Le radici della poesia di Marco Tabellione, Poiesis o Dichtung?, Il concetto di poesia da Giambattista Vico ad Heidegger attraverso Jaspers, Derrida fino ai giorni nostri

foto Un abito della collezione autunno inverno 2011 2012 The Rodnik Band intitolato Venere in paillettes che ha reso omaggio a vari artisti ha fatto riferimento alla Fountain di Marcel Duchamp del 1917

Foto della collezione autunno-inverno 2021 che rappresenta Venere in paillettes

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Le radici della poesia

di Marco Tabellione

Studiare la poesia rappresenta sempre un’avventura della mente, ma anche dello spirito e dell’emotività, come se l’arte delle parole riuscisse da sé a dare vita ad un universo globale e complesso, come se la poesia potesse davvero assurgere ad essere tra le arti la più capace a testimoniare l’integrità dell’essere umano, e il significato più profondo di ciò che è precipuamente umano. Del resto l’esaltazione di cui essa gode presso tutte le civiltà, ma anche il blasone che continua a conservare nella contemporaneità testimoniano appieno la sacralità di cui spesso l’arte poetica è rivestita. Per comprenderne le ragioni si può cercare di individuare alcuni autori che hanno tentato di evidenziare il percorso della poesia dalle sue origini, e di chiarirsi i motivi della sua nascita.-

Definire l’arte poetica è impresa a dir poco titanica, perché essa fa parte dei misteri dell’essere umano, in quanto ha accompagnato l’origine e lo sviluppo della civiltà. Giambattista Vico nella sua immensa opera La nuova scienza, tra le facoltà culturali umane pone la sapienza poetica al primo posto in ordine di nascita, molto prima delle altre discipline umanistiche o addirittura delle scienze esatte. L’idea di Vico è che il linguaggio poetico nasca contemporaneamente alla facoltà verbale dell’essere umano, o meglio ancora che il linguaggio nasca con caratteristiche poetiche. Lui immagina i primitivi, che chiama giganti (ma il riferimento è probabilmente alla mitologia greca, ad Esiodo per esempio che indica giganti e titani tra i primi nati dall’unione di Urano e Gaia) alle prese con i misteri e le paure del mondo, li immagina mentre fantasticano su dei e divinità per spiegare i pericoli e le difficoltà delle vite, mentre inventano svariate divinità attraverso cui sentirsi protetti, dalle quali anche farsi punire, nel tentativo di dare vita alle prime forme di organizzazione comunitaria e dunque di legge (Vico nota che Iovis il genitivo di Iuppiter, Giove in latino, ha la stessa radice di ius-iuris cioè legge o giustizia presso i romani). Li immagina passare dal linguaggio gestuale ai primi monosillabi, e successivamente alle prime parole con cui nominare le cose del mondo, sia esistenti sia non esistenti, li vede infine mentre fantasticano e creano l’idea di una trascendenza che possa indirizzarli e guidarli. Ed ecco il miracolo, il passaggio alla base delle culture: dall’ignoranza dei primitivi al sorgere delle prime curiosità, dalla paura e dal mistero suscitati dal mondo naturale alle prime idee di oltre, dimostrate dalla pratica della sepoltura, fino alla creazione delle prime religioni e delle prime cosmogonie. Nasce così non tanto la religione o la metafisica, quanto la poesia, e la poesia nasce come conoscenza, come prima forma di conoscenza che spalanca il campo appunto alla religione e alla metafisica.   

È evidente in questa ricostruzione vichiana la presenza di una particolare idea di poesia, ciò la poesia come creazione, come fare, come dare vita dal nulla. Il linguaggio umano cioè diventa per i primitivi la dimensione dei primi significati da attribuire all’esistenza. Le idee sorgono innanzitutto come parole; è, cioè, il linguaggio, nella sua origine poetica, che dà vita ai significati, i quali non preesistono al linguaggio; e ciò diversamente da come sosterrà Husserl, padre della fenomenologia, secondo il quale invece i significati sarebbero indipendenti dal linguaggio, come dimostra il caso ricorrente in cui sosteniamo che abbiamo l’idea ma non ci viene la parola. Altri filosofi, al contrario di Husserl, proseguiranno sul solco di Vico, fino al caso estremo di Jacques Derrida che sosteneva che “tutto è linguaggio”. Per Vico indubbiamente se non tutto è linguaggio, sicuramente vale il principio espresso nel vangelo di san Giovanni, secondo il quale come è noto “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio”. Sappiamo che per Vico tale impostazione (di significato primariamente teologico) vale nel senso del carattere iniziatico che il linguaggio avrebbe nella sua origine appunto poetica, tanto che la lingua costituirebbe lo scopo stesso del pensare umano, o meglio pensiero e linguaggio sarebbero in sostanza la stessa cosa, come è anche nell’idea dei greci che utilizzano la parola logos per indicare entrambi.

Gli stessi greci inoltre ci offrono etimologicamente la parola che noi utilizziamo per indicare poesia, cioè poiesis, che vuol dire appunto creare, e che ci permetterebbe di vedere nel poeta soprattutto il creatore, come creatori di linguaggio e pensiero furono i primi parlanti. Il poeta, cioè, secondo questa visione sarebbe un creatore, e creatori di linguaggio e dunque di poesia furono gli arcaici uomini preistorici che diedero vita alle prime forme verbali, probabilmente per costruzione onomatopeica.

Vico, a questo proposito, addirittura sostiene che le idee non nascono prima del linguaggio, sarebbero piuttosto conseguenti al linguaggio, perché la concretezza fisica, a cui i giganti primitivi erano legati, li avrebbe portati a creare prima il verbo fisico e poi le idee spirituali, i concetti. Va detto però che tale idea di poesia non è la sola avvallata dalle tradizioni e dalle civiltà che si sono susseguite nei secoli. Il romanticismo, ad esempio, ha sì mantenuto l’esaltazione della creatività del poeta, ma lo ha considerato come una specie di invasato, di posseduto dal linguaggio poetico, che sorge nella sua mente per servirsi di essa quasi come strumento, secondo una visione che tende a considerare il poeta come un mezzo della lingua e non viceversa. In base a questa interpretazione, la visione del poeta muove sempre da una ispirazione; è il sorgere misterioso e spontaneo dell’empito creativo che determina il primo germe del fare poetico, e l’ispirazione non nasce dalla individualità cosciente del poeta, da una sua volontarietà, piuttosto gli viene regalata.

Non per niente, Dante nel primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di ispirarlo, di offrigli una sorta di apporto divino, la vocazione profonda dell’arte delle parole di cui Apollo è protettore. Lo invoca perché Dante sa che da solo non è affatto in grado di dare un resoconto seppur sommario della sua estatica esperienza paradisiaca, poiché, dice in sostanza l’Alighieri, con le sole armi della poesia come arte, come tecnica (l’un giogo di Parnaso) non si potrebbe dare inizio a questo, per altro inutile e fallito in partenza, tentativo di dire l’esperienza del divino. A monte della creatività poetica, c’è dunque l’ispirazione, non sono l’abilità creativa, anzi la sorgente stessa dell’afflato poetico non è che in questo monito linguistico e immaginativo che sembra nascere indipendentemente al di fuori.

Ma che cos’è allora questo originario germoglio poetico? Difficilissimo dirlo, a meno che non ci si rivolga ad Heidegger, il quale, come ha ricordato Massimo Cacciari in molte conferenze dedicate all’unicità del linguaggio poetico, per le ragioni sopra esposte non utilizza il termine di origine greca poesie, ma quello latino di Dichtung, che potremmo tradurre con “dettato”. Il poeta cioè ubbidisce ad un dettato interiore, e ciò è lo stesso Dante ad affermarlo quando, dopo aver incontrato nel Purgatorio il poeta pre-stilnovista Bonagiunta Orbicciani, che gli chiede da dove derivi il suo “dolce stil novo”, risponde facendo proprio riferimento ad un dettato interiore “Io sono uno che come detta il cuore scrive” (alla lettera: “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”).

Scrivere o meglio ancora poetare, secondo questa visione non vuol dire tanto creare, cioè plasmare, mettere in atto un’abilità, un fare (poiesis appunto), ma vuol dire seguire un dettato, ubbidirgli addirittura, e non per niente il temine Dichtung etimologicamente si ricollega anche a quello di dictator, che a Roma designava la carica temporanea di sei mesi assunta in caso di pericolo per le istituzioni, termine dal quale poi deriva quello spregiato di “dittatore”. Per Heidegger la Dchtung è innanzitutto linguaggio, linguaggio però che si detta, si dà all’ascolto del poeta, per cui essere poeta vuol dire primariamente ascoltare e non parlare, vuol dire cioè ascoltare un linguaggio interiore. L’idea di linguaggio interiore fu formulato tra i primi da Vygotskij, linguista russo vissuto durante la dittatura staliniana e affidato allo studio di bambini problematici, il quale mise in relazione l’acquisizione dall’ambiente culturale di stimoli linguistici, da rielaborare individualmente, con i progressi dell’apprendimento. Su un versante ancora più misterioso e ovviamente metafisico Heidegger giunse ad individuare addirittura una completa identità tra il linguaggio interiore e l’essere stesso, vedendo nel linguaggio “la casa dell’essere”.

Nella visione di Heidegger il linguaggio, e ancor più il linguaggio poetico, non sarebbe solo uno strumento di comunicazione o espressione, ma sarebbe la fonte stessa delle idee, la forma materica che permette la nascita delle idee, le quali non preesistono al linguaggio e, rappresentando la fonte stessa della coscienza, sarebbero collegate con l’essere profondo dell’uomo fino ad influenzarlo radicalmente. Poetare dunque non vorrebbe dire solo fare, creare (poiesis) vuol dire innanzitutto immaginare il linguaggio, cioè rispondere alla Dichtung che abita ognuno di noi, e dunque in ultima istanza poetare vuol dire essere contattando l’essere. È probabilmente lo stesso tipo di identità tra linguaggio ed essere che spingeva Rimbaud ad affermare “io non penso ma sono pensato”. Come è noto Rimbaud appena adolescente paragonò il poeta ad un veggente, sottolineando la necessità di un’azione poetica che fosse innanzitutto aperta all’ascolto, e successivamente dialogo della ragione con questa matrice profonda dell’essere umano. Le Illuminations già dal titolo sottolineano questa specie di accensione di luce che la poesia comporta, in un senso che non coincide ovviamente con l’amissione razionalistica dell’illuminismo, il quale utilizzò la metafora già religiosa della luce, in un’accezione laica se non addirittura ateistica, per indicare la funzione totalizzante della ragione. In Rimbaud torna il significato mistico dell’illuminazione, nella quale però la ragione non è abolita, ma dialoga con le profondità dell’essere umano.

