuale vescovo di Calicut India (2007; Venere Minima romanzo in versi e prosa (2009; Mindskin A selection of poems 1985-2010 con nota di Alfredo De Palchi e introduzione e traduzione di Anamaria Crowe Serrano (Chelsea Editions New York, 2011). Con Alfredo De Palchi il duetto poetico intitolato Intuire come possedere – Corrispondenza in versi (Italian Poetry Review volume VI, 2011 pubblicato nel 2013). In collaborazione con la fotografa Mariangela Rasi le raccolte La nostra Jera (Roma, 2010) e Trasparenze in vista di forma (Verona, 2013) nonché col pittore De Luca le istallazioni poetiche della breve raccolta Al di là d’ogni luce in mostra da Settembre a Dicembre 2012 a Pienza, da poco giorni riproposte in rete gratuitamente, con la Onyxebook, insieme a Serrata a Ventaglio. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia italiana a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura,, 2016).

In qualità di traduttrice ha finora pubblicato alcune poesie da Suicide Point dell’indiano Kureepuzha Sreekumar (Hebenon aprile-novembre 2010), la plaquette One Columbus leap, (Il balzo di Colombo) della poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano (Roma, 2012) e Hosanna – Osanna raccolta di epigrammi di Louis Bourgeois, poeta e scrittore statunitense (Trento, 2014). Le sue poesie sono apparse su riviste italiane, francesi, inglesi, americane e ultimamente anche su diversi blog italiani e stranieri. Alcune sue opere sono presenti nelle biblioteche di Londra, Budapest, Dublino e nelle università americane di Yale, Standford, Columbia, Stony Brook.

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ALFREDO DE PALCHI, POESIE, “La buia danza di scorpione (1947-1951) ” Commento di Giorgio Linguaglossa  – Lo scorpione, simbolo psicanalitico del pene malsano che infetta e distrugge invece di fecondare e dare vita”; “simboli materni della vita placentale e uterina che collidono e sfibrillano con i simboli paterni”; “un universo simbolico violento e sterile, che porta morte e sterilità”; “Il primo poeta che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia”

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010). Nel 2016 esce Nihil (Stampa2009) con prefazione di Maurizio Cucchi.

Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

scorpione uomoCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa su “La buia danza di scorpione”

La struttura metrica di questo poemetto poggia su un metro irregolare, cacofonico, spezzato e incidentato, irto di spigoli acustici e semantici. Non c’è alcuna gerarchia compositiva. La gerarchia è sempre opera della coscienza stilistica. A livello dell’inconscio non si dà mai alcuna gerarchia, tutto è affidato alla improvvisazione di una «esperienza profonda» che riemerge, a sprazzi, alla coscienza. Affiora, dalla antichità dell’inconscio, il «fiume», il femminile «Adige». Emergono l’«argine», i «margini burroni», la «colomba», lo «zucchero», «la madre», il «girasole», le «uccelle», «il seno biondo» simboli materni della vita placentale e uterina che collidono e sfibrillano con i simboli paterni: il «seme», lo «sputo», l’«arma», il «gallo», «il palo del telegrafo», il «becco», etc. – Su tutti e tutto aleggia la maledizione dello «scorpione» che inscena «la buia danza» di morte, di sortilegio e di sacrilegio. Lo scorpione rappresenta la degenerazione del mondo, simbolo psicanalitico del pene malsano che infetta e distrugge invece di fecondare e dare vita. Il ragno è una figura maschile che costruisce il «ragnatelo» « il ragnatelo blocca l’incertezza»); l’«incertezza» di cui si parla è una sintomatica e paradigmatica confessione della situazione di sospensione della azione simbolica che dovrebbe sistemare la grave ingiuria dell’essere venuto al mondo mediante un atto di soppressione del Totem. Ma il Totem è sempre là. È invulnerabile in quanto assente. È invulnerabile in quanto ritorna. Ha la stoffa del fantasma. Come ogni Totem si nasconde nei ricettacoli, negli angoli più remoti. È invincibile. Il coito che dà la vita è vissuto così: «A boati il vento mi cozza nella cella». Si profila un universo simbolico violento e sterile, che porta morte e sterilità. Il discendente è appeso alla «incertezza» della sua nascita e immagina di stare immerso nelle «acque» del fiume placentale:

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido — ed amo il fiume
inevitabile

Il destino del giovane de Palchi è presto detto: «ho questo seme / da trapiantare». Il giovane poeta si assume il compito di assicurare il tramandamento delle generazioni, di rigenerare e tramandare il «seme» paterno in altri «fiumi» producendo l’immortalità della progenie. Sono sogni, fantasticherie ad occhi aperti del giovanissimo de Palchi. La sua poesia si nutre a piene mani di queste fantasticherie, la cui funzione è quella di rendere abitabile il mondo e la coscienza al servizio dell’io incerto che si sta per affacciare al mondo della storia. Il giovanissimo de Palchi fantastica di una rigenerazione che avverrà, e fantasticando, tra un onirismo e l’altro, scrive queste poesie che vivono di sussulti e di frammenti, di insurrezioni e di insubordinazioni alla maestà del Totem e della storia. La raccolta termina con un abbandono estatico dell’io al «fiume» della femminilità agognata e amata, alla femminilità della vita placentale dove le contraddizioni e gli orrori della storia vengono sopite e dimenticate: «Nella desertica vastità delle acque».

Il frammento si nutre di tempo e di nostalgia; l’attesa è il suo metronomo, la sua miccia di innesco; ma, una volta innescata seguirà la detonazione, lo scoppio. La nostalgia si muove a ritroso nel tempo verso il Principio, il Principio del tutto. E non è un caso che la raccolta di de Palchi inizi appunto con un «Principio» di tutte le cose, il big bang, con l’inseminazione dell’ovulo. Da qui si diparte il «Principio» del male e la degenerazione della storia. Ecco la poesia di apertura:

IL PRINCIPIO

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

È ben visibile, a livello molecolare della scrittura, la matrice edipica che traccia questo quadro inconscio che darà luogo ad una trasfigurazione simbolica tra le più suggestive del Novecento poetico italiano.

*

scorpioneIl primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo De Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967, che però non ricomprende le poesie scritte, dal 1947 al 1951, nelle celle dei penitenziari di Procida e di Civitavecchia dove fu rinchiuso il giovanissimo poeta con l’accusa infamante di omicidio per il quale fu condannato, con un processo farsa, in primo grado, all’ergastolo. Una traumatizzante esperienza che gli detterà la prima forma frammentaria della poesia italiana del secondo Novecento. Sessioni con l’analista (1947-1966), la seconda opera in ordine cronologico di de Palchi, che verrà pubblicata ad opera di Sereni con la Mondadori nel 1967, priva però della prima raccolta, La buia danza di scorpione (1947-1951), che venne stralciata per volontà dell’autore e pubblicata negli Stati Uniti con Xenox Books nel 1993.

«Cominciati in prigione a vent’anni – scrive de Palchi in una nota alla edizione americana del 1993 – questi testi di compatte immagini rivivono in quattro sezioni: l’agonia dell’adolescenza, della guerra, della detenzione, allora attuale, e dell’idea del suicidio. Ringrazio profondamente l’amico prigioniero poeta Ennio Contini per avermi istigato a scrivere, a leggere e a produrre».

In quegli anni di disperata scrittura, dal 1947 al 1951, De Palchi scriverà La buia danza di Scorpione, il primo e più compiuto esempio di disseminazione del linguaggio poetico e di frammentazione della forma-poesia.

