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Intervista a Andrea Temporelli a cura di Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?, Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Foto Man Ray nudo

Man Ray, nudo

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Figlio di un fiore e di un piccolo merlo, Andrea Temporelli con la poesia ha esplorato Il cielo di Marte (Einaudi, Torino 2005), prima di far ritorno alla Terramadre (Il Ponte del Sale, Rovigo 2012), ma i conti con il mondo letterario contemporaneo li ha risolti con il romanzo Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, Rimini 2015) e con il volume di interventi critici militanti Smarcamenti, affondi e fughe (Ladolfi, Borgomanero 2016). Insegna nella scuola secondaria a Borgomanero (dove è nato nel 1973) e interviene su YouTube con un personale Dis/corso di scrittura creativa, che s’interroga sul senso della scrittura in un tempo in cui la società letteraria non esiste più.

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Domanda

Gentile Andrea Temporelli le pongo la domanda che ho rivolto ai poeti italiani:

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Question

Dear Andrea Temporelli, I ask you the question I asked Italian poets:

– What poetry can you write at the time of the end of the story?

– What poetry to write at the time of the end of metaphysics?

– What is the task of poetry before these epochal events?

Answer

Premessa: non esiste la poesia, esistono i singoli gesti poetici. I vari “oggetti linguistici” che accorpiamo sotto l’unica sigla di genere possono essere anche radicalmente diversi. Ciò significa che il discorso sulla poesia conta poco e deve essere sottoposto alla verifica del testo e della sua ricezione storica. Così, più che ragionare in astratto su quello che penso, cercherò di mostrare come mi sembra di aver risposto nei fatti, ovvero con i testi appena usciti nel libro L’amore e tutto il resto (Interlinea).

Ciò detto, verrebbe da affermare che “fine della storia” e “fine della metafisica” siano altrettante etichette, mentre la poesia lavora sull’esperienza concreta e reale. Però devo ammettere che, quando ho iniziato il lavoro che si è ora compiuto nel libro, percepivo effettivamente in me un senso della fine. Non era il semplice giro del millennio a dare questa percezione, era la sensazione concreta che ciò che io definivo “Novecento” si era esaurito. Tutti i poeti con cui mi confrontavo, sia i maestri riconosciuti sia i poeti contemporanei, mi parevano ancora prigionieri di un orizzonte che mi appariva come ormai privo di senso. Il Novecento è il secolo dell’ironia che distrugge ogni visione del mondo presupponendo alternative che in realtà non sa elaborare: una forma di intelligenza che si limita alla pars destruens, insomma (con ciò che di sano porta con sé, contro ogni bigottismo o fanatismo, per esempio). Il Novecento è il secolo anche della sperimentazione formale estrema. Il suo personaggio ideale è la figura umana dell’“inetto”, dell’uomo senza qualità, dell’anti-eroe (anche qui, con aspetti positivi: nessuno crede più nella figura romantica, tutta d’un pezzo, dell’eroe capace di cambiare la storia). Il suo lascito complessivo è il male di vivere, la depressione, la disillusione estrema. Ecco, io ho percepito nettamente questo senso della fine: forse non è esattamente la “fine della storia” della domanda, ma credo che la presenza nella mia raccolta di una poesia intitolata Novecento sia significativa. E dunque, che fa la poesia al tempo della fine? Rintraccia possibili indizi di un altro principio.

La “fine della metafisica” mi fa venire in mente alcuni versi da Verifica della storia: “vivere non basta / e dio non è possibile. Da secoli”. Eppure, se la cultura occidentale ci ha davvero condotto qui, su questo fronte, la poesia percepisce, senza barare, senza pretendere di non vedere il presente o di rendere reversibile il tempo, l’evoluzione ulteriore. E si tratta magari di un evento non prevedibile, non logico, propriamente poetico. Mi sembra di dire questo nella poesia Epoca. La penultima strofa afferma: “Per ciò elemosina giorno su giorno / un senso, scava nelle mani aperte, / dona a tutti un destino. Inventa. Annuncia: / un nuovo mondo dietro l’angolo aspetta”. Sottolineerei l’uso del verbo “elemosina”: la poesia non è fonte di un sapere precostituito, va oltre la cultura stessa: è sapienza primigenia, vitale. Può trovare la ricchezza nelle mani vuote. Può inventare un destino, come anticamente i miti “servivano” la vita, la favorivano. E se qualcosa di nuovo esiste, è già potenzialmente qui, dietro l’angolo: occorre solo trovare uno sguardo capace di dargli credito e di offrirgli la cura necessaria per svilupparsi.

Il “Novecento” che sentivo alle spalle sembra, storicamente, riproporsi ciclicamente (basti pensare alla guerra attuale), ma forse una parte dell’umanità incarna una figura umana già esausta e superata, anacronistica, mentre altri sono già altrove, già cercano di fissare i tratti distintivi di una nuova figura di uomo. Nella mia poesia il richiamo a Marte è probabilmente l’emblema di quell’altrove verso cui ci stiamo indirizzando. Dunque, il compito della poesia è di guardare “l’ultimo orizzonte” e cercare, fino alla fine, di glorificarne la bellezza – nella speranza, certo, che sia la traccia di un inizio. Ma, se anche così non fosse (come si lascia intendere nella poesia con cui chiudo il libro, Postilla per l’alieno), la poesia ha il compito di registrare e certificare la verità di quella bellezza che la morte stessa non potrà comunque smentire.

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(Andrea Temporelli)

Domanda

– Qual è la sua posizione rispetto alla poesia europea del novecento?

Question

– What is your position with respect to 20th century European poetry?

Answer

Caspita, la domanda fa venire le vertigini. Se per “posizione” si intende un giudizio critico sulla poesia europea, presuppone una levatura intellettuale straordinaria. Se per “posizione” si intende il collocamento della propria esperienza stilistica, presuppone parimenti un ego sconfinato. Di primo acchito, verrebbe da sentirsi soltanto piccoli e inadeguati, del tutto disorientati. In effetti, la risposta più corretta sarebbe: “Non so”. Avrei una nube di pensieri in movimento, e anche di sensazioni tutte da verificare… Balbetterei ipotesi su ipotesi, contraddicendomi ripetutamente.

Ma cerco appigli nel libro. Geograficamente, i richiami a luoghi di provincia sono dominanti: torrenti, montagne, boschi, ma anche cascine, case specifiche, vicini di casa… e poi il cortile, gli interni… La poesia si radica in un territorio preciso e in una lingua precisa. Dunque, guardo all’Europa da qui, dalla lingua e dalla cultura italiana. Ma l’Europa entra anche nei miei versi, sia come paesaggi (in Ballata del mese di maggio per esempio si richiama lo scenario della guerra nel Kosovo del 1999) sia come cultura: l’epigrafe del libro è di Mandel’štam, la “terra marcia” di Fronte del bene comune è prossima alla terra desolata di Eliot, l’angelo della mia poesia sembra un richiamo a Rilke (che però si innesta su un mito familiare), e poi chiamo direttamente in causa le “baldracche di Baudelaire” oppure Kafka… Sì, direi che la poesia europea lascia un velo, in queste pagine. Eppure, sempre stando ai miei versi, lo sguardo non sembra fissarsi sull’Europa, semmai sull’occidente in un senso più ampio, ma a questo punto inserito in un contesto globale…

Ahimè, avrei voluto rispondere in modo positivo, chiamando in causa un’identità europea e un posizionamento rispetto ad essa, ma non posso farlo. L’Europa è terra di confluenze diverse, un ponte sul mondo, da attraversare in entrambe le direzioni. L’Europa in generale, e la poesia europea nello specifico, sono dunque soltanto un’intercapedine tra la mia pagina e il mondo, tra il mio cortile e Marte.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come post-modernista?

Question

Can we define his poetry as postmodernist?

Answer

Fine e inizio, dicevamo, si compenetrano, e a tratti non si possono distinguere. Ciò che adesso è “post” qualcosa, forse si potrà definire un giorno “pre” qualcos’altro. Poeticamente sono attratto soprattutto dalla seconda ipotesi. Ho ben coscienza, per quello che è nelle mie possibilità, di ciò che ho alle spalle. Ma il senso della fine da cui sono partito ha generato una nausea alla quale ho risposto, umanamente, con il desiderio. Non so se quello che sto per dire ha senso, ma io mi sento più all’inizio di qualcosa che alla fine di altro. Per ora mi basta pensare che la mia poesia sia “pre”-sente. Essere davvero presenti, centrati nel respiro e nel pensiero, consapevoli della scena in modo da non essere “giocati” da essa: dentro i congegni della nostra società complessa, ma senza appartenere ad essi. Credo sia questa l’unica, eterna dimensione contemporanea della poesia. La poesia contemporanea è quella sintonizzata bene nel presente, ovvero quella che, in ogni epoca, riesce a guardare lungo quel crinale infinito e sottilissimo che sta tra il ricordo del noto da una parte e l’ansia dell’ignoto dall’altra (come nell’equilibrista della mia poesia Vertigine), l’unico tempo giusto perché qualcosa accada, anche il primo battito di ciò che sta per arrivare: essere presenti significa a quel punto pre-sentire…

Questa mia visione è una nuova maschera del modernismo o è il suo superamento? Francamente, non saprei dirlo. Dovrei volgere lo sguardo verso uno dei due abissi, rientrare nella prospettiva storicistica. Non ho alcuna intenzione di farlo, “Finché la carne bianca a fuoco ara / una mano ispirata”.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come “Poesia del tramonto”?

Question

Can we define his poetry as “Poetry of the sunset”?

Answer

“L’appuntamento è qui su questa pagina / mio capitano di poche parole, / lettore in fuga dalla somiglianza / che mi fa tuo seguace contro il tempo”. “E adesso voglio un nome impronunciato, / bianchi tutti i quaderni, persi i crediti”… “… di tutti / i confini ho dolore, / ho passione per tutti gli orizzonti”. “Lontano / i vincitori esultano – / ma il pane in tavola è più buono, i figli / sono uomini fatti e nella luce / lattiginosa del portico parlano / come guide già esperte”. No, non direi che la luce che percepisco sia una luce di tramonto.

Domanda

Come è cambiata nel corso dei decenni la sua poesia?

Question

How has your poetry changed over the decades?

Answer

L’amore e tutto il resto comprende versi composti tra il 1996 e il 2022. Le oscillazioni formali ci sono, ma erano presenti fin dall’inizio. Finora, ho sempre trapuntato le forme canoniche: ho sperimentato il loro superamento in alcuni tratti, per eccesso di formalizzazione; le ho scantonate con andamenti apparentemente più liberi, in altre fasi. Il verso perfetto rischia di generare nausea o di suonare vuoto, di interferire con la voce reale della poesia. Ma queste oscillazioni sono rimaste costanti in me, in questi anni, quindi non sono da considerare un reale mutamento, ma un movimento congenito e continuo – almeno finora. Se dunque la raccolta tiene e risulta compatta, come mi sembra, arriverei a sostenere che non c’è stato un reale cambiamento, se non una ovvia sedimentazione figurale e un illimpidimento espressivo.

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Man Ray foto rue de la transfusion de sang

Domanda

La civiltà europea è giunta alla sua fine? O è possibile un nuovo inizio?

Question

Has European civilization come to its end? Or is a new beginning possible?

Answer

Credo di avere già risposto. L’Europa è una terra di passaggio, un luogo di confluenze, un margine. Ammaliati dalla spiritualità indiana o dalla disciplina nipponica, abbiamo un calendario babilonese, un dio ebreo, una matematica araba, una filosofia greca e una praticità latina; vestiamo tessuti cinesi, sfruttiamo minerali africani, mangiamo frutta sudamericana e… ci scaldiamo col gas russo. In questa visione, essere un margine è una ricchezza inestimabile, perché significa essere per eccellenza luogo di commercio, di conoscenza e di scoperta. Anche politicamente, quando le forze che interpretano positivamente il concetto di “confine” vinceranno su quelle che pretendono, per paura e ignoranza, di difendere “identità nazionali” fasulle, inizierà una nuova epoca. Ma dirò di più: non esistono muri che possano fermare le migrazioni. Le resistenze saranno, alla fine, superate, volenti o nolenti. Possiamo soltanto decidere se vivere questa trasformazione in modo pacifico oppure in modo più traumatico. L’identità europea è una non-identità, una perenne prossimità all’altro. L’identità europea è la “somiglianza”. E questo fa paura a molti.

Domanda

Grazie per la sua gentile disponibilità Andrea Temporelli, vuole dire ai lettori italiani la sua opinione sul futuro della poesia?

Question

Thank you for your kind availability Andrea Temporelli, do you want to tell Italian readers your opinion on the future of poetry?

Answer

Non c’è niente da dire sul futuro della poesia. Il futuro della poesia non esiste. Il futuro della poesia si fa. Poeticamente.

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In un momento che vede l’Italia in procinto di pericolo per la sicurezza nazionale e per la collocazione internazionale del Paese, Una Domanda di Roberto Bertoldo a Giorgio Linguaglossa a proposito dei sedici autori presenti nella antologia Poetry kitchen pubblicata da Progetto Cultura nel 2022. Perché una poesia kitchen? Poesia kitchen, poesia da frigobar, messa giù con un linguaggio da frigidaire con parole conservate al freddo, ibernate; e anche kitsch poetry, instant poetry, poesia abrasiva, ablativa, colliquativa, manipolata, poesia palinsesto

Caro Giorgio Linguaglossa, avendo letto il tuo saggio L’elefante sta bene in salotto e l’antologia di autori vari Poetry Kitchen, vorrei rivolgerti dei quesiti su alcune problematiche che ti hanno visto fondatore di un movimento che si propone come avanguardia principalmente artistico-poetica.

 Domanda: La forte impronta descrittiva ravvivata da un’operazione tropologica, che comporta anche la metalepsi di cui parli nel saggio in oggetto, insieme alla costruzione a frammento che a volte richiama un’interpretazione allegorica unificatrice a livello semantico, è ciò che in modo più evidente vi differenzia dal minimalismo. Così si va dal descrittivismo più tradizionale di Guido Galdini, arricchito da personificazioni, traslati, ecc., al descrittivismo diffratto di altri autori e a quello principalmente narrativo. Ci sono poi molti riferimenti a personaggi noti e tanti altri aspetti che, come dice Marie Laure Colasson nella prefazione al suo libro di poesie Les choses de la vie, fanno sì che la poetry kitchen sia «un genere ibrido, fluido, mutevole, instabile». In tutto questo l’io non è assente. In che senso non sarebbe un «io plenipotenziario ed ergonomico»?

(Roberto Bertoldo)

Risposta: dal mio libro di critica: Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), Società Editrice Fiorentina, 2013 Firenze, pp. 150 € 15.

Nella poesia [italiana] degli Anni Dieci è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici.

E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico.

A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.

Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.

Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.

Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.

Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione linguistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie?

Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.

Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!

Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono (in pieno post-moderno) le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?

Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico del modello letterario mitopoietico.

Ma chi non è d’accordo sullo scrivere una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di una struttura critica, di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.

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Intervista a Roberto Bertoldo sul libro Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022, L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione? Dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia, Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa F acrilico, 225x40
[Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico 30×50, 2020]
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In questo quadro di Marie Laure Colasson siamo in presenza di un rovesciamento di tutti i codici figurali e di tutte le opposizioni distintive che fondano i sistemi dominanti (soggetto/oggetto, significante/significato, maschile/femminile, vita/morte ecc.); un rovesciamento non dialettico, ma parossistico, auto contraddittorio. Viviamo in una società che ha de-realizzato il reale e de-fondamentalizzato il soggetto, che ha sostituito il nome del Padre con il nome della Seduzione, e con ciò ogni opposizione al simulacro e alla simulazione riesce vana.
«Tutta la strategia della seduzione è di portare le cose all’apparenza pura, di farle irradiare e consumarsi nel gioco dell’apparenza».1 L’apparenza apparisce in virtù di un esorcismo, come un atto magico, come la testa di una medusa iridescente che appare nel quadro e che irradia il suo mana, veicola il farmaco inebriante del sortilegio, della albagia, dello stordimento. L’apparenza è illusione, l’illusione è apparenza e la superficie è l’illusione suprema dell’apparenza e il suo esorcismo. Nel quadro di Marie Laure Colasson il sortilegio ha il suo esorcismo, la sua formula magica, la sua vittoria tragica e il suo telos. Cessata la ragione della figuralità, resta la irragione del sortilegio. Se l’illusione muore per eccesso di realtà, resta la sua ambigua vertigine, il potere illusorio della vertigine. Gran parte della nostra cultura (scientifica, sociologica, filosofica, psicoanalitica), così impregnata del soggettivismo prospettico e così sensibile alle costruzioni e alle decostruzioni ermeneutiche, si affanna ancora a cercare sistemi di senso e di consenso tendenti ad una comprensione razionale e oggettiva del reale; tuttavia, ciò che sfugge è l’oggetto della sua stessa visione, la quale non è più figurabile in alcuna figuralità.
Il tutto diventa ambiguo, reversibile e paradossale. L’escalation esponenziale dei codici che riproducono incessantemente se stessi come simulacri di simulacri, si risolve nell’auto annientamento. Chi vive nella convinzione del reale è destinato a morire di reale, l’assenza del falso e del similoro condanna l’originale ad essere il falso e il similoro. In questa dépense, in questo gioco della reversibilità dei codici, si annuncia la trasparenza del reale.
L’esorcismo, dunque, si fa più pressante, in esso la fascinazione dell’osceno divora la scena, il suo spettacolo e la sua illusione contagiano tutte le forme trasparenti di informazione; la reversibilità e la contiguità non sono più soltanto i principi che regolano il simbolico, ma diventa l’ironia dell’Oggetto, il suo scaltro genio, la sua superpotenza maligna, il suo trionfo sul soggetto, il suo non lasciarsi imprigionare da nessuno specchio e da nessuna ermeneutica. Tutto è contiguo, ergo, tutto è reversibile nel suo opposto e nell’adiacente. L’eccesso del disordine simbolico è lo specchio delle nostre brame. Ma lo specchio avrà la sua vendetta e, con esso, la fascinazione che ne promana si riversa sul soggetto che ne frattempo è scomparso. La verità del reale si sottrae al reale. E quel che resta è il sortilegio.

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J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, p. 61.
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(Giorgio Linguaglossa)
foto A monument in Moscow to an early Soviet-era tactical nuclear bomb
Monumento a Mosca al missile dell’era sovietica. Nel 2016 all’uscita della stazione Metro Kuzmin è stato allestito il Viale degli Eroi della Seconda guerra mondiale composto oltre che da emblemi della tecnica militare sovietica anche da 15 lapidi commemorative. Il parco è dedicato a Feodor Aleksandrovic Poletaev (Riazan 1909- Cantalupo Ligure 1945) che combattè in Italia al fianco dei partigiani italiani. Il parco si completa con strade pedonali, parchi giochi per bambini e piste ciclabili.
L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione?
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Gif pistola Hitchcock

Una mano impugna una pistola. Una porta si sta chiudendo, una figura esce di scena, il revolver è puntato verso la porta che si chiude. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… Lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… Il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che fa un gesto, dalla coda dell’occhio che legge una immagine, un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. «Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…». (Adorno)».
(Giorgio Linguaglossa)

Intervista a Roberto Bertoldo sul libro: Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis 2022

caro Roberto Bertoldo,

il tuo libro [Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022] è un dialogo con una misteriosa interlocutrice che si dipana lungo 143 pagine fitte al centro del quale c’è la ricerca e la individuazione di un «sistema transitorio» che riesca ad agevolarci nella scoperta di transitorie certezze, le quali, in quanto transitorie non sarebbero più certezze, o sbaglio?

Risposta: Innanzi tutto questo libro è la conclusione del mio personale sistema di pensiero che riconosce la propria transitorietà. Di esso, essendo composto di una decina di volumi, presento qui solo una sintesi e una giustificazione. Cerco insomma di giustificare la sua transitorietà e, al contempo, la necessità del pensiero sistematico se si vuole che il confronto dialettico sia proficuo e tollerante. Il dialogo in questo libro è principalmente con me stesso, tra dubbi e concessioni. Noi infatti non possediamo verità, ma tutt’al più idee fondate su certezze ovvero accertamenti, la cui transitorietà è dovuta al continuo progredire delle esperienze, personali e collettive, contingenti e scientifiche.

Domanda: L’interlocutrice del tuo colloquio ti chiede: «[Lei] mi sembra tanto uno che dice: io scrivo le mie opere, esprimo le mie idee, denuncio le ingiustizie e poi se qualcuno vuole usa tutto in battaglia». E tu rispondi: «È così. E non può fare altrimenti, se non prendere la pistola. Però la pistola è contro i suoi sentimenti e le sue idee, perché sa bene che dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia» (p. 93). Ma questo scetticismo giustifica la rinuncia all’azione, non credi?

Risposta: Non nel mio caso. Bisogna considerare lo scetticismo che io abbraccio, anzi che rifondo nel libretto Rifondazione dello scetticismo, uscito nel 2017. In esso cerco di dimostrare una mia vecchia considerazione secondo cui il dubbio riguarda la fondatezza delle certezze, la loro verità, non le certezze in sé. Che io, attraversando la strada, veda un’auto che sopraggiunge è indubbio, e quindi cerco di evitare di essere investito, il dubbio concerne piuttosto l’essenza della visione. Magari l’automobile è un miraggio. Ti cito, su questo punto, un passaggio del libro: «in effetti lo scetticismo è stato bollato avventatamente come inattuabile e destinato all’impraticabilità. Non è così, perché lo scettico ha certezze, ossia gli esiti degli accertamenti che attua quotidianamente, e anche se non le considera nel loro valore assoluto, ossia anche se esse non rappresentano per lui delle verità, se non ipotetiche, sono però fondamenti fenomenici e quindi dell’azione quotidiana. Per di più, alla base di questa alacrità dello scetticismo c’è una verità non accertabile che viene assunta come certezza e addirittura come verità ontologica, e quindi ipotetica, in virtù del suo carattere apriorico: il possibile. È questo possibile a validare, ben più della ontologica verità cartesiana, l’azione scettica. Il possibile è certo anche senza poter essere accertato, non si può negare che tutto possa accadere, quindi l’accadimento del possibile è vero fin quando non si accerta una verità assoluta che lo invalidi, cioè mai – perché il possibile non è invalidabile neppure dalla sua realizzazione –, o non si determina una condizione che lo falsifichi, fatto improponibile in quanto il Possibile ontologico concede possibilità anche all’impossibile. Inoltre tutto ciò che è possibile è ipotizzabile, quindi la verità sull’Essere, essendo ipotetica, conferma l’Essere come Possibile. Conseguenza di questo è che possediamo un’altra verità indiscutibile all’interno della logica estensionale: il possibile. Il quale, tuttavia, non essendo “falsificabile” (Popper) non rappresenta una verità scientifica ma metafisica, direi logico-metafisica. In ogni caso lo scetticismo si installa tra il regresso finito del dubbio cartesiano e il progresso infinito della Possibilità» (Rifondazione dello scetticismo, Mimesis, 2017, pp. 12-13). Continua a leggere

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Intervista a  Iana Boukova a cura di Ewa Tagher, con Poesie  di Mimmo Pugliese, Francesco Paolo Intini, Ewa Tagher, Marie Laure Colasson, un compostaggio di Mauro Pierno, La poesia si occupa delle illusioni ottiche del nostro pensiero, delle imperfezioni del nostro sguardo mentre cerchiamo di leggere il mondo: ciò che vediamo e ciò che immaginiamo di vedere, e ciò che facciamo tutto il possibile per non vedere. La rigorosa critica del presente che mette in atto la poesia delinea i problemi del futuro.

Domanda: La pandemia di Covid 19 e la crisi climatica hanno messo a confronto l’umanità con la dura verità che non importa quanto ci proviamo e comunque la scienza progredisca, non possiamo essere totalmente immuni dalle malattie e dalla morte. Il risultato è una ferita narcisistica per l’io umano, simile alle altre che ne hanno minato la centralità, a cominciare da Copernico (non siamo al centro dell’universo), per arrivare a Darwin (siamo il mero prodotto dell’evoluzione e non immagine divina), e a Freud (l’io non è padrone in casa propria ma è governato dall’inconscio). Secondo te, come può oggi la poesia affrontare questo ridimensionamento?

Risposta: Credo che la poesia abbia affrontato questo tipo di ridimensionamento per tutto il XX secolo e fino ad oggi: guerre, totalitarismi, un generale senso di delusione su come il progresso scientifico interagisce con la giustizia sociale. Il lavoro della poesia è sentire le crepe nelle costruzioni razionali di ogni epoca, scoprire le debolezze di ogni costrutto narcisistico del nostro ego personale o collettivo. La poesia percepisce le crisi ancor prima che appaiano. Non per un dono profetico, ma per l’ipersensibilità della percezione. La poesia si occupa delle illusioni ottiche del nostro pensiero, delle imperfezioni del nostro sguardo mentre cerchiamo di leggere il mondo: ciò che vediamo e ciò che immaginiamo di vedere, e ciò che facciamo tutto il possibile per non vedere. La rigorosa critica del presente che mette in atto la poesia delinea i problemi del futuro. In questo senso, in questa particolare crisi a cui stiamo assistendo, non credo che la poesia abbia bisogno di un nuovo approccio. Deve solo continuare a funzionare come sempre, ad es. essere tagliente, intransigente e irritante. In altre parole, non permettere il sonno. A proposito, la vulnerabilità umana e la morte non hanno mai smesso di essere uno dei suoi temi principali.

Domanda: In un’intervista con Athina Rossoglou hai detto “Penso che al giorno d’oggi non abbiamo altra scelta che imparare a usare il sentiero della poesia per camminare nel mondo”. Quanto è necessario e perché, oggi, scrivere e leggere poesie?

Risposta: Considero la poesia come un metodo per studiare il mondo, come una strategia cognitiva. In un’epoca in cui tutto è fluido e non esistono sistemi filosofici indiscutibili, nessuno può darti una visione del mondo. Devi costruire la tua visione del mondo. La poesia ti offre gli strumenti per farlo. Ti educa a rilevare le connessioni tra i pezzi, ad articolare frasi in mezzo al rumore generale. In altre parole, ti allena a mantenere l’equilibrio su un terreno che è tutt’altro che stabile.

Domanda: La tua è una poesia che non ha un manifesto dichiarato, né un intento preciso, hai detto più volte che le tue poesie non sono mai le stesse. Ed è vero, ogni tua poesia è diversa dalle altre. Ciò che li accomuna, però, è il tuo tentativo di usare il linguaggio al massimo, giocando con le infinite possibilità che offre, in senso estetico e contenutistico. La poetessa bulgara Silvia Choleva parla di te come di “un’autrice di tipo borgesiano” che “predilige i giochi, i riferimenti, gli enigmi, i colpi di scena inaspettati, l’ironia e la drammaturgia del verso”. Da quale necessità ti fai guidare quando scrivi poesie?

Risposta: Ogni poesia inizia per me come una sorta di ricerca (o indagine). Un’immagine, un fatto o una frase mi pone una domanda, mi dà un punto di partenza. Il labirinto di connessioni, scoperte e colpi di scena nella ricerca di una risposta crea il testo. Questo è un percorso che non so mai dove porterà. Se riesco a sorprendermi, se finisco in un posto che non mi aspettavo, il testo ha funzionato.

Domanda: Come ci si orienta in un mondo che produce informazioni in eccesso, attraverso mezzi informativi che ne amplificano i toni, a volte perentori, poi sensuali, ricattatori, e ancora scandalosi, sempre più allarmisti, e che producono una massa di linguaggi ibridi, di rumori di fondo, di nuovi fonemi?