Dunque Poiesis o Dichtung? Entrambi si dovrebbe dire, nel senso che, essendo artista, anche il poeta si muove in un ambito di abilità, linguistiche o metriche o musicali, le quali abilità richiedono talento ed estro. Pur tuttavia è evidente che senza l’ispirazione originaria l’arte diventerebbe ben poca cosa; in fondo è lo stesso Dante a riconoscerlo, quando nel citato primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di assisterlo con entrambi “i gioghi del Parnaso”, perché ora l’autore della Divina Commedia confessa di aver bisogno soprattutto dell’ispirazione per poter proseguire.

L’esistenza di un monumento linguistico letterario nel profondo di ogni essere umano, per cui essere poeti e scrittori vuol dire appunto attingere da questo spazio di ricchezza, può essere comprovata dalla teoria di Jung sull’inconscio collettivo. Jung chiama in causa gli archetipi, e li riprendi da quelli che Freud invece tratta come simboli arcaici. Si tratta di componenti psichici collettivi, derivati da sedimenti che non interessano le individualità in quanto tali, ma in quanto individualità appartenenti al genere umano. Il modo che l’inconscio ha di rivelare tali archetipi assomiglia moltissimo al linguaggio simbolico della poesia, tanto da autorizzare a dire che si tratta dello stesso tipo di meccanismo psicologico e linguistico.

Jung sostiene che molti simboli onirici, i quali si rivelano nei sogni delle persone, non possono essere spiegati solo con le vicissitudini del singolo, ma rimandano ad un sostrato collettivo, dal quale il nostro inconscio attinge per le sue formazioni simboliche. Questa comune radice linguistico-simbolica, che risiede nell’uomo un po’ come gli istinti che agiscono negli animali – istinti il cui sorgere misterioso è utilizzato da Jung per motivare il sorgere altrettanto misterioso degli archetipi umani – questa radice archetipica, si diceva, non solo ha anche fare con le formazioni mitologiche dei popoli arcaici, ma appare vicina alla radice stessa della poesia. In un certo senso Vico anticipa Jung, quando descrive la nascita della propensione linguistica nell’essere umano definendola poetica a priori, e probabilmente il filosofo napoletano si riferisce inconsapevolmente ad un motivo arcaico, una tendenza simbolica e immaginativa, non lontana dalla dimensione psichica in cui si formarono gli archetipi collettivi junghiani.

Fase generativa, misteriosa e arcana, la quale ha a che fare con esperienze che Vico definisce divinatorie, e che investono le prime due età della storia umana individuate dall’autore della Scienza nuova, vale a dire quella sacra e quella eroica, dominate rispettivamente dalla percezione sensoriale e da quella sentimentale e passionale, mentre raziocinio e consapevolezza logica sarebbero state acquisite dall’uomo solo durante un terzo stadio. In definitiva nel secondo periodo quando l’uomo è già immerso in una configurazione passionale e sentimentale della propria visione del mondo, la necessità relazionale avrebbe spinto i nostri antenati ad elaborare la dimensione linguistica grazie alla quale sarebbero giunti a nominare e a significare la realtà, a determinare la coscienza – cioè una consapevolezza sempre più progredita sul mondo – e a produrre quell’incredibile creazione affabulatoria che darà vita alla mitologia e alle religioni, che a loro volta contribuiscono a rimpinguare la coscienza stessa.

Ma, lo ripetiamo, questa straordinaria sequenza sorge da un atteggiamento iniziale e iniziatico che è già poetico, è già poesia. Ecco perché Heidegger sosterrà che la poesia prima di creare ascolta; dal silenzio, come direbbe Ungaretti, essa tira fuori le parole e i loro connotati simbolici per offrirli alla collettività, e riesce a farlo perché attinge da un tesoro che è a sua volta collettivo, se ha ragione Jung quando parla di inconscio collettivo e va a riscoprire i miti antichi per avere conferma delle sue intuizioni. Scrivere poesia, adagiarsi sul linguaggio interiore, farlo parlare, non vuol dire solo dare vita ad un’esperienza artistica o estetica, o peggio semplicemente culturale, vuol dire contattare l’essere nella sua forma più pura, secondo quelle coordinate che Karl Jaspers, forse più di Heidegger, ha proposto. In Metafisica Jaspers sostiene che se l’esser-ci, la nostra sola sola possibilità di vivere l’essere, cioè essere qui e ora, viene vissuto nella consapevolezza della resa al mondo, cioè nella forma della contemplazione, allora l’essere, che è trascendenza ma anche immanenza, può davvero rivelarsi a noi, possiamo davvero cogliere “la meraviglia dell’essere” nonostante la nostra condanna alla consunzione, cioè al vivere per morire, ciò che il filosofo tedesco chiama “naufragio”. Ma questo cammino finale, questo incontro con l’essere è appunto la grande tentazione della poesia e del linguaggio, è la sua finalità fin dagli albori linguistici; è l’obiettivo di “dire l’essere”, che la poesia continua a perseguire da sempre, fallendo ogni volta e ogni volta ricominciando, come “Adamo che dà il nome alle cose”.

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Marco-Tabellione-2021Marco Tabellione (5.5.1965), laureato nel ’91 in lettere moderne all’università “G. D’Annunzio” di Chieti, con una tesi sulle avanguardie poetiche degli anni Sessanta, specializzato alla LUISS di Roma in giornalismo. Collabora con quotidiani e riviste letterarie nazionali e insegna materie letterarie. Vincitore a Perugia nel 1990 del premio di poesia intitolato a Sandro Penna, nel 1998 ha vinto il premio “Giovani autori” curato dalla Fondazione Caripe di Pescara, mentre nel 1999 il premio “Palazzo Grosso” di Riva presso Chieri (Torino) con il volume di poesie Incanti. Nel 2003 con la raccolta Tra cielo e mare è stato tra i vincitori del concorso “Adottiamo uno scrittore” indetto dalla provincia di Pescara, e nel 2004 si è classificato secondo al premio abruzzese Sant’Egidio indetto dalla cooperativa Tracce di Pescara. Per le edizioni Tracce di Pescara ha pubblicato nel 1995 la raccolta di poesie Gli uni e gli altri bui e il saggio sul giornalismo televisivo L’immagine che uccide. Nel 1998 è stata pubblicata la raccolta di poesie InCanti, sempre per le edizioni Tracce, mentre nel 2000 le edizioni Samizdat di Pescara hanno curato la raccolta di versi, L’alba e l’ala. Nel 2001 è uscito il suo primo romanzo Il riso dell’angelo per le edizioni Tracce, mentre risale all’anno 2002 il saggio di letteratura La cura dell’attimo edito da Samizdat di Pescara. Nel 2003 è uscita l’ultima raccolta di poesie intitolata Tra cielo e mare e pubblicata anch’essa da Tracce. Nel 2009 è uscito il romanzo L’isola delle crisalidi per le edizioni Runde Taarn, che nel 2010 ha vinto il premio Zenone riservato alla narrativa. Lo stesso romanzo L’isola delle crisalidi nel 2010 è risultato finalista al premio Lamerica e ha vinto il premio speciale della giuria al premio De Lollis. Nel 2011 ha vinto il premio di poesia Spinea e nel 2012 è giunto secondo al premio “Liliana Bragaglia” con il racconto inedito La bottega del libraio. Infine nel 2013 ha vinto il premio di giornalismo sezione ambiente “Vivi l’Abruzzo”. Nel 2015 è uscito il suo ultimo libro, il saggio Il canto silenzioso, viaggio nei segreti della poesia (edizioni Solfanelli) premiato nello stesso anno al premio di saggistica Città delle Rose di Roseto e finalista al premio Roccamorice. Nel 2016 il racconto L’uomo che decise di morire sulla Maiella ha ottenuto il premio speciale della giuria al premio sulla Letteratura paesaggistica. Nel 2017 è giunto terzo al premio nazionale di poesia di Civitaquana e la raccolta inedita Ogni voce si è classificata seconda al premio Pablo Neruda. Nel 2018 il volume di versi L’eternità dell’acqua (2017) è risultato vincitore del primo premio per la poesia alla rassegna dell’editoria abruzzese e nel 2019 ha conseguito il premio Maiella per la poesia, con la raccolta inedita Ogni voce il primo premio al concorso Il parco di Antonino. Nel 2021 è uscito il suo ultimo romanzo La vita che non muore per le edizioni Il viandante.

35 commenti

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35 risposte a “Le radici della poesia di Marco Tabellione, Poiesis o Dichtung?, Il concetto di poesia da Giambattista Vico ad Heidegger attraverso Jaspers, Derrida fino ai giorni nostri

  1. caro Marco,

    Nell’isola di Ogigia il Reale è ucronico:
    Il cuoco di Agamennone ha preso il posto del Re
    Penelope tiene lo scettro che fu di Odisseo
    Briseide amoreggia con Paride e Elena lo cornifica con Diomede
    E vivono tutti felici e contenti

    (Giorgio Linguaglossa)

    Il posto del Re è vuoto

    Foucault in L’archeologia del sapere dichiara il soggetto «una funzione vuota, che può essere ricoperta da individui fino a un certo punto indifferenti, quando vengono a formulare l’enunciato» (p. 125); e anche: «un posto determinato e vuoto che può essere effettivamente colmato da individui differenti» (p. 127).
    Il secondo novecento scopre che il posto del Re è vuoto, che il Bewusst sein (l’esser cosciente) è diventato un Bewusst werden (un divenire cosciente) e che la Ragione di cui si pavoneggiava il sovrano è in realtà una lacuna, una latenza. Adesso il soggetto è costretto a camminare con le proprie gambe senza poter contare sull’orientamento garantito dalla Ragione. La migliore rappresentazione del soggetto privo di Ragione sono i quadri di Magritte dove l’omino in borghese scopre che sotto il cappello c’è il vuoto: aria, luce e nuvole.

    Siamo esentati dal seguire il segno dove esso vuole portarci

    Sondare il linguaggio, la griglia dei suoi enunciati implica indagare il suo potere propriamente significazionale nella misura in cui il «significare» indica la capacità della parola non di condurre alle cose o all’essere stesso a partire da un’intenzione soggettiva, ma di evitare accuratamente il contatto con le cose e con l’essere medesimo. Dunque, siamo esentati dal seguire il segno (o meglio il simbolo) fin dove esso indica l’esplosione del linguaggio verso l’altro da sé, è questa la sua apertura.
    In questa esplosione è il dire, il discorso che si mostra. Il luogo di questa esplosione è appunto il discorso articolato, lì infatti è dove il linguaggio sfugge a sé stesso e ci sfugge e tuttavia è anche il luogo dove il linguaggio viene a sé stesso, il luogo dove il linguaggio è dire in quanto esso evita accuratamente di dire alcunché, e tace perché si rifiuta di dire davanti a ciò che dice come se ciò che dice fosse un Enigma irrisolvibile. Ma l’Enigma non c’è.
    La funzione ontologica del parlare, originata da una volontà dimostrativa di un soggetto, si fonda su una distinzione tutta interna al linguaggio, precisamente quella che vi separa un «piano interno» da un «piano della manifestazione» che ricalca, la celeberrima distinzione saussuriana tra «langue e parole».