Dopo di quella data la poesia italiana non procederà più in quella direzione. E le ragioni sono varie. Le riassumo qui. La poesia italiana del dopoguerra si impegnerà, da un lato nella riforma che avvieranno: Vittorio Sereni, con Gli strumenti umani (1965), Giovanni Raboni con Le case della Vetra (Poesie 1951-1964) pubblicata nel 1965 e Giovanni Giudici con La vita in versi (1965); dall’altro, lo sperimentalismo di derivazione neoavanguardista e l’esperienza della rivista “Officina” di Pasolini, Roversi e Leonetti. In sintesi, l’obiettivo cui miravano queste riformulazioni del linguaggio poetico era quello di assimilare ed esaurire l’esperienza del post-ermetismo mettendolo fuori gioco, formulando nuove tematiche urbane, un lessico prossimo al parlato, toni bassi, narratività, istanze civili, presa di distanza dalla connotazione e preferenza per un linguaggio denotativo e referenziale. L’impresa, almeno in parte, riesce. Il post-ermetismo viene messo fuori gioco. E questo è un merito indiscusso che riuscirà utile per riparametrare la poesia italiana verso parametri linguistici più consoni all’uditorio della nuova civiltà di massa che si profila all’orizzonte. Si tratta comunque di impostazioni debitrici di un concetto di poesia che obbedisce ad una idea lineare della struttura poetica che si può compendiare nella formula: discontinuità-continuità-rottura in rapporto ad un modello canonico legiferante di matrice lineare che si presuppone in vigore.

scorpione qÈ ovvio che non poteva essere questa la strada intrapresa dal giovanissimo De Palchi, il quale, chiuso nei reclusori di Procida e Civitavecchia, costruisce una poesia, come si dice oggi, «corporale»; costruisce la forma-poesia del frammentismo emotivo molto lontana dai paradigmi stilistici dominanti in quegli anni. Si tratta di una poesia che viene scritta in diretta, durante una esperienza traumatica, la reclusione, che si prolungherà per ben sei anni; una poesia che sortisce fuori in maniera vulcanica e terremotata dalla viva percezione della clausura ingiusta. È una parola che nasce già scheggiata e ferita, che ricorre al ricordo del «fiume» della adolescenza quale contraltare al presente che il giovanissimo poeta vede senza via di uscita.

Oggi la questione si pone e si ripropone, non più al modo del frammentismo emotivo del primo progenitore Alfredo de Palchi che pubblicherà in Italia il suo primo straordinario libretto nel 2001 in una raccolta della sua produzione poetica dal titolo esemplificativo di Paradigma. Le poesie qui riportate appartengono alla primissima raccolta La buia danza di scorpione, con quelle sue caratteristiche verticalizzazioni e intensificazioni liriche ed emotive, ma al modo di un frammentismo simbolico e iconico, di una forma poematica che echeggiava Villon e Rimbaud in sede di poesia modernista, con elementi rivissuti e rivitalizzati attraverso l’esperienza personalissima e traumatica della detenzione.

Dicevo che il riconoscimento di un progenitore della poesia del frammento emotivo che oggi alcuni autori fanno in Italia, si pone in modo impellente, perché dopo il grande successo del minimalismo romano-milanese di questi ultimi tre, quattro decenni, si avverte nei poeti più dotati che hanno attraversato quell’esperienza, l’esigenza di voltare drasticamente pagina. In molti poeti si avverte il bisogno di una inversione di tendenza. Sono i poeti della mia generazione o giù di lì quelli che si interrogano e scrivono una poesia che intende perseguire l’obiettivo di una riformulazione in chiave iconica e post-simbolica della forma-poesia. C’è in atto un risveglio, almeno da parte dei poeti che hanno una età che va dai cinquanta anni ai sessanta in su. Dei più giovani, non saprei dire, mi sembra che ristagnino nelle forme poesia ben obliterate, cercano di andare sull’usato sicuro.

alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Alfredo De Palchi Poesie “La buia danza di scorpione”

La buia danza di scorpione
(Procida/Civitavecchia, primavera 1947 – primavera 1951)

                                                                Ce monde n’est qu’abusion

                                                                              François Villon

IL PRINCIPIO

Il principio
innesta l’aorta nebulosa
e precipita la coscienza
con l’abbietta goccia che spacca
l’ovum
originando un ventre congruo
d’afflizioni

***

Mi dicono di origini
sgomente in queste acque: qui sono erede
figlio limpido — ed amo il fiume
inevitabile
in cui l’intrigo del mio tempo
si accomoda

osservo nel fondo rotolare l’isola
verso il nulla
l’età muta calore
il vespaio del gorgo
e l’uno vuole il perché dell’altro:
tu sempre uguale, io
dissennato

***

Al palo del telegrafo orecchio il ronzio
il sortire incandescente da quando
le origini estreme
provocano la terra
percepisco
accensioni e dovunque mi sparga
chiasso d’inizio odo

***

In mano ho il seme
nero di girasole —
so che la luce cala dietro
l’inconscio / ma altre nebule
avanzano
e ho questo seme
da trapiantare
come unico dei sistemi
sconosciuti

***

Primavera
è una colomba
che pilucca i semi della noia e urta
la soglia
— mai mi abbandono
alla sua ingordigia o mi abituo
alla vanità ma
la volubilità che m’incanta allunga
il becco sui semi della noia

***

Nel chiasso
di germogli ed uccelle
la porta spalanca la corsa
in gara col baccano del gallo
sotto la tettoia di zinco

e m’incontra l’argine con l’officina
trebbie e cortili che alzano un fumo
buono di letame
— la pista mi svela
lo scompiglio e odo
una punta di luce scalfirmi gli occhi

***

Estate
frutto propizio seno biondo
d’una calata di sensazioni

nel belato d’alberi la luce astringente
urta
tutto scompiglia: il verde-
verde
il cielo-cielo e il rombo . . .

 

Ciminiere fabbriche
del concime e dello zucchero
barconi di ghiaia e qualche gatto
lanciato dal ponte
snaturano questa lastra di fiume
questo Adige

***

scorpiones-05

Vortica una fanfara
di zanzare nel crepuscolo
e la giostra del mondo
una fiera di ritagli di luce
— io, incerto
giro il vertiginoso cuore impestato
di zanzare

***

Con piedi cercatori
pesanti più che ali d’inverno
vado incontro alla luce

ho gli occhi pesti come
dopo l’incendio terrestre
la notte
la volontà di vedere quello che d’abitudine
si dimentica

***

Il lepidottero barcolla ai vetri —
mi alzo dai fogli dove sono
insicuro ed apro la finestra

fuori di sé insiste a frenarsi
squama alla luce — io fuori di senno
persisto la buia danza
di scorpione

***
scorpione x.

UN’OSSESSIONE DI MOSCHE

Si abbatte il pugno
sul totale formicolio
della natura — è
sofferenza questo gesto
sulla vorace indifesa
degli insetti e
di me

***

Contratto tra convulsioni di case
e agguati
osservo un passaggio di autocarri

e mentre scoppiano argini e barconi
nuoto verso rive ascoltate
— lo sforzo
mi guasta ad ogni bracciata
e i miei pochi anni nuotano con astuzia
di pesci ai fianchi

***

Ad ogni sputo d’arma scatto
mi riparo dietro l’albero e rido
isterico
alla bocca che sbava
un’ossessione di mosche

***

Una madre sradicata del ventre geme
per il figlio:
occhi sbucciati
infiammato groppo di lingua
al palo del telegrafo penzola con me
afferrato alle gambe

***

Dopo l’ultima raffica
il subentrare della calma orrenda
un prete esce pazzo dal fosso
con uno straccio di cristo
impalato

***

Non più
udire il tonfo dei crivellati nel grano
urli di vecchie bocche e di bestie
negli incendi e bui guazzi
nell’Adige

vedere un branco di vili osservare
chi s’affloscia al muro
il camion che di botto lascia al lampione
chi fa le boccacce con eloquente
groppo di lingua

***

Al limite del paese le vie
come antenne dilungano
racchiudono il boato e l’angoscia di uomini
che spiandosi in giacche succinte
di precauzione
vilmente si evitano

***

Al richiamo del gallo non evito
la piazza irosa
che inventa leggi — presto
un falso fazzoletto rosso
anche ai miei 18 anni

***

scorpione-in-nero_91-9763

 

.