Risposta: In effetti, la poesia, come ho detto sopra, aiuta molto in questo. Mi insegna a essere costantemente vigile e a rimanere concentrata. Allena la mia memoria a tenere traccia delle informazioni importanti per me e a seguire una narrazione, non importa quanto  frammentata. Leggo spesso anche articoli scientifici: il linguaggio pacato, equilibrato e allo stesso tempo pieno di passione per la conoscenza del linguaggio della scienza mi aiuta a mantenere un senso di scala rispetto alla piccolezza dei temi mediatici, a estirpare il significativo dall’insignificante . Credo che qualcosa di estremamente importante oggigiorno sia creare silenzio per se stessi e per i propri pensieri. Ho creato nel tempo, per me, un filtro insonorizzante molto ben costruito. D’altra parte, tutto questo spreco di informazioni di cui parli può anche essere materiale per la poesia. (Tutto potrebbe essere materiale per la poesia.) Nel mio ultimo libro, ho ripetutamente incorporato nei miei testi frammenti di storie, notizie, trame cospirative e opinioni popolari. Anche questi fanno parte dell’inquietante ricchezza del mondo e dei nostri tempi, hanno il loro valore simbolico. Trovo significativa la loro assurdità.

Domanda: Hai scritto la tua ultima raccolta di poesie Notes of the Phantom Woman (Sofia, 2018) / Drapetomania (Atene, 2018) in due lingue diverse, il bulgaro, la tua lingua madre, e il greco, la tua lingua di adozione. Una vera sfida! È forse la dimostrazione che i linguaggi sono solo strumenti, materie plastiche da utilizzare per compiere un percorso di ricerca poetica?

Risposta: In questo libro  particolare,  lavoro più con le idee e lo sviluppo di situazioni di pensiero, che con il peso e l’aura delle parole. In pratica, questo significava per me che tutto poteva essere detto in modo altrettanto chiaro e convincente in entrambe le lingue con cui lavoro. Lascio che la lingua mi guidi solo nei dettagli. Ma questo non è il mio unico metodo di lavoro. I miei ultimi due progetti di poesia, ad esempio, sono interamente orientati al linguaggio. Uno, la “S”, che è stata pubblicata in Grecia lo scorso dicembre, è una scommessa per definire in modo metaforico e fantasioso tutti i nomi greci che iniziano con questa lettera. Si basa sul “contorto”,  un gioco di associazioni libere in lingua greca che è la mia lingua di adozione. Il secondo “Le paure che portano alla follia” (di prossima pubblicazione) si basa su “testo trovato” in bulgaro e tratta l’incapacità della persona moderna e della lingua in particolare di affrontare il tema della morte. Entrambi sono abbastanza intraducibili. Quindi nella mia opera  a volte la lingua è solo uno strumento, a volte una “collega” di lavoro, a volte lascio che sia lei a comandare, dipende dal mio istinto del momento e dall’idea del progetto.

Domanda: Oltre a scrivere poesie, traduci i versi dei più grandi poeti del mondo greco e romano, da Saffo a Catullo. Qual è il tuo rapporto con i testi antichi?

Risposta: Il contatto con gli autori antichi ha ampliato i miei orizzonti sulla letteratura contemporanea. Ho imparato a guardare alla letteratura nel contesto del tempo profondo, al di fuori di ogni teoria letteraria corrente, spesso dogmatizzata, imposta nel quadro del presente. Ho imparato a osservare più somiglianze che differenze tra i testi poetici, indipendentemente dalla loro lontananza nel tempo (o culturale o geografica). È sempre emozionante scoprire la vicinanza nei metodi con cui poeti separati da millenni o migliaia di chilometri da noi parlano della condizione umana. Naturalmente, non è stato un caso che ho scelto Saffo e Catullo per la traduzione. Hanno questa rara fortuna nella letteratura di essere completamente traducibili – emotivamente, mentalmente e come poetica per il lettore di oggi. Suonano come i nostri contemporanei.

Domanda: Lo scrittore Gore Vidal diceva: “l’intellettuale è come il canarino nella miniera”. Che aria tira nella tua miniera?

Risposta: Abbastanza insolita e fuori moda, sono ottimista. Sento l’aria nella mia miniera né più pesante né più pulita che in altri tempi della storia. Non è facile essere umani e non è facile vivere tra le persone. Ma anche nei momenti più difficili di stupidità o crudeltà che invadono il mondo, credo profondamente nella capacità delle persone – prima o poi, anche dopo tanti errori – di trovare soluzioni. L’aria nella mia miniera è del tutto imprevedibile, come nella vita. A volte sembra stagnare fino alla morte e proprio quando meno te lo aspetti qualcosa cambia, anche una leggera brezza e puoi respirare di nuovo.

NOTA BIOGRAFICA

Iana Boukova è una poetessa e scrittrice bulgara. Nata a Sofia nel 1968, si è laureata in Lettere Classiche all’Università di Sofia. È autrice di quattro libri di poesie, tra cui I palazzi di Diocleziano (1995), La barca nell’occhio (2000), Le note della donna fantasma (2018) e S (2021); due raccolte di racconti; e il romanzo In viaggio nella direzione dell’ombra (2009). La sua raccolta di poesie Notes of the Phantom Woman ha ricevuto il Premio nazionale Ivan Nikolov per il libro di poesie più eccezionale nel 2019. Una versione in lingua greca è stata pubblicata anche nel 2018 ad Atene con il titolo Drapetomania. Le sue poesie e racconti sono stati tradotti in numerose lingue, tra cui inglese, greco, spagnolo, francese, tedesco e arabo.
Boukova è anche editore e traduttore in bulgaro di oltre dieci raccolte e antologie di poesia greca moderna e antica, tra cui Frammenti di Saffo (Premio dell’Unione dei traduttori bulgari nel 2010), la raccolta di poesie di Catullo e le Odi pitiche di Pindaro (Il Premio Nazionale per la Traduzione nel 2011).
Boukova vive in Grecia dal 1994, dove è membro della piattaforma Greek Poetry Now e del comitato editoriale di FRMK, una rivista semestrale di poesia, poetica e arti visive.

Ewa Tagher

RISONANZE

Nave in arrivo da sud

La sirena di bordo gracida appena.

Nella sala macchine un fuori sinc

senza rimedio.

Dalla banchina l’onda di un coro

miagolii e dita peste.

Nebbia.

Anche strizzando gli occhi

la voce rimane a mezz’aria.

“Tuo nonno, un disertore”

giù per un vallone

al confine con la Francia.

Guadato il fiume restò

solo un paio di occhiali rotti in mano.

“Hai ancora sete?”

Dalle mie parti col sole d’agosto

orti e giardini si arrendono.

Solo il fico a dispetto

gonfia mammelle piene di latte. Continua a leggere

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Intervista ad Alfonso Berardinelli di Nicola Mirenzi, Nella poesia kitchen è del tutto assente la funzione provocatoria, proprietà tipica delle avanguardie novecentesche. Oggi la poesia ha cessato di essere provocazione, il reale è diventato già di per sé una provocazione che non richiede l’ausilio di altre strutture provocatorie. Oggi il coraggio della poiesis sta proprio nel non voler apparire provocatoria, Poesie di Raffaele Ciccarone, Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago

da HuffingtonPost del 27 dic. 2021
Intervista ad Alfonso Berardinelli
by Nicola Mirenzi

Per Alfonso Berardinelli questa intervista è come se non esistesse. “Se un testo non lo vedo stampato – dice – per me è come se non ci fosse”. Forse è per la stessa ragione che ha accettato di parlare con un giornale che pubblica solamente online, nonostante non ami particolarmente essere intervistato: “Ho imparato a scrivere bene le cose che penso e non capisco perché dovrebbe essere un altro a farlo al posto mio”. La prova che non mente quando autostima la propria scrittura è in ‘Giornalismo culturale’ (Il Saggiatore), il libro che finalmente raccoglie un’ampia selezione degli articoli che ha scritto dal 2013 al 2020, centinaia di piccoli saggi che sono allo stesso tempo dei gioielli letterari e delle felici testimonianze di intelligenza, spesso anche umoristica, della realtà culturale del nostro Paese. “Le idee” mi dice mentre camminiamo per Piazza Navona, a Roma, per raggiungere un posto che conosce e dove crede che potremo stare tranquilli, “non stanno nel mondo delle idee, non possono essere separate dalle persone che le pensano, anzi le idee sono anche le persone che le pensano”.

Nel suo caso, non sono chiacchiere. È l’unico docente italiano a essersi dimesso dall’Università perché riteneva incompatibile la sua idea di cultura con quella dell’istituzione che gli pagava lo stipendio. “Ho lasciato l’insegnamento a Ca’ Foscari perché non sopportavo di essere chiamato ‘professore’. Non me ne sono pentito. Mi sono stupito semmai di essere rimasto lì dentro così a lungo”. Spesso gli capita di giudicare i suoi contemporanei con lo stesso metro, misurando attentamente la distanza tra le parole che dicono e le cose che fanno. Difficilmente sbaglia. Già sette anni fa criticava Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, i due filosofi che più hanno denunciato il governo (secondo loro) tirannico della pandemia e per questo sono stati anche parecchio criticati, almeno quanto ieri erano stati celebrati. Del primo aveva colto chiaramente dove sarebbe andato a parare: “Il solo vero nemico di Agamben – scriveva – sono sempre e comunque le democrazie capitalistiche, il loro essere ‘sistema’. Secondo questo metodo critico il primo e unico compito è smascherare queste democrazie mostrando che in realtà sono dittature”. Del secondo aveva descritto precisamente la funzione scenica della sua maschera: “A Cacciari va comunque riconosciuto un merito. Come icona e parodia dell’intelligenza ha raggiunto la perfezione”.

Lei è l’unico che non si è stupito.

Devo ammettere che però non credevo che sarebbero arrivati a questi livelli di stupidità. Li consideravo entrambi abbastanza scaltri da non cadere nella trappola della propria logica. E invece in questa occasione hanno rivelato l’inconsistenza della loro stessa attitudine filosofica.

Perché lei, critico letterario, si occupa raramente di letteratura?

Perché gran parte dell’attuale letteratura non è più un oggetto che abbia interesse critico, né gli studiosi che la leggono sono interessati a esprimere giudizi. Per questo la critica letteraria è in via di sparizione.

E quindi si occupa di politica?

Ma per me la politica è un tema letterario.

In che senso?

Nel senso che ascolto i personaggi che la interpretano perché mi interessa chiarire ciò che accade nella realtà e che spesso è sconosciuto anche a loro stessi. Non scrivo certo per influenzare la politica o per essere preso in considerazione. So bene che è impossibile, scrivendo, ottenere effetti pratici. Per questo mi fanno ridere i giornalisti politici, gli editorialisti, gli intellettuali che invece si illudono di contare politicamente.

A lei basta essere letto?

In realtà ambisco a essere letto solo dalle persone che possono capire quello che scrivo. Mi rendo conto che è un pubblico in costante diminuzione, ma lo preferisco comunque alla massa.

È vero che scriveva poesie?

L’ho fatto intorno a vent’anni. Era un esperimento per capire come funziona la testa di un poeta. Partivo da un’immagine o da un verso e poi continuavo. Lasciavo per un giorno il testo lì e poi ci tornavo nei giorni seguenti. Rielaboravo e correggevo in continuazione. Finché non arrivavo alla conclusione che non mi interessavano i miei stessi enunciati e buttavo via tutto.

Cosa ha capito della testa del poeta?

Ho capito che almeno per me era una pratica così iperselettiva che sconfinava nella distruttività.

Ma questo era il modo in cui funzionava la sua di testa.

Certo. Ma come qualsiasi esperienza umana – la guerra, l’amore – anche la poesia non può che essere sperimentata di persona.

Cosa non le piaceva dei suoi versi?

Che mi venivano fuori più degli aforismi che dei veri e propri versi. E l’aforisma, si sa, è l’inizio del saggio.

A casa sua si leggevano più poesie o più saggi?

A casa mia si leggevano soprattutto romanzi russi. I miei genitori erano operai comunisti che non facevano parte del Pci ma avevano comunque il mito della Russia e dei suoi scrittori. Il primo libro di Cechov me l’ha regalato mio zio, che faceva il meccanico. A Testaccio gli amici lo chiamavano “il re della lima”.

E i suoi genitori che facevano?

Mia madre ha fatto anche la lavandaia in un albergo di lusso di via Veneto. Mio padre da giovane fu assunto come manovratore nelle Ferrovie dello Stato grazie all’intercessione di un prete a cui aveva chiesto una raccomandazione mia nonna che era, come si diceva una volta a Roma, una bizzoca, una bigotta. Ma non durò tanto.

Perché?

Perché a ventidue anni partecipò allo sciopero generale dei sindacati contro lo squadrismo e venne immediatamente licenziato. Tornò a fare il mestiere del padre, lo scalpellino, un lavoro massacrante con il quale si producevano sanpietrini come quelli che vediamo in questa piazza.

Niente intellettuali in casa?

Ma mio padre era in realtà più intellettuale di molti intellettuali. Alla sua età aveva capito che il fascismo era il fascismo mentre Pirandello e un po’ anche Croce non lo avevano capito. Difficile a quell’età essere più consapevoli di così. Per questo mi viene sempre naturale chiedermi quanto siano davvero intelligenti gli intellettuali.

Ma anche lei è un intellettuale o no?

Lo sono, ma allo stesso tempo detesto le categorie generali, le corporazioni, comprese quelle che presumono di possedere l’intelligenza in esclusiva, come le categorie degli intellettuali e dei professori.

Per questo non sopportava di essere chiamato ‘professore’?

All’università i professori fanno tutti parte della categoria degli intelligenti, anche se sono degli stupidi. Io credo che l’intelligenza debba essere giudicata di volta in volta, in base alle cose che si dicono e si scrivono. Non sopportavo di essere chiamato professore perché in generale non sopporto che l’autorità culturale venga certificata burocraticamente da un’istituzione. La mia, se c’è, voglio che venga soltanto da me stesso. Me ne prendo tutta la responsabilità.

L’autorevolezza di suo padre da dove veniva?

Gli operai di allora amavano veramente la cultura, ne avevano il mito, proprio perché non avevano potuto averla. Mio nonno, scalpellino anche lui, per esempio chiamò i suoi quattro figli Socrate, Omero, Dante e Virgilio. Incredibile, eroico e comico nello stesso tempo.

Sì, ma in lei mi sembra ci sia anche dell’altro, un sentimento anti borghese.

È vero che sento odore di borghesia anche da lontano. Per farle capire, ho provato a lungo una forte curiosità erotica per le ragazze borghesi ma quando in loro la borghesia veniva fuori, il mio desiderio sessuale diminuiva.

Cosa c’è nella borghesia che la respinge?

Direi il senso del denaro come privilegio e la tendenza a trattare gli esseri umani che svolgono lavori gerarchicamente inferiori come persone inferiori. Odio chi tratta male le donne di servizio e i camerieri, credendo che sia normale farlo e che anzi questo rafforzi la propria identità.

Ci sono borghesi che, invece, li trattano molto bene.

E infatti ci sono anche borghesi intelligenti. Non è meccanica la coincidenza tra l’individuo e la classe sociale d’appartenenza, altrimenti non avrei mai potuto fare una rivista come ‘Diario’ con Piergiorgio Bellocchio che viene da una famiglia integralmente borghese.

Lei che cos’è?

Io sono estraneo a entrambe le classi, perché non faccio più parte della mia classe di provenienza, quella operaia, né sono mai davvero entrato a far parte della classe sociale d’arrivo. Ho preferito non “fare carriera” e non diventare una “persona seria”.

Cos’ha contro la serietà?

Niente. Mi sono solo reso conto nel corso del tempo di quanto poco serie siano, spesso, le cosiddette persone serie.

Per esempio Umberto Eco?

Eco mi considerava il suo miglior nemico. Era un uomo dotato di una forma di intelligenza che io ritengo minore, ovvero un misto di efficienza mentale e di furbizia.

Perché furbo?

Perché era un intellettuale di élite che per avere successo ha abbracciato la cultura di massa. O meglio, per essere più precisi: era un intellettuale mascherato di élite la cui vera passione era la cultura di massa.

Lei detesta la cultura di massa?

Non la detesto, ma non la mitizzo e non mi attira. Contesto l’atteggiamento degli intellettuali italiani verso la cultura di massa, di cui Eco era un macrosintomo, ossia l’idea che sia un valore in sé, una meta trasgressiva, un feticcio estetico che va accettato acriticamente.

Questo anche nell’Università?

Anche all’Università. I miei la consideravano il luogo supremo della cultura e per questo credevano fosse una gran cosa essere professore. Invece l’Università può essere, e a volte è, il luogo della sottocultura.

Ma ai suoi è dispiaciuto quando l’ha lasciata?

Poco prima di morire mia madre aveva capito che stavo per dimettermi e mi ha chiesto spaventata cosa avevo in mente. Le ho mentito. Perché non volevo addolorarla e sconcertarla.

Ma lei non sarebbe potuto essere se stesso anche da professore?

Non ci riuscivo. Perché per essere uno di loro bisogna essere come loro. Bisogna crederci, trovarcisi bene. Io ero a disagio.

Non sopravvaluta troppo le persone rispetto alle idee che hanno?

No. Perché le idee non possono mai essere separate dalle persone che le hanno.

Perché no?

Perché la verità non può essere detta da una persona che ama la menzogna e la pronuncia per mentire meglio.

Nemmeno occasionalmente?

No. Perché chi dice la verità conta quanto la verità stessa. La verità non è una formula verbale, è una presenza reale. Un testo medievale apocrifo riferisce questo dialogo. Ponzio Pilato domanda a Gesù: “Cos’è la verità?”. E Gesù risponde: “È l’uomo che ti sta davanti”. Questa risposta va intesa anche in senso laico.

Quindi se io sono un peccatore è escluso possa dire una cosa vera?

Non è detto.

E come potrei farlo?

Dicendo la verità. Cioè che lei è un peccatore e perché lo è.

Praticamente una confessione.

Ma senza assoluzione, perché i preti non c’entrano.

Allora chi c’entra?

C’entrano gli individui reali.

Perché l’ha detto al plurale?

Perché è questa la verità. Tutti abbiamo dei peccati! Anche se capirlo non è facile, anzi è la cosa più difficile. Ma oggi vogliamo sentirci tutti innocenti. Lo consigliano i terapeuti. Ma se si hanno delle colpe non sarebbe normale e sano sentirsi in colpa?

Suppongo di sì.

Ecco.

Le sue quali sarebbero?

Non ci penso nemmeno a dirglielo. Questa è un’intervista. Non una confessione.

Marie Laure Colasson

L’interrogante chiede ad Alfonso Berardinelli:

Domanda: Perché lei, critico letterario, si occupa raramente di letteratura?

Risposta: Perché gran parte dell’attuale letteratura non è più un oggetto che abbia interesse critico, né gli studiosi che la leggono sono interessati a esprimere giudizi. Per questo la critica letteraria è in via di sparizione.

La risposta è disarmante ma salutare. E fa bene Berardinelli a non leggere più opere letterarie, non c’è nulla che valga la pena di essere letto. Centinaia di romanzieri che scrivono romanzi, centinaia di poeti che scrivono poesie, centinaia di pittori che fanno pittura. E’ terribile. Questa non è più cultura di massa ma siamo entrati nel Museo immaginario dell’immaginario, il condominio del protagonismo dove ciascun condomino è alla ricerca dei suoi 5 minuti di celebrità.

Lucio Mayoor Tosi

Il signor Wang il laureato
ride della mia povera prosodia.
Non conosco la vita di una vespa
tanto meno il ginocchio di una gru.
Non riesco a mantenere i miei toni piatti dritti,
tutte le mie parole vengono alla rinfusa.
Rido delle poesie che scrive-
le canzoni di un cieco sul sole! Continua a leggere

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Charles Simic, Poesie, Il mondo non finisce, The world doesn’t end, La storia è un libro di ricette, I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina, traduzione, Intervista e una glossa a cura di Giorgio Linguaglossa, La macchia di Marie Laure Colasson, acrilico su legno 30×30 cm. 2020

Marie Laure Colasson Struttura ignea 30x30 2021Marie Laure Colasson, Macchia, 30×30 cm acrilico, 2020

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La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.

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«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi.
I filosofi quelli che scrivono il menu.
I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori.
Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina»
(Charles Simic)

Charles Simic

The world doesn’t end (Il mondo non finisce)

Part I

We were so poor I had to take the place of the bait in the mousetrap. All alone in the cellar, I could hear them pacing upstairs, tossing and turning in their beds. “These are dark and evil days,” the mouse told me as he nibbled my ear. Years passed. My mother wore a cat-fur collar which she stroked until its sparks lit up the cellar.

*

The flies in the Arctic Circle all come from my sleepless nights. This is how they travel: The wind takes them from butcher to butcher; then the cows’ tails get busy at milking time.

At night in the northern woods they listen to the moose, the lion…  The summer there is so brief, they barely have time to count their legs.

“Brave as a postage stamp crossing the ocean,” they drone and sigh, and already it’s time to make snowballs, the little gray ones with stones in them.

Parte I

Eravamo così poveri che ho dovuto prendere il posto dell’esca nella trappola per topi. Tutto solo in cantina, li sentivo camminare su e giù per le scale, rigirandosi e rigirandosi nei loro letti. “Questi sono giorni bui e malvagi”, mi disse il topo mentre mi mordicchiava l’orecchio. Passarono gli anni. Mia madre portava un collare di pelliccia di gatto che accarezzava finché le sue scintille non illuminavano la cantina.

*

Le mosche nel Circolo Polare Artico provengono tutte dalle mie notti insonni. Ecco come viaggiano: il vento li porta da macellaio in macellaio; poi le code delle mucche si danno da fare al momento della mungitura.

Di notte nei boschi del nord ascoltano l’alce, il leone… Lì l’estate è così breve che hanno appena il tempo di contare le gambe.

“Coraggioso come un francobollo che attraversa l’oceano”, borbottano e sospirano, ed è già ora di fare le palle di neve, quelle piccole grigie con i sassi dentro.

Part II

A poem about sitting on a New York rooftop on a chill autumn evening, drinking red wine, surrounded by tall buildings, the little kids running dangerously to the edge, the beautiful girl everyone’s secretly in love with sitting by herself. She will die young but we don’t know that yet. She has a hole in her black stocking, big toe showing, toe painted red…And the skyscrapers… in the failing light… like new Chaldeans, pythonesses, Cassandras…because of their many blind windows.

*

Dear Friedrich, the world’s still false, cruel and beautiful…

Earlier tonight, I watched the Chinese laundryman, who doesn’t read or write our language, turn the pages of a book left behind by a costumer in a hurry. That made me happy. I wanted it to be a dreambook, or a volume of foolishly sentimental verses, but I didn’t look closely.

It’s almost midnight now, and his light is still on. He has a daughter who brings him dinner, who wears short skirts and walk with long strides. She’s late, very late, so he has stopped ironing and watches the street.

If not for the two of us, there’d be only spiders hanging their webs between the street lights and the dark trees.

*

The dead man steps down from the scaffold. He holds his bloody head under his arm.

The apple trees are in flower. He’s making his way to the village tavern with everybody watching. There, he takes a seat at one of the tables and orders two beers, one for him and one for his head. My mother wipes her hands on her apron and serves him.

It’s so quiet in the world. One can hear the old river, which in its confusion forgets and flows backwards.

*

My guardian angel is afraid of the dark. He pretends he’s not, sends me ahead, tells me he’ll be along in a moment. Pretty soon I can’t see a thing. “This must be the darkest corner of heaven,’ someone whispers behind my back. It turns out her guardian angel is missing too. “It’s an outrage,” I tell her. “The dirty little cowards leaving us alone,” she whispers. And of course, for all we know, I might be a hundred years old already, and she’s just a sleepy little girl with glasses.

*

Once I knew, then I forgot. It was as if I had fallen asleep in a field only to discover at waking that a grove of trees had grown up around me.

“Doubt nothing, believe everything,” was my friends idea of metaphysics, although his brother ran away with his wife. He still bought her a rose every day, sat in the empty house for the next twenty years talking to her about the weather.

I was already dozing off in the shade, dreaming that the rustling trees were my many selves explaining themselves all at the same time so that I could not make out a single word. My life was a beautiful mystery on the verge of understanding, always on the verge! Think of it!

My friend’s empty house with every one of its windows lit. The dark trees multiplying all around it.

Parte II

Una poesia circa il sedersi su un tetto di New York in una fredda sera d’autunno, mentre beviamo vino rosso, circondato da edifici alti, i bambini che corrono pericolosamente al limite, la bella ragazza di cui tutti sono segretamente innamorati seduti da sola. Morirà giovane, ma non lo sappiamo ancora. Ha un buco nella calza nera, l’alluce in vista, la punta dipinta di rosso… E i grattacieli… nella luce fioca… come nuovi caldei, pitone, cassandre… a causa delle loro numerose finestre cieche.

*

Caro Friedrich, il mondo è ancora falso, crudele e bello…

Stanotte ho visto il lavandaio cinese, che non legge né scrive la nostra lingua, girare le pagine di un libro lasciato da un cliente in fretta e furia. Questo mi ha reso felice. Volevo che fosse un libro dei sogni, o un volume di versi stupidamente sentimentali, ma non ho guardato da vicino.

È quasi mezzanotte ormai e la sua luce è ancora accesa. Ha una figlia che gli porta la cena, che indossa gonne corte e cammina a grandi falcate. È in ritardo, molto in ritardo, quindi ha smesso di stirare e guarda la strada.

Se non fosse per noi due, ci sarebbero solo ragni che appendono le loro tele tra i lampioni e gli alberi scuri.

*

Il morto scende dal patibolo. Tiene la testa insanguinata sotto il braccio.

I meli sono in fiore. Si sta dirigendo verso la taverna del villaggio con tutti a guardare. Lì si siede a uno dei tavoli e ordina due birre, una per lui e una per la testa. Mia madre si asciuga le mani sul grembiule e lo serve.
È così tranquillo nel mondo. Si può sentire il vecchio fiume che nella sua confusione dimentica e scorre all’indietro.

*

Il mio angelo custode ha paura del buio. Fa finta di no, mi manda avanti, mi dice che arriverà tra un momento. Ben presto non riesco a vedere nulla. “Questo deve essere l’angolo più buio del paradiso”, sussurra qualcuno alle mie spalle. Si scopre che anche il suo angelo custode è scomparso. “È un oltraggio”, le dico. “I piccoli sporchi codardi che ci lasciano soli”, sussurra. E ovviamente, per quanto ne sappiamo, potrei avere già cent’anni, e lei è solo una bambina assonnata con gli occhiali.

*

Una volta che lo sapevo, poi l’ho dimenticato. Era come se mi fossi addormentato in un campo solo per scoprire al risveglio che un boschetto di alberi era cresciuto intorno a me.

“Non dubitare, credi a tutto”, era l’idea della metafisica dei miei amici, anche se suo fratello era scappato con sua moglie. Le comprava ancora una rosa ogni giorno, rimase seduto nella casa vuota per i successivi vent’anni a parlarle del tempo.

Stavo già sonnecchiando all’ombra, sognando che gli alberi fruscianti erano i miei tanti io che si spiegavano tutti insieme in modo da non riuscire a distinguere una sola parola. La mia vita era un bellissimo mistero sul punto di capire, sempre sull’orlo! Pensaci!

La casa vuota del mio amico con tutte le finestre illuminate. Gli alberi scuri che si moltiplicano tutt’intorno.

Part III

The time of minor poets is coming. Good-by Whitman, Dickinson, Frost. Welcome you whose fame will never reach beyond your closest family, and perhaps one or two good friends gathered after dinner over a jug of fierce red wine… while the children are falling asleep and complaining about the noise you’re making as you rummage through the closets for your old poems, afraid your wife might’ve thrown them out with last spring’s cleaning.

It’s snowing, says someone who has peeked into the dark night, and then he, too, turns toward you as you prepare yourself to read, in a manner somewhat theatrical and with a face turning red, the long rambling love poem whose final stanza (unknown to you) is hopelessly missing.