    Ciò che il testo dice è una menzogna

    Di fronte a un testo, non occorre chiedersi altro che quello che il testo dice: sotto, dietro o sopra il testo ci sono sempre altre parole possibili ed eventuali. Quello che il testo dice di se stesso è una menzogna, infatti il testo dà di se stesso e delle cose del mondo sempre indizi e rinvii diversi e plurimi.

    Il grande inganno della interiorità

    Il «grande mito dell’interiorità» si rivela essere non altro che il «grande inganno della interiorità»; non v’è alcuna interiorità nell’interno, semmai essa dimora all’esterno, nel mondo delle cose che le parole indicano e, indicandole, sviano, si allontanano da esse. Fare testo implica sondarne la dispersione degli enunciati, tale irregolarità non delimita null’altro che una molteplicità di prassi linguistiche da cui origina una formazione discorsiva, che però non coincide mai con la pura e semplice sovrapposizione di quegli enunciati, quanto piuttosto con il corpo concreto degli enunciati pronunciati la cui esistenza trova la propria ragione determinante nel rapporto plurale tra la molteplicità delle prassi linguistiche le quali non hanno alcuna esistenza fuori del complesso enunciativo che è, propriamente, un sistema entropico in collegamento (quel sistema che governa la dispersione e la confusione degli enunciati i quali, propriamente, costituiscono il discorso poetico) con altre determinanti pratiche non discorsive. Perché è ovvio che le pratiche discorsive sono sempre in collegamento profondo con le pratiche non discorsive, con i segni, le icone e i simboli.

    Tra l’«Io penso» e l’«Io sono» si spalanca un abisso

    «Nel pensiero classico, colui per il quale la rappresentazione esiste e che in essa rappresenta sé stesso riconoscendovisi come immagine o riflesso […] non vi si trova mai presente in persona».2 Il soggetto è considerato come punto di vista dello spazio ortogonale della rappresentazione, l’essere di questa soggettività trova il proprio ordine e la propria ratio attraverso la sua duplicazione e il suo rispecchiamento. Il soggetto non è che l’apparizione dell’essere sociale nello spazio ortogonale della rappresentazione, ed è quindi immediato e «vuoto»: in esso si saldano l’essere sociale e la rappresentazione del soggetto e il soggetto si rivela «vuoto» a seguito della sua funzione di mero rispecchiamento dell’essere sociale. In parallelo con il Cogito cartesiano e la sua evidenza vuota, esso è il mero «luogo» dove si incrociano le cose e il pensiero. Il soggetto non è, quindi non può dare problema. Nel XIX secolo sorge la questione del soggetto e della sua legittimità. È il periodo in cui viene scoperto e indagato l’inconscio e prende evidenza l’«impensato» il rimosso; per la prima volta il pensiero del soggetto si scopre problematico, conflittuale, contraddittorio, plurale; esso non sarà più semplicemente lo spazio in cui si dispiega la rappresentazione onde l’essere sociale viene posto in un quadro ortogonale con le sue luci e le sue ombre e la sua storia, ma assume uno spessore opaco, e questa opacità finisce per rendere scabroso il passaggio, originariamente ingenuo, dall’«Io penso» all’«Io sono». Tra l’«Io penso» e l’«Io sono» si spalanca un abisso.

    L’«Io parlo» è espressione della normatività inconscia

    L’«Io parlo» è espressione della normatività inconscia, campo di incontro-scontro con altri «Io parlo». Questa normatività risiederebbe in una opacità, una oscurità del significante in rapporto al pensiero che lo pensa e alle cose che vengono pensate. Per Foucault la coimplicazione nel soggetto non deriva dalla dimostrazione di una opacità che ci rende oscuri a noi stessi, ma dal rendere visibile quella trasparenza che altro non è se non la Legge rivelata dal sorgere del significante. L’«Io parlo» non si smarrisce nelle profondità, ma disparisce in una insondabile diafana trasparenza che coincide con uno spazio dis-chiuso, quel che è stato chiamato «esteriorità», che poi è lo spazio del gioco linguistico, l’esatto contrario di ogni ascosa interiorità: foucaultianamente, il «fuori», l’esteriorità.

    Nell’«Io parlo» emerge la minaccia che incombe sul soggetto da parte di quel campo anonimo che è il sistema linguistico

    Dal «penso, dunque sono» al «parlo, dunque sono» si manifesta una nuova problematica che riguarda l’Essere parlante. Nell’«Io parlo» emerge la minaccia che incombe sul soggetto da parte di quel campo anonimo che è il sistema linguistico, una legge che precede ogni parola e ogni enunciato, che precede noi stessi e che imprime il sigillo della legge sui segni. Tale inconscia legislazione, interna alla parola (nel caso della linguistica strutturale) e al desiderio (nel caso della psicanalisi) costituisce il sistema inconscio dell’Essere dei parlanti.

    La certezza dell’«Io penso» porta con sé la possibilità dell’inganno su tutto ciò che penso di me

    Scopriamo così l’inadeguatezza della nostra coscienza rispetto a noi stessi. Ricœur sintetizza bene tale critica radicale mossa alla centralità della coscienza del soggetto già sottoposta a critica dalla psicanalisi e dallo strutturalismo. È nell’ordine dei segni che incontriamo la critica più radicale alla sovranità del soggetto, infatti Foucault afferma «là dove c’è segno non può esservi l’uomo, e che là dove si fanno parlare i segni è necessario che l’uomo taccia».2
    Pertanto è nel segno che il Parlante scopre una insidia alla propria esistenza, tuttavia esso Parlante non può fare a meno di produrre discorsi, un’attività che proviene dal linguaggio e rifluisce nel parlare. Così il Cogito smarrisce se stesso: dall’Io penso si giunge all’«Io parlo».
    Così, il posto del Re ritorna vuoto. Il soggetto, scopertosi una «funzione vuota», si dissoolve nei discorsi che lo producono; l’esistenza di questo soggetto avviene a seguito della moltitudine dei discorsi che vengono posti, e veniamo assorbiti da quello spazio «senza intimità» e anonimo che è il linguaggio. È soltanto quella «funzione vuota» che permette al linguaggio anonimo di prodursi e riprodursi di continuo.
    Dal discorso, dai discorsi veniamo ricondotti non nell’interiorità di un Io, non a significati ascosi, ma all’esterno di ogni soggettività dove regna la legge del «fuori». Il linguaggio, la sua sintassi, la sua legislazione altro non è che questa legge, esso è cieco e anonimo rispetto a chi lo pronuncia e all’istanza per la quale il discorso viene adottato. Il soggetto altro non è che una «funzione vuota» che può operare all’interno di quadro normativo proprio in quanto «vuoto» e disponibile a tutto. Soltanto una «funzione vuota» può consentire la funzione enunciativa e il costituirsi delle «formazioni discorsive».

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    L’«archivio» di Foucault è dislocato da Agamben tra la langue ( «sistema di costruzione delle frasi possibili») e il corpus («che riunisce l’insieme del già detto, delle parole effettivamente pronunciate o scritte»).
    L’archivio «designa il sistema delle relazioni fra il non-detto e il detto», tra il proposizionale e ciò che è alla base del detto, il dicibile in quanto funzione enunciativa. È nella dimensione dell’«archivio» foucaultiano, nella forbice tra la possibilità di dire e la possibilità di non dire, tra la potenza e l’impotenza di dire che Agamben indaga la possibilità di una dimora etica: nell’«archivio» foucaultiano, il soggetto è una casella vuota. Agamben propone di integrare la questione archeologica foucaultiana mediante il «sistema delle relazioni fra il dentro e il fuori della langue, fra il dicibile e il non dicibile in ogni lingua, cioè fra una potenza di dire e la sua esistenza, fra una possibilità e una impossibilità di dire. Nella testimonianza si apre la cesura entro cui sola è possibile «situare un soggetto», ossia «il vivente che ha il linguaggio, perché […] può la sua in-fanzia».

    La poiesis nel moderno

    Se nel sapere dell’âge classique (Cfr. Las Meninas di Velazquez) il soggetto non esiste se non come condizione per il rispecchiamento dell’essere sociale nella rappresentazione, nell’epoca moderna esso fa la sua apparizione in seno al discorso che lo nomina, un discorso a-rappresentativo quello del moderno che lo indica unicamente come una latenza, un vuoto, una medialità tra un linguaggio e una nuda esistenza. La poiesis in questa condizione ontologica si pone quindi come quel fare, quella prassi di un soggetto che si è scoperto essere un vuoto, una latenza, una mancanza e, in quanto tale, è una indefinizione, privo di identità se non quella della oscillazione tra un prima, un dopo, un passato e un futuro.

    Il senso

    Il segno non può rovesciarsi nell’universo senza assumere la veste del senso. Il senso è un epifenomeno che dà a tutti gli altri fenomeni linguistici, i segni, una direzione univoca. È un atto arbitrario che il soggetto fa per il tramite della simbolizzazione; la simbolizzazione tende naturalmente al senso anche percorrendo la per via del non-senso. È la strategia del senso quella di moltiplicarsi in una molteplicità di sensi che convergono verso un senso unico e attuale, ma, appunto, nella attualità della presenza il senso può disfarsi e diventare un niente, un senso falso, svilito. E così il processo può ricominciare all’infinito. Il linguaggio non ha un senso ma una molteplicità infinita di sensi possibili, sono i soggetti che confezionano e conferiscono i sensi ai segni. Compito della poiesis è quello di disinnescare il senso fasullo mostrandone la fasullaggine, è un compito storico, il suo destino, quello di essere destinata a disfare il senso diventato osso di seppia.

    1 «Rovesciare il segno sull’universo» è un’espressione felice del linguista francese Gustav Guillaume (cit. in P. Ricœur, La struttura, la parola, l’avvenimento, in Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., pp. 93-111, p. 105)
    2 M. Foucault, Le parole e le cose, in a cura di A. Pandolfi, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 331.
    3 M. Foucault, op. cit. pp.110-116, p. 115.
    4 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 135.

    • Marco Tabellione

      Grazie Giorgio. Illuminanti molti tuoi spunti. E sul passaggio tra l’io penso all’io parlo, siamo davvero d’accordo. Anzi, secondo me il linguaggio interiore è lo stato della coscienza. Io direi però non che tutto è esterno, ma riprendendo Holderlin, che “tutto è interno”. Siamo linguaggio, e i poeti sono i primi creatori di linguaggio.