Appigliata alle spalle la colomba
annunzia la condanna
odore del diluvio
e l’albero di fuoco
sbracia i rami
strillanti nel cielo basso di fango
lo spavento dell’uccella difforma
l’innocenza che non si rifugia nell’arca

***

Già nel cantiere il muratore rimbastisce la casa
con mattone e mattone

all’uscio batte le nocche la madre

risponde con radici d’acciaio rovesciate il ponte
— e chi è che passa
sugli argini della disfatta ribaltando i reticolati

***

Al calpestio di crocifissi e crocifissi
sputo secoli di vecchie pietre
strade canicolari
il pungente sterco di cavalli immusoniti
in siepi di siccità

(al gomito dell’Adige allora crescevo
di indovinazioni rumori d’altre città)

e sputo sui compagni che mi tradirono
e in me chi forse mi ricorda

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

.
Nel giorno della disfatta cerco la verità

sono il campo vinto
ragazzo armato di ferite

il suolo calpestato
idolo d’argilla

il pane della discordia
la trave nell’occhio

la fionda che punta il mondo
scroscio d’oro del gallo

nel giorno della disfatta trovo la verità

CARNEVALE D’ESILIO

Dopo una lunga attesa la Rimbaudiana
bellezza mi viene sui ginocchi

le chiedo dell’afflizione e mi offre
la gioia che rifiuto

ancora aspetto
la bruttura che possiede

***

L’incubo si srotola
sbiscia nel frullare delle piante
dal soffitto
dal muro circolare che imprigiona la luce
essudata d’un olio buio —
non decifro le pagine bibliche
inerti all’occhio che matura
la notte / pelaghi di sonno via
mi portano: margini burroni,
mi muovo lento
la distanza è nera e i passi
sono balzi al rallento mentre le braccia
annaspano . . .

***

Uovo che si lavora nella luce ovale
nuovo adamo
invigorisco nell’altrui simulazione
e quindi anch’io implacabile finzione

anch’io sono, io
mi credo
altri osserva che non sono —
com’è possibile
se sulla croce di tutti ulcerata
mi svuoto le gote
se circondato non c’è chi
mi disseti
solo chi impreca

***

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi della intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici

— io, ricco pasto per voi insetti,
oltre l’ispida luce
vi crollo addosso il pugno

***

A boati il vento mi cozza nella cella
dove sono intracciabile —
la mia mano di sepolto
è uguale a quella d’altri che altrove
si tentano uniscono e separano
non lasciando una traccia
qui
l’indifferenza livella tutti

***

Fra le quattro ali di muro
circolo straniero a pugno
serrato — non ho amicizie
non mischio occasionali smanie
con chi le persiste
e siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti

***

Concluso fra pareti vilipendio
e menzogne
mi sfinisco per quello che succede
mai — non so
non so chi e cosa dovrebbe
capitare: un figlio come me
un quaderno di scritture per testimonianza
un’arma che mi geli
o una migliore conflagrazione
***

Alfredo de Palchi periodo francese

Alfredo de Palchi periodo francese

scorpione il record di Kanchana regina degli scorpioni

Kanchana regina degli scorpioni

Il mio tempo tra muri infetti
è un ricordo di spighe rovinato dagli uccisi
ancora in fuga
— il suolo li sigilla in cedimenti
di ruggine —
e dall’occhio che indaga laconico

***

Che cogliere dalle disfatte
se tutte le malattie
le vivo — ferro e paglia
m’induriscono la faccia inquadrata
dalle sbarre crescenti

si apra il cancello
la città nella conca schiuma di luci

***

Pane è pietra
la sete pietra
ho metri di pietra
mordo la pietra

chiedo acqua
— mi si impone sete
voglio luce
mi si impone ombra
calce viva che rosica le mani occupate
a scacciare l’oscurità

la luce è dispensata
quanto l’acqua di cisterna

‘vivo! è bello vivere’
mi sorreggo
ma i ghigni intorno mi ghermiscono

***

Età cruda
fame cruda
una gamella al giorno di ceci col baco
e un pane benzoino

sbadiglio per la fame
mi piego in pena
e vivo di notizie che raccontano quella secca
il suo scheletro nelle baracche
appigliata alle reti elettriche

***

Il pezzo di pane mi nutre
in una putredine di patria
e traffico di truffatori
— il pane
sa di petrolio
lo mastico con bucce di limone
raccolte nelle immondizie

***

alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

.

All’alba morchia — morchia
di caffè con sale
eiaculazioni
c’è chi va e chi viene — si esce al cancello
per indovinare
‘piove?’
non piove
mezzogiorno stagna la monotonia
la puzza del bugliolo
il giornale che tarma
la giornata: consuete notizie

***

Qui
carnevale d’esilio
e bestemmie — fuori
di mortaretti
‘che maschera sono’
non sono eguale
‘che maschera porto’
sono eguale
cristo impostore, riconoscimi
esercita pietà
sono il dannato

***

Il cubicolo è un forno che trasuda
l’umore di me alle prese con la forza
e l’atto di scontare un vivere
ingombro di spurgo
— cosa serve aggiustare
il perché delle menzogne
l’immensità della pena più grande
di me in questi dintorni
se oltre l’incubo
non so altra percezione

***

Arso dalle azioni di chiunque
annoto i crimini —
pure qui la vita
disfa la vita fruga
interpreta le ragioni forma e scombina
codici irrazionali
e benché annusi una ricordanza d’uomo
nelle piaghe ripugnanti e menti
carbonizzate dall’odio
non concepisco un lazzaro o un cristo
deforme

***

Importunato dalle pazienze i dubbi
l’ambiguità
mi guasta le cellule il vostro microbo
di pace finta — questa larva dilegua
se dissento
se vulnerabile all’insidia biascico
parole vere
se rumino l’attesa di chi
di che
di me stesso

***

La palma lingueggia
lingueggia la pioggia lustrando i crani
semi della prossima sventura
che in agguato già lingueggia prostituta

***

Giorgio Linguaglossa Alfredo De_Palchi serata 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Poter combaciare la notte con la palma
che alza un sapore verde
ma il tarlo d’uomo rode

‘non c’è angolo dove nascondersi’

al mio intrico si intìma
una lunga indifesa
un maturare incerto
— solo c’è luogo
nel cranio di Villon
e sotto la palma che a lingue corrosive
spula la luce demente di Nerval
nello sguardo narcotico

***

Dalla palma nel cortile la civetta stride
per il topo che sono — un fetore
di bugliolo m’incrosta la gola
e l’impeto della notte
mi spacca la mente

(mi scaglio nel breve passato
mi tolgo le scarpe
ai fossi strappo le canne per soffiarvi
una bolla di mondo . . .
e sogno splendidi anarchici)

***

Anch’io incrudelito dall’usanza
da studi sulla rana sul granchio
scosciati vivi
al tavolo della scienza sviscero
ogni forma di vita per concepire quello
che ci definisce: arma sangue —
imito il dio del verbo
onoro la sua opera

***

La nudezza dei pozzi mi secca
il corpo fisso alla branda
e assopisco nelle mie forti
braccia umane

***

Aggiusto lo sguardo riconto gli anni
anni ingannati pentiti regalati
alla famelica babilonia

se il domani fosse certo potrei forse
sostenere il morso
in me che segregato non indovino quale
luce mi darà vigore —
intanto in questo cubicolo
mi mangio maturando e sulla pietra
raspo per una vita dissimile

***

Una scatola
batteriologica un tubo di provini
chimici e da qui si comincia il nuovo:

uomo ovoidale
tutto testa calva
e privo delle decadenze
che si conosce dai testi di storia

si cominci — ogni azione ogni cosa
andrà per il meglio se arriveremo in tempo
a non interromperci di scatto
con qualcosa che . . .