After Aleksandar Ristović

O the great God of Theory, he’s just a pencil stub, a chewed stub with a worn eraser at the end of a huge scribble.

Parte III

Il tempo dei poeti minori sta arrivando. Arrivederci Whitman, Dickinson, Frost. Ti diamo il benvenuto la cui fama non andrà mai oltre la tua famiglia più vicina, e forse uno o due buoni amici si sono riuniti dopo cena davanti a una brocca di vino rosso feroce… mentre i bambini si addormentano e si lamentano del rumore che fai mentre frughi nel armadi per le tue vecchie poesie, temendo che tua moglie possa averle buttate via con le pulizie della scorsa primavera.

Nevica, dice qualcuno che ha sbirciato nella notte oscura, e poi anche lui si volta verso di te mentre ti prepari a leggere, in maniera un po’ teatrale e con il viso che diventa rosso, la lunga e sconclusionata poesia d’amore la cui strofa finale (a te sconosciuto) manca irrimediabilmente.

Dopo Aleksandar Ristović

O il grande Dio della teoria, è solo un mozzicone di matita, un mozzicone masticato con una gomma consumata alla fine di un enorme scarabocchio.

Aforismi

da Il mostro ama il suo labirinto, Monster Loves His Labyrinth 2008

Dove il conformismo è considerato un ideale, la poesia non è la benvenuta.

Faccio parte di quella minoranza che si rifiuta di far parte di qualsiasi minoranza ufficialmente definita.

Gli orrori del nostro tempo ci faranno provare nostalgia di quelli del passato. Non credo in Dio, però evito di aprire l’ombrello in casa.

I nostri ricchi sono più bravi a rubare dei nostri ladri comuni.

Il miglior argomento a favore del vino, del tabacco, del sesso e dei discorsi a vanvera consiste nel fatto che ogni maggioranza cosiddetta morale li condanna.

Il nazionalismo è amore per l’odore della nostra merda collettiva.

Il poeta vede quello che il filosofo pensa.

L’ambizione segreta di ogni opera letteraria è quella di obbligare dèi e diavoli ad accorgersi di lei.

L’utopia: una sostanziosa torta al cioccolato protetta dalle mosche sotto una campana di vetro.

La bellezza di un attimo fuggente è eterna.

La gentilezza di un essere umano verso un altro in tempi di odio e violenza di massa merita maggior rispetto delle prediche di tutte le chiese dall’inizio del tempo.

La stupidità sta conoscendo un revival nazionale. Basta accendere la TV per vedere il suo largo bonario sorriso.

Le fotografie ci mostrano quello che non abbiamo le parole per dire.

Notte d’autunno fredda e ventosa. Sull’angolo, una barbona parla con Dio; lui, come al solito, non ha niente da dire.

Qualunque cosa è uno specchio, a guardarla abbastanza a lungo.

Qualunque ideologia o fede che non sia insaporita dall’odio non ha alcuna possibilità di successo popolare. Per essere veri credenti bisogna essere campioni d’odio.

Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera: «Il mio dolore è più grande del tuo».

Tra la verità che si sente dire e la verità che si vede, preferisco la verità silenziosa di ciò che viene visto

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Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.

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In una intervista Simic dichiara:

“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico?

Domanda:

A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…

Risposta:

“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.

charles simic photo

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Non sorprende che Charles Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.
La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.

La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.
Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.
Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.
La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.

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Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

Alfredo de Palchi

Domanda: Chi è il poeta Alfredo de Palchi?

Risposta: Alfredo de Palchi è nato a Legnago (Verona) il 13 dicembre, 1926, e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italiano residente negli U.S.A., a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua individualità stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento e di questi anni. Il suo primo libro, Sessioni con l’analista, esce in Italia nel 1967, con Mondadori, grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni; poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è ancora tutto da spiegare, un destino davvero singolare ma non difficile da decifrare. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione, (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri delle celle durante la detenzione del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo. Estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica degli anni che seguiranno la seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza letteraria italiana, per di più il giovane poeta era visto con estremo sospetto per via della sua scelta di affiliazione, ancorché giovanissimo, tra le file della Repubblica di Salò.

Laboratorio 5 zagaroli

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Perché una monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi?

Risposta: Perché Alfredo de Palchi è un poeta asintomatico e che non è possibile irreggimentare in una corrente o una scuola o una linea correntizia della poesia italiana del Novecento. E poi direi che il maledettismo di de Palchi non è nulla di letterario, non è costruito sui libri ma è stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana fu colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non è stata mai compresa in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini di schieramento politico-letterario. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neoavanguardia, la poesia di de Palchi venne messa in sordina come «minore» e «laterale» e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso e segnato. Finita in fuorigioco, chiusa dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava, e risulta ancor oggi, incomprensibile e indigesta alle istituzioni poetiche nazionali, era una fattura stilistica e poetica troppo dissimile da quella letterariamente riconoscibile della tradizione secondo novecentesca. Quella particolare «identità», quella convergenza parallela di vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di estraneità alla tradizione italiana. Probabilmente, la poesia di de Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica «europea», come espressione adiacente alla poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie. Diciamo, con una formula eufemistica, che quel manufatto era allora «oggettivamente» indisponente e indigeribile da parte della società letteraria del tempo. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia «migliore» di quella di Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci.

Laboratorio gezim e altri

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Pensi che oggi i tempi siano maturi per una rilettura priva di pregiudizi ideologici della poesia di de Palchi?

Risposta: Oggi, ritengo che i tempi siano maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo», per citare una dizione di Brodskij, da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano. Per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” da Pasolini nel 1963 perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo; questo almeno nelle intenzioni di Pasolini, artefice di quella operazione. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile» per motivi politici e di politica estetica, e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo e con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione storico-estetica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Domanda: Un capitolo della tua monografia è denominato «L’anello mancante della poesia del Novecento italiano». Vuoi spiegarci che cosa significa e perché questo titolo?

Risposta: La dizione non è mia ma di Luigi Fontanella che l’ha coniata per primo, che ritengo fortunata ed azzeccata. L’esperienza poetica del de Palchi di Sessioni con l’analista (1967) è centrale per comprendere la diversità esistenziale e stilistica della sua poesia nel contesto della poesia italiana del secondo Novecento, la irriducibilità di una esperienza poetica legata a doppio filo con la sua esperienza biografica e umana. Se si salta la poesia di de Palchi non si capisce nulla della poesia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. È incredibile, a confronto con la poesia depalchiana la poesia che si faceva in Italia non ha nessun punto di contatto, sembra quella di un marziano che scriva sul pianeta Marte.

Domanda: Una dichiarazione di sfiducia totale per le opere di storicizzazione.

Risposta: Sfiducia totale.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo de Palchi

Domanda:  I sei anni di carcerazione preventiva subita dal diciottenne Alfredo de Palchi con l’accusa infamante di omicidio di un partigiano, sono anni di letture intensissime da parte del giovanissimo poeta. Scrive Luigi Fontanella:

«Gli anni nel penitenziario di Procida, duri e vessatori da un lato, ma assai ricchi di letture, di stimoli e fantasie letterarie. de Palchi divora una montagna di libri che vertiginosamente (ma anche con diligente intento cronologico) vanno dalla Bibbia, Dante (specialmente quello delle rime petrose) e Cavalcanti, fino ai moderni e contemporanei, passando attraverso qualche rinascimentale, per arrivare, appunto, ai vari Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Quasimodo, Ungaretti, Montale,  l’amatissimo Cardarelli (su cui, sempre in carcere,  scriverà un breve saggio che, inviato a Cardarelli in persona, a quel tempo direttore della ‘Fiera Letteraria’, uscì su questa rivista,  suscitando scalpore e un certo dibattito),  fino ai suoi,  quasi coevi,  maestri o ‘fratelli’ maggiori: Sinisgalli, Sereni, Caproni, Erba, Zanzotto, Cattafi. Dalla lett(eratu)ra italiana passa poi a quella francese, non importa se – a quel tempo – con scarsa conoscenza di questa lingua, venendo conquistato in particolare da François Villon (non pochi eserghi tratti da questo poeta verranno poi utilizzati da de Palchi), Charles Baudelaire, Gerard de Nerval e, su tutti, Arthur Rimbaud».

Risposta: Il discorso poetico di de Palchi ha preso congedo dalle «fondamenta» pascoliane della poesia italiana del Novecento. Pascoli e D’Annunzio sono saltati di netto. È il primo poeta italiano del secondo Novecento che si libera anzitempo della zavorra stilistica pascoliana e dannunziana. In tal senso, è il poeta più realista del Novecento.

Laboratorio 4 Nuovi

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: E questo ai tuoi occhi è un distinguo importante?

Risposta: Nella mia visione dello sviluppo della poesia del Novecento questo è un punto decisivo.

Domanda: Torniamo agli anni Sessanta Settanta. Qual è a tuo avviso il distinguo dell’esperienza poetica di de Palchi rispetto alle coeve esperienze poetiche che in quegli anni si facevano in Italia?

Risposta: Nel libro, ho scritto: «Alfredo de Palchi sterza vigorosamente dalla poesia di impianto simbolistico-auratico del primo periodo montaliano, da una poesia meramente fonetico-musicale della tradizione lirica italiana dove l’io si auto conserva entro l’impianto dell’alienazione dell’«io» e del «corpo», per aderire ad una poesia dell’immaginario e della internalizzazione degli oggetti; fa una poesia afonetica, amusicale, anti auratica, fantasmatica non inscritta in alcun pentagramma melodico tonale. Un po’ in consonanza con quello che avveniva nella musica di avanguardia degli anni Sessanta da Giacinto Scelsi, John Cage a Luciano Berio, a Morton Feldman che apriranno nuove prospettive alla musica contemporanea». Non mi sembra cosa di poco conto.

Domanda: La poesia di Alfredo de Palchi come esempio di un nuovo tipo di realismo?

Risposta. Direi che non ci possono essere dubbi in proposito. Nel libro scrivo:

«Leggiamo alcuni sprazzi di «materia poetica» di de Palchi all’argento vivo, da «Un ricordo del ’45» in Sessioni con l’analista (1967):

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
[…]
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

Si tratta della poesia che ha consumato la più alta capacità di combustibile dagli anni del dopo guerra, un veicolo ad altissimo dispendio energetico, che non conosce il principio del risparmio di carburante, che va allo scontro frontale con l’entropia delle scritture detritiche dello sperimentalismo in auge negli anni Cinquanta e Sessanta, attraversa i decenni con una incredibile fedeltà alla propria intuizione stilistica ed arriva all’epoca della stagnazione stilistica e spirituale dei giorni nostri sempre con l’allegria del naufragio prossimo venturo».

Laboratorio quattro

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

ALFREDO DE PALCHI COVER GRIGIADomanda: Hai scritto nella monografia:  “Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo de Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967». Ritieni questo un punto qualificante della esperienza poetica di de Palchi?”

Risposta: Lo ritengo un punto assolutamente qualificante.

Domanda: Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore».

Risposta: Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

Domanda: So  che hai letto l’ultimo libro inedito di de Palchi Eventi terminali. Che cosa mi puoi dire su questo lavoro?

Risposta: Siamo circondati dalle parole-chat: radio, televisione, internet, giornali, riviste di intrattenimento e di nicchia, simil-poesie in plastica, miliardi di parole che sciamano con un ronzio inquietante e imperioso nella nostra mente. Anche le opere letterarie sono promulgate in parole chat. Purtroppo non abbiamo altra scelta che credere fermamente in una utopia: che soltanto una grande letteratura può bucare la rarefatta atmosfera fatta di sciami di parole insulse, inutili e perniciose. Le parole sono importanti per mantenere viva e vigile la coscienza estetica di una comunità nazionale. La decadenza delle parole di un popolo è l’indice del progressivo sfacelo di un paese e di una lingua. Una lingua è una precisa concezione del mondo e una immagine della identità di una comunità linguistica. Modificando le parole cambia la lingua, muta la concezione del mondo di quella lingua e muta l’immagine riflessa della identità di una comunità.  Il senso dell’identità dell’io è una costruzione linguistica e, come insegnava Lacan,  quello che per un soggetto è il significante non coincide con quello che per il medesimo soggetto è il significato; tra significante e significato si apre una voragine. Quando l’identità di una nazione è in crisi, si offusca anche il linguaggio dei suoi poeti migliori; de Palchi con quest’ultimo lavoro inedito, Eventi terminali, avverte, come per telepatia, la grande crisi del paese Italia, e la traduce in una scrittura anche sgrammaticata, sforbiciata ma di forsennato vigore. Una scrittura che vuole bucare il linguaggio poetico maggioritario dei nostri giorni, e lo buca a suo modo, con una forza effrattiva che lascia sgomenti. È un linguaggio testamentario che qui ha luogo: de Palchi ritorna, ossessivamente, ai luoghi e ai fatti della sua prima giovinezza, deturpati e violentati, prende per il bavero il più grande poeta italiano del novecento: Eugenio Montale e lo irride mettendo a confronto la edulcorata scrittura letteraria del poeta ligure con la propria irriflessa e istintiva. È l’ultimo atto testamentario del poeta Alfredo de Palchi.

In senso teleologico, il critico ideale è il lettore ideale. Comprendere l’«esperienza» che le parole di un poeta ci offre, questo è il compito del lettore ideale e quindi del critico. Abito del critico è la dichiarazione di valore letterario di un testo. A volte, non basta il primo incontro con un testo; di frequente il lettore vigile ritorna a riflettere sull’opera. Legge e rilegge la stessa opera, magari a distanza di anni. La riflessione è il primo stadio del processo di comprensione ma, inevitabilmente, in ogni atto di lettura è implicita una valutazione. Il lettore ideale si dovrà chiedere: a chi si rivolge quest’opera? Da dove proviene? In quali rapporti sta con le altre opere sue contemporanee? Come si colloca a fronte delle opere del passato? Come si colloca nel panorama del  contemporaneo? Cos’è che rende importante un’opera nei confronti di un’altra? Qual è il rapporto che collega un’opera ad altre contemporanee? Il giudizio critico implica sempre una collocazione non solo dell’opera ma anche del lettore ideale. Ma un giudizio critico è sempre «aperto», non può essere «chiuso», altrimenti sarebbe un dogma teologico; nel giudizio rientra la ricerca del confronto con altri giudizi; ciò a cui il lettore ideale tende è un confronto con altri lettori che lo induca a riesaminare il precedente giudizio. Paradossalmente, il critico ha bisogno, più del poeta o dello scrittore, del confronto con un pubblico. Senza di esso, l’atto della lettura critica diventa un responso soggettivo. Credo che debba esistere nell’ambito della comunità una élite di lettori intelligenti in vista di un accordo sul giudizio estetico. Privo del supporto con un pubblico intelligente, il lavoro del lettore ideale diventa un fatto utopico, al pari di quello del critico. In fin dei conti, anche la scrittura di un critico è un atto testamentario, al pari di quello del poeta.

Quando una società non dispone di una letteratura in salute, l’esercizio dell’attività critica risulta dimidiata e offuscata, la comunità dorme il suo sonno ontologico. La stessa democrazia è in pericolo. La valutazione delle «cose pubbliche» della comunità non è cosa diversa e distinta dalla valutazione delle «cose private» qual è un  libro di poesia.

La difesa di un libro di poesia ha a che fare con la difesa della democrazia. Occuparsi di un’opera di poesia, difendere un buon libro di poesia, un autore è dunque un esercizio altamente «politico», è un atto da cittadino della polis, un atto che ha a che fare con la libertà individuale e collettiva. È, in definitiva, un atto pubblico.

Domanda: Un’ultima domanda, pensi che sia utile in quest’epoca di grande confusione in materia di poesia scrivere una monografia critica su un poeta vivente?

Risposta: Sono fermamente convinto che nella attuale situazione di confusione indotta dei valori poetici sia indispensabile proporre delle monografie critiche sui poeti veramente significativi. 

Laboratorio lilla

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Alfredo de Palchi, Poesie
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies Continua a leggere

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Intervista a Giorgio Agamben, Il trionfo del modello assertivo, La veredizione, Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, Riflessioni di Andrea Brocchieri,  Andrea Sangiacomo, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Letizia Leone, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson,

Gif Finestra

G. Agamben: Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco

Intervista a Giorgio Agamben a cura di Franco Marcoaldi

(la Repubblica, 8 febbraio 2011)

In cosa crediamo? Quali sono le credenze civili, religiose, politiche, scientifiche, su cui si regge la società? La risposta si fa particolarmente difficile in un mondo come il nostro, che vede le credenze tradizionali – oggetto di una costante erosione – trasformarsi in surrogati, con il conseguente dilagare delle più diverse forme di superstizione. Oppure, per converso, il trionfo di uno scetticismo e di un’indifferenza che rasentano il nichilismo.

Proveremo a trattare la questione “credere, credenza”, affrontandola da diversi punti di vista. E partiremo chiedendo l’aiuto di un filosofo italiano di fama internazionale: Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
– Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di “veridizione”. Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».

Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?

«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».

Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?

«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».

Un esempio?

«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, “credere in Gesù Cristo” e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. -La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula “Credo perché è assurdo”».

Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?

«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi. È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di “testimonianza”, mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto “l’ho fatto perché così mi piaceva”. L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».

Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.

«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».

Strilli L'erba di StonehengeIn Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?

«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione.
– Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».

È una strada ancora aperta?

«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: “com’è grazioso – cioè capace di gratuità – l’uomo quando è veramente umano”. È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».

Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.

«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».

Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.

«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco (corsivo mio), nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla “cura di sé”, sulla “pratica di sé”. Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».

Andrea Sangiacomo

«All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza,
abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole.

È infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano. Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.»1

Strilli Linguaglossa sulla NOE

Giorgio Linguaglossa

È un invito a leggere l’Antologia How The Trojan War Enden I Don’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019, a cura di Giorgio Linguaglossa con Prefazione di John Taylor, traduzioni di Steven Grieco Rathgeb) come un abitare il nostro mondo, o quella piccola parte di mondo che noi siamo e che siamo soltanto per mezzo delle parole. Sono le parole che ci dischiudono un mondo, senza di esse non sapremmo neanche nulla di questo mondo. Ecco, il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada, che esplora gli Holzwege e gli Irrwege.

Abitare non equivale a venire alla presenza ma ek-sistere nella temporalità e nello spazio, e questo è possibile soltanto mediante la forma.
Alla fine della metafisica si scopre che la fine è nient’altro che un nuovo inizio. Solo che esso è irriconoscibile. Il lessico, la struttura grammaticale della nuova metafisica, della metafisica che viene dopo la metafisica, è, di fatto, irriconoscibile.

 Andrea Brocchieri

Alla fine della metafisica, attraverso una risonanza (Anklang)  retroflette l’essere indietro nel tempo, la fine s’incontra con il suo momento iniziale.
In questo incontro l’essere non appare più solo come l’uniforme presenza dell’ente, ma – all’inverso di quel che risaltava nel primo principio – ora emerge e prende rilievo l’essere come assenza (Ab-wesenheit), come sottrazione (Entzug). Questo è ora l’elemento dominante, ciò che è da pensare. La storia della metafisica si spinge oltre se stessa (Sprung), si retroflette e ricade indietro, spezzando l’ordine del suo tempo cronologico; questa frattura (Zerklüftung, Kluft) nell’essere fa insieme emergere (1) l’essere come assenza e (2) la possibilità dell’altro principio, vale a dire del principio di un altro mondo storico. Il gioco passa all’altro principio (Zuspiel).

Si tratta anche qui di “saltare” attraverso questa frattura storica che ci consentirebbe di raggiungere la nostra propria origine, di er-eignen (raggiungere) il luogo (Ort) da cui siamo venuti e da cui – in ogni caso – ripartiremo. Er-eignis, in senso “seinsgeschichtlich”, indica questo evento del ricongiungimento con il luogo originario, l’autentica Heimat dell’Occidente, cioè l’esserCi pensante del primo pensiero greco. Qui Heidegger ripresenta la dinamica della possibilizzazione di Sein und Zeit esplicitandone il senso storico, ovvero la ribalta sul piano non prioritariamente esistenziale ma prioritariamente della storia dell’essere. Da questo punto di vista l’Ereignis è il gioco che possibilizza il mondo storico. Continua a leggere

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Una poesia inedita di Marina Petrillo e Donatella Giancaspero. Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, Due Interviste di Gino Rago sul Novecento poetico italiano, Futurismo, Ungaretti, Montale, Sanguineti, Cardarelli, Pavese, Nuova ontologia estetica

Foto selfie e foto varie

 

Una poesia inedita di Marina Petrillo

Un io gestatorio decaduto, morto al concetto di eterno.
Non rimane alcun frammento,

solo cellule amebiche poste ai limiti di un firmamento finito.
Inibita ogni azione,

anche la nascita. Memorie dissolte
in operoso dialogo interiore, lo sguardo volto e avvolto,

a stele di vento acido.
Inquieti i bambini vivono in universi paralleli,

gestatori, di cui smarrita è la memoria.
Non regna ascensione,solo litania prossima al vivere.

Il mistero, nel piangere bianco,
inclinato asse nella acquiescente vita abdicata.

Pericola il cardine posto a suggello di un dio imploso:
catastrofe morta al suo stesso suono.

Una poesia di Donatella Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate 
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi 
ritmati di prima – gli stessi – 
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra 
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.

Giorgio Linguaglossa

Il paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento

Dalle interviste immaginarie di Gino Rago sulla poesia italiana del novecento quello che emerge è la straordinaria rettilineità dello sviluppo della poesia italiana del primo e secondo novecento (sembrano due secoli diversi), nel senso che ad una azione segue una reazione violenta ed oppositrice, che poi rifluisce naturalmente nell’alveo della tradizione. Il «nuovo» rifluisce tranquillamente nell’«antico». Questa è la vera damnatio memoriae della poesia italiana del novecento. Anche Sanguineti dopo il rivoluzionario libro d’esordio, Laborintus (1956), ritorna al paradigma della poesia del Pascoli, in un certo senso dimidiando e nullificando lo sforzo dell’opera d’esordio. Così anche Cesare Pavere dopo Lavorare stanca (1936) perde il bandolo della matassa, non sa più in che direzione proseguire e ritorna alla poesia lirica di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi (1951) che, francamente, poteva farne a meno, un’opera lirica inutile che sconfessava l’opera d’esordio e segna il ritorno all’antico petrarchismo della poesia italiana.

Sei la vita e la morte.
Sei venuta di marzo
sulla terra nuda –
il tuo brivido dura.
Sangue di primavera
– anemone o nube –
il tuo passo leggero
ha violato la terra.
Ricomincia il dolore.

Il Futurismo, dopo lo scoppio improvviso e deflagrante del Manifesto del 1907, finisce subito dopo per rientrare nei ranghi della tradizione, ed ecco che spuntano fuori i crepuscolari e, in seguito, negli anni trenta il ritorno all’ordine de La Ronda con Cardarelli come capofila…

Come dire, c’è una linea di continuità della poesia italiana del novecento (primo e secondo) che si può spiegare con l’incapacità di trovare il percorso per un rinnovamento profondo e duraturo della poesia e delle sue istituzioni stilistiche. Una linea di continuità che si sviluppa attraverso segmenti di discontinuità che approdano alla fin fine nella continuazione della continuità conservatrice. Una continuità assicurata dalle discontinuità. C’è una sorta di paradigma della conservazione della poesia italiana del novecento, in linea con il conservatorismo della comunità nazionale e dei suoi esiti politici pur nella rottura avutasi con il fascismo, anzi, il fascismo con quel ventennio di stasi del libero dibattito e della libera ricerca intellettuale ha finito per aggravare certe caratteristiche conservatrici della poesia italiana del novecento.

Se aggiungiamo i trasformismi e i minimalismi di questi ultimi decenni, il quadro è completo. Il trionfo del conservatorismo elegiaco e minimalista ne è il necessario (storicamente) complemento. La fioritura del postruismo poetico epigonico di questi ultimi decenni e dei giorni nostri ne è la riprova più evidente.

Gino Rago
Novecento poetico italiano/7
Breve visita a un Redattore della Pagina Culturale di un quotidiano romano
(Poesia italiana de l’entre-deux-guerres, Ermetismo)

Domanda:
L’ermetismo, la poesia italiana de l’entre-deux-guerres

Risposta:
L’ermetismo, idea e stile direi ‘proverbiali’ del Novecento poetico italiano nella prima metà del ‘900, più precisamente come lei suggerisce fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, oltre che scorciatoia nel tentativo di interpretazione della modernità poetica, ha avuto il grave torto di mettere a lungo in ombra altri modi diversi di fare poesia.

Domanda:
Per lungo tempo la poetica ermetica ha occupato il centro del Novecento poetico

Risposta:
E’ vero e finché la poetica ermetica è rimasta centrale ha dato a tutti l’impressione di essere la “norma”

Domanda:
Secondo i Suoi studi dove indagare per trovare le ragioni di tale fenomeno

Risposta:
L’ermetismo è stato guardato e sentito come unico erede di tutta la scuola poetica europea più innovativa, direi dal Romanticismo tedesco al Surrealismo, e per questa ragione tutto il resto e tutti gli altri modi di far poesia di conseguenza sembrarono “anomalie”.

Domanda:
Con il minimo numero possibile di parole l’ermetismo italiano è stato…

Risposta:
Astrazione dalla realtà, intellettualismo, onirismo e visionarietà, aggressione alle strutture logiche della lingua comunicativa e aggressione al realismo sentimentale della tradizione letteraria, e altro

Domanda:
L’ermetismo, un fatto poetico soltanto italiano?

Risposta:
La poetica ermetica prima brevemente tratteggiata acquistò prestigio internazionale e divenne famosa anche per una serie di teorizzazioni ricche di fascino come quelle di Friedrich e di Raymond.

Domanda:
E in Italia?

Risposta:
Citerei per ora Giovanni Macchia, parlò degli ermetici come poeti di una generazione “senza maestri”, una generazione per la prima volta estranea a Carducci e soprattutto estranea a Pascoli e a D’Annunzio.

Domanda:
I maestri dunque non più i soliti e non più italiani…

Risposta:
I ‘maestri’, se di maestri è il caso di parlare, per la prima volta nella storia della poesia italiana erano soprattutto non italiani. E il solo riferimento poetico italiano possibile sembrò Leopardi.

Dovrei citare anche altri autori e altri studi, ma ora non posso, devo ultimare la correzione delle bozze di un lungo articolo-saggio che necessariamente dovrà apparire domani nel Supplemento di Cultura… 

Giorgio Linguaglossa

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Dialoghi, Commenti e Interviste a Montale e a una studiosa di poesia del Novecento del 26 marzo 2019, Interventi di Ludwig Wittgenstein, Michel Meyer, Anna Ventura, Gino Rago, Mauro Pierno, Sabino Caronia, Giorgio Linguaglossa, 

Gif gambe camminano

Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 9:32

Il grande merito della NOE è quello di tentare un discorso importante con pochissimi mezzi economici,”Noi facciamo la politica della busta rivoltata”, diceva l’avvocato Nino Carloni, uno dei grandi fondatori della gloriosa Società dei Concerti aquilana, E Machiavelli: ”Della mia buona fede è prova la mia povertà”. Il terremoto aquilano ha provveduto a privarmi di un patrimonio immobiliare notevole, per cui oggi vivo a Montesilvano, in quelle che era una casa di vacanza. Però ho guadagnato il mare.

Gino Rago

Novecento poetico italiano/2

Una conversazione al Caffè Greco di Roma con una studiosa di poesia italiana

Domanda:

E’ possibile secondo i Suoi studi stabilire una data di nascita per il Novecento poetico italiano?