  2. Osservare, contemplare e verbalizzare, ma anche emozionarsi, meravigliarsi e molto altro, costituiscono l’insieme dell’attività cognitiva. Di fatto, dedichiamo al pensiero solo una parte della nostra esistenza.
    Il pensare ininterrotto esiste solo nei libri. Anche per questo apprezzo la poesia kitchen, perché restituisce in lettura l’atto del pensare, saltuario e pausato.
    Fermo restando il fatto che esistono molte tipologie di poeti, la mia attenzione è rivolta al pensare volontario, voluto e premeditato. Trascorro ore pensando, quindi verbalizzando, finché dal linguaggio – oggi, dal rumore, dalla chiacchiera, cioè dal linguaggio “disturbato”; perché poesia kitchen è fondata sul disturbo… dal che si vedrà che ben pochi poeti oggi scrivono a mano, su carta, perché tale pratica è lenta e impone ordine; dove ordine non esiste da lungo tempo, almeno da quando si è fatta totale la società dei consumi e della propaganda. – Il brusio del mondo alberato e ventilato, sembra scomparso. Oggi è diversa solitudine, poeti che ne hanno coscienza sanno che “il disturbo” è ormai parte integrante della poiesis. Prova ne sono le continue interruzioni , caratteristica propria della poesia kitchen (il punto inteso come STOP e interruzione temporale; non sospensione del pensiero ma sua fine e nuovo, diverso inizio).
    Io sento scomparsa l’ispirazione e, francamente, anche la fantasia. Inseguire immaginazioni mi stressa (oh, le parole che inseguono, che sono al servizio di…). No, penso, quindi scrivo poesie.

    “Il solo atto intellettuale autentico è l’invenzione”
    “L’intelligenza inventiva si misura rispetto alla distanza dal sapere”
    (Michel Serres).

    • Marco Tabellione

      Grazie per la nota e per le precisazioni. Anch’io credo molto nel pensiero, e infatti la dichtung heideggeriana lo presuppone di più rispetto alla poesia come pratica di scrittura creativa, di poiesis. E credo ad un dialogo, una dialettica tra mente-ragione e il linguaggio interiore che ci abita. Un rapporto tra immaginazione (ispirazione) e consapevolezza (è lì il difficile). Non è l’automatismo dei surrealisti. Però non voglio dare un colpo di spugna a tanta poesia ispirata e legata all’immaginazione, dagli invasati contestati da Platone ad Holderlin, dai simbolisti alla psichedelia anglosassone, dai romantici a Sanguineti (e via dicendo, anche Campana).

  3. Maria Pia Latorre

    Decisamente da studiare. Alcuni concetti di Vico sono normalmente spacciati come riflessioni scaturite dalla propria mente. Ma i concetti, è risaputo, si muovono, si sfumano da una sensibilità intellettiva all’altra. Grazie!

    Il giorno sab 7 gen 2023 alle ore 08:23 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona

    • Marco Tabellione

      Grazie per il commento. Sicuramente ho forzato l’interpretazione di Vico, ma ognuno legge secondo la propria visione, è inevitabile. Tuttavia secondo me Vico era davvero convinto dell’origine poetica del linguaggio e, tramite lui, lo sono anch’io.

  4. di Davide Dalessandro
    Sul discredito delle recensioni

    huffingtonpost.it del 6 gennaio 2023

    … a Giorgio Manganelli dobbiamo la più efficace definizione di recensione:

    “Non v’è nulla di più futile della recensione; gesto miserabile, irresponsabile, ritaglio di chiacchiera, gomitolo di inutili aggettivi, di frivoli avverbi, di risibili sentenze. Ma appunto questa fatuità insolente può fare della recensione un ‘genere’ letterario più infimo che minore, una ciancia da angiporti, un berlingare senile; e dunque anche alla recensione può spettare una qualche accoglienza nella disordinata, chiassosa piazza dei mestieri letterari, tra il poema epico e l’epigramma, il sonetto caudato e il capitolo in rima”.

    All’interno di un gesto miserabile, di un ‘genere’ letterario più infimo che minore, mi sono dato una regola: non stroncare mai. Meglio, non ho mai stroncato tanto come negli ultimi anni. Come? Non scrivendo dei libri che, una volta letti, non mi sono piaciuti. Credo che il miglior modo per stroncare un libro sia non scriverne. La stroncatura, del resto, serve molto più a chi la fa che a chi la riceve. Serve a provocare una polemichetta che dura lo spazio di un mattino, poiché eventualmente non stiamo stroncando Proust o Manzoni, ma scrittori che tentano faticosamente di arrampicarsi sul cielo buio della pagina bianca.

    Cesare Cavalleri, che ci ha lasciati pochi giorni fa, stroncava e si rappacificava, ma sempre nel covo di un circuito che non sfiorava minimamente il lettore. So di non soddisfare il palato di Dorfles, che vorrebbe denunciare “la mediocrità di tanti lavori arrivati ai primi posti nei più importanti premi letterari”, ma io l’ho denunciata ignorando totalmente quei libri. Purtroppo, li ho ricevuti, li ho persino letti, mi sono salvato non scrivendone. Per Dorfles, invece, i giudizi fortemente negativi servono per dare vivacità intellettuale al Paese e si chiede: “Se i critici non criticano, che critici sono?”.

    Posto che criticare può anche significare rilievo critico, evidenziare una qualche lacuna o mancanza, non necessariamente stroncare con giudizi fortemente negativi, credo che nel dibattito avviato non si sia indugiato abbastanza su alcuni elementi decisivi: la perdita di consistenza dei quotidiani, l’assenza di scuole, di maestri e di filtri, l’avvento dei social-network, dove anche Enzino56, come nota ironicamente Di Paolo, può trovare Virginia Woolf “un pochino noiosa”. Chi è Enzino56? Boh, non lo sapremo mai, però scrive e forse ha più lettori, o like, di Di Paolo, di Dorfles e di me.

  5. antonio sagredo

    Tentativi di definizione

    Poesia
    sono tornei tra mare e cielo,
    sembianti esotici, geometrie terribili.
    Labirinti dove soli si azzuffano ringhiando,
    universi che imitano apocalissi.

    Poesia
    sono tornei di tenerezze inaudite,
    teatri di rugiade, prodigi evanescenti.
    Finzione dei tarocchi che sognano destini,
    immagini di fate e di leggende.

    Poesia
    sono tornei fra misteri di cristallo,
    rubini dei cristalli, disperate corone.
    Vanità delle lune dove s’indugiano i poeti,
    cavalieri erranti, antiche sinfonie.

    Poesia
    sono tornei tra cielo e terra,
    cigni in lagrime, donne innamorate.
    Rosari di canicole dove smania la tortora,
    deliri di madreperla, narcisi impazziti.

    1977

    a.s.

  6. antonio sagredo

    “mi sono salvato non scrivendone”
    (così più sopra è scritto)
    ———————————-
    Ma non è così che si risolvono i problemi critici, perchè il critico tenta di salvare dapprima se stesso, deponendo in favore della non-critica; oppure esagerando nel senso opposto.
    Comunque queste problematiche sono affari del critico militante o no, sincero o no, ecc.
    Al POETA di tutto questo non importa nulla, poichè si dice :
    “faccio quel che posso e non quel che devo”, ed è per questo che procede per “tentativi di definizione”… che altro può fare se egli stesso è sorpreso dalla POESIA?!
    Il critico non vivrà mai su se stesso il DUENDE, non sapendo cosa sia, cosa si prova, come ci si oppone ad esso e come invece al contrario si è completamente assoggettati.
    Tutti i poeti nei primi attimi della compoarsa della POESIA si sono chiesti: cosa è? cosa vuole? cosa bisogna “fare” per comprenderla. Non è facile affatto!
    E appoggiarsi alla filosofia, come sopra è scritto, non credo sia una cosa buona per la filosofia stessa e tanto meno per la poesia che da questa viene (subisce) analizzata e studiata. La POESIA non si deve studiare e ne si può studiare con varie analisi di varie discipline, non la si può rinchiudere nei lager\gulag di presunte valide e positive analisi.
    E’ come uccidere il Poeta e la POESIA stessa.
    Ci pensa il poeta stesso a far fuori un altro poeta. E a farsi fuori, se necessario.
    Personalmente ne ho fatti fuori parecchi, mA HO AGITO PERCHè COSTRETTO dai loro miserabili versi e per pietà e per distruggere in loro l’illusione, ma poi in fin dei conti si condannano da se stessi perchè passano direttamente nell’oblio più totale e assoluto.
    E’ stato un dispiacere che ho provato acutissimo, ma dovevo farlo, perchè potevo.

  7. antonio sagredo

    di Boris Pasternàk

    ———————————–
    Definizione della poesia

    È – un fischio maturato sodo.
    È – uno schiocco di lastre di ghiaccio premute.
    È – la notte che raggela la foglia.
    È – il duello di due usignoli.

    È – un dolce pisello inselvatichito.
    È – il pianto dell’universo nei baccelli.
    È – un Figaro che dai leggii e dai flauti
    si getta come grandine su un’aiuola.

    È tutto, ciò che alla notte è così importante trovare
    sui profondi fondi delle piscine,
    ed è anche portare una stella fino al vivaio
    su tremanti palmi bagnati.

    Più piatto di tavole sull’acqua è – l’afa.
    Il firmamento è ingombro di ontani,
    poter ridere in volto a queste stelle,
    infatti l’universo è- un luogo remoto.

    1917

    (trad. di A. M;. Ripellino)
    —————————————————–

    Anche tutta la poesia della Cvetaeva è una continua ricerca della definizione… della Poesia! Il settecento era il secolo prediletto della poetessa. È il secolo della scienza sperimentale, della ricerca della verità delle cause e degli effetti della natura: si mettono da parte le superstizioni, perché è oramai tempo che i lumi trionfino, che celebrino gli oggetti! È ovvio che il movimento futurista guardi a questo secolo, come il secolo delle novità e delle ricostruzioni, distruggendo le zavorre e le superstizioni del passato, ma di passato si nutre!
    Valgono per tutti le ricerche di Chlebnikov. Più che di definizione, si dovrebbe dire: ri-definizione… di ogni cosa, del tutto. (altra ricerca di definizione della poesia è nei versi di Poesia, a p. 69). Ma, aggiungo, i poeti della grecità, dell’antica e classica Grecia, sono quelli che con più insistenza e caparbietà cercano di definire la poesia. Quattro poesie compongono un Esercizio di filosofia che fa parte di una raccolta (che venne prendendo forma già dal 1917) Mia sorella – la vita (Sestra moja žizn’ – 1922 ): esercizio vuol dire anche tentativi di definizione della poesia, e a questo proposito Andrej Sinjavskij chiarisce la ricerca del poeta in Boris Pasternàk-Poesie inedite, op. cit. pp. 59-60. – Ma anche i poeti Vladimir Holan e František. Halas e lo stesso giovanissimo Jiři Orten insistono, vogliono capire che cosa è la Poesia! Ma, a questo punto, tutti i poeti si domandano che bestia è – questa Poesia?! (Jiři Orten morì nel 1941 a 22 anni, amava tanto Pasternàk da citarlo più volte; ho immaginato sempre che dopo la guerra ci sarebbe stato tra di loro un incontro. Pasternàk non seppe mai dell’esistenza di Orten; non credo che Vitězslav Nezval gliene parlò durante i loro ultimo incontro a Mosca).
    ———————————————————-
    (mia nota 184, p. 62)
    dal Corso su B. Patsernàk di AMR del 1972-73)

  8. Ho ritrovato per caso una copia di questa poesia del 2014 che un hacker aveva distrutto:

    Il bacio è la tomba di Dio

    La torre del faro nella pianura di neve.
    «Il bacio è la tomba di Dio».