***

Anni verdi rivengono
ora che pesano le pietre / ogni anno
una pietra nel mare sottostante e non so
ch’io sia — a bracciate mi spiego
io maldestro nuotatore

(erano bianche le strade
andavo per sentieri allagati da orti
liquidi di sole e contro i pali
del telegrafo sibilava la fionda)

ma un pugno stupendo di nocche mi resta
ora che anni di granito pesano
e alla forza rozza che ha odio soccombo
pelle mente verbo

***

La tarda lingua della viltà e precauzione
non impedisce alla mia età ostile
di rivedere l’Adige
e di mozzare il guaire di tutti
totale insulto
con i denti aguzzi che schizzano veleno
qui e dove non ho altro da dire che
Ce monde n’est qu’abusion
scorpione q

IL MURO LUSTRO D’ARIA

C’è in me dello spazio
usurpabile — cerchio
o cono che sia . . .

solo so che nella vertigine
il ragnatelo blocca l’incertezza

***

Il fiore selvaggio delle tenebre
mi scotta sulla fronte
e mentre indietreggia ed impiccolisce
e dilegua
ingoio rospi / questi omuncoli da circo —
è ora di rinunciare il fuoco per le tenebre

Una mosca adolescente bruisce
sulla gamella calda di zuppa
annunziando l’infezione
e gira l’orlo come sulle labbra
di me che sogno di uccidermi

***

Si decentra la notte sul muro si decentra
michelangiolesca
la lesione dell’occhio

la cella costringe silenzio
si spacca il silenzio alle sbarre e il trauma
è combustione

— io
groviglio di piedi e mani
prevenendomi
farnetico perfezione

urlo al muro il muro
assorbe da me l’eco risponde
alla sagoma straniera

***

Nella desertica vastità delle acque

scorpione la regina dello scorpione thailandia

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Alfredo de Palchi (Verona, 1926) TESTI SCELTI da NIHIL (Stampa2009 Azzate, Varese, 2016 pp. 108 € 14) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – “vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso…”

alfredo de palchi Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Minturno, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
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Giorgio Linguaglossa Alfredo De_Palchi serata 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. “vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso…”
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Poco tempo fa, una rivista milanese mi ha chiesto di scrivere un saggio di critica psicoanalitica sul primo libro di Alfredo de Palchi, La buia danza di scorpione scritto dal poeta ventenne nei penitenziari di Procida e Civitavecchia dal 1947 al 1951 e pubblicata in italiano soltanto nel 1993. Mi sono accinto a questo compito con curiosità e timore ed ho scoperto tra le parole del libro, un modo di vocaboli, di immagini, di totem, di frantumi, relitti del suo inconscio di giovanissimo recluso che lottava disperatamente per sopravvivere, frammenti dell’inconscio e di conflitti irrisolti, che nessuna cura psicoanalitica potrà mai risolvere (per fortuna!), frammenti testamentari del rapporto con la madre del poeta e con il padre (che io non sapevo assente). Vasi incomunicanti di frammenti che tra di loro parlano, comunicano, anche se parlano lingue diverse e incomunicabili. Questo è l’inconscio di un poeta che si riversa in un libro di poesia(!?) E tutto mi si è fatto chiaro all’improvviso. Devo dire un grazie alla rivista milanese (nella persona di Donatella Bisutti) che mi ha commissionato il lavoro. Ho mandato il saggio a de Palchi il quale, appena letto, ha commentato: «ma tu mi hai messo a nudo! Nessuno ha mai scavato così in profondità nel mio inconscio!».
Ecco, io penso che il critico di poesia debba andare con la lanterna di Diogene alla ricerca dei frammenti sparsi e dispersi che neanche il poeta sapeva di avere messo dentro le proprie poesie. Fare una indagine quasi poliziesca, alla ricerca delle parole e dei simboli nascosti o appena dissimulati.
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*
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Sono ormai più di cinquanta anni che la poesia di Alfredo de Palchi vive di un conflitto tra suono e senso, suono e significato che si configura come slittamento fonologico tra attante ed epiteto in guisa che l’epiteto entra in rotta di collisione semantica con l’attante; di qui il prevalere di fonemi acuti dal suono scabro e vetroso di contro a modulazioni lievi di altri, pochi, attanti dalla sonorità acuta. Più che alla sinestesia tra suono e senso, de Palchi ricorre all’opposizione fonematica e semasiologica tra le parole per restituirle alla loro compiuta visibilità linguistica. L’utilizzo degli avverbi è sempre postato in modo diagonale alla significazione, indica sempre una modalità impropria del modus, e sono serventi alla de-automatizzazione del linguaggio. Nella poesia depalchiana non c’è solo un disaccordo tra il suono e il senso, l’autore preferisce sempre la soluzione di un intervento effrattivo, frontale, quasi una effrazione della lingua di appartenenza come indizio di una estraneità ad essa e di un esilio patito fin dagli anni della sua adolescenza. È una procedura di effrazione che de Palchi pone in essere. È il contesto dunque che modifica il suono, graffiato e sgraziato «diesizzandolo» e «bemollizzandolo», come insegna Jakobson, per contagio lessicale e contiguità semantica. De Palchi adotta l’azione inversa che consiste nel flettere il senso per adattarlo all’espressione, dato che la parola è per sua essenza malleabile poi che è composta da un insieme di semi. È in questo impiego del verso, del sintagma poetico, che la poesia depalchiana trova la sua ragione di esistenza come un incantesimo all’incontrario, non più di tipo simbolistico (ormai impossibile e irraggiungibile) ma di tipo post-simbolistico post-modernistico. Un «incantesimo» effrattivo attento alla chimica delle parole, alle faglie, alle gibbosità delle parole. De Palchi interviene sul contesto fonematico e di senso facendo cozzare l’uno contro l’altro i semi del linguaggio, facendo scaturire scintille non già tra i significanti ma tra i significati, distorti e agglutinati fino all’inverosimile. Siamo lontanissimi da ogni suggestione mallarmeana e vicinissimi alla metolologia tipicamente modernistica volta alla espressività fonica e fonematica attraverso il senso dei semi violentato e infirmato.
alfredo de palchi Nihil cop
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È lo stesso de Palchi che ci informa all’inizio con questa didascalia: «L’invito a ritornare ai territori acquatici della mia nascita e della mia crescita fino al diciassettesimo anno arriva più di mezzo secolo dopo; l’accetto per curiosità, per scommessa con me stesso e arroganza… le seguenti intime variazioni nostalgiche scritte al momento … illustrate da poesia che informano sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza».

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Quanto basta per capire che qui si tratta di un ritorno alle Origini, quel trauma personale e storico che infirmò e firmò per sempre, quasi un imprinting della sua forma-poesia, il suo essere-nel-mondo, una sorta di caustica informazione aggregata al segmento di DNA della sua poesia che ritorna, compulsivamente, anche dopo cinquanta anni, a operare nel sottosuolo della superficie linguistica.
Ci sono strati tettonici che cozzano ed entrano in attrito con altri sottostanti e soprastanti strati tettonici, eruzioni linguistiche di origine vulcanica; smottamenti, fratture, fissioni, frizioni, stridori lessicali.
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Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Ecco qui un suo autoritratto:
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43
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vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso; dignitosità che mi veste sartorialmente. Si guardi il suo viso regale, superbo, nobile, che non progetta indizii di pusillanimità; non il volgare muso di chi si presume superiore al “leone” e alle nobiltà della natura per eliminarle; così si vorrebbe eliminare il vecchio leone che sono
.
È incredibile come un autore quasi novantenne riesca ad essere così fresco e sorgivo, scrive Maurizio Cucchi nella prefazione. E in effetti, è incredibile, ma solo per chi non abbia seguito la poesia di De Palchi in questi cinquanta anni. De Palchi affattura le parole come un musicista le note che componga al di fuori dello spettro del pentagramma, con parole-rumori, lessemi distorti, frasari implausibili. Si va dal giganteggiamento dell’io all’io-universo, dalla osservazione panoramica a quella attenta e ossessiva dell’interlocutore chiuso nella sua neutra alterità.
Con il conseguente, di nuovo, giganteggiamento dell’io:
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53
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non ho dio e religione e giustamente prevedo con odio verbale che il pianeta si sgancerà dalla sua centrifuga forza; benché io abbia forza interiore nego di sostenerlo sulla schiena; il suo involucro non mi aggancerà al girotondo mentre scoppia a brandelli per l’abisso; il  mio soffio all’ involucro di spilli è  il soffio al “dente di leone” da cui svolazzano i fili bianchi che mai più potranno ripollinarsi
alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