Risposta:

Sembra un paradosso, ma si può dire che la poesia italiana del ‘900 ha inizio nell’Ottocento

Domanda:

Può essere, mi perdoni, più precisa

Risposta:

Con i poeti italiani nati fra il 1880 e il 1890, da Saba, Campana e Gozzano a Palazzeschi e Ungaretti, appare del tutto evidente che la cosiddetta “opposizione” all’Ottocento in fondo continua a convivere con la continuità e con la ripresa ironico-sentimentale di forme ancora ottocentesche.

Domanda:

Perché, in che senso, questi poeti procedono allo stesso modo?

Risposta:

No. Possiamo dire che per un versante si procede per estremistica semplificazione alla abolizione della letterarietà tramandata, è il caso di Palazzeschi, ma anche di Ungaretti; per un altro versante invece si lavora a un assai ampio ed esibito, perfino esibito, riuso di quel linguaggio poetico già accettato e noto come linguaggio convenzionalmente poetico (di certo Saba e Gozzano, ma anche, sebbene parzialmente, Cardarelli e Sbarbaro).

Domanda:

Secondo Lei dove è possibile trovare le ragioni di queste due modalità di procedere

Risposta:

Non vi è dubbio che tutti i poeti italiani che hanno inventato la poesia novecentesca, lo ripeto, quelli nati negli anni ottanta dell’Ottocento, hanno iniziato a scrivere quando la scena letteraria e poetica era totalmente dominata da Pascoli e D’Annunzio, quando cioè all’inizio del Novecento Pascoli aveva 45 anni, essendo nato nel 1855, e D’Annunzio 37, essendo nato nel 1863.

Le dico di più, sia l’uno, Pascoli, sia l’altro, D’Annunzio, disponevano di una vastità di pubblico, di fama e di prestigio che nessun altro poeta riuscirà più a conquistare dopo di loro nella stessa misura.

Domanda:

Le ombre pascoliane e dannunziane sono durate a lungo

Risposta:

Sì, sono durate per lunghissimo tempo. Basti ricordare che ancora negli anni ’50 del Novecento era piuttosto raro che nelle scuole italiane si parlasse di Ungaretti e di Montale…

Domanda:

Perché secondo Lei, secondo gli studi da Lei condotti

Risposta:

Perché Ungaretti e Montale erano considerati dalla stragrande maggioranza degli insegnanti di quegli anni poeti astrusi, difficili, alla cui comprensione venivano richieste giustificazioni e/o premesse storico-ideologico-letterarie … “complesse”

Domanda:

La poesia moderna per imporsi e avere un pubblico ha dovuto aspettare a lungo

Risposta:

Anche quando le più giovani generazioni di poeti li consideravano superati per umanesimo virgiliano, Pascoli, per umanesimo superomistico, D’annunzio, ma sorpassati anche per quel macchinoso apparato formale di provenienza classicistica, Pascoli e D’Annunzio hanno continuato a occupare in lungo e in largo il Novecento poetico italiano.

Domanda:

Una spiegazione la troverei nei professori di allora, ai quali Pascoli e D’Annunzio piacevano entrambi

Risposta:

E’ vero, a quei professori piacevano entrambi perché in fondo Pascoli e D’Annunzio dimostravano che una tradizione secolare, millenaria, era ancora viva, non aveva subito interruzioni.

Ma non piacevano soltanto ai professori.

Pascoli e D’Annunzio piacevano anche ai ceti medio-bassi e medio-alti se non altro come modelli morali e ideologici.

Più precisamente, Pascoli arrivava alla piccola borghesia, alle donne, ai socialisti; D’Annunzio era invece preferito dagli snob, dai prefascisti, dai fascisti e da quelle che allora chiamavano “le femmine di lusso”.

E da poeta e scrittore prolifico, e precoce, D’Annunzio seppe tenere a lungo occupati critici come Praz, Borgese, Giacomo Debenedetti, prima di sparire sotto le rovine dello stesso “dannunzianesimo” (retorica, stile d’epoca, moda,sommerso dalle rovine della sua stessa creazione estetica…)

Domanda:

E il destino di Pascoli?

Risposta:

Il destino di Pascoli è stato diverso …

Dovrei tirare in ballo Giacomo Debenedetti e le lezioni che gli dedicò negli anni accademici 1953-’55, Cesare Garboli e anche Pasolini.

Ma oggi non ho tempo sufficiente per farlo,mi aspetta una tesista molto motivata, merita di essere curata… E’ già pronto il taxi per andare alla

Sapienza. E’ una tesi di laurea su Govoni…

eugenio montale 2

Giorgio Lingua Glossa 25 marzo 2019 alle 11:25

Dalla prefazione al Tractatus logico-filosoficus di Wittgenstein

Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è, dunque, un manuale –.

Conseguirebbe il suo fine se procurasse piacere ad almeno uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all’espressione dei pensieri: ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può).

Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […]

Se quest’opera ha un valore, il suo valore consiste in due cose. In primo luogo, pensieri son qui espressi; e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri saranno espressi. Quanto più si sia còlto nel segno. – Qui so d’essere rimasto ben sotto il possibile. Semplicemente poiché la mia forza è ímpari al cómpito. Possa altri venire a far ciò meglio.

Invece, la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e irreversibile.

Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l’essere questi problemi risolti.

(L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, ed. it. a cura di A. Conte, Torino: 1998, pp. 23 sgg.)

*

Dalla prefazione alle Ricerche filosofiche:

I pensieri che pubblico nelle pagine seguenti costituiscono il precipitato di

ricerche filosofiche che mi hanno tenuto occupato negli ultimi sedici anni. Essi riguardano molti oggetti: il concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, i fondamenti della matematica, gli stati di coscienza, e altre cose ancora.

Ho messo giù tutti questi pensieri sotto forma di osservazioni, di brevi paragrafi.

Alcuni di essi sono disposti in lunghe catene e trattano il medesimo soggetto; alcuni altri cambiano bruscamente argomento, saltando da una ragione all’altra. – In principio era la mia intenzione di raccogliere tutte queste cose in un libro, la cui forma immaginavo di volta in volta diversa. Essenziale mi sembrava, in ogni caso, che i pensieri dovessero procedere da un soggetto all’altro secondo una successione naturale e continua.

Dopo diversi infelici tentativi di riunire in un tutto così fatto i risultati a cui ero

pervenuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio che potessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato di osservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. – E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni. –

Le osservazioni filosofiche contenute in questo libro sono, per così dire, una raccolta di schizzi paesistici, nati da queste lunghe e complicate scorribande.

Gli stessi (o quasi gli stessi) punti furono avvicinati, sempre di nuovo, da direzioni differenti, e sempre nuove immagini furono schizzate. Un gran numero di esse erano state abbozzate in malo molo, o non riuscivano a cogliere le caratteristiche del soggetto, contrassegnate com’erano da tutte le manchevolezze che rivelano il cattivo disegnatore. E quando le scartai ne rimasero un certo numero, riuscite a metà, che dovettero essere riordinate e spesso tagliate, in modo da poter dare all’osservatore un’immagine del paesaggio. – Così questo libro è davvero soltanto un album. […]

Per più d’una ragione quello che pubblico qui avrà punti di contatto con quello che altri oggi scrive. – Le mie osservazioni non portano nessun marchio di fabbrica che le contrassegni come mie – così non intendo avanzare alcuna pretesa sulla loro proprietà.

Le rendo pubbliche con sentimenti dubbiosi. Che a questo lavoro, nella sua

pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o in quel cervello, non è impossibile; ma che ciò avvenga non è certo probabile.

Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.

Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andato così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.

(Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino: 1999, pp. 3sgg.)

*

“Per una prefazione” (da un manoscritto)

Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto. […]

Infatti, se un libro è scritto per pochi soltanto, questo lo si vedrà proprio dal fatto che saranno in pochi a capirlo. Il libro deve operare automaticamente la separazione fra coloro che lo capiscono e coloro che non lo capiscono. […]

Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri.

(L. Wittgenstein, Pensieri diversi, ed. it. a c. di M. Ranchetti, Milano: 1980, pp. 24, sgg.)

Gino Rago

Novecento poetico italiano/3

Intervista immaginaria a Eugenio Montale

(su Ossi di seppia, 1925, e Le Occasioni, 1936)

Domanda:

Su Ossi di seppia con poche, necessarie parole, arte nella quale Lei ha dimostrato d’essere Maestro, non soltanto per me, ma per tutti i lettori di poesia, vorrei sentire il Suo parere …

Risposta:

Quando cominciai a scrivere le prime poesie degli Ossi di seppia avevo certo un’idea della musica nuova e della nuova pittura. Avevo sentito i Ministrels di Debussy, e nella prima edizione del libro c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: Musica sognata. E avevo scorso gli Impressionisti del troppo diffamato Vittorio Pica. Nel ’16, nel 1916, avevo già composto il mio primo frammento tout entier à sa proie attaché: Meriggiare pallido e assorto (che modificai più tardi nella strofa finale). La preda era, s’intende, il mio paesaggio.

Domanda:

Quale idea allora di poesia…

Risposta:

Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto … Un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo… Non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un’occasione. In questo senso è prodigioso l’insegnamento di Foscolo, un poeta che non s’è ripetuto mai.

Domanda:

Già nel Suo primo libro poetico Ossi di seppia (1925) Lei mostrava insofferenza verso un modo italico di fare poesia.

Risposta:

Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto… All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una contro eloquenza.

Domanda:

In Ossi di seppia si sente dappertutto il mare, un mare in contrasto con la lingua di allora…

Risposta:

Negli Ossi di seppia tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga. E anche nel nuovo libro ho continuato la mia lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico, che mi pareva rifiutarsi a un’esperienza come la mia … Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianto.

Domanda:

E su Le Occasioni

Risposta:

Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta.

Domanda:

Esprimere l’oggetto tacendo l’occasione-spinta …

Risposta:

Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi.

Domanda:

A quale frutto Lei ha pensato per Le Occasioni

Risposta:

Le Occasioni… Erano un’arancia, o meglio un limone a cui mancava uno spicchio: non proprio quello della poesia pura nel senso che ho indicato prima, ma in quello direi della musica profonda e della contemplazione.

Domanda:

Che ruolo attribuisce nella economia poetica generale de Le Occasioni a Finisterre

Risposta:

Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre perché rappresentano la mia esperienza, diciamo così, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia, la chiami come vuole, dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria. Si tratta di poche poesie, nate nell’incubo degli anni ’40-42‘, forse le più libere che io abbia mai scritte ….

Domanda:

Su La Bufera e altro torniamo in un secondo momento, se Lei è d’accordo. Ora mi intriga di più sentire da Lei stesso, dalla Sua viva voce, cosa è successo alla Sua poesia, cosa si è verificato nel Suo fare poetico, dopo Satura

Visibilmente contrariato, Montale non risponde, si alza di scatto e mi indica la porta invitandomi a uscire…

Anna Ventura 25 marzo 2019 alle 14:03

Caro Gino,

la tua intervista a Montale ha aspetti interessanti, suggerisce, anche, possibili ampliamenti, data la complessità dell’opera montaliana. Il tuo, intanto, è un buon inizio verso la riscoperta dei nostri maggiori poeti, spesso più famosi che letti, e spesso fraintesi. Su Montale c’è una lettura critica sterminata, talvolta anche fuorviante. Un caro saluto.

Gino Rago

25 marzo 2019 alle 16:46

Grazie carissima Anna. Aggregare intorno a un proprio lavoro del consenso e/o qualche scheggia di apprezzamento per chi scrive lo sai bene anche tu è davvero aria pura da bere a pieni polmoni. Se poi consenso e apprezzamento arrivano da una persona di valore come te, credimi, la gioia si raddoppia. Ma lo confesso:il catalizzatore in tutti questi anni di collaborazione a L’Ombra è stato il nostro Giorgio Linguaglossa…

Giorgio Linguaglossa 25 marzo 2019 alle 17:42

Non è affatto semplice né accessibile a tutti giungere ad una nuova forma-poesia. Io ho iniziato a cercare in tutte le direzioni dalla fine degli anni ottanta, infatti nei miei primi due libri: Uccelli (1992) e Paradiso (2000) le singole sezioni sono scritte con linguaggi lievemente differenti e con stilizzazioni diverse. Il fatto è che non mi sono mai fermato ad un linguaggio, ho sempre tentato di forzare il «muro» del linguaggio poetico per andare in territori linguistici sconosciuti.

Fare questo lavoro da soli è quasi impossibile ve l’assicuro, adesso che siamo in tanti e che le forze sono maggiori, l’impresa è meno ardua. Ci si confronta, si discute, si tentano delle cose che da soli sarebbe più difficile fare.

Ad esempio la poesia che ho postato sono quattro anni che la sottopongo a revisioni e a modifiche, magari di dettaglio, di alcuni dettagli… ma alla fine la somma dei dettagli è quella che fa la differenza. Le poesie che facciamo un po’ tutti quanti della NOE sono in realtà poesie-polittico, sono delle composizioni, non più poesie nel senso tradizionale, la composizione è per eccellenza una struttura aperta… mutagena…

Pasolini e Ungaretti

Gino Rago 26 marzo 2019 alle 8:54

Novecento poetico italiano/4

Brevissimo colloquio immaginario con Montale

(sull’esordio in poesia con Gobetti, l’identificazione con gli avversari)

Domanda:

Accantonando per ora l’autoritratto diciamo “trasposto” di Arsenio e il poemetto-monologo potremmo dire “raziocinante” de I limoni, ricordo che Lei esordisce in un momento problematico, difficile per la poesia

Risposta:

Sentivo di esordire in un clima e in un momento non facili per un poeta. Eravamo agli inizi degli anni ’20 del Novecento e si avvertiva la necessità di dover dare subito una idea forte del proprio stile e anche di se stessi.

Ma in me non ci fu mai una infatuazione poetica, né alcun desiderio di ‘specializzarmi’ in questo senso. In quegli anni quasi nessuno si occupava di poesia e l’ultimo successo in quei tempi di cui abbia ricordo fu Gozzano.

Domanda:

Gozzano… Ma gli spiriti forti di allora…

Risposta:

Ma gli spiriti forti di allora dicevano male di lui e (a torto) anche io ero di quel parere.

I letterati migliori di quegli anni, che presto si riunirono intorno alla Ronda, sostenevano che la poesia dovesse scriversi da quel momento in poi in prosa.

Né dimentico che pubblicati i miei primi versi nel Primo Tempo di Giacomo Debenedetti fui accolto con ironia dai miei pochi amici, già immersi nella politica e, dal più al meno, già antifascisti, verso il ’22- ’23.

Domanda:

Potremmo dedurne che difficoltà di situazione generale e insufficienza di fede nella autoidentificazione specializzata di poeta si sommano in coincidenza dei Suoi esordi in poesia

Risposta:

Deduzione pienamente corrispondente alla verità dei fatti. Includerei soltanto quella che la psicologia definisce “identificazione con l’aggressore”

Domanda:

Intuisco il senso di ciò che dice ma può per noi essere più chiaro?

Risposta:

Sulla “Identificazione con l’aggressore”?

Direi così: se gli altri tendono a fare della ironia sul fatto che scrivo poesie, sarò io stesso a scriverle in modo da far sentire sfiducia e ironia su me stesso e anche sui poeti e sulla poesia in generale, almeno per come è volgarmente, comunemente intesa…

Domanda:

Non riesco a nascondere il mio chiodo fisso… Satura, meglio il dopo Satura… Per la Sua poesia e per la poesia italiana del dopo Satura. A un cenno del capo di Montale entra nella stanza la Gina. Capisco e tolgo il disturbo. Continua a leggere

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Intervista di Gino Rago ad un noto critico letterario, È leggibile la poesia italiana del novecento?, una Dichiarazione del filosofo Maurizio Ferraris, Poesie di Giorgio Linguaglossa e Mario M. Gabriele, Un Dialogo

gif due gambe due tacchi

È leggibile la poesia italiana del novecento?

Gino Rago
È leggibile la poesia italiana del Novecento?,
Un rapido colloquio con uno studioso di poesia italiana

Domanda:

A questo punto preciso in cui siamo, cioè prossimi ai quasi 20 anni del Duemila, potremmo forse chiederci senza pudori né remore scolastiche: è leggibile, e in che misura è leggibile, la poesia del Novecento?

Risposta:

La domanda, il dubbio sembrano fatti apposta per parlare di Guido Gozzano. Non solo di lui, ma soprattutto di lui, che con Saba è stato il più “ottocentesco” dei primi poeti del Novecento.

Domanda:

In che senso ?

Risposta:

Nel senso che in loro la modernità, per quanto si annunciasse con chiari segni (culturali, sociali, politici) non è stata un programma. Dietro i loro versi non c’è un’idea nuova di poesia.

Domanda:

Perché, si spieghi meglio…

Risposta:

La loro è anzitutto una situazione personale, che come tale viene descritta in dettaglio e con il minimo di censure letterarie. Dietro la loro poesia c’è un diario, ci sono confessioni, descrizioni dal vero e racconti da mettere in versi che abbiano una riconoscibile musica di versi, anche a costo di sembrare una nostalgica o umoristica parodia della poesia.

Domanda:

Saba e Gozzano, sono tante le analogie fra i due?

Risposta:

Le analogie fra Gozzano e Saba tuttavia finiscono presto: si limitano al loro istinto di trascinare l’Ottocento nel Novecento, ripeto l’Ottocento nel Novecento, un Ottocento piuttosto innocente, visto in una luce di crepuscolo benché evocato con un nitore da riproduzione fotografica.
Con queste ultime parole mi riferisco più a Gozzano che a Saba. E’ Gozzano che parla di pirografie, di cartoline, di dagherrotipi.

Domanda:

Volendo soffermarci su Gozzano, in tanti hanno parlato di alto grado di leggibilità della sua poesia.

Risposta:

L’alto grado di leggibilità di Gozzano è dovuto a procedimenti visivi minuziosamente descrittivi, da novella versificata.
L’intero repertorio stilistico della narrativa viene trasferito in un genere di poesia che tende irresistibilmente al poemetto: c’è una scenografia, è in corso una scena, ci sono personaggi, incontri, dialoghi, episodi e aneddoti.

Domanda:

Forse anche con un pizzico di psicologia.

Risposta:

Sì, ma c’è quella psicologia che è necessaria sia al ritratto sia alla introspezione del personaggio-poeta.

Domanda:

Si riferisce a La signorina Felicita.

Risposta:

E’ proprio quella psicologia sulla introspezione del personaggio-poeta che fa della composizione più famosa di Gozzano, La signorina Felicita, ovvero la Felicità, una novella in versi romantica “fuori tempo”, con la perfetta, forse troppo perfetta, tipizzazione della ragazza semplice e dell’avvocato sognatore, sentimentale sì ma incapace di sentimenti.

Domanda:

D’Annunzio e Pascoli sullo sfondo.

Risposta:

Appena un passo più in là rispetto al voracissimo esteta D’Annunzio, e a Pascoli, quasi un sismografo letterario iperpercettivo e insieme ossessivo.

Domanda:
Quindi Gozzano è con loro…

Risposta:

Gozzano è lì con loro ed è altrove. È meno letterato e più borghese. Non è né un malato professore di lettere né un avventuriero a caccia di piaceri inimitabili. Metricamente è meno curato, esibisce una certa nonchalance o inabilità formale.

Domanda:

Gozzano rispetto a Pascoli.

Risposta:

Il principe dei critici stilistici italiani, Gianfranco Contini, nota che le capacità tecniche di Gozzano, che a qualcuno sono sembrate o possono sembrare virtuosistiche, risultano abbastanza approssimative se confrontate con quelle eccezionalmente colte di Pascoli.

Domanda:

Vale soltanto per Gozzano verso Pascoli?

Risposta:

I poeti del Novecento italiano, che hanno spesso voluto presentarsi formalisticamente sofisticati, mostrano di aver perso competenza metrica, anche se cercano a volte di ottenere effetti di sorpresa violando regole che non erano più capaci di padroneggiare (la stessa cosa si può dire per la musica e soprattutto per le arti visive).

Domanda:

Tanta critica riconosce ancora a Gozzano un forte patrimonio di risorse comunicative.

Risposta:

Le risorse comunicative di Gozzano sono dovute a un esperimento riuscito nell’accostare, magari con qualche intenzionale goffaggine, il prosastico e il poetico, il parlato borghese e un’ostentata vocalità metrica. È come se scrivesse recitando da letterato, ma per essere letto anche, se non soprattutto, da non letterati.
La sua poesia, i suoi versi allestiscono una perfetta messa in scena, un teatro al quale il lettore-spettatore non può resistere.
Basta citare poche strofe e si entra subito nel gioco, in medias res, davvero in mezzo alle cose, ai fatti, letteralmente, secondo la regola che Orazio prescrive al poeta epico.

Domanda:

E infatti: “Signorina Felicita a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa…”

Risposta:

E così per stare al suo gioco scende il ricordo nel cuore amico e poi la cerulea Dora, e Ivrea… E il dolce paese che non dico.

Domanda:

E su Saba?

Risposta:

Se Lei vuole, di Saba parleremo in qualche altra occasione, ora sto per andare a Nemi, per la sagra delle fragole

Maurizio Ferraris

23 marzo 2019 alle 12.58

…a proposito del contenuto di verità di un discorso (incluso anche del discorso poetico, con i suoi generi e sotto generi) vorrei citare questo brano del filosofo Maurizio Ferraris il quale traccia una linea di demarcazione all’interno del concetto di «verità» nel mondo attuale (g.l.):

«Benvenuti nella postverità… la continuità fra postmoderno, populismo e postverità è diretta. Proprio per questo il postmoderno guarda al postruista con gli stessi occhi con cui guarderebbe la propria caricatura, e riduce la postverità a una bugia ordinaria, come ce ne sono sempre state. Ora, sostenere che non c’è niente di nuovo nella postverità non è diverso dal dire, nell’Inghilterra del primo Ottocento, che dopotutto macchine, soldi e operai ce ne sono sempre stati, dunque che cosa c’è di nuovo?
[…]
i postruisti superano di slancio la contraddizione [ndr verità-non verità] diversamente dai postmoderni non dicono che bisogna abbandonare la verità ma, al contrario, che di verità ce ne sono tantissime, parallele e alternative le une rispetto alle altre. Poi, con una mossa carica di conseguenze, enunciano il principio fondamentale della postverità: tutte le verità sono eguali, ma alcune sono più uguali delle altre, ossia nella fattispecie sono più vere e indiscutibili.

Non sena ironia, se i postmoderni si erano battuti per rendere possibile una conversazione ampia e virtualmente ininterrotta (anche con effetti lievemente comici: quanto ci sarà da dire? Non sempre siamo sulla transiberiana e dobbiamo ingannare il tempo, e oltretutto ora ci sono i telefonini e i tablet), i postruisti interrompono la conversazione alla prima obiezione, dando del bugiardo, o del venduto, o del furfante al loro interlocutore. Se la società ideale dei postmoderni era un intrattenimento infinito fra tante Sheherazade e altrettanti sultani che prima o poi morivano di sonno, la società reale dei postruisti è una cacofonia di tweet e di post in cui tutti si danno sulla voce mettendo a tacere la conversazione dell’umanità a cui i postmoderni avevano sacrificato la verità.

Ho appena parlato di “verità alternative”, come se la postverità non fosse che questo. Ma non è così…». Continua a leggere

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Cinque poesie inedite di Petr Král (1941), Ce qui s’est passé – Testi originali in ceco e francese, traduzione in italiano a cura di Giorgio Linguaglossa e Edith Dzieduszycka –  L’«io», la «coscienza» e la «coscienza automatica», – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Bambino e luna

Talvolta tuttavia si trascorreva l’estate in città facendo sul viale insieme ad altri orfani/ la coda

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collabora a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su “Le Monde e cinematografiche” su “L’Express”. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’”Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales” e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Gif pioggia a Parigi

Anche da Parigi si partiva in seguito non era necessario sapere alla ricerca di che cosa perché fosse necessario

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Una vastissima parte, anzi, la quasi totalità delle nostre esperienze sono esperite senza che la «coscienza» intervenga in prima persona, ma semmai essa interviene in modo autonomo e automatico. Rarissimi sono i casi della nostre esperienze nei quali interviene una mente cosciente cui abitualmente diamo il nome di «io». Questo fatto è evidentissimo quando guidiamo una automobile. Durante l’attività di guida possiamo conversare amabilmente con il nostro vicino, possiamo pensare alla lezione che abbiamo appreso il giorno prima, senza per questo che la guida ne venga disturbata, è come se ci fossero due «coscienze» una in stato di sonno che organizza la guida e una in stato di veglia, che ripensa al libro che abbiamo studiato il giorno prima. Di fatto, è evidente che noi guidiamo con una «coscienza automatica». Di fatto, la «coscienza» è del tutto inutile per lo svolgimento delle attività e dei calcoli di tutti i giorni, anzi, a volte l’impiego della coscienza potrebbe rallentare il calcolo delle azioni che stiamo facendo, come accade al un pianista che muove tutte e dieci le dita in modo meravigliosamente armonico senza che intervenga la coscienza a governare i movimenti delle dieci dita e dei pedali del pianoforte. In tutte queste attività la coscienza è perfettamente inutile, anzi, è superflua.

L’io non è la sede della coscienza, come comunemente si crede, l’io è una metafora che indica uno spazio mentale dove noi, per semplicità, poniamo l’accadere di alcune cose con il coinvolgimento della coscienza. Ma ciò è inesatto, la «coscienza» non ha sede nell’io, anzi, verosimilmente essa non ha una propria residenza, non ha un «luogo» e un indirizzo dove abita. Possiamo pensare alla coscienza come una nuvola che sta in tutte le cose, ma non è necessario affatto pensare che le cose abitino in questa nuvola, essa nuvola c’è e non c’è… interviene solo in alcuni rarissimi casi…

«Una parola così poco metaforica come il verbo inglese “to be” (essere), fu generata da una metafora. Essa deriva infatti dal sanscrito bhu, (crescere o far crescere), mentre le forme inglesi am, (io sono), e is, (è), si sono evolute dalla stessa radice del sanscrito asmi (respirare). Fa piacere scoprire che la coniugazione irregolare del verbo inglese più banale conserva un ricordo del tempo in cui l’uomo non possedeva una parola a sé per «esistenza» e poteva dire solo che qualcosa «cresce» o «respira». Ovviamente, noi non siamo coscienti che il concetto di essere è generato in tal modo da una metafora riguardante la crescita e la respirazione. Le parole astratte sono antiche monete le cui immagini concrete sono state logorate dall’uso nel continuo scambio del discorso». 1]

Nelle poesie che seguono di Petr Král abbiamo un mirabile esempio di scrittura poetica «semiautomatica», pensata sul filo di una coscienza non cosciente, o meglio, della coscienza semiautomatica che è in atto in noi in ogni momento della nostra giornata, ed anche nei sogni. La scrittura poetica di Petr Král è molto vicina a quella cosa che noi pensiamo debba essere la poesia di oggi: una scrittura che nasce dalla memoria semiautomatica della coscienza irriflessa, fitta di polinomi frastici instabili, nei quali sarebbe tempo perso andare a cercare il senso delle singole proposizioni o dell’insieme con un occhiale neoverista e neorealista, come è in uso nella tradizione della poesia italiana degli ultimi decenni. La promiscuità degli attanti e delle locuzioni che ne derivano è una caratteristica fondante di questo tipo di forma-poesia.

1] Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, 1976 p. 74

Herméneutique de Giorgio Linguaglossa – (traduzione di Edith Dzieduszycka)

Une large part, je dirais même la quasi totalité de nos expériences s’effectue sans qu’intervienne la “conscience” en première personne, mais a lieu de façon autonome et automatique. Rares sont les cas qui concernent nos expériences au cours desquelles intervient un esprit conscient que nous appelons habituellement “je”. Ceci est particulièrement évident lorsque nous conduisons une voiture. Ce faisant nous pouvons bavarder aimablement avec notre voisin, penser à la leçon apprise le jour avant, sans que pour autant notre conduite en souffre; il semblerait donc qu’il existe deux “consciences”, l’une en état de sommeil qui s’occupe de la conduite, l’autre en état de veille, qui repense au livre que nous avons étudié le jour avant. Il est donc évident que nous conduisons sous l’effet d’une “conscience automatique”. La “conscience” est ainsi complètement inutile au développement des activités et des calculs quotidiens; l’emploi de la conscience pourrait au contraire ralentir le calcul des actions que nous sommes en train d’accomplir, comme il arrive au pianiste qui remue les dix doigts de façon merveilleusement harmonieuse sans qu’intervienne la conscience à gouverner ses dix doigts e les pédales du piano. Pour toutes ces activités la conscience est parfaitement inutile, elle est même superflue.

Le “je” n’est pas le siège de la conscience, comme nous le croyons généralement; le “je” est une métaphore qui indique un espace mental où, par simplicité, nous posons sur le mme plan le fait que se produisent certaines choses et la participation de la conscience. Mais cela est inexact, la “conscience” ne siège pas dans le “je”, vraisemblablement elle ne possède au contraire aucune résidence propre, ni un   “lieu” ou une adresse où résidter. Nous pouvons penser à la conscience comme à un nuage présent en toutes choses, mais il n’est absolument pas nécessaire de penser que les choses habitent ce nuage, ce nuage existe, sì e no, il n’intervient que dans certains cas extrêmement rares…

“Une parole aussi peu métaphorique comme le verbe anglais “to be” (être), provient d’une métaphore. Elle dérive en effet du sanscrit bhu (croître ou faire croître), tandis que les formes anglaises am (je suis) e is (est), ont évolué à partir de la même racine du sanscrit asmi (respirer). Il est agréable de découvrir que la conjugaison irrégulière du verbe anglais le più banal conserve un souvenir du temps où l’homme ne possédait pas une parole en soi pour “existence” et pouvait seulement dire que quelque chose “croît” ou “respire”. Nous ne sommes évidemment pas conscients du fait que le concept d'”être” nait ainsi d’une métaphore concernant la croissance et la respiration. Les paroles abstraites sont des monnaies anciennes dont les images concrètes sont consumées par l’usage continuel du discours et de ses échanges”.

Dans les poésies ci-dessous de Petr Král nous avons un excellent exemple d’écriture poétique “semi-automatique”, pensée sur le fil d’une conscience non consciente, ou mieux encore, de la conscience semi-automatique qui fonctionne en nous à chaque instant de la journée, et également dans les rêves. L’écriture poétique de Petr Král est très proche de ce que nous pensons être la poésie d’aujourd’hui: une écriture qui nait de la mémoire semi-automatique de la conscience non reflétée, pleine de polynômes ….. instables, dans lesquels il serait inutile de perdre son temps à la recherche du sens de chaque proposition ou de l”ensemble, enfourchant des lunettes néo-véristes et néo-réalistes, comme celles employées dans la tradition de la poésie italienne des dernières décennies. La promiscuité des attants et des locutions qui en dérivent est une caractéristique fondamentales de ce type de forme-poésie.

Ce qui s’est passé de Petr Král, con pitture di Vlasta Voskovec, 2017.

Et voilà soudain il ne reste pas grand-chose Nadia fut trouvée noyée
sous une écluse  Prokop a fini de respirer malgré la bouteille d’oxygène
Karel Š. a disparu à jamais dans la forêt
Moi-même d’un seul coup d’œil retourné depuis les boîtes à lettres
vers l’escalier j’ai vu se dissiper d’emblée quarante ans de vie en France

Avec l’arrivée de Miloš vint une animation nouvelle une fois
il s’est levé pour marcher d’un pas incertain parmi les verres sur la table
sans savoir lui-même jusqu’où
Prokop pendant les séances de vendredi s’appuyait au mur
et pratiquait le théâtre tel qu’il l’a toujours voulu faire
dans ses seules paroles et grimaces

L’essentiel était de rendre rayonnante la rouille du monde
ou du moins d’être là quand en fin d’été
avec le soleil elle rentrait de biais dans les salles d’un bois

*

Ed ecco che all’improvviso non rimane gran ché Nadia fu trovata annegata
sotto una chiusa  Prokop ha finito di respirare malgrado la bombola di ossigeno
Karel Š. è scomparso per sempre nella foresta
Io stesso in un colpo d’occhio ritornato indietro dalle cassette della posta
verso le scale ho visto dissiparsi così quarant’anni di vita in Francia

Con l’arrivo di Miloš accadde una nuova animazione una volta
si alzò per camminare con un passo incerto tra i bicchieri sul tavolo
senza sapere egli stesso fin dove
Prokop durante le sedute del venerdì si appoggiava al muro
e praticava il teatro come ha sempre voluto farlo
con le sue sole parole e smorfie

L’essenziale era di rendere raggiante la ruggine del mondo
o almeno di essere lì quando alla fine dell’estate
con il sole tornava di sbieco nelle stanze d’un bosco

*

Il fallait disperser par le monde
même la mémoire sursaturée faire passer la mémorable
   [goutte d’un sang partagé fraternellement
sur son doigt devant le poussiéreux JE sans maître
dans un tunnel du métro parisien

De Paris aussi on partait par la suite il n’était pas nécessaire de savoir à la quête de quoi
pour que ce soit nécessaire
traîner la nuit vers Barcelone par des autoroutes désertes
dans un miroitement à perte de vue de flocons de neige
et d’étoiles çà et là longer en route des pêcheurs inconnus un boucher préludant dans un [verger à un affrontement décisif
avec sa propre planète de viande suspendue
au voyage de retour voir les miroirs
dressés au seuil des maisons près des frontières

Parfois cependant on passait l’été dans la ville faisant sur le boulevard avec d’autres orphelins
la queue pour le tabac pour la fin du dimanche
  [et pour rien
Les ambulances passaient sans s’arrêter peut-être en route vers une autre métropole
au ciel apparaissaient le soir de distants messages
sans destinataire
On avait alors laissé également derrière soi
des villes entières d’accessoires usés d’accordéons dégonflés de genouillères
et de balles de tennis éraflées
du fond le plus secret nous en parvenait jusqu’à l’éclat
d’une enclume mère immaculée
avant que quelqu’un ne commence à compter fermement
pour lancer le morceau suivant

*

Bisognava disperdere per il mondo
perfino la memoria soprasatura fare passare la memorabile
goccia d’un sangue fraternamente condiviso
sul suo dito davanti al polveroso IO senza padrone
in un tunnel della metropolitana parigina

Anche da Parigi si partiva in seguito non era necessario sapere alla ricerca di che cosa
perché fosse necessario
trascinare la notte verso Barcellona su autostrade deserte
in un luccichio a perdita d’occhio di fiocchi di neve
e di stelle qua e là costeggiare lungo la strada pescatori sconosciuti  un 
macellaio che prelude in un frutteto a uno scontro decisivo
con la sua propria pianeta di carne sospesa
al viaggio di ritorno vedere gli specchi
issati sulla soglia delle case vicino alle frontiere

Talvolta tuttavia si trascorreva l’estate in città facendo sul viale insieme ad altri orfani
la coda per il tabacco per la fine della domenica
e per niente
Le ambulanze passavano senza fermarsi, forse in marcia verso un’altra metropoli
nel cielo apparivano la sera lontani messaggi
senza destinatari
Si erano allora lasciati dietro di sé
intere città di accessori usati di fisarmoniche sgonfiate
di ginocchiere
e di palle da tennis graffiate
dal fondo più segreto ce ne giungeva fino allo scoppio
d’una incudine madre immacolata
prima che qualcuno non inizi a contare con fermezza
per lanciare il pezzo seguente

*

Standa me disait tu te protèges le visage
comme si la menace venait du dehors

On se penchait ensemble sur le jeu des petits papiers
tout come sur les cravates le clair-obscur s’écartait
ma celle en fibres de fougère restait enfouie à jamais
dans les année vingt

Après le toast de minuit le vieux Perahim tout à coup
regarda alentour d’un oeil interrogateur : Qu’allons-nous faire
avec le monde ?
Même de la Russie où jadis il avait fui Hitler
il a du plus tard presque s’échapper
Mayo bien qu’entouré à present
d’un monde de succédanés se nourrissait jusqu’à la fin
du beurre et des oeufs tels que dans un matin d’été
il les vit en Grèce étalés sur des chaises
au seuil des maisons près du port

Nous on regardait aussi parfois
en face nos maître et mentors
peu à peu jour aux premiers éclairs d’un orage
on part d’un rire soulagé au-dessus de l’assiette
vers laquelle on s’incline bien loin d’eux

*

Standa mi diceva tu proteggi il tuo viso
come se la minaccia venisse dall’esterno

Ci chinavamo insieme sul gioco dei piccoli giornali
come sulle cravatte il chiaroscuro si scostava
ma quella in fibra di felce restava seppellita per sempre
negli anni venti

Dopo il brindisi di mezzanotte il vecchio Perahim all’improvviso
si guardò attorno con un occhio interrogativo: Che cosa ne faremo
del mondo?
Perfino dalla Russia dove una volta era fuggito Hitler
ha dovuto più tardi quasi scappare
Mayo benché circondato adesso
da un mondo di succedanei si nutriva fino alla fine
di burro ed uova tal ché in una mattina d’estate
le vide in Grecia appoggiate su delle sedie
sulla soglia delle case accanto al porto

Anche noi a volte guardavamo
di fronte nostri maestri e mentori
a poco a poco ai primi lampi d’un temporale
iniziamo con una risata sollevata sopra il piatto
verso il quale ci si inchina ben lontano da loro

Onto Petr Kral

[Petr Král] Gli altri a volte venivano egualmente ad accoglierci alla stazione dei treni, sì…

* Continua a leggere

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Charles Simic  (1938) Poesie scelte, Traduzioni di Andrea Molesini, Damiano Abeni con uno stralcio di intervista. Con una glossa di Giorgio Linguaglossa, il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina

Foto Vivian Mayer dallo scompartimento

foto di Vivian Mayer

Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.

 In una intervista Simic dichiara:

“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico? 

Domanda:

A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…

Risposta:
“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.

Foto Miriam Mayer autoritratto

Vivian Mayer autoritratto

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Non sorprende che Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.

La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.

La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.

Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.

Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.

La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.

Gli amici di Eraclito

Il tuo amico è morto, quello con cui
giravi per le strade
a tutte le ore, parlando di filosofia.
Perciò, oggi sei andato solo,
fermandoti spesso per scambiarti di posto
con il tuo compagno immaginario,
e ribattere a te stesso
sul tema delle apparenze:
il mondo che vediamo nella testa
e il mondo che vediamo ogni giorno,
così difficili da distinguere
quando dolore e sofferenza ci piegano.

Voi due spesso vi siete fatti trascinare
tanto da trovarvi in quartieri strani
persi tra gente ostile,
costretti a chiedere indicazioni
proprio sul ciglio di una suprema rivelazione,
a ripetere la domanda
a una vecchia o a un bambino
che potrebbero essere entrambi sordi e muti.

Qual era quel frammento di Eraclito
che stavi cercando di ricordare
quando sei inciampato nel gatto del macellaio?
Nel frattempo, tu stesso ti eri perso
fra la scarpa nera nuova di qualcuno
abbandonata sul marciapiedi
e il terrore improvviso e l’ilarità
alla vista di una ragazza
abbigliata per una notte di ballo
che sfreccia sui pattini.

The Friends of Heraclitus

Your friend has died, with whom
You roamed the streets,
At all hours, talking philosophy.
So, today you went alone,
Stopping often to change places
With your imaginary companion,
And argue back against yourself
On the subject of appearances:
The world we see in our heads
And the world we see daily,
So difficult to tell apart
When grief and sorrow bow us over.

You two often got so carried away
You found yourselves in strange neighborhoods
Lost among unfriendly folk,
Having to ask for directions
While on the verge of a supreme insight,
Repeating your question
To an old woman or a child
Both of whom may have been deaf and dumb.

What was that fragment of Heraclitus
You were trying to remember
As you stepped on the butcher’s cat?
Meantime, you yourself were lost
Between someone’s new black shoe
Left on the sidewalk
And the sudden terror and exhilaration
At the sight of a girl
Dressed up for a night of dancing
Speeding by on roller skates.

Domando al piombo

Domando al piombo
perché ti sei lasciato
fondere in pallottola?
Ti sei forse scordato degli alchimisti?
Hai perso qualsiasi speranza
di diventare oro?

Nessuno mi risponde.
Pallottola. Piombo. Con nomi
del genere
il sonno è lungo e profondo.

I say to the lead

I say to the lead
Why did you let yourself
Be cast into a bullet?
Have you forgotten the alchemists?
Have you given up hope
In turning into gold?

Nobody answers.
Lead. Bullet. With names
Such as these
The sleep is deep and long.

Prodigio

Sono cresciuto chino
su una scacchiera.

Amavo la parola scaccomatto.

Il che sembrava impensierire i miei cugini.

Era piccola la casa,
accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
per via di carri armati e caccia.

Fu un professore di astronomia in pensione
che m’insegnò a giocare.

L’anno, probabilmente, il ’44.

Lo smalto dei pezzi che usavamo,
quelli neri,
era quasi del tutto scrostato.

Il re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.

Mi hanno detto, ma non credo che sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.

Ricordo che mia madre
spesso mi bendava gli occhi.
Con quel suo modo spiccio d’infilarmi
la testa sotto la falda del soprabito.

Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.

Prodigy

I grew up bent over
a chessboard.

I loved the word endgame.

All my cousins looked worried.

It was a small house
near a Roman graveyard.
Planes and tanks
shook its windowpanes.

A retired professor of astronomy
taught me how to play.

That must have been in 1944.

In the set we were using,
the paint had almost chipped off
the black pieces.

The white King was missing
and had to be substituted for.

I’m told but do not believe
that that summer I witnessed
men hung from telephone poles.

I remember my mother
blindfolding me a lot.
She had a way of tucking my head
suddenly under her overcoat.

In chess, too, the professor told me,
the masters play blindfolded,
the great ones on several boards
at the same time.

Molti Zero

Senza voce l’insegnante si alza davanti a una classe
di pallidi bambini dalle labbra serrate.
La lavagna alle sue spalle tanto nera quanto il cielo
che dista anni luce dalla terra.
È il silenzio che l’insegnante ama,
il gusto dell’infinito che trattiene.
Le stelle come le impronte di denti sulle matite
dei bambini.
Ascoltatelo, dice felice.

Many Zeros

The teacher rises voiceless before a class
Of pale, tight-lipped children.
The blackboard behind him as black as the sky
Light-years from the earth.

It’s the silence the teacher loves,
The taste of the infinite in it.
The stars like teeth marks on children’s pencils.
Listen to it, he says happily.

*

Hotel Insomnia

I liked my little hole,
Its window facing a brick wall.
Next door there was a piano.
A few evenings a month
a crippled old man came to play
My Blue Heaven.

Mostly, though, it was quiet.
Each room with its spider in heavy overcoat
Catching his fly with a web
Of cigarette smoke and revery.
So dark,
I could not see my face in the shaving mirror.

At 5 A.M. the sound of bare feet upstairs.
The “Gypsy” fortuneteller,
Whose storefront is on the corner,
Going to pee after a night of love.
Once, too, the sound of a child sobbing.
So near it was, I thought
For a moment, I was sobbing myself. Continua a leggere

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Jouni Inkala Poesie e Intervista di Viola Parente-Čapkova – da Poeti e aforisti in Finlandia traduzione di Antonio Parente  e Laura Casati, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Foto parete morta

taglientemente aveva ripetuto, ribadito che la cosa più importante
è soltanto l’andar via, dicesti al risveglio *** L’uomo depone il suo latte di pesce/ la donna le sue uova di pesce

Jouni Inkala nasce a Kemi nel 1966. L’esordio poetico avviene con la raccolta Qui il suo limite (Tässä sen reuna, 1992) che gli vale il premio “J. H. Erkko”. Nella sua seconda raccolta, Della stanza e della famiglia (Huonetta ja sukua, 1994) il teatro della narrazione non è più il “limite del mondo” (la Finlandia e il nord Europa), come nella precedente, ma l’Europa orientale e meridionale. Una particolare raffinatezza linguistica e di pensiero Inkala la esibisce nella sua terza raccolta, La compagnia dei Santi (Pyhien seura, 1996), dove l’autore si sofferma, sommessamente e devotamente, sui temi della fede e della religione, in una maniera insolitamente esplicita per un poeta della sua generazione. Il tema dell’amore sacro e profano viene approfondito nelle raccolte, Per ciò che rimane (Sille joka jää, 1998) e Viaggio nel deserto (Autiomaaretki, 2000). Nel 2002 pubblica Non scritto (Kirjoittamaton), nel 2005 Tempi di corno (Sarveisaikoja), nel 2008 Quale sapere è indispensabile all’essere umano (Minkä tietäminen on ihmiselle välttämätöntä) e nel 2011 Chemiosintesi (Kemosynteesi). La sua ultima raccolta è Durata aperta (Kesto avoin), pubblicata nel 2013.

da Conversazione con Jouni Inkala, Viola Parente-Čapkova

http://www.fupress.net/index.php/bsfm-lea/article/viewFile/20021/18616

VP-Č: Debuttasti nei primi anni Novanta, periodo in cui salì alla ribalta un’autorevole generazione di poeti. Cosa ha significato per te quel periodo, ti sei sentito parte di un gruppo?

 JI: Per la mia generazione è stato molto importante quel periodo, durante il quale sentimmo la necessità di esprimere attraverso la nostra poesia qualcosa che fin ad allora non era stata ancora espressa in campo poetico.

Ci riunimmo intorno alla rivista Nuori Voima (Forza Giovane) e tra il 1991 e il 1994 vi collaborai attivamente. Ricordo molto bene le critiche (!) della generazione precedente per il fatto che tutti noi scrivevamo in modo diverso – ma proprio questa era l’essenza del nostro agire! Eravamo autori diversi ed è questo il motivo per cui abbiamo portato in seguito qualcosa di nuovo  nella poesia finlandese. Dal mio punto di vista, fu fantastico il non volere in alcun modo creare una sorta di gruppo, che avrebbe dato poi origine ad una poesia più o meno simile. Nella nostra associazione regnava la libertà artistica, e fui felice di far parte di una simile realtà. Ero fermamente convinto che ognuno di noi avrebbe occupato il suo posto nel panorama letterario – come poi è successo.

VP-Č: Come descriveresti il tuo sviluppo letterario?

 JI: Tutto inizia inevitabilmente dalla mia infanzia, dal momento in cui osservai mio padre vicino all’altare mentre officiava la messa. Mio padre parlava con Dio – stava accadendo qualcosa della massima importanza in termini di vita e dell’intero universo – e questa proto immagine e sicuramente la base di ogni attività artistica. Riuscire ad avvicinarsi a qualcosa di segreto, esaminarlo è per me l’essenza stessa della poesia.

Inoltre, durante l’infanzia, la vita mi sembrava comunque un miracolo incomprensibile, e poiché questa mia sensazione continuo a crescere durante la mia gioventù, il risultato non potè essere altro che un percorso artistico (o filosofico). Da giovane mi dedicai molto al disegno, e dopo il liceo frequentai l’artistico, dove pero risulto evidente che, come mezzo, la parola (l’arrendersi al suo spazio infinito) era l’area artistica a me più consona.

Ho scritto già dodici raccolte poetiche. Ogni volta ho avuto l’impressione di aver scritto un testamento, poiché ogni poeta, o almeno quelli come me, lasciano in ogni raccolta tutto ciò che li pervade al momento: ogni cosa momentaneamente significativa. Nella Bibbia troviamo due testamenti che non si annullano a vicenda – questo e il paradosso biblico, vale a dire il miracolo…! Le mie raccolte presto formeranno una dozzina, e nemmeno loro si annullano a vicenda, sebbene, a loro modo, siano anch’esse dei testamenti (alla maniera di Villon), e quando sfoglio le mie raccolte precedenti, spesso rimango sorpreso. E cosi deve essere – il poeta deve rispettare ogni fase della sua vita e scrivere rimanendo fedele al momento presente.

Juoni Inkala

Juoni Inkala

VP-Č: Cosa vuol dire per te la finnicità, l’essere un poeta finlandese?

 JI: Naturalmente, prima di tutto il fatto che scrivo in finlandese, cosa che mi riempie di gioia. Poi, che sono cresciuto in questo Paese, e anche ciò, chiaramente, ha la sua importanza. L’aver provato, durante la mia infanzia e giovinezza, la vita a 30 gradi sotto zero, e la paura quando andavo a scuola, nel buio, su una strada innevata dove si aggiravano i lupi, sono cose che hanno di certo lasciato dei segni… Per ciò che riguarda l’arte, fin dall’inizio le influenze sono state di carattere internazionale – essendo figlio di un vicario e avendo vissuto in una canonica di campagna, sono completamente saturo dei contenuti del Vecchio e Nuovo Testamento, cioè, di tutte le visioni angeliche, di monologhi (Ecclesiaste), e poesia (Salmi, Proverbi). Inoltre, già in tenera età mi ritrovai a leggere la letteratura in traduzione. Posso citare, ad esempio, la Divina Commedia di Dante e Il padrino di Puzo… e poi Agatha Christie e, in seguito, scoprii Gogol’, Dostoevskij… Anche questo significa essere un poeta finlandese; leggere la letteratura mondiale tradotta in finlandese.

Nella poesia finlandese, il modernismo degli anni Cinquanta fu una grande esplosione di coscienza, e poi Brodskij, Achmatova, Mandel’stam, Tsvetaeva, Miłosz, Szymborska, Auden, che leggo in diverse lingue… cioè, nelle lingue che ho imparato grazie al sistema scolastico finlandese… a parte il tedesco, che ho studiato in età adulta…

VP-Č: Sei originario della Finlandia settentrionale, ma vivi a Helsinki. In Finlandia si parla spesso separatamente della letteratura finlandese del Nord. Credi che ci sia una dimensione “settentrionale” nei tuoi testi?

 JI: Posso rispondere soltanto soggettivamente! Ho già fatto riferimento in precedenza alle condizioni naturali che lasciano il segno su tutti noi – a seconda di dove siamo cresciuti. Nel mio caso, sono, quindi, di natura settentrionale. Può darsi che l’immaginario della mia poesia sia basato sulla natura del Nord della Finlandia, ma per il resto credo che il soggetto e l’atmosfera della poesia siano universali… Dopo tutto, nemmeno la Bibbia ci parlerebbe se non fosse, appunto, universale. Spero che, quando si parla di letteratura del Nord della Finlandia, almeno non si cada in una sorta di provincialità. Dopo tutto, l’intera Finlandia e in un certo senso settentrionale, ma non bisogna dimenticare che da Oulu in su il territorio in precedenza apparteneva al popolo Sami…

VP-Č: Cosa ha dato a te e alla tua scrittura lo studio della filosofia?

JI: Quantomeno l’amore per l’antichità. Amavo leggere Platone. E nel corso dei miei studi, per gli esami di filosofia preferii scegliere soprattutto le opere di assiologia ed etica. La mia mente era occupata da questioni tipo come la vita dovesse essere vissuta e quale sia la possibilità del giusto agire. Sono stato un vegetariano per sette anni solo per motivi etici. La pesanteur et la grace (1947; L’ombra e la grazia, 1951) di Simone Weil ha avuto un forte impatto su di me. L’esistenzialismo di Sartre e Camus ha lasciato un segno indelebile nella mia mente. E, dopo tutto, l’essere umano “gettato nel mondo” e anche il denominatore comune primordiale di filosofia e poesia. L’uomo è sempre una creatura vivente allo stato di nascita, erede dell’atmosfera di coscienza e sensi. Questo e ciò che riesco a rintracciare in questo momento…

http://www.mauriziobaldini.it/PoesiaConoscenza/IouniInkalaPoesie.pdf

foto richard avedon-fashion-15

[foto richard avedon] Qui è il mondo, qui il suo limite./ Pugni di nuvole, luce bianca craniale

Da qualche parte nella notte
il filo a piombo dell’uomo affonda
sette pollici nel mare della pelvi femminile.

L’uomo depone il suo latte di pesce
la donna le sue uova di pesce
insieme gli estratti accrescono la memoria
[dell’istante.
Al suo interno i vasi sanguigni si diramano
come i palmi.

L’analisi è fanciullezza,
la sintesi adultezza.

Le avversità hanno
a volte messo alla prova
a volte rafforzato anche loro

le fortune rifiutato
di estinguersi in loro. Continua a leggere

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Mariella Colonna ALLEGORIA DELLA CONDIZIONE INFERNALE DELL’UOMO SULLA TERRA – Commedia, Il Carnevale di Venezia – Parte II Scena I – Traduzione in inglese di Adeodato Piazza Nicolai e una poesia di Giorgio Linguaglossa

 

Carnevale Masquerade

Premessa di Mariella Colonna

Sperimentare è il segreto di qualunque processo innovativo nei più vari settori della scienza e della cultura.
Scrive Mary Lou Cook, scrittrice americana artista e autrice di saggi: “Creatività è inventare, sperimentare, crescere, assumersi dei rischi, rompere regole, fare errori e divertirsi.” E io sono in piena sinergia con questa lineare interpretazione della creatività che è incentivo continuo a tentare il nuovo.
Tra le varie forme di sperimentazione quella che ha come oggetto il linguaggio è, per me, di grande interesse per la continua scoperta a cui conduce l’inesauribile potenzialità della parola a rinnovarsi e autogenerarsi… annullandosi.
E qui devo rivelare un particolare importante della “storia”.
Le poesie di Giorgio Linguaglossa sono molto vicine al teatro nella struttura stessa in cui trovano forma e per la presenza di personaggi inventati o da lui inseriti per “sim-patia” da opere di altri poeti: da qui è nata l’idea di “sperimentare” (repetita iuvant) quel mix tra poesia e teatro da cui ha preso anima e vita l’ “Allegoria”.

Che cosa è dunque l’“Allegoria”? Un controllato delirio in versi e prosa? Un curioso poemetto animato da note presenze di poeti della NOE e delle loro creature poetiche? E’ questo e forse altro ancora, ma non si propone come “POESIA” o Scrittura poetica. L’”Allegoria” è un testo aperto, su cui è possibile indurre l’evento della parola che si distrugge e si ricrea, scivolare o rimbalzare di battuta in battuta per dare corpo ad una nuova soluzione espressiva, ad un personaggio che vuole nascere o risorgere a tutti i costi e…forse nascerà, forse no.
All’“Allegoria” mancano tante immagini, situazioni, personaggi, tanti scultorei versi di Giorgio Linguaglossa, molte icone poetiche di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb, i versi solari di Chiara Catapano, lo scavo quasi archeologico di parole nelle ultime poesie di Donatella Costantina Giancaspero, i neologismi poetico-materici di Lucio Mayoor Tosi, i languori essoterici delle Novissime idee-avanguardia di Gino Rago e Antonio Sagredo, i raffinati sprofondamenti di Letizia Leone… e magari altri versi imprevedibili di Luigina Bigon e di Adeodato Piazza Nicolai e tanto altro ancora…
Chi avrà la pazienza di leggere questa mia premessa-testimonianza forse potrà aggiungere qualcosa di bello e di nuovo all’“Allegoria” e alle follie del Carnevale di Venezia gestito dal simpatico diavolaccio innamorato: il Signor Kappa.