    C’erano scritte queste parole
    sopra l’ingresso della torre…

    Ma forse non era quella la torre ma un’altra
    che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico

    dove sorge un’isba; nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva
    sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.

    Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti.
    C’è scritto: «Hic incipit tragoedia».

    Le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli.
    «Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…»

    La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna.
    Diventa luce.

    […]

    La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
    Nella picea onda del Canal Grande.

    Ponte degli Scalzi.
    L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.

    Uno spartito aperto sul leggio: “La lontananza nostalgica”.
    Il vento sfoglia le pagine dello spartito.

    Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
    Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.

    Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
    il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.

    […]

    Madame Hanska si spoglia nel boudoir.
    Ufficiali austriaci giocano a whist

    il Signor K. asserisce:

    «Il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà
    non può violare il principio di non contraddizione.

    Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti;
    mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,

    picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono,
    a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…».

    […]

    «L’universo è il cadavere di Dio e noi i suoi vermi».
    Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
    è ritratta la Peste.

    La Signora Morte impugna una pertica che termina con una falce.
    Ammassa i morti e taglia loro la testa.
    E ride.
    Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
    E canta.

    Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
    Wagner e List giocano a dadi

    Sotoportego del Canal Grande.
    Tiziano beve un’ombra con la modella

    dell’«Amor sacro e l’Amor profano».

    […]

    Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti.
    Salotto color fucsia.

    I clienti della locanda del buio brindano alla felicità.
    I calici di Murano scintillano.

    Dio bussa alla porta d’ingresso; dice:
    «posso aggiustare il rubinetto,

    sistemare la lavastoviglie, riparare il frigorifero,
    darle l’indirizzo di una casa di appuntamenti,

    ho anche dei numeri per il Lotto…».

    […]

    Entrammo. Una stanza bianca. Un pianoforte.
    Un bambino suona qualcosa.

    Una voce esce dal parlatorio, dice:

    «Il re morto è un dio che vive, il dio morto è un re che vive.
    La tomba del re è la casa del dio che si è dimenticato di essere un dio».

    Io calpestavo il pavimento di linoleum bianco…

    Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
    “Non c’è anima più viva”, pensai ma scacciai subito quel pensiero.
    Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:

    «Non c’è più lutto tra i morti».
    «Non c’è più lutto tra i morti».

    (2014)

    • Da “Il bacio è la tomba di Dio!” .
      Libera interpretazione della prima parte:

      Siberia, nei pressi del polo artico.
      Evgenia Arbugaeva osserva la distesa di neve.

      Ligeti, Lux Aeterna.

      Ubaldo De Robertis, sull’universo a cubetti.
      Pardon, ad anelli.

      Dalla neve, musica eterna, incontraddittoria,
      diventa luce.

      […]

      Carica di morti affonda
      la gondola vestita a lutto.

      LMT

      • caro Lucio,

        può andare anche così. Grazie.

        La brillantina tipografica della poesia dei nostri giorni agghindata con iperbati fondati sull’io è roba da timbrificio tipografico, da dentifricio fono simbolico… noi qui stiamo facendo una cosa davvero nuova e rivoluzionaria. Ad esempio, prendere cognizione e possesso di un concetto elementare che in filosofia circola da almeno duecento anni, che «le parole sono ponti interrotti», che la procedura della colonna sonora di voler dare loro un senso con accompagnamento musicale e simbolico come ha fatto il più grande poeta del novecento, Montale (almeno il primo Montale), è da archiviare con sollecitudine. Tutta la poesia riepilogativa ed epigonica che oggi come ieri continua acriticamente a confezionare confetti e confetture dell’io, è roba da indirizzare nella pattumiera di via Pietro Giordani, qui a Roma dove abito; oggi confezionare abiti post-lirici e post-simbolici con tanto di colonna sonora è roba da passatisti in vacanza colliquale. Pensare che il poeta possa o debba dare un senso al Reale per il tramite dei suoi alambicchi fonosimbolici e tipografici è davvero una pia illusione.

        Lucio Mayoor Tosi ha scritto che qui nell’Ombra siamo in un «cantiere aperto»: c’è chi attinge l’attimo delle parole che transitano nel nulla, come fa Lucio, chi afferra dal passato e dalla memoria frammenti per riposizionarli in una griglia psicologistica come fa Giuseppe Gallo, e chi invece recupera dal non-tempo degli spezzoni, delle zattere linguistiche un tempo significative come fa Giuseppe Talìa nelle sue poesie “caro Germanico”, e chi come Francesco Paolo Intini invece riutilizza e rimette in circolo lacerti e sintagmi dei cartelloni pubblicitari e delle fake news della cultura occidentale ridotti ad elementi frastici non significativi.
        La sostanza della NOE è varia e ampia, ciascun poeta può scandagliare i propri strumenti espressivi in piena libertà e in molteplici direzioni. Aver paura del «nulla» e del «vuoto» non serve a nulla, respingere il «nulla» e il «vuoto» accusandoci di «nichilismo» o di soperchierie tardo surrealistiche è un atto di superciliosità e di incapacità a comprendere il «nuovo».
        Il «frammento» compare all’improvviso dall’immenso disordine degli oggetti, è esso stesso un prodotto di quel disordine, ma, affinché vi sia «frammento» esso deve sortire fuori da una marcatura del nostro tempo. È il tempo il demiurgo del «frammento», suo capostipite e suo padrone. Nel «frammento» c’è tutta la potenza detonante del significante eccedente, del significante perduto. L’Estraneo (Unheimlich) è il postino che bussa alla porta e ci consegna le buste delle lettere dal futuro. L’assurdo è il «frammento» che ci guarda.

  9. Kitchen Haiku
    (per fan di Matisse):

    Siamo poeti televisivi.
    Coi piedi in ammollo nel fiume Gange.
    È la RAI.

    LMT

  10. Marco Tabellione, con buona parte dei commenti che le sue meditazioni hanno suscitato (per esempio in Giorgio Linguaglossa, e anche in Lucio Mayoor Tosi e Antonio Sagredo), mi rafforza in due punti per me fermi del e nel fare poesia in stile kitchen.

    Ossia:

    – chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. E il poeta stabilisce uno stato di dipendenza rispetto alla lingua.
    Per questo Brodskij dice in suo verso:
    ” i poeti ritornano sempre,/ in carne o sulla carta. //Voglio credere che ambedue /siano possibili…”;

    – L’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, egli abita soprattutto quegli “spazi ideali” che sono le parole.
    E’ nel «cerchio del dire» che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano.

    Ne consegue per il poeta della Poetry Kitcheen che ponendo la propria esistenza nel luogo del dire, ovvero nello spazio della “parola abitata”, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.

    • Marco Tabellione

      Ti ringrazio della nota su cui sono molto d’accordo. Fare sì che la parola torni protagonista, non vuol dire però arrendersi alla materialità, vuol dire abitare la materialità come dici tu, abitare la materialità del linguaggio, ma da qui comincia a nascere quella che potremo definire la spiritualità, ovvero la coscienza e dunque quello che siamo. Come Vico stesso sembra dire, questo processo nasce dalle parole, non preesiste ad esse. In un certo senso noi siamo il prodotto del linguaggio, e in primis del linguaggio poetico. E’ il linguaggio che ci consente di pensare e dunque di essere.

  11. Poetry kitchen
    Poesia in cucina*

    Cucina, ricette e letteratura

    Qualcuno ha scritto che a seconda dei casi e degli autori, la presenza del cibo nei libri è una forma del tempo e dello spazio, un piacere sostitutivo o complementare del piacere amoroso, un ricordo, un’allusione, un gesto dimostrativo; una delle tante funzioni del ritmo narrativo.
    Un altro sostiene che il legame fra cibo e poesia è un dettaglio di vita quotidiana come tanti altri, un codice sociale, un segno (bello o brutto) del carattere dei personaggi, una dedizione, un’impazienza, una libertà e perfino una banalità.

    Gino Rago

    Joseph Conrad entra nella cucina di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e ruba il timballo di maccheroni
    dal romanzo Il Gattopardo

    Elsa Morante e Mario Lunetta non stanno a guardare:
    “Sputa il rospo” gridano a Moravia
    e ingurgitano tutte le quaglie en sarcophage
    del Pranzo di Babette

    James Joyce mischia il Christmas pudding dell’Ulisse
    con l’omelette alle erbe di Sostiene Pereira
    ma si arrende alla goduria di Gabriel Garcia Màrquez
    e alle sue melanzane all’amore di Macondo

  12. Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto

    Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto, un significante in perdita, un significante eccedente. In ciò la critica del testo poetico, lungi dal ridursi a mera pratica ermeneutica, non può neanche appiattirsi a semplice teoria del senso e del significato. Se così fosse, il nucleo vuoto del reale resterebbe inviolato, in quanto esso per definizione si sottrae tanto al senso che al significato.

    Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto. L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide con l’insensatezza del reale. La realtà, con i suoi registri semiotico e semantico, apre la dimensione del senso e del significato purché e perché all’origine del senso e del significato c’è un fuori-senso. In questa accezione è soltanto il fuori-senso che apre al simbolico e all’immaginario. La poiesis abita il fuori-senso. La poiesis non risponde ad alcuna intenzione originaria di significazione, o a un «voler dire». Il reale è il registro nel quale tutto ciò che la poiesis recita trova iscrizione, e che è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. La poiesis è il luogo dove è possibile dentrificare il fuori e fuorificare il dentro perché sta esattamente sulla linea di demarcazione del fuori e del dentro, in quella linea divisoria che non risponde né al senso né al significato. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio. Il reale è opaco al senso.