50
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ci sei da sempre eppure a te non importa la materia oscura, quella misteriosa invisibile sostanza pesante più del visibile universo; che effetto hanno l’esplosioni delle supernova e stelle neutrone; che proponi quando una stella massiccia esaurito il proprio fornimento di combustile nucleare inizia il suo permanente libero cadere; una stella massiccia che cade permanentemente dentro un buco nero senza mai raggiungere il fondo, l’infinito infinito; con il tuo potere di disfare presumo tu non abbia nessun attimo d’intuizione matematica; sei soltanto la spoglia
.
54
.
nessuna intenzione di denigrarti; l’osservazione è che stai lì curiosa di me quanto io di te appolliata ad avvoltoio  sullo schienale della sedia che i miei gatti usano per starmi vicini; d’istinto sanno chi sei, cosa attendi, che fai, chi rappresenti; ci pensano esprimendo dal loro triste muso il tuo linguaggio, e seppure tu stessa sei l’iniziale vittima della vita, irrispettosi non temono il tuo aspetto di avvoltoio, dio-morte; l’antenato gene che si spaccò dividendosi dallo scimmiesco, evoluzione evolve la meninge che inventa l’orrifico dio  a propria immagine per abolire i proprii terrori e per terrorizzare i viventi delle specie; morte è dio, il dio-morte, l’umano evoluto a perfetto predatore
.
33
.
la vicina m’invita in un campo  arato durante un furioso temporale di tuoni lampi e saette; al momento che rotoliamo nel fango e la pioggia torrenziale ci lava tette e pube, mi sorprendi, ripudi l’infedele che nella melma del  campo ti affronta con . . . l’Estate di tuoni lampi saette e acquate delle “Quattro stagioni”  vivaldiane; ma tu  già progetti come meglio controllarmi il prossimo Autunno
.
34
.
non ho la furbizia di competere con la tua, in tale maniera mi annullerei, competo con tenacia contro il tuo disorientare persino il malvivente; quindi rispettami quel tanto per empatia che abbandoni un’ultima volta se confronto il tuo intento finale
.
35
.
incinta? possibile tu lo sia, il tuo assiduo pancione è il mappamondo con    carcasse d’ogni specie e carogne di umani ingoiate con ingordigia per vomitarle da madre spudorata, denigrata e rigeneratrice
.
36
.
la mente non mi lascia un attimo. . . mandrispinte con terrore nei macelli; giornalmente compi l’obbrorio, la profonda fatica di squartare, sangue a torrenti che cela il felice supplizio; potessi abbracciare ciascuna vittima, gorgogliare con il mio sangue la definizione del loro iniquo olocausto
.
37
.
starò con la testa schiacciata tra le mani per non essere stordito e ferito dai chiassi di destinati al solo vero impotente olocausto quotidiano; non c’è dio che regga il disagio e la caparbietà malefica della spoglia umana
.
38
sei l’invincibile dei miei desideri ridotti a scaglie e ghiaia lungo passaggi stretti di muraglie strepitosamente intasate di sangue coagulato, ruggine dei viventi bacati prima di sorgere dal ventre; per questo imbroglio sei l’invicibile paziente, farfalla, verme, grumo oleoso, fossile
39
nei miei confronti assumi un tragico aspetto e ti mostri tale perché hai la rettitudine dell’antica tragicità punitiva; è imbarazzante che tu entri il palcoscenico sempre all’ultimo istante con la bravura dell’attore che si approppria del significato completo dal primo all’ultimo vagito; non ci siamo ancora scontrati io e te per quella scena antipatica
.
40
sedicimila pianeti simili alla terra ciascuno con il sole e satelliti abitano la nostra parte di universo; chi sono e come reagiscono gli abitanti; tu non ci sveli niente, conduci l’immanenza da esatta professionista senza orario; io che ce l’ho non sono mai d’accordo se prenderti sul serio o riderti in faccia, universale affronto
.
8
 
. . . lungo il Terrazzo un’abitazione sull’argine annuncia “vendesi barca”; con le poche palanche risparmiate l’acquisto a prezzo di svendita; non intuendo il peggio salpo con la barca per colmare un capriccio di adolescente salgariano incosciente locale che affronta il freddo di novembre; alle prime remate la barca traballa e si capovolge; mentre mi arrampico su per la scarpata dell’argine sento sganasciarsi dal  ridere la famiglia completa; anticipava la scena? Sicuramente, rido anch’io per non  piangere e sentirmi derubato; inzuppato e infreddolito a casa mia madre sgrida “incosciente!”––
.
9
.
dai pali del telegrafo e della elettricità sulle  strade deserte dietro mura tiro sassate mirando chicchere di vetro e di porcellana; il mistero dell’universo è raccolto in quelle chicchere e nel ronzìo come il mistero della  vita è rinchiuso nelle acque; l’abissale concetto. . .
.
Al palo del telegrafo orecchio il ronzìo / il sortire incandescente da quando / le origini estreme / provocano la terra //  ––percepisco / accensioni e dovunque mi sparga / chiasso d’inizio odo
 
 .
Zagaroli Alfredo de Palchi Venezia 2011

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

da OMBRE 1998
1
.
L’invito di ritornare ai territori acquatici della mia nascita e crescita fino al diciasettesimo anno arriva più di mezzo secolo dopo;  l’accetto per curiosità, per scommessa con me stesso e arroganza; e con pudore leggo a voi centocinquanta firmatari assiepati nel salone di questo piccolo locale Museo Fioroni, le seguenti  intime variazioni nostalgiche al momento le ho scritte per questa occasione, illustrate da poesie che informano  sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adole- scenza;  nient’altro, oppure––perché sono ancora quale mi descrivo ma senza più timidezza––un accenno  sparso dove capita per curvarvi sulla insincerità dei compagni che tradirono la mia e la loro fanciullezza e adolescenza; il conto finale è che da oltre mezzo secolo non mi abbisognano  questi territori nemmeno alle spalle, piuttosto è il paese che ha bisogno di me, e non ci sono. . . soltanto l’Adige è dentro di  me. . .
.
Potessi eliminare l’enorme dubbio / che mi assilla la mente francescana , / ma tu, Adige, / raccogli la ghiaia lungo il profilo delle rive / e nel liquido delle reti / acchiappa il luccio che guizza luccicante / nella corrente insabbiata dal pomeriggio / assolato, enormemente / quanto è buio il mio dubbio; / poi, sereno ancora, arriva alle curve / alte di erbe e di arbusti, e qui vortica, / buttandoti addosso ai piloni dei ponti che sbalzano arrugginiti, / fino a espanderti calmo verso lo spazio, / proprio là dove non esiste––
.
2
.
è il mio mitico fiume ed è mia intenzione di scendere con aneddoti e versi nella giovinezza degli anni prima che accadesse la caccia alla vita e spinto a un esilio di vituperi d’invettive sevizie accuse prigionia cronache malvage di anonimi vili reporters, creazioni abolite poi dalla legge; rimangono le ferite e sei anni spenti; ma qui, invece gli aguzzini usurpano ancora persino il loro funebre fosso

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POESIE di Alfredo De Palchi da Sessioni con l’analista (1948-1966) e da Paradigm, (Chelsea Editions, 2013) con uno scritto di Luigi Fontanella un Dialogo tra Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa e un Commento finale di Giorgio Linguaglossa

hopkins Autoritratto

hopkins Autoritratto

 Da uno scritto di Luigi Fontanella:

«Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi

 Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.

Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010). Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

alfredo de palchi in Italia, 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Nessuna certezza
dalla spiritualità arcaica del mare––
gesticolo le braccia al cielo che affonda
sbilanciato nei verdi avvallamenti
mutazione cosciente
vescica rovesciata metamorfosi
per un abisso d’alghe e pesci,
non mi differenzio––sono
l’escrescenza che si lavora in questa
epoca
e dovunque bocche di pesci
aguzze su altri pesci
il mare un vasto cratere
e fissi al remoto I pesci graffiti
non guizzano dove sradicato
il gabbiano è l’unica dimensione
conscia
dell’inarrivabile bagliore.

(primi anni del 1960)

Alfredo De Palchi 2011

Alfredo De Palchi 2011 foto di Mariangela Rasi

da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies

6

dicono
— i comandamenti — ma quali,
se gutturale la fiamma che ammonisce
aggrava i litigiosi che li smentiscono, se maligna
s’incarna in un’altra voce
che istruisce dalla montagna.
Conosco io, non te meritevole, quei comandamenti —
solo veri.
Dimentico la pena lacerante, non l’odio
di cui la ragione mi svergogna per voi tutti.
Io neppure so più amare,
solo so bruciarvi con i miei anni
di punizione e questa
domenica del patire parolaio / ancora i vostri rami
d’ulivo sono l’infetta infiammazione, torce di numerosi
Getzemani dove popolazioni sono triturate
dagli Eichmann e da milioni che si lavano le mani.

Non una parola
(la si sente tardi)
solo mani rapaci che usurpano quelle
mani inchiodate all’avvento mistificatore,
mistificato, torpore,
fiaba della resurrezione.
È domenica delle palme —

da Sessioni con l’analista

4

strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi

“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . ..
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione
“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,

capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion…
(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)

di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii. . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:

“sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”

— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

10

freddo — la neve blocca il poco traffico
a Vercelli
e si esce la notte (1951)

— non vuole farsi vedere con me —
temendo il giudizio del paese
“la reputazione, sai. . . “

— a me non importa —
la mia reputazione fa il giro
e la curiosità . . . le spiego l’entomologia
l’amore degli insetti
“gli insetti maschi
acchiappano le femmine riluttanti
mettendo in moto speciali furbizie”
— la curiosità —
s’informa mentre si cammina nella neve
dei viali della stazione:
“grilli e cavallette sono inclini alla musica
le farfalle s’appoggiano
ai profumi e le mosche di maggio
aromatizzano la seduzione con la danza”

succede . . .
andiamo al cavalcavia, oltre i giardini:
ora, d’accordo,
amo la ragazza ma
“la sanno meglio i maschi delle malacchidi
(minuscoli scarafaggi dei tropici)

— non ch’io sia scarafaggio, però . . . —
che adescano le femmine con un nettare
piccante / per allentare poi le loro inibizioni
le iniettano di frode un afrodisiaco”

— succede qualcosa di simile —

in piedi, sotto il cavalcavia:
“perché l’hai fatto”
piange pulendosi con la neve.
La pulisco
— d’accordo, non ho complessi di colpa —
ma non più m’interessano le vergini
“perché”
quel sangue pulito infiamma la neve — e lei piange
“perché l’hai fatto, la mamma . . . “

(pensi che la segretaria
cosce lunghe incrociate sotto il tavolo,
da .. . finché)… la mamma —

16

(dopo) — che mi porta —
l’inquietudine neurotica
incastonata nell’incertezza
è uno stormo implacabile, un cancro: ora
(fuggire)

alla frontiera
“documenti” chiede il finanziere
“non sei in regola,”
sono “guarda bene,
ne hai un pacco” timbrati dalla questura

libertà che persegue
(sul treno, terza classe, di notte
una coppia mi persegue

con occhi glutinosi)
glutine umana

sfoglia, legge “ah”
e timbra documenti passaporto
“comportati bene” chiude il pacco
“fai presto carogna” penso
— il gatto mi piange sulle spalle —
ma è bello fuggire
con una valigia di poeti scorpioni
le loro menzogne in buona cera
sotto il sedile
— me li porto dovunque —
per rassicurarmi delle menzogne abbaglianti:
astrazione
eccetto i miei anni: il contatto
la glutine umana —

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011foto di Mariangela Rasi

Appunto di Giorgio Linguaglossa (da lombradelleparole.wordpress.com)

13 dicembre 2014 alle 9:59 Modifica

caro Alfredo De Palchi,

il fatto che […] è la riprova che la sua poesia segue il filo del significante, è una poesia dipendente dal “gioco” dei significanti. Un concetto di poiesis che abbiamo conosciuto nel corso del tardo Novecento, e che forse (mi permetto) ha nuociuto alquanto alla poesia italiana perché ha introdotto l’equivoco pensiero che non si potesse fabbricare in Italia poesia adulta che non fosse stata sperimentale. Cosa voglio dire? Dico semplicemente che la poesia di […] è confezionata in consonanza con le concezioni tardo novecentesche post-sperimentali basate sull’autonomia della catena del significante il cui capostipite più evoluto, abile e influente è stato indubbiamente Andrea Zanzotto con La Beltà del 1968. Questa la genealogia. E andava detto. Anzi, va ogni giorno ripetuto.

Una cosa appare chiara a chi abbia orecchie per intendere: che la poesia del presente e del futuro non passa più (se mai c’è passata) attraverso l’autonomizzazione della catena del significante e che bisogna andarsela a cercare altrove. E qualcosa c’è stato nella poesia italiana degli ultimi tre quattro decenni che si è mosso in questa direzione, ci sono state delle opposizioni, non è vero che il pensiero maggioritario (nelle Accademie e nelle Università) non sia stato contrastato, sono tanti i poeti di valore che hanno posto un alt e un altolà a questa deriva concettuale (e in tal senso anche la poesia di Magrelli ha avuto un lato positivo, non lo nego, anche se poi ha introdotto un elemento di deterioramento ancora forse più grave: una scrittura poetica fatta di secondarietà; ma questo è già un altro discorso). Quello che volevo sottolineare è che è finita da lunghi lustri in Italia la poesia del significante (per fortuna) e che attardarsi su quella impostazione di fondo comporta restare periferici, marginali, e comporta continuare a fare una poesia di stanca derivazione epigonica.

E veniamo al testo che hai postato datato anni ’60. È un testo, come può vedere chiunque sappia leggere una poesia, che non si basa sulla catena del significante ma che va per altra strada: va per intensificazione e slittamento di immagini e di parole immagini. Voglio dire questo: che la tua poesia già allora (Anni Sessanta) era già fuori moda, non si accodava alla concezione maggioritaria basata sui giochi del significante e sulla autonomizzazione del significante ma deviava, in modo consapevole, verso una poesia fitta di intensificazioni e di accelerazioni tra le parole e le immagini. Non mi meraviglia quindi che la tua poesia sia stata non compresa in Italia. Il fatto è che non poteva essere compresa per via di quella griglia concettuale (e anche di altro, ma qui soprassediamo) che tendeva a rivalutare altre impostazioni, da quella tardo sperimentale a quella che prediligeva una poesia degli oggetti, alla poesia presuntivamente vista come impegno o civile…

alfredo de palchi

alfredo de palchi

  Risposta di Alfredo De Palchi (da lombradelleparole.wordpress.com)

 Alfredo de Palchi

15 dicembre 2014 alle 4:35 Modifica

 Caro Giorgio Linguaglossa,

benché esca dalla camera da letto alle sei del mattino ed rientri verso la mezzanotte, il mio tempo di fare tante cose è rallentato, eppure trascorre molto in fretta. Così arrivo ormai sempre in ritardo anche a commentare.