Personaggi:

Le Maschere e le Ombre;
GiorgioLinguaglossa (alias Gi.Elle., alias Fantasma 2);
Giulio Cesare (alias Gi.Elle, alias Fantasma di Giorgio) ;
Signor Kappa (alias Kappa) ;
Prima ombra (alias K2);
Il Fantasma di Lacan;
Il Fantasma di Emme.Gi. (alias Mario Gabriel, alias Antonio);
Antonio (alias Emme. Gi.);
2° cittadino;
Evelyn (personaggio di Mario Gabriele);
Una mascherina mascherata (Odette di Emme.C.);
Fantasma coronato di alloro (alias Poeta, alias Gino Rago);
Giovane bionda bellissima (alias Elena moglie di Menelao);
Anziana signora giovanile (alias Ecuba Regina di Troia);
Costantina-Costanza (figlia di Costantino, alias Donatella-Costantina Giancaspero);
Cenerentola-Luigina (alias Luigina Bigon);
Il Clown (alias Adeodatto Piazza Nicolai, alias Principe, alias Poeta);
Coro delle maschere;
Gino Rago (alias Il Poeta coronato di alloro);
Ecuba Regina di Troia;
Elena, moglie di Menelao rapita da Paride;
Gi.Esse. (alias Giovane Sconosciuto).

Carnevale ballo del Doge

IL CARNEVALE DI VENEZIA

PARTE II

Scena I

Commedia di Mariella Colonna liberamente tratto e ispirato da alcune poesie inedite di Giorgio Linguaglossa: La notte è la tomba di Dio

Regia di Mariella Colonna

Giorgio Linguaglossa

Carnevale delle Ombre

Notte stellata. Carnevale. Venezia.
«Benvenuti al Carnevale delle Ombre!», disse una voce.
L’angelo Achamoth dai dodici occhi
che non guardano che i propri occhi, gridò:
«Toglietevi la maschera!».
Ed entrammo, con altri prigionieri, nel corridoio delle ombre eterne.
C’era una ressa del diavolo.
Statue bianche si avviavano sotto un giogo di ferro e calcestruzzo
eretto, a destra e a sinistra, tra le finestre cieche lungo
un ambulacro alle cui pareti pendevano
migliaia di volti in cornici dorate.
I volti dipinti parlavano tra di loro.
Dicevano: «Non fate entrare le ombre maledette!
Sbarrate loro l’ingresso!».
[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti.
Dicono: «Buongiorno» e «Addio».
E ritornano nel buio da dove sono venuti.
C‘è ressa; dei figuri vogliono entrare dalle finestre.
Bussano ai vetri delle persiane sbarrate,
lottano anch’essi con le ombre.
“Vogliono diventare ombre”, pensai con raccapriccio
e mi meravigliai di quel pensiero.
[…]
Una triplice voce piovve dall’alto, dai microfoni
degli altoparlanti nascosti nel buio:
«Benvenuti nella galleria dei quadri morti».
«Lasciate i vestiti su questa spiaggia».
Noi lasciamo i vestiti sulla spiaggia ed entriamo nel mare,
fino alla cintola.
Entrano in noi lentamente le ombre bianche
come inchiostro nella carta assorbente.
E scompaiono.
[…]
La voce ritorna nel microfono.
Gare de Lion.
Il microfono cammina nella sala d’aspetto.
Il quadro si attacca alla parete. Il mare si ritrae dalla spiaggia.
Le ombre lasciano i corpi
e camminano nel volo dei gabbiani bianchi.

Carnevale Il Corvo e il Signor K

personaggi presenti nelle poesie di Giorgio Linguaglossa e di Mario Gabriele

 

Mariella Colonna Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa intervista Franco Campegiani sulla quaestio Eraclito-Omero, sulla Nuova Ontologia Estetica, sulla Logica razionalistica in occasione della pubblicazione del libro di Franco Campegiani Ribaltamenti. Democrazia dell’arché e assolutismi della dea ragione Ed. David and Matthaus, 2016

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

Domanda: Tu hai scritto: «“Il cosmo è tutto un fremito, un gran vibrare”. Così Ubaldo de Robertis, a riprova che la sua poesia frammentaria non intende porre fuori gioco l’universale, quanto piuttosto scorgerne la luce frammentata in ogni tessera dell’immenso mosaico. Sono a tutti noti i suoi interessi scientifici professionali e i riferimenti alla fisica subatomica, nel suo caso, sono quanto mai appropriati, ma i veggenti di ogni luogo e tempo hanno sempre definito quegli elementi invisibili ed impalpabili “coscienza universale”. A parer mio, è giunto il tempo che la cultura riscopra quella sapienza arcaica, quella conoscenza che ha sempre alimentato le sorgenti più remote (e sempre attuali) del mito. Non sto dicendo di tornare alla mitologia (quella è aria fritta), ma di attingere a quel serbatoio mitopoietico».

Condivido questo punto, infatti la Nuova Ontologia Estetica è interessata a valorizzare la funzione mitica, cioè una poesia che sia un sistema simbolico e non soltanto un sistema segnico, di significanti che suonano o collidono tra di loro; non mi riferisco ai tentativi di riproposizione di una poesia che si rifà alla mitologia dell’antica Grecia, perché non avrebbe più ragion d’essere, ma di un’altra cosa. Penso ad esempio alla poesia più recente di un Ubaldo de Robertis, alla poesia di Gino Rago, penso alla poesia della Szymborska e, in Italia, a quella di Anna Ventura, e anche, se me lo consenti, a certi miei esiti mitopoietici che si riallacciano alla poesia di Kjell Espmark, Lars Gustaffsson, Zbigniew Herbert…

Risposta: La Grecia classica ereditò, snaturandoli, i miti sorti nel substrato più arcaico della cultura greca. L’avvento del razionalismo pose fra parentesi, pur senza riuscire a inaridirle, le radici misterico-sapienziali della fase precedente, facendo degenerare la mitopoiesi in mitologia. L’ostilità dei Presocratici nei confronti dei poeti e degli artisti, è sintomatica di quel degrado in senso feticistico che condusse gradatamente il mito allo smarrimento delle intuizioni originarie, dissolvendosi in una molteplicità di storie vuote e sterili, di retaggi favolistici ripetitivi. Ma i Presocratici, come momento di passaggio fra l’età della Sapienza e l’età della Ragione, da un lato favorirono lo strappo (Pitagora, Parmenide) e dall’altro (Eraclito e Scuola Ionica) tentarono di impedirne il cammino. I filosofi successivi (razionalisti) furono molto più determinati e disinvolti nell’inaridire le sorgenti del Mito. A ben guardare, questo è un processo comune ad ogni cultura, così come ad ogni singolo essere umano. Durante le fasi della crescita fatichiamo terribilmente a portarci dietro il bambino che è in noi, il sapiente che è in noi, e il più delle volte finiamo per perderne memoria con seri danni per il nostro equilibrio. Purtroppo diveniamo adulti adulterandoci, ossia creandoci illusioni, ma c’è sempre un risveglio possibile al di là dell’oblio, e a quel punto il mito risorge, l’arte e la poesia tornano a giuocare ruoli fondamentali, riportandoci alla nuda interiorità di noi stessi, all’Equilibrio e allo Zero iniziali da cui riparte sempre l’avventura della cultura e della vita. Sta lì il serbatoio dell’arte, in quell’humanitas che ci vive dentro e che, essendo eterna e immutabile, è sempre viva e attuale. Trovo che la NOE sia un’esperienza ricca e affascinante. Potrà essere foriera di novità interessanti se saprà aleggiare sulle sabbie mobili dell’ideologia. Ben vengano tutte le proposte, da qualunque parte provengano, se sapranno evocare gli archetipi, l’essenza segreta e sfuggente, il bambino imbavagliato che sanguina dentro di noi.

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Domanda: Tu hai scritto: «Emblematica la polemica di Eraclito nei riguardi di Omero, laddove questi scrive: “Possa la discordia sparire tra gli dei e gli uomini”. Risponde il filosofo greco: “Omero non sa che prega per la morte dell’universo, giacché, se fosse ascoltata la sua preghiera, tutte le cose perirebbero“. La guerra (polemos) è per Eraclito la madre di tutte le cose, il grembo che le abbraccia e le affratella, la radice dell’armonia universale».1

La avversità di Eraclito verso la poesia e l’arte ha una radice antichissima, che contiene il recondito pensiero che la poesia (e l’arte) con il suo rappresentare il polemos sia pericolosa per la compagine sociale di una comunità perché inneggerebbe ai valori di distruzione dei valori piuttosto che a quelli della coesione dei valori. Non credi tu che anche oggi gravi sul pensiero filosofico questo recondito  pre-pensiero secondo cui la poesia (e l’arte) sia segretamente nociva per la coesione dei valori (estetici e non) sui quali invece deve costruirsi una comunità? Continua a leggere

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Evgenij Aleksandrovič Evtušenko POESIE INEDITE e L’ultima Intervista rilasciata dal poeta russo – Io vivo nel paese di nome sembrerebbe – Nello stato di nome SEMBREREBBE –  traduzione a cura di  Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Evtušenko

Il presidente USA Nixon con Evtušenko

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, nato Gangnus (in russo: Евге́ний Алекса́ндрович Евтуше́нко?; Zima, 18 luglio 1932[1] – Tulsa, 1° aprile 2017), poeta e romanziere russo.

Nacque il 18 luglio 1933, a Zimà (una cittadina della Siberia sudorientale sorta nel XIX secolo intorno a una stazione della linea ferroviaria Transiberiana), figlio di uno studente di geologia dell’università di Mosca e di una nota cantante lirica di origine ucraina, Zinaida Evtušenko, da cui prese il cognome d’arte. Evtušenko trascorse l’infanzia a Mosca. L’estate del 1941, l’invasione nazista dell’Unione sovietica, i primi bombardamenti della capitale colgono la famiglia in un momento di crisi: il padre, abbandonata la moglie, va a lavorare nel Kazakistan in una spedizione scientifica. Nell’autunno il futuro poeta e sua madre lasciano Mosca, per rifugiarsi a Zimà dove rimarranno tre anni.

La vita e lo stato d’animo di quei tempi difficili sono descritti in Nozze di guerra, Sono di razza siberiana, Ballata su un salame, Mi fecero sbalordire ragazzino, ecc. In seguito alla ritirata dei tedeschi, nel 1944 Evtušenko torna a Mosca con la madre che lo lascia, però, poco dopo, per andare a cantare per i soldati al fronte. Abbandonato a sé stesso, il ragazzo trascura gli studi, mentre comincia a scrivere i suoi primi versi. Qualche anno dopo, espulso dalla scuola, irrequieto e desideroso di conoscere stravaganti novità, Evtušenko raggiunge nel Kazakistan il padre che gli procura un lavoro da manovale in una spedizione geologica, a patto che non riveli a nessuno di essere suo figlio.

Evtušenko 1L’attività letteraria e il calcio

Di nuovo a Mosca, egli ritrova sua madre precocemente invecchiata, senza più la bella voce d’un tempo; canta ora in un cinema negli intervalli tra gli spettacoli. A quell’epoca Evtušenko divide il suo cuore tra la poesia e il calcio. Ma, se la sua carriera di atleta finirà presto, sarà proprio un giornale sportivo a lanciare il poeta. Nel 1949, infatti, il redattore del giornale Sovetskij Sport, pubblica un articolo nel quale racconta la passione sfrenata di Evtušenko per i suoi due “sport”, il calcio e la letteratura.

Nello stesso anno Evtušenko si iscrive all’istituto di Letteratura e continua a scrivere poesie liriche, note solo al circolo ristretto degli amici e mai pubblicate, ed elogi di atleti e di gare accolti invece dalla stampa sportiva. Occorre arrivare al 1952 per trovare pubblicata la prima raccolta di versi, Gli esploratori dell’avvenire, che lo stesso autore definisce “non felice”, ma che gli frutta l’ingresso nell’Unione degli Scrittori. In quegli anni, incoraggiamenti giungono a Evtušenko da alcuni tra i più noti poeti sovietici, come Tvardovskij, Semën Isaakovič Kirsanov, Svetlov, Simonov.

La notorietà si afferma

Dopo la morte di Stalin, con l’epoca del “disgelo”, la notorietà del poeta si afferma soprattutto negli ambienti giovanili. Egli legge i suoi componimenti nelle serate studentesche e nel 1955 è quasi portato in trionfo dagli studenti di Mosca, ai quali aveva declamato dei versi dall’alto della scalinata dell’università. Il ventesimo congresso del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) nel marzo 1956 segna una nuova tappa nella carriera di Evtušenko.

Dopo la condanna ufficiale del culto della personalità, egli pubblica una serie di poesie contro l'”uomo d’acciaio” e i burocrati che ancora segretamente rimpiangono il dittatore (il poema La stazione di Zimà, Gli eredi di Stalin, La mensa degli studenti, Paure, La mano morta, Conversazione, Il destino dei nomi, Città di mattina, O, dispute nostre giovanili, ed altri). Il temperamento ardente e l’odio sincero contro tutto quanto opprime la libertà dell’uomo, spingono il poeta oltre i limiti consentiti.

Nella primavera del 1957, per aver difeso il romanzo di Vladimir Dmitrievič Dudincev Non di solo pane vive l’uomo, contenente una dura critica alla burocrazia staliniana, Evtušenko viene espulso dal Komsomol col pretesto ufficiale di mancato pagamento dei contributi e dallo stesso Istituto di Letteratura. Tuttavia l’amicizia di influenti membri del partito e dell’Unione degli Scrittori permette presto al poeta il ritorno nel Komsomol e nell’Istituto, presso il quale, anzi, viene eletto segretario della locale sezione della Gioventù Comunista. Il 1957 segna l’inizio del periodo dei maggiori successi di Evtušenko.

Bella Achmadulina

In questo periodo di forte ispirazione poetica, lo sostengono i suoi “amici politici” e la poetessa Bella Achmadulina, che diventerà sua moglie. È dello stesso anno l’incontro con Boris Pasternak che si complimenta col giovane poeta. Questi ricambierà l’ammirazione scrivendo, in occasione della morte del grande scrittore, la poesia Il recinto. Accanto ai componimenti di impegno civile, Evtušenko scrive liriche dedicate alle donne amate, cominciando da Achmadulina, dalla quale poi divorzierà, alla madre, agli amici (“Affetto”, “Al mio cane”, “Auguri, mamma”, “Il lillà”, “Verrà la mia amata”, “Marietta”, ecc.).

I viaggi all’estero Il viaggio a Monaco di Baviera e Parigi

Nel suo primo viaggio all’estero, a Monaco di Baviera e soprattutto a Parigi, il poeta si permette delle dichiarazioni poco conformiste e autorizza la pubblicazione a Londra dell’Autobiografia (1963) che provoca nei suoi confronti una campagna di accuse capeggiata dallo stesso segretario generale del Komsomol, Sergej Pavlov. Evtušenko è così costretto ad un’autocritica, nella quale accusa gli editori occidentali di aver falsificato il manoscritto.

Una nuova tempesta scoppia dopo la pubblicazione nella Literaturnaja Gazeta del poema Babij Jar dedicato allo sterminio degli ebrei di Kiev. In uno degli incontri tra i dirigenti del Partito Comunista e quelli della cultura, il segretario generale del PCUS attacca pesantemente il poeta, accusandolo di aver versato col Babij Jar lacrime soltanto per gli ebrei, senza aggiungere una sola parola di compianto per i russi e gli ucraini trucidati nella stessa Kiev. Evtušenko si giustifica, ricordando che questi ultimi furono eliminati perché appartenenti alla resistenza antinazista, mentre lo sterminio degli ebrei fu motivato esclusivamente dall’odio razziale.

Il viaggio a Roma

Riacquistata la fiducia del partito, Evtušenko ottiene ancora di poter andare all’estero a declamare i suoi versi in varie città europee. Ma il poeta ha ormai perso il loquace entusiasmo dei suoi primi incontri all’estero, ed è con un’abilità cauta ed aggressiva insieme che si destreggia tra le domande talora insidiose del pubblico. A Roma, quando gli viene chiesto se conosca il “Samizdat”, (cioè la stampa clandestina di opere non pubblicate dalle edizioni ufficiali), egli non ne nega l’esistenza, ma afferma che ad esso ricorrono gli scrittori di poco talento respinti dalle pubblicazioni ufficiali.

Bella Achmadulina

A chi domanda notizie sulla sorte del poeta leningradese Josif Brodskij, condannato a tre anni di campo di concentramento per “parassitismo”, non avendo voluto accettare un impiego nelle edizioni sovietiche, Evtušenko risponde che Brodskij è un poeta di nessun valore che, quando sarà rimesso in libertà, il pubblico occidentale dimenticherà del tutto (nel 1987 Brodskij sarà insignito del premio Nobel per la letteratura). A questo viaggio in Europa risalgono molte composizioni, tra le quali Così la Piaf usciva dalla scena, Facchino, Processione con la madonna.

I viaggi extraeuropei

Gli anni successivi vedono il poeta impegnato in numerosi viaggi: Medio Oriente, Africa, Stati Uniti, America Latina. Egli ha ormai assunto il ruolo di ambasciatore itinerante della letteratura ufficiale sovietica. Fiero di portare in tasca il passaporto del paese che guida la lotta dei poveri e degli oppressi, il poeta esprime la sua attenzione al mondo, la sua passione per l’uomo. Sono i sentimenti che manifesta nei componimenti dedicati ai paesi visitati; gli ultimi tra questi, qui riportati, sono brani di un poema ancora abbozzato sul viaggio in America Latina compiuto nel 1971: “Le lacrime dei poveri”, “La chiave del comandare”.

Gli scritti di “denuncia”

Per il centenario della nascita di Lenin, nella rivista Novyj Mir dell’aprile 1970, Evtušenko pubblica un lungo poema dal titolo L’università di Kazan (della quale Lenin fu allievo), in cui, rifacendo la storia del celebre ateneo, offre ai lettori un compendio di storia patriottica con la rievocazione di figure di rivoluzionari, scienziati, scrittori, uomini politici. Nell’agosto 1970, sulla rivista bielorussa Neman, Evtušenko pubblica il poema Sotto la pelle della statua della Libertà in cui, ricordando incontri e colloqui con personalità del mondo politico e culturale americano, attacca uomini e istituzioni di quella società.

Nel maggio dell’anno successivo, egli tenta di portarne sulla scena il contenuto in un dramma dallo stesso titolo che viene provato al teatro Taganka di Mosca, ma che non ottiene l’autorizzazione per la presentazione al pubblico. Dopo l’assegnazione del premio Nobel ad Aleksandr Solženicyn, Evtušenko pubblica nel settimanale Literaturnaja Rossija (novembre 1970), una poesia dedicata al 90º anniversario della nascita del poeta Aleksandr Blok, intitolata a A voi, che non stringeste la mano a Blok. In occasione della tragica morte dei tre cosmonauti sovietici Dobrovol’skij, Pacaev e Volkov a bordo della Sojuz 11 nel giugno 1971, una poesia di Evtušenko dedicata alla loro memoria è accolta sulla Pravda, accanto al comunicato ufficiale.

Il poeta, qualche settimana dopo, è la sola personalità della cultura sovietica che si reca a rendere omaggio alla salma di Nikita Chruščëv, nella generale indifferenza riservata, dal mondo ufficiale del suo paese, all’ex segretario del partito e capo del governo. Subito dopo il viaggio nel Vietnam del Nord, dove scrive versi che definiscono i capi cinesi “mocciosi ingrati”, Evtušenko compie una tournée negli Stati Uniti e nel febbraio 1972 è ricevuto da Richard Nixon alla Casa Bianca. In Italia è stato, tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, lo scrittore sovietico forse più tradotto e conosciuto.

Ultimi sviluppi

Evtušenko ha pubblicato opere in prosa come: Il posto delle bacche (Jagodneye mesta, 1981), Ardabiola, Non morire prima di morire (Ne umiraj prezde smerti). Nel 1980 è stato pubblicato in Inghilterra un suo libro di fotografie: come fotografo ha esposto in numerose città, sia in Russia sia all’estero. Come regista cinematografico ha diretto: Asilo d’infanzia (Detskij sad, 1984) di cui ha scritto anche la sceneggiatura.

Ha scritto inoltre le sceneggiature di: Io, Cuba (Ja, Kuba), I funerali di Stalin (Pochorony Stalina). È stato insignito in patria del premio Znak Poceta, e nel 1991 dal Comitato Nazionale Ebraico Americano di una medaglia per le sue attività in difesa dei diritti civili. Dal 1993 è insegnante di letteratura russa presso l’Università di Tulsa (Oklahoma), dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa. Il poeta è stato riconosciuto per la XVII edizione del Premio Librex Montale che è stato assegnato il 5 giugno 2006 e infine ha ricevuto in Italia il premio alla carriera del Festival Internazionale di Poesia Civile di Vercelli nel 2007 e nel 2008 è stato ospite d’onore del festival internazionale Scrittori&giovani di Novara.

*notizie tratte da wikipedia

Onto DeRobertis

Ubaldo de Robertis, grafica Lucio Mayoor Tosi

questo lavoro è dedicato al ricordo di Ubaldo de Robertis, gran signore della poesia italiana

Intervista

NELL’EPOCA DEL “SEMBREREBBE”

Evgenji Aleksandrovič, la vostra nuova raccolta si intitola I monumenti non emigrano. Versi del XXI secolo. Come  caratterizzereste questo tempo, questo nuovo secolo? Come sarà per il nostro paese?

Ritengo che noi adesso viviamo in un tempo in cui la Russia cerca una sua nuova identità, vuole capire se stessa. Ora si manifesta da noi una certa situazione plasmatica della società – da questo plasma si abbozza appena il corpo e lo spirito della Russia futura.

Da noi è avvenuto un enorme cataclisma sociale. Solo che, non si sa perché,  abbiamo dimenticato che non si è verificato per caso. Abbiamo dimenticato le drammatiche file in tutti i negozi. Abbiamo dimenticato i treni che si chiamavano “kolbasnijei”(1) perché persino nelle città nei dintorni di Mosca semplicemente non c’era il salame. Abbiamo dimenticato che c’era l’istituto statale della censura e che, senza questo timbro, non si poteva stampare nulla, addirittura gli inviti a nozze. Abbiamo del tutto dimenticato le disgustose commissioni che approvavano i viaggi all’estero, che controllavano in modo umiliante i nostri concittadini sulla lealtà.  E se si dà un’occhiata ancora oltre, allora ci imbatteremo in persone che giacciono fino ai nostri giorni in un eterno cristallo di giaccio, come in sarcofaghi, centinaia di migliaia di corpi di persone che non avevano nessuna colpa nei confronti della propria patria. Ecco io ora converso con voi e, dinanzi a me, sta il paletto D-13. Una volta sono andato alla Kolima con un famoso cercatore d’oro, Vadim Tumanov, che è stato una straordinaria guida perché era stato internato  lì nel lager. Ci siamo imbattuti in un uomo che sedeva a terra e beveva vodka da una bottiglia. L’uomo non sembrava un barbone, era assolutamente istruito. Abbiamo chiacchierato, è venuto fuori che era di Pietroburgo, dottore di non so quale scienza ma qui, secondo voci, era sepolto suo padre in una tomba comune. I documenti erano andati perduti. E vedo alcune colonnine marce, sotto le quali, forse, giaceva anche mio nonno Ermolaj Naumovic Evtušenko, comandante rosso dal portamento alla Capaev. Allora mi sono preso per ricordo questo paletto perché mi rammenti per sempre questo. Le persone dimenticano quanto di terribile e negativo abbiamo avuto nel passato e senza volerlo cominciano ad idealizzarlo. Il nostro presente finora non è diventato quello che volevano quelle donne che con i bambini nelle carrozzine stavano all’interno della catena umana che circondava la Casa Bianca nell’anno 1991. Un giorno quello stesso passato è potuto tornare di nuovo da noi sui carri armati. Sapete, nella mia vita non avevo mai visto tante belle facce  quante in quella notte tra il 19 e il 20 vicino alla Casa Bianca. Forse  soltanto nel 1945, nel giorno della Vittoria sulla Piazza Rossa. Purtroppo non abbiamo ancora realizzato le speranze di quelle persone. Oggi persino la stessa parola “democrazia” è stata compromessa agli occhi della gente.

Si ritiene che il poeta Evtušenko sia autore di versi politici …

Non è esatto che mi avvertano soltanto come un poeta politico. Mi è stato pubblicato un cospicuo volume di versi sull’amore “Non ci sono anni”. La mia prima poesia, grazie alla quale sono diventato famoso, è “Ecco cosa mi succede”. C’è forse in Russia una persona che non la conosca? Se la  ricopiavano a mano. Ed anche la mia prima canzone era sull’amore, ora si canta come canzone popolare, cosa che appare come il massimo complimento “Ah, ho tanti cavalieri ma non ho l’amore vero”.

Ma io potrei pubblicare anche un volume di versi civili. Io non amo la parola “politici”. Però versi civili – suona meglio. Autentici versi civili possono toccare temi politici ma  stanno più in alto della politica attuale sebbene possano essere basati su momenti attuali. Io, ad esempio, sono molto felice di aver impresso alcuni momenti storici nei miei versi e che grazie ad essi  si possa, in linea generale, studiare la storia. Io, per esempio, ero ovviamente sulle barricate il 19 agosto ma poi ho visto come Eltsin gestisce in modo irresponsabile il suo potere, come ha dimenticato la fiducia a lui concessa dalla classe operaia e,contemporaneamente,  anche dalla intellighentja. Sapete chi è per me un eroe dell’ottobre dl ’93? Uno sconosciuto, come mi hanno raccontato, un prete spretato, che uscì e sventolava un fazzoletto bianco ma lo hanno ucciso. Con due colpi: uno dalla parte della Casa Bianca, l’altro dalla parte degli eltsiniani. Ecco quest’uomo è diventato per me un eroe. Perché lui voleva  fermare questo.

Detto questo, uno Evtušenko  solo di versi amorosi – questo non è Evtušenko. Uno Evtušenko solo di versi civili – anche non è Evtušenko. Perciò questo libro “I monumenti non emigrano” è molto mio, in esso tutto è unito in un nodo indissolubile.

I vostri versi sono in realtà  piccole storie della vostra vita?

Mi sono sempre confessato nei versi. Quelli che leggono i miei versi, mi conoscono benissimo come persona. Ad esempio io ho avuto quattro grandi amori. Pongo più in alto di tutto  la riconoscenza verso le donne per il fatto che ci consentono di  esercitare questa grande arte. Ma succede che persone non dotate per l’amore invidiano le persone felici e cercano di farle litigare. Questo, del resto, succede anche nelle amicizie. Infatti un tempo hanno fatto litigare Majakovskij con Esenin, Pasternak con Majakovskij.

Evtušenko 4

Ma raccontate del vostro primo amore.

Non ho mai scritto di lei ma in questa raccolta ci sono versi  dedicati a questo amore. Non ne ho scritto perché è un tema intimo, qualche bigotto potrebbe forse  addirittura esserne scioccato:  io avevo 15 anni e questa donna 27. Era una apicoltrice della regione Altaj (2). Là c’erano paesetti composti esclusivamente di sole vedove di soldati, uccisi in guerra. Quando mi hanno espulso dalla scuola,capitai nell’ Altaj in una spedizione di esplorazione geologica perché non mi pigliavano da nessuna parte, avevo il passaporto con annotazione di mancata lealtà politica. Raccontavo balle, mi aumentavo l’età. Ed ecco che questa straordinaria donna, quando venne a sapere che avevo 15 anni (lei era molto religiosa), sapete, piangeva così tanto,  stava in ginocchio davanti alle icone e chiedeva perdono al Signore. Ecco ho immaginato: e se oggi fosse ancora viva. Vive ancora in quel solitario apiario. E all’improvviso per radio o per televisione sentirà questi versi  dove io mi ricordo di lei con gratitudine e capirà che non ha fatto nulla di male, mi ha soltanto mostrato l’animo femminile. Ed ho il presentimento che succederà proprio questo.

E allora cos’è per voi l’amore?

Per me è una straordinaria fusione, il punto più alto della natura  quando un uomo ed una donna non sentono confini tra il corpo e l’anima. Per  questo l’amore è meraviglioso e non c’è nulla di più alto di questo momento. Quando il corpo si fonde con l’anima, tu non sai dov’è la tua anima e dove il corpo.