    Qual è lo statuto del kitchen? Il kitchen è qualcosa di insignificante o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o senso, quanto l’estraneità ad esso, l’indifferenza ottusa. Il senso, così come il non-senso, è interdetto alla linguisticità in quanto resto problematico irri-cevibile, non integrabile nell’esperienza dotata di senso. L’insignificanza della poesia kitchen polverizza il linguaggio riducendolo a mera materialità. Quella cosa che emerge come scarto e residuo dal linguaggio altro non è che il reale stesso, non alienandosi nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma in quanto opponendovi resistenza mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole. In questa prospettiva, il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione e dell’elaborazione nel dispositivo linguistico. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità. Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’inscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità. Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime. Al di là di ogni formalizzazione, il reale lo si può solo incontrare.

    Giorgio Linguaglossa
    Risposta di Germanico a Giuseppe Talìa

    caro Tallia,

    ti scrivo dalla mia abitazione : Marketstrasse n. 7 nell’anno tremille781 ab Urbe còndita.
    La nuova poesia?, il nuovo romanzo?, la nuova critica?
    L’elefante sta bene in salotto, è buona educazione non nominarlo.
    «Andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole?»,
    L’elefante si aggira nel salotto.
    Con la proboscide fracassa il vasellame, sporcifica la tappezzeria,
    rovista nei cassettoni stile liberty e post-pop,
    manda in pezzi anche il lampadario di Murano
    e la cristalleria di Boemia…

    Il vestito di Heisenberg è morto il 25 agosto 1926
    mentre si recava in tram a Copenagen.
    Noi lo sappiamo dai resoconti dei suoi studi intorno ad un misterioso ipotocasamo
    una micro struttura elicoidale
    un miliardo di elementi all’incirca
    con innesti di mitogrammi di tantalio e cadmio.

    Ricordo un trafiletto del 24 aprile 1997 sul “Sole 24 Ore”
    di un poeta milanese che parlava di silenzio e di ascolto…

    Masticavo quei tramezzini psicopoetici con del chewingum.
    Adesso ci sono i cinici, stretti parenti delle cimici, gli iloti.

    Hanno un aplomb più strutturato,
    intendo i loro brodini psicocritici.

    Nei loro trafiletti ci vedo il vuoto apotropaico.
    Una volta c’erano anche i “francobolli” su La Stampa,
    con all’interno una poesiuola;
    lo spettacolo non era edificante, affatto.

    E certo che i lettori normali non prestavano alcuna attenzione a quelle sciocchezze.
    Quindi nessuno le leggeva.

    Bei tempi, caro Tallia!

    • Giuseppe Talìa

      Roma semper in bello est.

      Una Santa Barbara la notte scorsa
      I gatti gridavano basta e i cani accucciati
      Con le zappe sulle orecchie tremanti
      Invocavano Anubi.

      Una Santa Barbara solo per far muovere il mondo?

      Per placare gli animi?
      Per dare speranza?

      Hanno appiccato un fuoco lungo la costa
      Per riscaldare la grotta di Gesù Bambino.

      Che iperbole!

      Ricordi, Germanico, gli squarci dell’artiglieria
      sui tronchi della foresta di Teutoburgo?

      Ne parlò per primo Anonimo romano
      Nei vespasiani e del culo del mondo.

      E quelle lingue di fuoco che dalle cime ardevano
      Come torce umane?

      Dai, lo vedi anche tu che qui c’è retorica, no?

      Lì cambiammo il mondo, a fortiori.
      Anche se solo per poco.

      Tallia

  13. caro Marco,

    ecco l’incipit del mio saggio introduttivo alla Antologia Poetry kitchen uscita due mesi or sono nell’anno domini 2022 a far luogo dal Giorno Attuale.

    16 autori di poesia kitchen. La poesia ha finalmente fatto ingresso in cucina, ha lasciato i salotti degli intellettuali e gli androni con le colonne neoclassiche delle abitazioni borghesi e si è introdotta in cucina. È un’attività al tempo stesso ordinaria e generica (poiché tutti mangiamo, quindi appartiene al genere), quotidiana e individuale poiché il cibo viene preparato ogni giorno da ciascuno di noi. Nella sua dimensione ordinaria la cucina soddisfa i nostri bisogni più immediati, si lega alla dimensione intima della casa, del focolare, assolve un bisogno umano ma anche, consente differenze di stile e ingegnosità, fattori indispensabili ai fini della riproduzione dell’homo sapiens. Fin dall’inizio della storia dell’homo sapiens, la sua abitazione, con il suo luogo più importante è la cucina, luogo di confezionamento e consumazione dei cibi. La poetry kitchen è un artefatto costruito in casa con gli utensili che abbiamo sotto mano tutti i giorni: i piatti, le padelle, il coltello, la forchetta, il sale, lo zucchero, lo zenzero, la curcuma, gli aromi etc. non c’è bisogno di indossare panni aulici o «sartorie teatrali», occorre scrivere in modo dimesso e dismesso, senza fare alcun conto delle abissali angosce e delle insondabili epifanie; è una poesia frittura di pesce, poesia omelette, poesia usufritta, fatta in padella, ascoltando il tiggì de “La 7” e i telegiornali di regime, magari masticando delle noccioline o trangugiando patatine fritte.

  14. Modesto contributo per la definizione di poesia e ispirazione.

    Ispirazione: mi sa che è dovuta a spinta libidica, in senso junghiano. Poesia lunghe, ma potrei essere smentito, sono scritte in prevalenza da maschi.
    Voci e Voce (in relazione al dettato) :
    Le prime sono un guazzabuglio e riguardano lo psichismo (voce del bambino, voce del maestro, voce del critico, voce dello scrivente, voci del mondo…). Queste sono voci “orizzontali”.
    La voce (quella a cui fa riferimento Antonio Sagredo, penso) di fatto è sottovoce, ed è involontaria – all’insaputa dello scrivente – oppure, ma forse lo stesso, accade per totale fusione tra azione e pensiero, cioè in assoluta presenza. Se capita, poi la vai a cercare. Nasce l’ossessione, impari l’attesa.
    La poesia kitchen svolge un’azione de-condizionante, utile ad uscire dalle secche del discorso poetico. È assai piacevole per me leggere come ciascun autore ne viene fuori.

  15. Se rileggo la mia opera, a pubblicazione avvenuta, difficilmente ritrovo l’input dell’ispirazione. Si tratta dunque di un catalizzatore che fa lievitare la massa ma che scompare nel risultato finale? E cos’è allora il risultato finale? Cosa rappresentano queste parole scolpite su un foglio? Esse vengono dalla scomposizione del linguaggio con cui mi parla il mondo e tentano di crearne un altro. Il mondo è lì, caotico, impossibile da imbrigliare in una formula, in una sola dimensione che mi mostra i suoi animali, le sue piante, le strutture di cemento in cui vivono i suoi abitanti, le strade che ci hanno costruito etc. le regole della convivenza ed il potere che si concentra nelle mani di alcuni degli abitanti. Il linguaggio mi parla di tutto questo, parla anche di me fino al punto da mettermi in un numero perché gli interessano solo le quantità e se sono un buon cittadino e pago regolarmente luce e gas, se non commetto irregolarità nel traffico, nella compilazione dei documenti etc. Il calcolo mi assegna uno stipendio con cui vivere, sa quando riceverò la prima pensione. Faccio parte di un sistema complesso che mi parla continuamente in termini riconducibili a numeri, utilità, funzionalità a cui sono indifferenti le pulsioni di uomo che agitano le mie notti, i miei desideri, le fantasie che parlano altri linguaggi e che sono chiamati continuamente in causa perché risultano inservibili e persino impresentabili per la loro refrattarietà a farsi dominare e la loro ostinatezza nel volersi proporre in maniera uguale, generazione dopo generazione da quando si è homo sapiens. Ecco, il prodotto finale è questo ricombinare il linguaggio quantitativo in linguaggio qualitativo, facendone saltare i punti di forza e le parti più indigeste: le funzionalità e le utilità per servirle in cucina come cosciotti di pollo o focaccia barese, piacevoli non solo da gustare e consumare ma anche pronti a restituire tutta l’energia che sembrava privilegio esclusivo del numero.

    VISTA DA QUI LA TERRAFERMA APPARE UN PRIMO PIATTO

    Su Andromeda i flipper sono fermi al 2.0.2.0
    L’ultimo check up diagnosticò un respiro affannoso, da fiducia nel bonus 110.
    Si vive male insomma e i mammut non sanno salire sulle astronavi.

    Il porto si fa calmo, meglio di Cambridge per lo stage.
    I cefali imparano facilmente dai gabbiani
    e nelle discussioni su Platone volano i tavolini.
    Ottima la focaccia dell’artigliere.

    Il linguaggio è irrespirabile. Anche il vecchio calabrone
    Ne uscì disfatto, con le labbra da signorino del Tg.

    -Signore, voi mi toccate l’anima
    Se non mi proteggete con lo scudo antimissile
    Sarò presto colpito da una testata di nutella .

    E mentre il prezzo della clorofilla sale nelle pompe
    La lattuga marcia sul sentiero di Ho Chi Minh.

    I grattacieli protestano davanti a un buco nero
    Si stendono sulle strade celesti e bloccano i tir
    L’arrivo di verdura fresca è ritardata di un millennio

    Il sorriso si conserva anche dopo il crollo di un molare
    E l’allarme si innesca con un gong.

    Dopo tutto non chiedere alla gola dove finisce la pallina
    E inizia la buca del game over.

    (F.P. Intini)

  16. L’ispirazione è rubinetteria di terza mano, utensileria buona per i pronostici del totocalcio, eufemistica della banda bassotti, cretineria della «Pacchia è finita», epifenomeno di un armamentario concettuale in disuso, concetto cafonal-kitsch, concetto da Elettra Lamborghini in topless per poveri di spirito.

    Forse sarebbe meglio parlare dell’Elefante.
    L’elefante sta bene in salotto, è buona educazione non scomodarlo

    L’Elefante si è accomodato in poltrona. Tant’è, si fa finta di non vederlo, così si può sempre dire che non c’è nessun elefante, che i bicchieri sono a posto, le teche di cristallo intatte, le suppellettili pure, che la poiesis gode di buona, anzi, ottima salute, che non c’è niente da cambiare, che la poiesis da Omero ad oggi non è cambiata granché, che da quando il mondo è mondo la poiesis è sempre stata in crisi… come dire che il linguaggio normologato è il nostro riparo, non abbiamo più niente da dire. Ed è vero. La poesia italiana che si fabbrica in Egitto non ha veramente nulla da dire, evita accuratamente e con tutte le proprie forze di vedere l’Elefante che passeggia in salotto e che con la sua proboscide ha fracassato tutto ciò che c’era di fracassabile. L’Elefante adesso si è accomodato in poltrona. È disoccupato. Il suo posto è stato preso dai corvi.

    • Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta

      Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto.

      Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del secondo novecento
      La Crisi del discorso poetico

      Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. Occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini per trovare una soluzione a quella crisi. È questo punto, tutto il resto è secondario. La mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).
      Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. Qualche anno prima, nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

      Cito Adorno:
      «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario». (T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, p. 76)

      In verità, nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche.
      Davanti a questa rivoluzione in progress che si è svolta in vari stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha tascabilizzato la metafisica (da un titolo di un libro di poesia di Valentino Zeichen, Metafisica tascabile, edito ne Lo Specchio), ha scelto di non prendere atto del «sisma» del 18° grado della scala Mercalli che ha investito il mondo, di fare finta che il «sisma» non sia avvenuto, che tutto sarà come prima, che si continuerà a fare la poesia di nicchia e di super nicchia mpre, poesia autoreferenziale, chat-poetry.

      Un «Grande Progetto»

      Qualcuno mi ha chiesto: «Cosa fare per uscire da questa situazione?».
      Ho risposto: un «Grande Progetto».
      Che non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutte le stagioni.
      Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non è una nostra invenzione, è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederlo probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico. Si diceva una volta di «ontologia estetica».
      Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Io invece penso a qualcosa di dissimile, ad una poesia che possa durare soltanto per un attimo, per l’istante, mentre ci troviamo in soggiorno, mentre prendiamo il caffè, o saliamo sul bus; i secoli a venire sono lontani, non ci riguardano, fare una poesia «fur ewig» non so se sia una nequizia o un improperio, oggi possiamo fare soltanto una poesia kitchen, che venga subito dimenticata dopo averla letta.
      Per tutto ciò che ha residenza nei Grandi Musei del contemporaneo e nelle Gallerie d’arte: per il manico di scopa, per il cavaturaccioli, le scatolette di birra, gli stracci ammucchiati, i sacchi di juta per la spazzatura, i bidoni squassati, gli escrementi, le scatole di Simmenthal, i cibi scaduti, gli scarti industriali, i pullover dismessi con etichetta, gli animali impagliati. Non ci fa difetto la fantasia, che so, possiamo usare il ferro da stiro di Duchamp come oggetto contundente, gettare nella spazzatura i Brillo box di Warhol e sostituirli con la macarena e il rock and roll…

      Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria

      «Essere nel XXI secolo è una condizione reale, non immaginaria. Non è un fiorellino da mettere nell’occhiello della giacca: è un modo di pensare, di vedere il mondo in cui ci troviamo: un mondo confuso, denso, contraddittorio, illogico. Cercare di dire questo mondo in poesia non può quindi non presupporre un ripensamento critico di tutti gli strumenti della tradizione poetica novecentesca. Uno di questi – ed è uno strumento principe – è la sintassi: che oggi è ancora telefonata, discorsiva, troppo concatenata e sequenziale, quasi identica a quella che è prevalsa sempre di più fra i poeti verso la fine del secolo scorso, in particolare dopo l’ingloriosa fine degli ultimi sperimentalismi: finiti gli eccessi, la poesia doveva farsi dimessa, discreta, sottotono, diventare l’ancella della prosa.»

      Rebus sic stantibus.

      Che cosa vuol dire: «le cose come stanno»?, e poi: quali cose?, e ancora: dove, in quale luogo «stanno» le cose? – Ecco, non sappiamo nulla delle «cose» che ci stanno intorno, in quale luogo «stanno», andiamo a tentoni nel mondo delle «cose», e allora come possiamo dire intorno alle «cose» se non conosciamo che cosa esse siano. (Steven Grieco Rathgeb, 2018)

      «Essere nel XXI secolo è una condizione reale», ma «condizione» qui significa stare con le cose, insieme alle cose… paradossalmente, noi non sappiamo nulla delle «cose», le diamo per scontate, esse ci sono perché sono sempre state lì, ci sono da sempre e sempre (un sempre umano) ci saranno. Noi diamo tutto per scontato, e invece per dipingere un quadro o scrivere una poesia non dobbiamo accettare nulla per scontato, e meno che mai la legge della sintassi, anch’essa fatta di leggi e regole che disciplinano le «cose» e le «parole» che altri ci ha propinato, ma che non vogliamo più riconoscere.
      Carlo Michelstaedter (1887-1910) si chiede: «Quale è l’esperienza della realtà?». E cosi si risponde:
      «S’io ho fame la realtà non mi è che un insieme di cose più o meno mangiabili, s’io ho sete, la realtà è più o meno liquida, è più o meno potabile, s’io ho sonno, è un grande giaciglio più o meno duro. Se non ho fame, se non ho sete, se non ho sonno, se non ho bisogno di alcun’altra cosa determinata, il mondo mi è un grande insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri.

      ”Ma noi non guardiamo le cose” con l’occhio della fame e della sete, noi le guardiamo oggettivamente (sic), protesterebbe uno scienziato.
      Anche l’”oggettività” è una bella parola.
      Veder le cose come stanno, non perché se ne abbia bisogno ma in sé: aver in un punto “il ghiaccio e la rosa, quasi in un punto il gran freddo e il gran caldo,” nella attualità della mia vita tutte le cose, l’”eternità resta raccolta e intera… È questa l’oggettività?…».1]

      Molto urgenti e centrate queste osservazioni del giovane filosofo goriziano che ci riportano alla nostra questione: Essere del XXI secolo, che significa osservare le »cose» con gli occhi del XXI secolo, che implica la dismissione del modo di guardare alle «cose» che avevamo nel XX secolo; sarebbe ora che cominciassimo questo esercizio mentale, in primo luogo non riconoscendo più le «cose» a cui ci eravamo abituati, (e che altri ci aveva propinato) semplicemente dismettendole, dando loro il benservito e iniziare un nuovo modo di guardare il mondo. La nuova scrittura nascerà da un nuovo modo di guardare le «cose» e dal riconoscerle parte integrante di noi stessi.

      Dopo il novecento

      Dopo il deserto di ghiaccio del novecento sperimentale, ciò che resta della riforma moderata del modello sereniano-lombardo è davvero ben poco, mentre la linea centrale del modernismo italiano è finito in uno «sterminio di oche» come scrisse Montale in tempi non sospetti.
      Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967). Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo dell’experimentum per approdare ad una sorta di poesia che faccia a meno delle categorie del novecento: il pre-sperimentale e il post-sperimentale oggi sono diventate una sorta di terra di nessuno, in un linguaggio koinè, una narratologia prendi tre paghi uno; ciò che si apparenta alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una terza vita ma come fantasma, in uno stato larvale, scritture da narratologia della vita quotidiana.

      Breve riepilogo

      Se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi: Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista?, ma è la sua metafisica che oggi è diventata irriconoscibile. La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio, con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.
      Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista, come schiettamente modernista è la poesia di Anna Ventura con Brillanti di bottiglia (1976) e l’Antologia Tu quoque (2014), di Giorgia Stecher di cui ricordiamo Altre foto per un album (1996) e Maria Rosaria Madonna, con Stige (1992), la cui opera completa appare nel 2018 in un libro curato da chi scrive, Stige. Tutte le poesie (1980-2002), edito da Progetto Cultura di Roma. Il novecento termina con le ultime opere di Mario Lunetta, scomparso nel 2017, che chiude il novecento, lo sigilla con una poesia da opposizione permanente che ha un unico centro di gravità: la sua posizione di marxista militante, avversario del bric à brac poetico maggioritario e della chat poetry, di lui ricordiamo l’Antologia Poesia della contraddizione del 1989 curata insieme a Franco Cavallo, da cui possiamo ricavare una idea diversa della poesia di quegli anni.

      «Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».2

      Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica». Di conseguenza la questione «verità» viene introiettata e capovolta, diventa soggettiva, si riduce ad un principio, ad una petizione del soggetto. La questione verità così soggettivizzata si trasforma in qualcosa che si può esternare perché abita nelle profondità mitiche del soggetto. È da questo momento che la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privato, anzi privatistico. Questa problematica deve essere chiara, è un punto inequivocabile, che segna una linea da tracciare con la massima precisione.

      Il caso Mario Lunetta

      Questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi agli anni settanta può essere letto come il tentativo di fare della forma-poesia «privata» una questione pubblicistica, quindi politica, di contro al mainstream che ne faceva una questione «privata», anzi, privatistica; per contro, quelle strutture privatistiche, de-politicizzate, assumevano il soliloquio dell’io come genere artistico egemone.
      La pseudo-lirica privatistica che si è fatta in questi ultimi decenni intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

      La Nuova fenomenologia del poetico

      L’estraneazione è l’introduzione dell’estraneo nel discorso poetico; lo spaesamento è l’introduzione di nuovi luoghi nel luogo già conosciuto. Il mixage di iconogrammi e lo shifter, la deviazione improvvisa e a zig zag sono gli altri strumenti in possesso della nuova poesia. Queste sono le categorie sulle quali ila nuova poesia costruisce le sue colonne di icone in movimento. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo, è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote»; i simboli, le icone, i personaggi sono solo delle figure, dei simulacri di tutto ciò che è stato agitato nell’arte, nella vita e nella poesia del novecento, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… sono flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano icone-flashback… non ci sono né domande, c’è il vuoto, però.

      Lo stile è quello delle didascalie commerciali e farmacologici

      Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale il pensiero sconnesso o interconnesso a un retro pensiero è ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si trova mai contenuto nella risposta ma in altre domande mascherate da fraseologie fintamente assertorie e conviviali. Lo stile è quello della didascalia fredda e falsa da comunicato che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi. La NOe scrive alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Proprio in virtù di questa severa concisione referenziale è possibile rinvenire nei testi della NOe interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

      Ma tutto questo armamentario retorico

      Ma tutto questo armamentario retorico che era già in auge nel lontano novecento, qui, nella nuova fenomenologia del poetico viene archiviato. È questo il significato profondo del distacco della poesia della nuova fenomenologia del poetico dalle fonti novecentesche; quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e anti elegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera.
      La NOe dà uno scossone formidabile all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi decenni, e la rimette in moto. È un risultato entusiasmante, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia italiana.

      (Giorgio Linguaglossa)

      1 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica Joker, 2015 pp. 102-103 (prima edizione, 1913)
      2 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

  17. pietro eremita

    Vico, Heidegger, Jaspers non erano poeti, e allora perché metterli in ballo?
    Il Poeta sa parlare ALLA Poesia, quei tre no!
    Questi tre parlano di poesia, sulla poesia, per la poesia, ecc. ma non saranno mai compagni di strada della\con la Poesia.
    Tutto ciò e altro di similare sono cose che dovrebbero essere ovvie, e invece no… si continua a cianciare, chiacchiericcio spicciolo, come sono spicciole le filosofie e le critiche…

    E allora i Poeti…:
    ————————————————
    Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
    in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
    che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
    scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.