Apprezzo il tuo intervento esplicativo. Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro. E perché, durante gli anni 1950 e 1960, la mania della scelta ideologica fece suicidare un poeta che conobbi, apprezzai , e pubblicai; si uccise perché il partito comunista gli rifiutò la tessera. Tutti gli scribacchini di quel periodo capirono che per fare carriera bisognava avere la tessera “fascista” della sinistra. Immagina se io, tipo disintegrato dovunque, mi sforzo a firmare una tessera politico-sociale quando non ho mai pensato di appartenere a gruppi letterari, clubs, nemmeno al Pen Club (chiarisco: non quello italiano) di New York che più volte mi invitò.

La mia poesia non ha un unico stile, in essa si trovano scritture diverse tra le quali c’è l’unica d’avvero avanguardia Sessioni con l’analista, 1964–1966 (1967), e altri lavori. Le mie intuizioni e scoperte le praticavo scrivendole, non da chiacchierone alla P.P. Pasolini e compagni che di psicologia ne davano notizia di loro stessi senza creare nulla. Chiacchiere. Sessioni con l’analista non si impose perché gli addetti ai lavori non intendevano riconoscere sopra la loro la mia importanza; e in maggioranza i recensori, che non capirono il linguaggio, su vari giornali beffeggiarono quella importanza. Silvio Ramat, onesto ma confuso sullo stile e sulla materia, pubblicò su La Nazione e su La Fiera Letteraria recensioni non positive. Con Ramat che non conoscevo di persona ed io diventammo amici, e si convertì alla mia poesia circa quarant’anni dopo; con Marco Forti, positivo, c’era stima reciproca; voglio dire che nonostante i sberleffi idioti di recensori chiusi nello scatolame accademico più declassato, io non perdetti sonno e voce, non disperai, mi comportai con indifferenza.
Voglio ricordare che alcuni mesi fa su “L’ombra della parola” un tuo magnifico articolo che illustrava uno o due testi delle Sessioni con l’analista. Nessuno ci fece caso, i principali motivi sono: 1) non piace stile forma e soggetto a chi apprezza testi, e poetizza allo stesso modo, che io definisco invecchiati alla nascita; 2) non piace a chi non comprende nulla di stile forma e soggetto.

Non ho problemi con le poetiche, apprezzo ogni stile forma e soggetto se l’insieme è poesia, non scialba preziosa costruzione. I problemi attuali sono ancora quelli di coloro che invasero buona parte desertica della seconda metà del Novecento e oltre, proseguendo ad ammalare la scrittura delle recenti generazioni di imitatori. Ovviamente ci sarà nel sottobosco affollato un migliore, un nuovo, un poeta-artista. Un pittore, si dice anche dell’imbianchino, ma un creatore si dice dell’artista-pittore. Artiste-peintre. Vive la différance!

Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Commento di Giorgio Linguaglossa

Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

*

Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.

(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.

(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

alfredo de palchi new york di notte

New York di notte

Pretendi di essere il falco
che sale in volo
sussurrando storielle infertili
e vertiginosamente precipiti sulla preda
che corre alla tana del campo
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani

non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
a brandelli dalla tua preda
io
che ti gioca le infinite porte del cielo
ti eutanasia nella vanità
di barbiere da sottosuolo dove
a bocca colma della tua schiuma
ti strozzi finalmente sgraziato

non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere
gli specchi del vuoto fanno finzione
volando a pipistrello sei dannato
a rasoiarti la gola
a cercare il tuo nulla dentro il nulla

(27 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

Che tu sia sotto
in mucillagine di vermi
o sopra
a vorticare nel vuoto
rimani il bifolco delle due versioni
nell’oscurità totale

finalità troppo benigna per te
Nerone Cella seviziatore
rapinatore violentatore

le visioni di troppa madre di cristo
nella tua cella
non ti salvano con i tuoi compagni di tortura
subito spersi nell’Adige
il mio augurio di qualsiasi morte a voi
che vi dànno tra la terra e il primo spazio
mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle
mi spellate

la tua vergogna è alla luce dove
ti conto l’eternità di tempeste drammi nuvole
dove qui sta l’inferno
e tu flagellato alla gogna
designato a seviziare rapinare
e violentare carnalmente i tuoi compagni
di tortura e di malaffare.

(28 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013 )

*

Di poca intelligenza per la commedia dell’arte
Fabrizio Rinaldi
sei la maschera che sa di sapere
solo per sentito dire da chi
ha sentito dire

e scrivi sul giornale dei piccoli L’Arena
le lettere di presunti crimini
avvenuti prima della tua nascita geniale
tra bovari con mani di sputi
nella Legnago
riserva d’ignoranza e bassure

da pagliaccio di paese
ti arroghi di soffiare menzogne
ed io rispondo che ho sentito dire
da chi ha sentito dire che sei
culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo
e non ti diffondo sul giornale
ma in questo lascito

per te i beni augurabili da San Vito
sono i cancelli aperti alla notte
per cercare sulle strade deserte
e tra gli alberi della “pista”
l’invano.

(29 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

*

E voi bifolchi
eroici del ritorno
sul barcone dell’Adige
mostratevi sleali
e vili quali siete
con il numero ai polsi di soldati
prigionieri
non di civili dai campi di sterminio

siete sleali per tradimento
vili per la fuga verso
battaglie di mulini a vento
spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi
che vi scorreggiano in faccia

ora non scapate
da San Vito dov’è obbligo
narrarvi le stesse menzogne
tra compagni
rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo
criminali comuni all’infinito
e finalmente
spiegare la verità dei ponti antichi
lasciati saltare nell’Adige di Verona

forse anche i defunti avrebbero orecchie.

(30 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)

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UNA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI “(incomunicazione)” (1967) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoStrilli De Palchi Fuori dal giro del poeta

Strilli De Palchi La poesia anticomplessa e commerciale

Citazioni dall’opera di Alfredo de Palchi, grafica di Lucio Mayoor Tosi

(incomunicazione)

frammenti secchi singhiozzi, turbinio
interno – mi ascolti
congelando alla parete una stampa
di olmi fiume e strada
– che ho perso –
mentre con sola immaginazione parlo
al compatto vuoto del soffitto
che dici, seccamente il tuo “perché”
frantuma il silenzio dell’ufficio
– la segretaria al telefono… –
oltre l’uscio lunedì all’una
risponde e a me sabato all’una
il dottore.. incredibile,
che ne so –
il “perché” è domanda stupida
– difficile –
impossibile estrarlo, rimane una cava
paleolitica,
impossibile cauterizzarlo e ancora il tuo “perché”
non ho colpe,
altri, i complessi
del paleolitico superiore –
“che fa la segretaria”
si tratta d’isolamento
incompiutezza –

(stesura del 1964)

 

Linguaglossa_De_Palchi_poeti_serata__(40)

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa 2011, Roma

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

La poesia inizia con il termine «(incomunicazione)» messo tra parentesi e finisce con la parola «incompiutezza», senza parentesi. C’è un dialogo, ma del tutto slogato, dissestato, de-territorializato, che non obbedisce più alla legislazione della sintassi. Qual è l’oggetto?, non si sa, ci sono «frammenti», «singhiozzi», compare un «mi ascolti», ma non sappiamo chi sia l’interlocutore che dovrebbe porsi in posizione di ascolto. Si progredisce nei tre quattro versi seguenti a tentoni, fino ad incontrare: «parlo al compatto vuoto del soffitto». Si cerca un «perché», si va alla ricerca di un «perché» come un commissario va alla ricerca delle tracce del delitto; nella composizione sono inseriti spezzoni di dialoghi, dialoghi espliciti e dialoghi impliciti, proposizioni implicite di un monologo pensato. C’è una «segretaria al telefono», ma non si capisce bene se sia lei ad inserirsi nel dialogo o se stia tentando di «cauterizzarlo», come si cauterizza una escrescenza. Il dialogo (o meglio il monologo) non va alla ricerca del senso, piuttosto lo fugge con tutte le sue forze, vuole divincolarsi dal legame col «senso», vuole liberarsi dalla soggezione del «senso», così come parimenti vuole liberarsi dalla «soggezione della sintassi», dal potere estraneo e impositivo della logica, suprema inerenza della sintassi.