E l’amore per la patria – cosa è?

 Capite, anche la patria è un essere vivente. Si compone di donne, bambini, persone che abbiamo incontrato nella vita. La patria non è un insieme di slogan politici e frasi. L’amore per la patria non è l’amore per un sistema politico. Addirittura non è nemmeno l’amore per la natura (sebbene anche la natura sia un essere vivente) ma prima di tutto ci sono le persone. Ho alcuni versi sulla patria, spero che diventeranno importanti per molti, addirittura li cito: ”Non fare un idolo della patria/ non aspirare a diventarne la guida./ Ringraziala per averti nutrito/ ma non ringraziarla in ginocchio./ Anch’essa ha molte colpe/ e tutti noi insieme siamo colpevoli./ È alquanto volgare divinizzare la Russia/ ma disprezzarla è ancora più volgare”.

Ovviamente qualche ipocrita dirà: ”Come è possibile: anche la patria ha molte colpe?” Ma la  patria siamo tutti noi! E noi dobbiamo rispondere di tutto, nello stesso tempo di quello che è stato nel passato e di quello che è ora. E soltanto allora nascerà da noi la responsabilità verso il futuro. Ho scritto una poesia satirica ”Nello stato di nome Sembrerebbe”.  Vi siete accorti che da noi oggi le persone usano spesso la locuzione “sembrerebbe”? Perché? Ma perché nella nostra vita moltissimo “sembrerebbe”. Chiedi: ma tu sei una persona onesta? – ma, sembrerebbe, che sono onesto. Addirittura dicono”sembrerebbe che sono innamorata”. Per questo ho scritto questa poesia satirica. Pensavo che sarebbe stato difficile tradurla in inglese e, se la traduci, allora gli Americani, per esempio, non la capiranno. Ed ecco che, quando con i miei studenti l’abbiamo tradotta a mo’ di esperimento, hanno detto: ”Ma questa è la parola più popolare in America al giorno d’oggi!”. In inglese suona sort of, ne è venuta fuori una traduzione eccellente. In America viene ritenuta una poesia  sull’America, in Russia – sulla Russia.

Voi trascorrete la maggior parte del vostro tempo in America. Non potreste paragonarla al nostro paese. Quali pregi e quali difetti balzano agli occhi qui e là?

 Noi siamo abituati ad accusare gli Americani di tutti i nostri difetti. Accusare qualcuno per i propri difetti è alquanto facile. Diciamo così, se abbiamo un varietà volgare, si dice che tutto questo è venuto dall’America. Ma noi stessi siamo giganteschi produttori di volgarità! I nostri numerosi difetti esistono anche in America ma sotto altri aspetti. Ad esempio noi prestiamo sempre meno attenzione all’istruzione. Mia moglie insegna russo nello stato dell’Oklahoma – ha 135 studenti di varia età. Ci sono lì eccellenti insegnanti ma l’educazione nelle scuole statali è sovvenzionata in modo sempre più misero e per le scuole private non tutti hanno denaro a sufficienza e da noi è lo stesso. Ai miei corsi di cinema e poesia russi vengono ragazzi direttamente dalla scuola ed io vedo come sbagliano in storia, quanto ne sanno poco. E che succede con i nostri ragazzi? La stessa cosa! Mia moglie studiava nell’università di Petrozadovsk (3) alla  facoltà di filologia e mi ha raccontato che è arrivato un ragazzo e le dice: “Maria Vladimirovna, mi hanno detto che per gli esami di ammissione chiederanno I racconti di Bel’kin, (4) io ho girato per tutte le biblioteche, non c’è da nessuna parte questo scrittore! E un ragazzo, quando gli hanno chiesto, chi è stato il più famoso generale della seconda guerra mondiale ha risposto – Suvorov. Evidentemente nella testa dei giovani c’è la stessa pappa dappertutto e, forse, non solo nei giovani!

O prendiamo, ad esempio, la politica. In America è de-intellettualizzata. Ed anche da noi la politica non si unisce ad una filosofia della società. Invece in politica ci deve essere, senza dubbio, un elemento di filosofia della società. In America c’è stato un tempo John Kennedy, quando lo ricordiamo ci viene subito in mente la sua frase: “Non domandare al tuo paese quello che può fare per te ma domanda a te stesso cosa tu puoi fare per il tuo paese”. Frase straordinaria che non si può dimenticare. Ma è stato tempo fa’. Le parole di quali degli ultimi politici ricordiamo? Forse, soltanto gli aforismi di Cernomyrdin. (5)

Ora tutti i problemi sono globali. E per questo non bisogna scaricare sugli altri paesi i nostri propri difetti. Perché io e voi siamo così bravi ma la loro depravata influenza ci ha resi cattivi. La corruzione c’è da noi e da loro. E l’ambizione. Da noi, in verità, si unisce con il complesso d’inferiorità ma questa è già una nostra aggiunta. Ma c’è qualcosa di comune, capite. Comuni difetti, comuni supremazie – entrambi i nostri paesi sono talentuosi e nella scienza e nella letteratura.

Che pensate, la Russia diventerà un giorno un paese civilizzato?

Per quanto il nostro paese si trovi in una situazione plasmatica, noi stessi dobbiamo dapprima rispondere alla domanda alla quale tutti evitano di rispondere: quale società costruiamo? Nessuno risponde a questa domanda. Perché? Perché non conoscono la risposta. Io ritengo che la migliore risposta era contenuta nelle riflessioni di Sacharov sulla convergenza. Sia il socialismo che il capitalismo, come le società predominanti nel pianeta, avevano i loro più e i loro meno. Ci serve qualcosa di terzo, un altro sistema, che contenga tutte le migliori qualità del socialismo che non si possono perdere (penso, ad esempio, all’istruzione gratuita) ed al tempo stesso utilizzare la flessibilità del capitalismo.

E non bisogna temere la critica interna. Se uno stato teme la critica interna – questa è la prima dimostrazione della sua debolezza. Una critica autentica, buona è in fin dei conti costruttiva perché focalizza l’attenzione sui problemi più di punta. Ma parlare apertamente dei problemi di punta –non significa assolutamente che questo sia un coltello nella schiena del proprio paese. Si tratta più spesso di un  bisturi, necessario di fronte al marcio della società. Continua a leggere

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ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 

Testata violaTestata azzurraTestata azzurro intensoLucio Mayoor Tosi Composition

L’OMBRA DELLE PAROLE

 INVITO 

al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA

Giovedì 30 Marzo 2017 – h 18:00

Presso la libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106 – Roma

 La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende perseguire. L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti. Sarà presente la Redazione. Vi aspettiamo.

Programma

  1. Giorgio Linguaglossa: Lettura e Commento di tre poesie di Gabriele Pepe – L’Evento come rottura della simmetria spazio – temporale.
  2. Chiara Catapano: Ο Μαϊστρος (Maestrale – di Steven Grieco-Rathgeb): lettura e commento dell’anima inconsapevole di un paesaggio.
  3. Steven Grieco Rathgeb: Lettura e commento di una Poesia di Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge
  4. Gino Rago: da Aldo Palazzeschi a «Preghiera per un’ombra» di Giorgio Linguaglossa: verso lo “spazio espressivo integrale” passando per Rebora e Pasolini – 3 poesie brevi di Palazzeschi, Rebora, Pasolini sull’ars poetica come antefatti a «Preghiera per un’ombra».
  1. Donatella Costantina Giancaspero: Lettura e commento di una poesia di Petr Kral (da Poeti cechi, Mimesis Hebenon, 2013 traduzione di Antonio Parente).
  2. Franco Di Carlo: Dialogo con Giorgio Linguaglossa su Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini.
  3. Sabino Caronia: Kafka e il romanzo del Novecento.
  4. Ospite: Salvatore Martino che parlerà del proprio itinerario poetico.
Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Lucio Mayoor Tosi Acrilic

ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

 Domanda: Tu hai scritto:

«Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto più volte i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Puoi portare un esempio di poesia non appartenente a questi tipi di scrittura che oggi vanno molto di moda?

Risposta: Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.  

La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.

Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come  frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così semplici e diritte. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

Domanda: Puoi fare un esempio?

Risposta: Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica;  in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta tautologica perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017)  la «quadridimensionalità». La poesia di Grieco-Rathgeb abita  un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo  universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

Il silenzio-lucertola scruta fisso.
Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
i suoi occhi gonfiano il vuoto.

Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o  commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

Domanda: puoi portare qualche testo a riprova di quello che dici?

Risposta: Senz’altro. Ecco alcune poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte dal suo volume Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Continua a leggere

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INTERVISTA SENZA DOMANDE MARIO M. GABRIELE: L’ERBA DI STONEHENGE, (Roma, Progetto Cultura, 2016) a cura di Flavio Almerighi e 4 poesie di Mario Gabriele

 Una intervista senza domande è certamente un fatto insolito, in quanto si decentralizza dal clichè  normalmente  usato, per far emergere alcuni aspetti particolari di un Autore, al fine di evidenziare i caratteri specifici di un’Opera  o di un determinato pensiero, quale approccio a un discorso culturale, sociologico e filosofico. Considerata  la nostra “condizione umana”, credo che l’unica traccia permanente  dell’esistenza rimanga  la  scrittura, come sosteneva Derrida,  e ciò vale anche per il patrimonio culturale trasmesso dalla scienza, dalla medicina, e dalle biotecnologie. Sui 7 punti fissati da Flavio Almerighi  nell’Intervista, e in seguito riportati, relativi ad alcuni versi, prelevati dai vari testi della mia ultima opera dal titolo: L’erba di Stonehenge, che viene ad aggiungersi agli altri dodici volumi  pubblicati nel corso di un quarantennio,  oltre ai saggi e  alle monografie di vari autori,  cercherò di essere chiaro nel  trasporre  il significato delle figure grammaticali, (metonimie, allegorie, similitudine, ecc.) da me usate. Non so quale sia l’input che spinge un poeta a scrivere versi, rispetto a un metalmeccanico che non lo fa. Il concetto di poesia  non risponde a nessun  paradigma. Ogni poeta  è uno “ speleològo” che scende nella  caverna del subconscio, per prelevare i  suoi componenti, riportandoli in superficie come frammenti della realtà.  Sorprendente è l’azione del pensare da cui  nascono i rapporti con le varie fenomenologie.  Scriveva Heidegger:” Può darsi che l’essenza propria del pensare si mostri a noi solo se restiamo in viaggio. Noi siamo in viaggio. Che cosa significa? Che siamo  ancora  tra (unter) le rotte (Wegen) inter vias, tra percorsi differenti. Ma quanto più un pensatore ci è vicino nel tempo e quasi contemporaneo, tanto più lungo è il viaggio verso il suo pensare, non per questo dobbiamo evitare il lungo viaggio”. (Heidegger M.” Che cosa significa pensare”). In  codesto  “lungo viaggio” ci si smarrisce  nella realtà, interrogandosi su ciò che è il Bene e ciò che è il  Male; quel male che non è mai surrealismo o negazionismo, ma presenza  di eventi passati e presenti, attraverso il linguaggio perlustrativo, e psicoattivo.

mario gabriele Nel suo incontro con gli studenti all’Università di  Madrid, il 24  febbraio 2006, Claudio Magris sul tema: Diritto e Letteratura, così si esprimeva: ”L’avversione della poesia al Diritto, ha verosimilmente un’altra ragione profonda. La Legge instaura il suo Impero e rivela la sua necessità là dove c’è o è possibile un conflitto: il regno del diritto e la realtà dei conflitti e della necessità di mediarli. I rapporti puramente umani non hanno bisogno del Diritto, lo ignorano: l’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni, che diventano d’improvviso invece necessari quando amore o amicizia si tramutano in sopraffazione e violenza, quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di contemplare il cielo stellato” o brucia  i libri  come  nell’era  nazista e in qualsiasi altra violazione della cultura e  dell’intelligenza.

Prima di entrare nel merito dell’Intervista, credo sia doveroso soffermarmi brevemente sul titolo del volume: L’erba di Stonehenge, che cela l’altra faccia di una realtà, come il Velo di Maya, caduto il quale ogni aspetto  celato si rivela in tutta la sua  funzione e specificità. In sintesi, ci sono due elementi dicotomici  fra  di  loro: il sito neolitico di Stonehenge, che rappresenta il passato, ossia la traccia di ciò che è stato e che sarà il nostro futuro, nella temporalità degli eventi e dei “quanti” astronomici,  e l’erba, invece, che  è la vita che si rinnova.

(pitture di Mario Gabriele)

Ed ecco i punti su cui poggia l’Intervista:

(a) … a salutare i fantasmi della sera.  (pag. 17)

Questo verso sta a significare la condizione degli esseri  umani  buttati in un tragico destino di morte, secondo Heidegger. La visione va oltre la fisicità del  momento. Essa appartiene ad una percezione nella quale i “viventi” sono prefigurati già come ectoplasmi, prima di essere tali dopo la fine della loro vita.

(b) per questo la lasceremo ai lupi e ai cani. (Pag. 18).

La struttura del  testo  si dispiega verso  spazi e contenuti avvolti dalla metafora che, nelle poesia svolge un ruolo di  trasposizione della realtà. Qui si interconnettono elementi e soggetti diversi, ognuno con un proprio ruolo nella rappresentazione scenica. La donna da condannare è Yasmina da Madhia “che nella vita ha tradito e amato” e per questi suoi “peccati” merita la  condanna a morte dai sostenitori del pregiudizio, e della morale, in onore di un credo o di un fanatismo religioso  e comportamentale,  che a volte sfociano  nel  femminicidio. Yasmina è il simbolo che rispecchia un po’ il disordine morale che affligge la nostra società, lacerata da precarietà e violenza. Ma quasi tutto il testo è la messa in scena di un processo virtuale  nel quale appaiono figuranti di reati di fronte a un Giudice. Questa è l’aura originaria da cui è partita la frase.

(c)    I Crani della Storia luccicano sotto i campi di baseball, (pag. 20).

E’ un testo  di  matrice civile il cui iter poetico ha latitudini geopolitiche precise. Mi riferisco, in particolare, all’Irak e a chi ne ordinò  l’invasione,  per far fronte alle armi di distruzione di massa possedute da Saddam, così come dichiarato da Blair; tesi che in effetti, non è stata mai dimostrata  l’esistenza, lasciando questa nazione in  attentati permanenti.  Da qui il saluto ironico  di  Good Morning President, rivolto a chi pretestuosamente, pianificò la guerra, mentre I Crani della Storia stanno a simboleggiare le morti di innocenti, caduti sotto le bombe al fosforo bianco o  sottoposti alle  torture nella prigione di Abù Maghrib.

(d)     La sera chiudeva la giornata con un uomo in transumanza, (pag.24).

Per chiarire meglio questa frase, occorre collegarsi a quella precedente ossia a: Uno sotto l’Arco del Trionfo,  senza donne e mascarpè, esile come un giunco (non più del ramo di una quercia) ecc. E’ la descrizione fisica di un soggetto che va incontro alla morte simboleggiata dalla sera, e che chiude la giornata (la vita) passata in transumanza, cioè trasferita altrove. Sul tema della  Morte e della Vita, ma anche su altri di più marcata centralità, si muove la mia poesia, e che altrove, in un’altra Intervista, ne metto in risalto il controsenso, riducendone  la loro effettualità  in  tanti  frammenti, oltre ai quali c’è il non Essere in contrasto con  il “cerchio del divenire “ di Emanuele Severino, che con le sue teoresi filosofiche centralizza l’assentarsi della morte nel ciclo vitale dell’uomo.

(e)   ma non avete un penny per i vostri peccati, (pag.29).

Per entrare nel fulcro di questa frase, bisogna rifarsi alla lettura di un passo della Bibbia dell’Antico Testamento, là dove si parla della Creazione e del potere dato dal Signore all’uomo su tutti gli animali.  Da qui  la trasposizione in versi che fa riferimento a:”Saranno vostri i delfini del mare / e gli uccelli del cielo/, e quella del Decalogo,  le cui  Leggi  non concedono  alcun premio  ai trasgressori; da qui il senso di “ non avrete un penny (ossia, ricompensa) per i vostri peccati”/.

(f)    Lungo la Deutsche-Limes Strass, / tra  striduli violini e suonatori d’orchestra, / tornarono in nente le cialde dei forni di Auschwitz, / anche se il meglio  con il tempo / non è mai venuto, / dopo il canto di Simeone / e le campane di Pasqua, /pag.30.

Il suono dei violini è la riconduzione della memoria agli strumenti musicali dei prigionieri dell’ultima  guerra, quando  erano costretti a suonare all’aperto per gli aguzzuni nelle serate al chiar di luna, come in molti film neorealisti e in Schindler’s list. Su codesto ambiente s’incuneano le immagini di coloro che morirono nelle camere a gas o nei forni crematori: persone viste come “cialde”, anche se dopo questa tragedia nulla è cambiato, nel senso che le violenze continuano ancora oggi a verificarsi ai danni dell’umanità, e nè Il canto di Simeone, e nè le campane di Pasqua, da me  citati, riescono a sconfiggere il Male nel Mondo, tanto che ad Auschwitz  fu decretata la morte di Dio. 

(g)   senza deliri e metafisiche accensioni, (pag.32).

La citazione dell’opera Un altro settembre di Thomas Kinsella, scrittore irlandese, nasce dal fatto che questo suo lavoro, sviluppa temi esistenziali, senza che egli ricorra a salvagenti metafisici e religiosi, e il verso da me adottato, chiarisce molto bene questa peculiarità, laddove sintetizzo il tutto con senza deliri e metafisiche accensioni. Perché questa scelta? Mi è sembrato percepire, dopo la lettura dell’opera, una certa sincronia psicoestetica intorno alla visione del mondo di Kinsella con la mia, completamente lineare alla sua.

*

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Decodificati così i punti di maggiore evidenza, ritengo utile (anche se ciò può violare un po’ l’organigramma dell’intervista di Flavio Almerighi), specificare meglio la struttura della mia poesia, rifacendomi ad un recente post di Giorgio Linguaglossa, apparso su L’Ombra delle parole del 3 settembre 2015, in cui chiarisce meglio l’ambiente nel quale opero e sviluppo i testi:

“Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio  che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

“Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa. (Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura). Con questa chiusa ringrazio vivamente  Flavio Almerighi per l’attenzione dimostratami e per la lettura del mio volume: L’’erba di Stonehenge.

È passato come l’albatros di Baudelaire
l’irrequieto Novecento.
A ritroso tornano alla memoria: La Maison Blanche
a Neuville Saint Vaast,
Guernica e Nagasaki, le ceneri di Gandhi e Irina,
la ragazza dell’Est che amava l’oiseau et son nid
di Georges Braque,
la scarlattina di Max e Joseph il giorno di Natale,
leggendo lunari e piccoli pamphlets,
e poi los ninos pobres de Rio,
i pochi versi di Cibulka nell’infamia del secolo:
“Nun kamen sie (e venivano coloro)
mitt denen ich gelebt, (coi quali avevo diviso la vita)
sie stürzten (precipitavano)
die Hänge des Monte Casino herab,
(giù per i pendii di Montecassino)
lauter Gefallene
(tutti caduti)
in sandbrauner Uniform, (in uniforme bruno-sabbia)”
con gli anni che credevamo non finissero mai
e che ora sono davanti a noi senza più redini e forza.

(da: Le finestre di Magritte, Bastogi, 2000)

 

E andammo per vicoli e stradine.
In silenzio appassirono il vischio e il camedrio.

Più volte tornò il falco senza messaggi nel beccuccio.
Restarono i giorni guardati a vista, arresi,
un gran vuoto dentro il link e la scritta sopra i muri:
– Non cercate Laura Palmer -.Correva l’anno……

L’erba alta nel giardino preparava un’estate
di vespe e calabroni. La nostra già era andata via.
Giusy trattenne il fiato seguendo il triangolo delle rondini.
– Se vai pure tu – disse, io non so dove andare!
Con i ricordi ci addormentammo e non fu più mattino.
L’alba non volle metterci lo sguardo.
Il boia a destra, il giudice a sinistra.
Caddero rami e foglie.
Fuggirono l’upupa e il pipistrello.
Nel pomeriggio confessammo i nostri peccati.

La condanna era appesa a un fil di lana.
I capi del quartiere si offrirono per la pace.
Li conosciamo – dissero. – Hanno dato tutto a Izabel
e Ramacandra. – Aronne è morto.
– A chi daremo allora ogni cosa di questo mondo? –
– La darete a Lazzaro, e a chi risorge
su questa terra o in un altro luogo e firmamento,
prima del battesimo dell’acqua,
non qui dove una quercia in diagonale,
come in una tavola di Poussin,
fermerà il tempo, e sarà l’ultima a fiorire –

PIOMBO FUSO

Sono anni, Louisette, che guardi la Senna,
come un uccello il bianco dell’inverno.
Non ti dico, quanta neve è caduta sullo Stelvio!
Nelle cabine c’erano avvisi di keep out,
una guida turistica del Rotary Club,
e un cuore di rossetto firmato Goethe.
Il gelo ha impaurito i passeri forestieri,
inaciditi i mirtilli nelle cristalliere.
Da nord a sud barometri impazziti,ghiaccio,
fosforo bianco su Gaza City,
tra artigli di condor sulle carni,
Mater dolorosa,
che facesti rifiorire il biancospino sulla collina.
Gennaio ha riacceso i candelabri
nel concerto dei morti,
tra toni bassi e controfagotti
Non so come tu abbia fatto a recidere le corde,
se il più sottile e amaro della vita
è il ricordo.
A monte e a valle profumo di tulipani, briefing.
Eppure se ci pensi, capita di morire ogni giorno,
di passare più volte sotto il ponte di Mirabeau!
Ti dico solo che all’improvviso,
finito il piombo fuso su Jabaliya
si sono di nuovo accesi i lampi nella sera,
i fantasmi della Senna.

7

GLOSSARIO TERAPEUTICO

L’acne ha scavato il derma, doctor.
Bisognerà passare all’ablazione,signora,
prima delle devozioni della sera.
Non vi è altra speranza, altra cura
dopo il Differin Gel, e il peeling,
non allergenico, non comedogeno,
con Salicylic Acid e Lactamide Mea.
Bisogna aver pazienza, Madame,
aspettare il Big Ben
stando con monsieur K allo chateau d’Orleans.
Questa è opera di dèmoni e cherubini, di riti Voodoo.
Prima di dormire non segua il Gossip, le lezioni di Baricco,
La solitudine dei numeri primi, le staminali,
le ali dei rondoni, il Catamerone di Sanguineti,
le morti dei poeti ottuagenari.
Ci rallegrano le short stories dei Dream Songs.
Per il septemberfest preghi Dante di non farla incontrare
Farinata degli Uberti; chieda una terzina al lotto.
A Flintstones House, c’è un – tetto bianco a cupola,
muretti di pietra vulcanica, interni freschissimi.
E a Santorini, vi è pure un’ex dimora rurale –
ed un pendio per l’aldilà.
Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I, come Ipèrbato, O, come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

*

A casa di Morrison si concluse il Patto.
Furono messi all’asta il Bene e il Male.
I frati della Congrega
si sparpagliarono per il mondo
passando per le Cinque Terre,
portando via bachi da seta
e cinque haiku di Matsuo Basho.
Nella settima strada di New York
un coro cantava Happy Birthday.
Tutti i morti uscirono dal tunnel
fermandosi chi nei pub,
che nelle vecchie camere da letto.

Questa mattina siamo stati nel giardino di Klingsor
a vedere come stanno le cose.
L’ingresso era chiuso.
La chiave gettata nel pozzo.
Ida da tempo non stava più bene.
Un signore andava in giro chiedendo money
per l’Africa World..
Il profeta deve aver fatto paura.
-Lascerete qui pelle e ossa e le ritroverete domani
quando finirà la tempesta.- sentenziò senza repliche.
Francoise de Mulier non ce la fa più
a reggere l’amore di Arnold.
La vita è tutto questo?-
-Un po’ di più, un po’ di meno, ma è così.-
– E che altro?. Non so dire!-
Uno, due, tre colpi d’asta batté il direttore d’orchestra
sul concerto dei Pink Floid.
Uno dopo l’altro lasciamo ogni giorno
gli anelli di nozze sui tavolini al confine.
Scandisce di nuovo il suo tocco il Big Ben.
Sono riapparsi i fantasmi della Senna.

mario-gabriele-visoMario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. Ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014): L’erba di Stonehenge (2016). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento tra cui: Poeti nel Molise (1981), La poesia nel Molise (1981); Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie – 1960/2001 (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli (2004). È presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio (1983); Progetto di curva e di volo di Domenico Cara; Poeti in Campania di G.B. Nazzaro; Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci;  Psicoestetica di Carlo Di Lieto e in Poesia Italiana Contemporanea. Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa, (2016). Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Altri interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier, Riscontri. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

flavio-almerighi-fotoFlavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (Aletti, 2002), Amori al tempo del Nasdaq (Aletti 2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013), Caleranno i Vandali (Samuele, 2016). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti). Dieci sue composizioni sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)

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DIECI POESIE DELLA POETESSA PALESTINESE-AMERICANA HALA ALYAN A CURA DI STEVEN GRIECO-RATHGEB “RADICE, TU, COSA MICROSCOPICA, ASTUTA” – TRADUZIONI DI TRINITA BULDRINI E STEVEN GRIECO-RATHGEB – Prima traduzione in italiano

Hala Alyan

Hala Alyan

Hala Alyan è una poetessa palestinese-americana e psicologa clinica. I suoi lavori letterari sono apparsi in diverse riviste, quali Guernica, The Missouri Review, Prairie Schooner. Atrium, edito da Three Rooms Press, ha conseguito il Arab American Book Award. E’ uscito recentemente Four Cities, edito da Black Lawrence Press. La sua raccolta più recente, Hura, ha vinto il premio della Sezione Poesia del Crab Orchard Series 2015, e sarà pubblicato dalla Southern Illinois University Press.

POESIE di HALA ALYAN

Birthday Art

Not jungle, but pastel, the color
of the first bruise paled
beneath the second. Mama,
I want to be a woman of dusklit
mosques, of ginger prickly in tea,
steam netted for a lover. Sky
becomes circular, spans itself
like hair. Hair, thickets, copper
with pollen: the mouth is a
key in the shape of echo. Rouge,
coral, center the suns. He
terraces bones for invisible
gods, blackening with
shale. And then a stream,
chromophilous water. Rinsing
the form, nipples dark as
coins hidden in a silk purse.
The backcloth is spent, another
flimsy dream about a doll
factory in Beirut, sirens lighting
the empty birdcage. My dream
self tastes the Turkish coffee:
graphite. Some treetop
ornaments with paper cranes
dangling from wires until wind
rustles all that white into a
froth like steam or cresting wave.
Like something spilled.
On a bed. Where bodies dance.

Arte di compleanno

Non giungla, ma pastello, il colore
del primo livido impallidiva
sotto il secondo. Mama,
voglio essere una donna di moschee illuminate
dal crepuscolo, di zenzero che pizzica nel tè,
vapore raccolto per un amante. Il cielo
diventa un cerchio, si allunga
come capelli. Capelli, boschetto, rame
con polline: la bocca è una
chiave in forma d’eco. Rossetto,
corallo, centrano i soli. Egli
mette ossa a terrazza per invisibili
dèi, annerisce con
scisto. E poi un getto,
acqua cromofila. Sciacquando
la forma, capezzoli scuri come
monete nascoste in una borsa di seta.
Il fondale è esaurito, un altro
sogno inconsistente di una fabbrica
di bambole a Beirut, le sirene illuminano
la gabbia per uccelli vuota. Il mio sé
sognato assaggia caffè turco:
grafite. Qualche decorazione
per la punta dell’albero con gru di carta
penzolanti da fili finché il vento
non fa frusciare tutto quel bianco fino
ad essere schiuma come vapore o cresta d’onda.
Come qualcosa di versato.
Su un letto. Dove danzano i corpi.