    A. S. – 2004
    ——————————————————————–
    Come spiegano questi versi la filosofia e la critica?

    • Pescatori esperti sanno dove l’acqua del fiume, mare o lago, è più pescoso; così anche i poeti, suppongo, dove andranno a cercare parole per i propri versi, se non tra le parole pensate… mentre sono pensate, già arredate, e nella nominazione abitate…
      Non è filosofia, solo un filosofare; così come non è religione ma religiosità, se il poeta è mistico. Chi invece cercasse il fuoco, gli emotivi, a questi può bastare l’ebrezza. Ma NOE è poesia fredda, ironica, non perde lucidità; anche nel fantastico segue direttive estetiche, diciamo così, di contenimento. Il frammento è cura.

      • TONNARA DELLA PESCATRICE

        All’albero dei rincontri
        Senza più radici e identità
        Al bordo del mare
        Della strada

        Alcuni in tuta con bimbi
        Aspettano

        Anelito di dormire al cimitero
        Intanto fame di biscotti di cellulare

        Dalla prigione nessuno voleva più evadere
        Si era serviti e riveriti
        Meglio che alla mensa scolastica

        Grida scolaresche
        Primi graffi di scogli ingnoti
        Stormire di foglie
        Foglie Gialle Verdi
        Marroni Veralle e Verroni
        Bambini che escono
        Gialdi Giarroni Marralle Marrodi
        Pesci luccicanti e brillanti
        Maestri e insegnanti
        Pescatori

  18. C’è anche un Elefante chiamato interpretazione

    interpretare vuol dire percorrere la profondità, eppure ciò non implica in alcun modo l’approssimarsi a un’interiorità, dal momento che la profondità non comporta l’interiorità, al contrario essa è esteriorità , ovvero un gioco del piano dove non si ha il più interiore, il più intimo rispetto al vero: insomma, tutto porta alla «scoperta che la profondità era solo una piega della superficie»1.
    Attraversando questo spazio e i segni che lo popolano, l’interprete poi non incontrerà mai un termine definitivo, né tantomeno conoscerà un inizio assoluto e puro; i due estremi dell’impresa sono illusioni, prima e dopo ancora segni. Da ciò una inquietante conseguenza, il fatto che «se l’interpretazione non può mai concludersi vuol dire semplicemente che non c’è nulla da interpretare. E nonc’è niente di assolutamente primario da interpretare perché, in fondo, tutto è già interpretazione»2; il segno che sveliamo non è altro che un’interpretazione precedente che tuttavia si nasconde in quanto tale, motivo per cui perciò esso è — scrive Foucault — «malevolo»: chi interpreta non «si impadronisce di una verità addormentata per proferirla» ma «pronuncia l’interpretazione che ogni verità ha la funzione di ricoprire».3
    In questo modo l’interpretazione finisce per ripiegarsi su sé stessa e per interrogarsi, anzi questo diventa il dovere sommo dell’interprete. In sé egli scopre le numerose costruzioni che lo compongono; si scopre così un essere sempre già interpretato a sua insaputa. Tuttavia, immergendosi nell’esplicazione di queste infinite stratificazioni di senso, egli non giunge alla fine al proprio nucleo solido di verità, ma al contrario si avvicina al rischio più grande: quest’arretramento porta infatti alla regione pericolosa dove l’interpretazione medesima scompare, «portando forse con sé lascomparsa dello stesso interprete».4

    1 M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, in Archivio Foucault I, a cura di Judith Revel, trad.it. di G. Costa, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 141.
    2Ivi , p. 143.
    3 Ivi , p. 145.
    4 Ivi , p. 142

    • C’è un Elefante chiamato poesia moderna

      Il pensiero di Vico si fondava sulla convinzione della pienezza mitica della parola primigenia degli uomini dell’infanzia dell’umanità, considerando quella pienezza come mitologema della primarietà della parola e della parola poetica dell’umanità rispetto alla parola del linguaggio di relazione. Ora sta di fatto che la linguistica e la filosofia dell’Occidente ha mostrato che quella parola primigenia dotata di pienezza era un mitologema, nel pensiero occidentale già da un secolo si è insinuato un dubbio su tutto ciò, oggi non possiamo non pensare il rapporto che lega e divide il significante e il significato come un rapporto problematico, come una frattura non più suturabile, come una frattura non più sanabile, come una manifestazione di quella differenza ontologica della dimenticanza dell’essere di Heidegger.
      In proposito, mi limito a segnalare il secondo capitolo del primo libro di Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto (1970), il filosofo italiano si interroga sulla fondamentale asimmetria tra significante e significato, e questa critica viene proseguita e approfondita nella quarta e ultima “stanza” del suo secondo libro, Stanze (1977), in cui la semiologia moderna viene elevata a momento culminante e a un tempo impasse della metafisica occidentale: la nozione semiotica di segno come unità espressiva di significante e significato rimuove e occulta quella che Agamben chiama, heideggerianamente, la “frattura originale della presenza”, e cioè il fatto che “tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare”. Questo “oblio” metafisico della differenza originaria tra significante e significato rende il fatto linguistico qualcosa di ”impossibile”, e cioè mostra l’impossibilità del segno di prodursi nella pienezza della presenza e quindi anche l’”impossibilità di una [autentica] scienza del linguaggio all’interno della tradizione metafisica occidentale”2. Un superamento della metafisica dovrebbe perciò implicare un nuovo modello del significare, e qui Agamben presenta, in nuce e senza approfondirlo, quello che costituirà uno degli assiomi fondamentali della sua soteriologia: il superamento dell’impasse della metafisica (o, più tardi, della biopolitica) si fonda in un nuovo linguaggio, in una nuova parola, in “un dire che non «nasconda» né «riveli», ma significhi la stessa giuntura insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato”.3

      Sta di fatto che tutta la poiesis del novecento mostra sempre più chiaramente il manifestarsi di questo movimento divaricatore tra il significante e il significato: la poesia della nuova fenomenologia del poetico e della poetry kitchen altro non è che il risultato ultimo e più vistoso di questa profondissima divaricazione che attraversa la metafisica occidentale e i suoi linguaggi.

      1 G. Agamben, Stanze, 1977, p. 160-61
      2 G. Agamben, op. cit. p. 182
      3 Ibidem, p. 165

  19. antonio sagredo

    “Vico, Heidegger, Jaspers non erano poeti, e allora perché metterli in ballo?” (Eremita)

    Non ha torto Pietro Eremita.
    Nietzsche più grande di loro tre messi insieme era un poeta e per questo che scrive di filoosfia in una forma mai calcata da alcun filosofo. Scrivere di filosofia da poeta vuole significare che la poesia la precede insegnandole come si deve scrivere di filosofia.
    Se non si possiede la visione poetica è vano scrivere alcunchè di filosofia.
    Se la si possiede si scrive così di filosofia:
    ———————————————–

    FRAGMENT…AZIONE

    Ti stai avvicinando al più lontano dei pensieri radianti:
    – quello che non esiste ancora e che possiede il tutto
    – quello che sarà in tutti i luoghi ancora sconosciuti
    – quello che rimanda la conoscenza ad altra conoscenza,
    come una risacca senza requie e che sa il mobile infinito.

    Il traguardo è già dietro alle tue spalle ed è un luogo
    conquistato, ma altri luoghi affollano nuovi pensieri
    e molteplici spazi aspettano i soggetti: quante filosofie
    ancora abbiamo da conquistare! Le Muse vogliono baciare
    l’ultimo frammento, invano! Brunite sono le parole nei cieli!
    L’imperfezione giuliana trionfa sul concetto monolitico:
    spazza via l’assoluto indegno, le totalità inutili!

    La parola-ingresso frantuma l’autostrada in milioni di sentieri!
    Rivoli di culture s’intrecciano, si assorbono, si superano…
    Lo specchio degli Artefici s’è rotto! Si spargono dovunque luminose
    scintille di pensieri: volano via le vele dei Saperi – per altre terre!

    Vermicino, 16 settembre 2010

  20. Giuseppe Talìa

    Caro Germanico,

    la questione,
    andrebbe tornita con i cristalli della carta vetrata.

    Da come è scaduta la ricezione formale.
    La vedo dura.

    Scrivere poesie è artigianato.
    Se ti viene bene è poesia.

    Altrimenti è un’altra cosa.

    L’illuminazione in poesia penso sia un falso mito.
    Ottocentesco.

    Oppure potrebbe essere colpa di Hölderlin.
    O di mago Merlino.

    Poco fa Giacomo rifletteva sull’estimità e l’inderterminatezza.
    Ne è venuto fuori che l’infinito scorre in questo e in quello.

    Tallia

  21. antonio sagredo

    Come Vico stesso sembra dire, questo processo nasce dalle parole, non preesiste ad esse. In un certo senso noi siamo il prodotto del linguaggio, e in primis del linguaggio poetico. E’ il linguaggio che ci consente di pensare e dunque di essere”. (Tabellione)

    Bisogna essere davvero geniali per essere di accordo con ciò che affermaTabellione. Non mi sento prodotto di un linguaggio e tanto meno se poetico: insomma non sono prodotto dei miei versi, affatto! E poi in quale “certo senso… certo”?
    Se un linguaggio qualsiasi “ci consente di pensare e dunque di essere”, cosa ci consente un linguaggio poetico?
    E la POESIA cosa ci consente di pensare e di essere, se i suicidi e gli omocdi di poeti sono all’ordien del giorno?
    —–
    Ma il linguaggio poetico non è POESIA!
    Il linguaggio poetico fa uso di visioni, di metafore, ecc., ma non è POESIA!
    La poesia non si riduce a fare uso di qualcosa, non si addice alla POESIA ricorrere alla materialità delle svariate figure.
    Insomma, più sopra sono state pubblicate in versi dei tentativi di definizione: sono state lette o no?!
    ———————————————————————
    La Poesia è un dono che nemmeno lo stesso poeta comprende perché gli è stato donato (dato). Per quasto nememno si pone se essere e pensare! Questo è affar di filosofia, non del Poeta e ranto meno della Poesia.
    ————-
    ….a Dante fu chiesto perchè componeva versi. Il poeta rispose non rispondendo. A Petrraca fu chiesto la stessa cosa: stessa risposta.
    Più vicino a noi… a Leopardi fu… fatevelo dire dall’infinito!

    basta così

  22. c’è un reale che c’è ed esiste
    c’è un reale che c’è e basta
    sforzarsi di cogliere l’origine è inutile
    si perdono le tracce
    linguaggi lingue oralità e scrittura
    chi non pratica poesia la mette all’origine
    l’apice del discorso logico richiede una metafora
    la poesia è passata dalla musica alla scultura alla pittura
    il discorso descrittivo è già metaforico
    infinite pagine
    non si sfugge al giudizio
    la parola il vocabolo il termine
    e lì finisce
    e quindi ricomincia
    a volte di scrivere (poesia) non mi va
    e lì finisce l’ispirazione

  23. La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.
    Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.

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