 alfredo de palchi constellation

poeti_serata__(26)

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, claudia marini e luigi manzi – Roma, 2011

È vero che la poesia e la pittura contemporanee si prestano più di ogni altra arte ad esemplificare la perdita del senso o smarrimento del senso. La poesia classica, fino a L’infinito (1821) di Leopardi, si prestava ad una sola interpretazione, il senso era innervato nell’atto della lettura. Con l’avvento del Moderno accade qualcosa di apparentemente insolito e disturbante, di inspiegabile: il testo poetico perde la sua centralità, non è più la sede del senso, il senso non è più rinvenibile mediante una e una sola interpretazione ma sarà visibile attraverso il conflitto delle letture e delle interpretazioni, esso si dà a vedere soltanto mediante la problematica del conflitto. Il senso sbircia tra i segni del testo (poetico, musicale, figurativo), tenta di affiorare alla superficie, ma si ritrae, si allontana, tende al nascondimento. La struttura del senso esisterà soltanto nella tensione tra l’affioramento e il nascondimento, essa non si dà più come scoperta della «verità», perché non c’è più alcun «contenuto di verità» stabile e definitivo, ma ci si trova davanti ad un contenuto di verità instabile, aleatorio, effettuale, eventuale, residuale. La struttura del senso si dà soltanto tramite il proprio carattere residuale, di scarto; questo è la sua marca, il suo segno di autenticità o, quantomeno, segno della sua provenienza autentica, cioè che proviene dall’autore.

alfredo-de-palchi-luigi-manzi-giorgio-linguaglossa-roma-2011

Si è così affermata la convinzione secondo cui il testo (poetico, figurativo, musicale etc.) si presta a molteplici letture e interpretazioni, il testo diventa una struttura significativa attraversata dalle molteplicità delle letture. Quanto andiamo dicendo diventerà evidente per la poesia italiana già negli anni Sessanta. Sono gli anni chiave. Sono anni di svolta repentina. Sono anni di boom economico, la società di massa è alle porte, la piccola borghesia ambisce ad uno status di benessere, sarà l’invasione degli elettrodomestici a fare la prima e unica rivoluzione della società italiana dello stato unitario,  la faranno il televisore, la lavatrice e il frigorifero. Se leggiamo la poesia riportata, che fa parte della raccolta Sessioni con l’analista (1964-1966) di Alfredo De Palchi, abbiamo la esemplificazione di come il linguaggio poetico sia diventato il terreno di scontro di fortissime tensioni testuali, di fibrillazioni emotive, di disconnessioni metriche, sintattiche e semantiche. Ne La buia danza di scorpione, scritto dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951, è preponderante l’atto dissacrante della gestualità ingovernabile, il testo è l’espressione del gesto dissacrante; con l’opera successiva, con Sessioni con l’analista, che sarà pubblicata in Italia nel 1970, lo smarrimento del senso e dell’interrogazione che lo segue diventa fatto testuale, oggettivo. In una parola l’atto della scrittura si è de-soggettivato.

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Luigi Manzi- LA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI, IL CORPO A CORPO CON LA PAROLA POETICA

  

pittura Mark Baum (American, 1903–1997). Seventh Avenue and 16th Street, New York, 1932. The Metropolitan Museum of Art, New York. Edith C. Blum Fund, 1983

Mark Baum (American, 1903–1997). Seventh Avenue and 16th Street, New York, 1932. The Metropolitan Museum of Art, New York

Molti dei poeti maledetti o irregolari che continuano a trasmetterci passioni e emozioni hanno subìto nel corso della vita l’isolamento in spazi talmente opprimenti da provocare in loro una dilatazione della sensibilità. È accaduto spesso che i poeti, in condizioni di deprivazione (la prigione, il convitto, il manicomio; l’esilio in una torre, in una stanza), abbiano dovuto sopperire alla limitazione corporale con la virtualità dell’altrove. A volte la segregazione è stata perpetrata attraverso un’ingiusta condanna. Allora la parola poetica si è trasformata nell’altro oltre che nell’altrove: la scrittura ha finito col flettersi in se stessa e ipostatizzarsi per diventare la controparte simbolica e intimamente antagonista con la quale combattere un corpo a corpo esiziale. In questo senso Villon e Rimbaud, Maldel’stam e Hikmet, Dylan Thomas e Trakl, Sa-Carneiro e Celan, Dino Campana e Gregory Corso, hanno ben poco in comune con Petrarca e Valéry, con Rilke e Bonnefoy, con  Ritsos e Claudel, con Sbarbaro e Cardarelli, con Luzi e Solmi.

alfredo de palchi Paradigm-5 Alfredo De Palchi ha iniziato a scrivere nel 1947, nel penitenziario di  Procida. È giusto l’anno in cui Giuseppe Ungaretti pubblica Il Dolore, Salvatore Quasimodo dà alle stampe Giorno dopo giorno, e Mario Luzi Quaderno gotico; Eugenio Montale collabora al Corriere della sera. Come può, De Palchi, in simile temperie, scrivere versi tanto innovativi, estranei alle poetiche contemporanee. Come può aver trovato già un suo stile dirompente e debordante, solcato da crepe intrusive, da pertugi ottici e sottili cavità auscultatorie? Non è sufficiente ricorrere a riferimenti stilistici contigui, a suggestivi rimandi e contaminazioni. La scrittura poetica depalchiana, acuminata e revulsiva, non è in nessun modo epigonica, non obbedisce ad alcun manierismo stilistico; è autarchica e anarchica, rivoluzionaria e ribelle: è carne viva contrapposta alla furia distruttiva di chi non ha altro con cui lottare per liberare, giorno dopo giorno (a ogni “richiamo del gallo”),  il proprio io murato.

alfredo de palchi e roberto bertoldo

alfredo de palchi e roberto bertoldo

 Non è agevole riportare alla luce le ascendenze letterarie di de Palchi, oltre quelle orgogliosamente reclamate. Vale la pena soffermarsi con maggiore attenzione sulle poesie d’esordio, raccolte in La buia danza di scorpione che contiene i versi scritti nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951. Tutta la successiva poesia ne conserverà l’imprinting e le ulcerazioni; esclusi forse i momenti in cui torna la figura fantasmatica dell’antico torturatore o quelli suffragati dall’analista. Paradossalmente allora in De Palchi la memoria e la narrazione dei momenti più drammatici della vita (Un ricordo del 1945; L’assenza, in Paradigma) distendono l’impeto, diluiscono il tossico, riconciliano con il consesso sociale: la scrittura poetica diviene accondiscendente e articolata. Ciò invece non vale per le successive raccolte, da Costellazione anonima a Le viziose avversioni, fino alle più recenti, dove la lingua è di nuovo torturata, sebbene i nessi sintattici siano mantenuti aderenti e consecutivi.

poeti_serata__(26) Il poeta contemporaneo a De Palchi che appare con più evidenza nei versi d’esordio è Ungaretti, i cui stilemi riaffiorano in castoni dentro sequenze eterogenee . Ne La buia danza dello scorpione si rinviene: “convulsioni di case”, oppure: “ Fra le quattro ali di muro”, o anche: “ Pane è pietra”, “scontare un vivere”, “l’immensità della pena più grande”, “questa lastra di fiume”, fino all’esplicito: “la morte/ che si sconta vivendo” in Foemina tellus. Continua a leggere

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