You, Bonsai Girl

Blue was always
yours,

jazzing its way onto your buttons
and eyelids.

Some women dream of hurricane.

I think you are a pier,
filmed, wooden planks beneath sheets of rain.

Or some jungle canopy,

wolfing light while, below,
creatures twist in the murk. Anyways,

what remains of that hunting is inland.

Some gourd,
emptied, your September ancestors

howling on Delancey. Stale Nile water in your mouth,

dark as sunflowers. (The heart, not the petal.)
I hear you, ghost,

your voice minnowing the sag of mattress

even in America. Prophecy,
how you held your body still in his bed

like you were no woman, but object.
A tooth,

long and
yellow, pulled from a witch’s

garden and oh
sister it was real. That sky. Those streets full of men

applauding your legs.

.
Tu, ragazza bonsai

L’azzurro è sempre stato
tuo,

elettrizzava i tuoi bottoni
e le sopracciglia.

Alcune donne sognano l’uragano.

Penso tu sia un molo,
filmata, assi di legno sotto lenzuola d’acqua.

O qualche copertura di giungla,

divorando luce mentre, più giù,
esseri si torcono nelle tenebre. E comunque,

ciò che rimane di quella caccia sta all’interno.

Qualche zucca,
svuotata, i tuoi avi di settembre

urlanti su Delancey. Acqua stantia del Nilo in bocca,

scura come girasoli. (Il cuore, non il petalo.)
Ti sento, fantasma,

la tua voce piccola dove sprofonda la buca del materasso

anche in America. Profezia,
come tenevi il tuo corpo immobile nel suo letto

come tu non fossi donna, ma oggetto.
Un dente,

lungo e
giallo, estratto dal giardino

di una strega, oh
sorella, com’era vero. Quel cielo. Quelle vie piene di uomini
che applaudivano le tue gambe.

Icon

While the moon stoops in the early April sky,
I fold paper into a tragic crane. One magician
burns sand, another palms a tree. My crane
flickers her lovely neck and weeps. After the fire,
everything smelled of chartreuse, a red that
guttered in the neighbor’s dreams. A piano
turns bodies magnetic with music. I want to break
myself like egg for you, to pool in gold and lost.

Icona

Mentre la luna fa la gobba nel primo cielo d’aprile,
io piego la carta per farne una tragica gru. Un mago
brucia la sabbia, un altro crea dalla palma un albero. La mia gru
tremola il suo collo aggraziato e piange. Dopo l’incendio,
tutto aveva odore di liquore, un rosso che
si spegneva nei sogni del vicino. Un pianoforte
magnetizza i corpi con la musica. Per te voglio rompermi
come un uovo, raccogliermi in oro liquido e persa.

Narcissus

The clouds owl-eye the sky,
gaped at by moon. Yes,

I dreamt we wed. A priest
fed us rice and sugar,

the cathedral was locked.
Trees litter Brooklyn streets

with blossoms. I wake to Iraq,
to neighbors kissing.

I am a ghost ship
smothered by Neruda’s stars.

Is that what you wanted?
To hear me say I ache? I ache.

Narciso

Le nuvole fanno occhi da gufo al cielo,
osservate da una luna a bocca aperta. Sì,

ho sognato che ci sposavamo. Un prete
ci dava riso e zucchero,

la cattedrale era serrata.
Alberi spargono fiori per le vie

di Brooklyn. Mi sveglio all’Iraq,
ai vicini che si baciano.

Sono una nave fantasma
soffocata dalle stelle di Neruda.

E’ questo che volevi?
Sentirmi dire che fa male? Fa male.

Ya Bint

It was Lyra peeking through the trees
in Berlin, a smattering of needlepoint lights
above the spiked leaves. You spoke of Io, steam-
plumes grainy as past. Of the past, keep the echo,
the blankness on a crested sand dune. I never
called you beautiful, though you are, starlet
lips and curls like earth, as though Baghdad
never forgot you. In the bowels of Gaza my father
counted chicks on a road. I am always pirating
his memories. You pointed to the brightest dot,
silver upon your wrist. Before your mother died,
she would extract fish bones, one after the
other, giving you the good, clean meat. I do not
remember the name of that star or the trees or
the man who bought us gin in a dank Irish
pub. The star was clear. I still think of your lips
and those glistening bones. All that almost-malice.

Ya Bint – Ehi, ragazza

Era la Lira che sbirciava tra gli alberi
a Berlino, uno sfuocarsi di spilli di luci
sopra le foglie a punta. Hai parlato di Io, pennacchi
di vapore granulosi come passato. Del passato, conserva l’eco,
il bianco sulla cresta di una duna di sabbia. Non t’ho mai
detto che eri bella, anche se lo sei, labbra da attricetta
e riccioli come la terra, quasi Baghdad
non ti avesse mai dimenticata. Nelle viscere di Gaza mio padre
contava i pulcini su una strada. Sto sempre rapinando
i suoi ricordi. Hai indicato il punto più luminoso,
argento sopra il tuo polso. Prima di morire, tua madre
estraeva le lische dal pesce, una dopo
l’altra, per darti la buona carne pulita. Non
ricordo il nome di quella stella né gli alberi né
l’uomo che ci ha portato del gin in un oscuro pub
irlandese. La stella era limpida. Ancora penso alle tue labbra
e a quelle lische luccicanti. Tutta quella quasi-malignità.

After Thunderstorms in Oklahoma

The sky becomes sickly,
unripe mango rind dappled
with flecks of green. Air opens
and closes like trachea. This
was the sky I dreamt in Ramallah,
a false awakening in the hotel room.
I pulled at curtains against the
whistling storm. But the curtains
swarmed into wood splintering my
fingers. I spun the wood into glass
and played it like a sitar. Outside
the sky roared and a forest sprouted,
abruptly, on the tiny bed. I crept
into the spruces and lay flat
on the rug. Cicadas rustled
inside a pear. The storm became
a militia. They jangled with chimes,
coming for my teeth. I woke
and it was sun and I forgot.

Dopo le tempeste in Oklahoma

Il cielo si fa malato,
buccia di mango acerbo maculata
di chiazze di verde. L’aria si apre
e si chiude come una trachea. Questo
il cielo che ho sognato a Ramallah,
un falso risveglio nella camera d’albergo.
Ho tirato le tende contro il
fischio della tempesta. Ma le tende
sono sciamate in legno scheggiandomi
le dita. Ho filato il legno in vetro
e l’ho suonato come un sitar. Fuori
il cielo ruggiva e una foresta è germogliata,
bruscamente, sul lettino. Sono entrata carponi
fra gli abeti, mi sono appiattita
sul tappeto. Le cicale frusciavano
dentro una pera. La tempesta è diventata
una milizia. Tintinnavano con sonagli,
volevano i miei denti. Mi sono svegliata
ed era sole e ho dimenticato.

Laleh

The night of the knives
Jupiter slung low
and silver in the sky.
A second moon,
the aunts said, rolling
rice into spheres.
The fighting crackled
outside our window
with the legs of a
hurricane. The aunts cut
lemons from Tabriz
for juice. The men
returned ruined and
we scoured the blood
from their shirts and
kissed them asleep.
That was lunging—
the welting of skin and
pockmarking, the reeds
glistening in river water,
a seashell stolen from
the Gulf on the mantle,
pearly, beautiful,
reminding us of what
we could not touch.

Laleh

La notte dei coltelli
Giove appeso basso
e argento nel cielo.
Una seconda luna,
hanno detto le zie, facendo
sfere di riso.
Il combattimento crepitava
fuori dalla nostra finestra
con le gambe di un
uragano. Le zie tagliavano
limoni di Tabriz
per il succo. Gli uomini
sono tornati a pezzi
abbiamo strofinato via il sangue
dalle loro camicie e
dato il bacio per dormire.
Quello era un affondo –
il lividore della pelle e
butterarla, le canne
luccicanti nell’acqua del fiume,
una conchiglia rubata dal
Golfo sul caminetto,
perlacea, bellissima,
ricordandoci ciò che
non potevamo toccare.

.
Even Fevers Make Bodies

Jerusalem springs forth like a violence
and I
                    audacious sashay

her gulfing streets with twin wings on my shoulder.

                    Mouth,
I have skin soft enough to catch you

and the pink below the needle—
rot, rot.

Pinned beneath opium eyes I pitched
myself across

                    the Atlantic. Celtic music kept pace of our lungs.

Root, you microscopic, sly thing.

Even teethed by a lover my organs pulse for certain cities.

I saw a woman on a porch once. Her hair, silver as tusks,
                    swung

polished in the simple Vienna light.

She said comets spin on these July
                    evenings

because Allah loves to dance in their
lovely glow.

Anche le febbri fanno corpi

Gerusalemme balza incontro come una violenza
ed io
                    audace ancheggio

le sue vie sboccanti con ali gemelle sulla mia spalla.

                    Bocca,
ho pelle morbida a sufficienza per acchiapparti

e il rosa sotto l’ago –
marciume, marciume.

Fissata sotto occhi di oppio mi sono
catapultata di là

                    dall’Atlantico. Musica celtica andava al passo con i nostri polmoni.

Radice, tu, cosa microscopica, astuta.

Perfino addentati da un amante i miei organi pulsano per certe città.

Una volta ho visto una donna su una veranda. I suoi capelli, argento di zanne,
                    oscillavano

lucidi nella semplice luce di Vienna.

Disse le comete vorticano in queste sere
di luglio

perché Allah ama danzare nel loro
                    incantevole brillio.

.
Fruit

You of the moist
eyes and rough mouth.
I glitter like dew for
your gaze and write
Morocco in dust
with fingertips. Sun
finds you flung
across an orchard of
music tapping along
with bare feet in rain
and grass. I never
weep and neither
should you: The birds
know nothing of greed
or the love we
splintered together
in urban streets.
Undressing makes
confetti of the night
and I am a slowly lit
Roman candle that all
the neighborhood
children— sleepy, tipsy
with August— have
gathered to watch burn.

Frutta

Tu dagli umidi
occhi e bocca ruvida.
Io brillo come rugiada per
il tuo sguardo e scrivo
Marocco nella polvere
con le punte delle dita. Il sole
ti trova scagliato
in mezzo ad un frutteto di
musica battendo al ritmo
coi piedi nudi fra pioggia
ed erba. Non
piango mai e nemmeno
tu dovresti: gli uccelli
non conoscono l’avidità
né l’amore che
abbiamo frantumato insieme
nelle vie cittadine.
Spogliarsi trasforma
la notte in coriandoli
ed io sono la fiamma accesa pian piano
di una candela romana che tutti
i bambini
del vicinato – assonnati, brilli
d’agosto – si sono
riuniti a veder bruciare.

.
For Lent

S, I dreamt we draped fairy lights around the Coliseum,
roping the tangled wires into snakelike piers. God

whispered from a wasp nest. You ate the candy
skull. Later, it was water rising in scarlet waves,

a shark speaking your name. Firewood or lace or rifle,
I house the timid of you in my mouth, seven languages

before steeple. Our passports are soaked, and ruined.
Budapest glows and snowflakes frame the false memory:

we swam in an ocean of pollen, yellow so thick it trembled
against our bodies. You tapped the gold from my hair.

Per la Quaresima

S, ho sognato che avvolgevamo luci fatate intorno al Coliseum,
fasciando con fili aggrovigliati i moli a serpente. Dio

sussurrava da un nido di vespa. Tu hai mangiato
il cranio candito. Più tardi era acqua che saliva in onde scarlatte,

un pescecane diceva il tuo nome. Legna da ardere o merletto o fucile
accolgo la tua timidezza in bocca, sette lingue

prima di guglia. I nostri passaporti sono fradici, e rovinati.
Budapest risplende e fiocchi di neve incorniciano il falso ricordo:

nuotavamo in un oceano di polline, giallo così fitto che tremava
contro i nostri corpi. Tu hai scosso via l’oro dai miei capelli.

.
In the City of Fire

The years pass. We leave the wreckage for the birds
and live in skyscrapers now,
hang paintings of glaciers mid-thaw.

When the city meets her tombs,
we pour whiskey into tumblers and sigh. We say
this country makes you hard. Even the dead starve.

The mothers march parades through the cemetery.
Joy is for the afterlife, they say,
and drape the headstones with myrrh and lace.

The keys hang between the breasts of our daughters now.
They palm cigarettes and speak of revolution.

We tell them the prophets have been dead for ages,
the flags crumbled in the riots.

Our hands fill like volcanos at the dying cities
but we tore the atlas into psalms.

In our houses we leave every light bulb burning,
keep the music cranked up loud and fast
for the god we will never let sleep.

Nella città di fuoco

Gli anni passano. Le macerie le lasciamo agli uccelli
e ora abitiamo in grattacieli,
appendiamo quadri di ghiacciai a metà disgelo.

Quando la città incontra le sue tombe,
versiamo whisky nei bicchieri e sospiriamo. Diciamo,
questo paese ti indurisce. Perfino i morti patiscono la fame.

Le madri sfilano in processione attraverso il cimitero.
La gioia è per l’aldilà, dicono,
e coprono le lapidi con mirra e trine.

Ora le chiavi pendono tra i seni delle nostre figlie.
Nascondono le sigarette in mano e parlano di rivoluzione.

Gli diciamo che i profeti sono morti da tanto,
le bandiere sbriciolate nei tumulti.

Le nostre mani si riempiono come vulcani alle città morenti
ma abbiamo strappato l’atlante per farne salmi.

Nelle nostre case lasciamo accesa ogni lampadina,
teniamo la musica a tutto volume e veloce,
per il dio che non lasceremo mai dormire.

.
Retrieval

Rapture in tunnels, in that radiant fever
of black dahlias flinging their sex
into the heavy air, gods and their wild-eyed
saints, a sea that whips itself into a
plunging dark. From the shipwreck they pulled

pyrite, instruments that shroud their
lost music. Rapture in chalky stars slung into
the rib cages of magnolia trees, windows mottled
milky with children diving for bottles. O grief,
when the owls begin their slow, gentle croon,
may we climb onto the highest pillar and
gather ourselves for the first wind like mammals.

Recupero

Estasi nelle gallerie, in quella febbre radiosa
di dalie nere che scagliano il loro sesso
nell’aria pesante, gli dèi e i loro santi dagli occhi
folli, un mare che mulina in un buio
precipitando. Dal naufragio hanno estratto

pirite, strumenti che celano la loro
musica scordata. Estasi nelle stelle biancastre infilate
nei costati delle magnolie, finestre
chiazzate di latte con bambini che si tuffano per i biberon. O dolore,
quando dei gufi inizia il richiamo sommesso,
saliamo sulla colonna più alta
per radunarci come mammiferi al primo vento.

cinema maniINTERVISTA A HALA ALYAN

DOMANDA 1: Il tuo sito Web contiene pochi dettagli autobiografici: dice soltanto che sei una poetessa palestinese-americana, specializzata in psicologia clinica, e che a presente vivi a Manhattan. Nelle dieci poesie che hai scelto per L’Ombra delle Parole, leggiamo di uomini feriti che tornano a casa, esperienze di incendi, Gaza, Beirut, Baghdad; e poi anche L’Oklahoma, Budapest, Berlino. Talvolta i riferimenti sono espliciti, talvolta allusivi. In entrambi i casi, sfuggenti. A tratti, si ha l’impressione che chi scrive questi versi viva la propria unità corpo-mente come i pezzi smembrati di un essere umano (cosa che ci dà anche modo di intravedere la sua condizione di donna nel mondo di oggi, ma per questo rimando alla domanda 4); e che spesso è solo questa persona dis-membrata, non l’unità umana nella sua interezza, che si muove, scorre attraverso luoghi lontani l’uno dall’altro. Gli altri “pezzi” di quella unità stanno “altrove”, forse in quelle zone crepuscolari dove ciascuno di noi appartiene solo a se stesso. Sogno e realtà sono spesso difficili da tenere separati. La post-modernità ha profondamente trasformato molti di noi, rubandoci i luoghi, le stesse famiglie in cui siamo nati, rubandoci le radici sociali, culturali, linguistiche. In cambio abbiamo ricevuto in dono un mondo inquietante, entusiasmante, apparentemente interconnesso, eppure frammentato. Senti calzante questa descrizione della persona poetica che emerge dalla tua poesia?

RISPOSTA 1: Trovo questa una descrizione squisita di ciò che cerco di fare nel mio lavoro poetico, che spesso viene sopraffatto dall’atto del ricordare, dal “remembering” nel senso di ri-membrare: vuoi gli antenati, o la terra, o l’amore… molte cose; e nel corso di questo lavorio, l’attenzione si concentra sulla parte rispetto alla persona intera, come hai detto tu. È così che appaiono “le aree crepuscolari” a cui alludi, ed è lì, secondo me, che entra anche il lettore: insieme perveniamo ad una frammentata ma più ricca visione di quello che vorremmo dire.

DOMANDA 2: Le tue poesie ci lasciano capire che nel corso della tua vita hai viaggiato molto in tutto il Medio Oriente, in Europa, gli USA. Immagino che alcuni di questi viaggi li hai scelti tu, altri ti sono stati imposti dalle circostanze.

RISPOSTA 2: Certo, alcuni di questi viaggi li ho scelti io di mia iniziativa. Quando mi imbatto in una città che sento subito vicina – New Orleans, Jaffa, Siviglia – quel luogo rimane nel mio pensiero, anche se non ci tornerò più. Mi piace vedere il viaggio come l’inizio di un rapporto con lo spazio, una collaborazione: la città forse ricambierà il tuo amore, forse no. La città ti darà un senso di riposo, o non te lo darà. I luoghi che mi ricambiano con un qualche affetto o con un qualche cuore, li sento subito vicinissimi a me.
Alcuni viaggi, come dici, mi sono stati imposti dalle circostanze. Quando avevo quattro anni, Saddam invase il Kuwait, e la mia famiglia fu costretta a fuggire. Prima in Siria per un breve periodo, poi verso il Mid-West degli Stati Uniti. Nel 2006, mi trovavo a Beirut quando scoppiò la guerra fra Hezbollah e Israele, e questo ci costrinse dopo del tempo a salire a bordo di una nave per sfollati diretta a Cipro. In seguito a ciò il mio rapporto con Beirut, la città in cui avevo passato gli anni di liceo, cambiò moltissimo. Mi sono resa conto del mio sentimento di grande amore e profonda diffidenza verso questa città. Sento forte l’appartenenza al Medio Oriente – un luogo che può esserti tolto nello spazio di un battito del cuore. Eppure è lì che esprimo più la mia autenticità.

DOMANDA 3: Le poesie generalmente dicono tutto quello che devono dire, non hanno bisogno di essere spiegate. Nel tuo caso, quello di una poetessa che attraversa le lingue e i continenti, qualche spiegazione in più può aiutare il lettore a capire meglio. Prendo come esempio la mia esperienza personale. Io impiego materiali nella mia scrittura che pur essendo simili e presenti simultaneamente in diverse lingue e culture, acquistano sfumature e suggestioni diverse, inedite, quando vengono rimescolati, costretti ad attraversare le barriere che quelle culture ancora innalzano una contro l’altra. La ricchezza-diversità del nostro mondo globalizzato non è così “seamless”, interconnessa, come si pensa: le cuciture e le interruzioni, la incomunicabilità culturale ci sono, eccome. Questo è soprattutto vero nella poesia, che almeno qui in Europa punta spesso alla conservazione di moduli testati – il cosiddetto bagaglio della tradizione letteraria – e non alla innovazione e alla ricerca di nuove possibilità espressive. Insomma, la poesia bene o male ancora oppone resistenza al mondo contemporaneo, che pure ci è davanti agli occhi, che subiamo e viviamo quotidianamente. Ecco perché aspetti di cultura esistenti in una zona e in una lingua hanno difficoltà ad essere recepite, anche solo tradotte, in un’altra zona o un’altra lingua senza subire una forte distorsione dei contenuti. Questo difficile processo di “comunicare”, “veicolare” i contenuti in modo “puro”, è proprio l’argomento di molte mie poesie. Mi sembra che una dinamica simile possa applicarsi alla tua scrittura.

RISPOSTA 3: E’ una domanda difficile. Comunque sia, sì, sono molto in sintonia con te quando dici che è arduo comunicare la nostra esperienza (che per me in ogni caso è fortemente connessa alla cultura e al luogo) e allo stesso tempo salvare quella esperienza dall’atto della traduzione-comunicazione, diciamo così.
Secondo me, i lettori leggono la poesia e la contestualizzano secondo il loro proprio immaginario. Ad esempio, trovo spesso che lettori occidentali cercano l’elemento arabo nella mia poesia, mentre gli uomini vi cercano tutto quello che è femmina. Sono certa che un background cosiddetto “complicato” tende a sviare il lettore, il quale allora sente di doversi mettere alla ricerca della traccia di briciole di pane dell’esperienza del poeta: dove è vissuto, chi ha amato, e via dicendo. Quando ero più giovane, mi preoccupavo molto di come dovevo “rappresentare” le varie realtà alle quali mi sentivo legata: la Palestina, essere donna, per dirne due. Ultimamente il mio concetto della “privacy” , della sfera intima, è cambiato e così anche il senso di responsabilità nei confronti dei lettori: cerco di spiegare meno nella mia scrittura. Parto con l’assunto che molto probabilmente il lettore non sarà in grado di immedesimarsi nella mia pulsazione emotiva, e quindi scrivo con la consapevolezza (e quindi con maggiore abbandono) che i lettori introdurranno se stessi, le loro vite, i desideri e le paure, in qualsiasi testo. In questa consapevolezza trovo un enorme senso di liberazione.

DOMANDA 4: In alcune tue poesie – ad esempio “Tu, ragazza bonsai” e “Arte di Compleanno” – riusciamo a intravedere la poetessa come donna che necessariamente vive fra realtà “tradizionali” e “moderne”. D’altronde è questo il destino di milioni e milioni di donne in tutto il mondo oggi. C’è qualcosa che vuoi dirci a tal riguardo?

RISPOSTA 4: Lo faccio, io penso, inconsapevolmente: quello di trovare un modo per scorrere attraverso il tradizionale e il moderno. Nella vita quotidiana, sono talvolta vagamente cosciente del fatto che mi trovo a praticare un delicato atto di equilibrismo, particolarmente quando torno in Medio Oriente. Sia some psicologa che come scrittrice, credo fermamente nella potenza della testimonianza, sia del vissuto degli altri, sia del vissuto che è nostro. Questo, in particolare per le donne, può essere galvanizzante al massimo: la scrittura come catarsi, che ci aiuta a capire i sistemi di oppressione e di occupazione che viviamo oggi nel mondo.

COMMENTO DI CHIUSURA di Steven Grieco-Rathgeb

Mentre in tandem traducevamo le poesie di Hala Alyan, poetessa palestinese-americana, ci siamo trovati più volte a dover separare, distinguere fra i molti strati di vissuto che emergono dalla sua poesia come fitto intrico di significati e allusioni. Sorgono subito alle labbra parole come “spodestamento”, “diseredazione”, “esilio”, e questo è evidente dalle domande che le ho posto. Ma in queste cose è necessario andare con i piedi di piombo. Dopo il primo periodo d’infanzia, come apprendiamo, la poetessa è passata da un paese all’altro, e forse non ha mai sentito di appartenere interamente a nessuno di questi, seppur vivendo con virile distacco e lucida intelligenza questo trascorrere, questo scivolare senza peso attraverso i luoghi, le persone e le situazioni.
Vi è un sottile, allucinato vibrare nella sua poesia, come se il suo comune quotidiano vivere fosse insidiato da una mascherata estraneità. Nei soggetti che hanno una esperienza esistenziale di rottura, frammentazione e separazione, la irriducibile alterità delle cose spesso si presenta così, con un volto familiare, conosciuto, perfino sorridente.
Certo è che le sue poesie rivelano una vita onirica ricchissima. Anche questa è forse una difesa dalla consapevolezza che il tessuto del reale è stato più volte lacerato. Ma tale situazione, diciamo pericolosa, che può chiudersi su se stessa e diventare balbettio, si trasforma qui in una capacità di controllo del mezzo espressivo: ed ecco la stratificazione dei contenuti, ecco la volontà complessa di giungere ad un qualche seppur labile equilibrio, una qualche armonia fatta di dissonanze: ecco questa ricca, talvolta inscrutabile densità di scrittura.
In un primo momento ho chiesto a Hala Alyan di darmi qualche informazione biografica in più – cosa che prontamente lei ha fatto: poi invece ho capito che una delle cifre della sua poesia è proprio la reticenza riguardo al dato biografico, facilmente manipolato e frainteso. Il pericolo è che il lettore sminuisca queste poesie accomunandole semplicisticamente al dramma mediorientale che ogni giorno si svolge davanti ai nostri occhi mediatizzati.
Qui invece siamo in presenza di una poetessa che è sì – sicuramente – vittima di forti dislocazioni geografico-umano-temporali dovute almeno in parte alla conflagrazione della sua terra d’origine: ma che usa la propria esperienza per fini poetici che vanno oltre il dato umano, soggettivo. E qui la cosa diventa sottile, complicata. Siamo in presenza di un tentativo di forgiare l’esperienza umana in poesia pura, distaccata dal dato soggettivo. Ciò è soprattutto sorprendente data la sua età. Si dice che il vuoto poetico nel mondo di oggi faccia di poeti sessantenni e settantenni dei “giovani” in pieno sviluppo artistico: in modo simile, vediamo i giovanissimi talvolta maneggiare lo strumento espressivo con consumata maestria, un tempo più tipico del poeta maturo.
Non solo le poesie, ma anche la posizione teorica che emerge dalle ultime battute della Risposta 3, sembrano porre questa poetessa all’avanguardia poetica oggi. Mi riferisco alla sua precisa volontà di praticare una scrittura non-invasiva, una scrittura che abbia come presupposto la “libertà” del lettore. Il che sembrerebbe necessariamente implicare anche il non-controllo da parte dell’autore del suo testo. Siamo di fronte ad una questione delicata. C’è da chiedersi in quale modo l’autore riesca a dare piena libertà al suo testo: e forse la risposta può soltanto stare in questo: nel rigore del linguaggio. In fondo, ogni opera artistica si basa su un linguaggio: di conseguenza, più è coerente il linguaggio, più facilmente recepibile ne sarà la suggestione, o il “messaggio”. Oggi rigore di linguaggio e libertà espressiva sono i due pezzi perfettamente corrispondenti dello stesso symbolon: l’opera artistica.
Nelle sue composizioni musicali, Iannis Xenakis crea dissonanze forti, “creative” proprio all’interno di un linguaggio di assoluta coerenza: fino ad evocare, a suggerire, alquanto stranamente, una remotissima, stupefacente armonia.
Indispensabile requisito: che il fruitore abbia familiarità con il linguaggio usato. Senza questa, tutta l’arte moderna – dagli espressionisti, cubisti e dodecafonisti in poi – è solo rumore.
Queste poesie di Hala Alyan dunque ci chiedono di avvicinarci con passo lieve, senza eccessive contestualizzazioni che depistino invece di illuminare. Piuttosto con quell’approccio che Mani Kaul, regista indiano, usava con i suoi studenti alla Harvard University e alla Scuola d’Arte di Rotterdam: veniva loro mostrato un frammento di una immagine, un pezzo totalmente anonimo, indecifrabile ma non insensato, sul quale si chiedeva loro di concentrare l’attenzione per evincerne un senso, una suggestione: e di esplorarla nella sua nuda semplicità, al fine di usarla eventualmente per un loro proprio percorso creativo.
Forse è così che i poeti agiscono gli uni sugli altri: non per imitazione, ma con una mano che appena ti sfiora la spalla.

Steven Grieco a Paestum

Steven Grieco a Paestum, 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in  Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. 10 sue poesie sono apparse nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016 pp. 352 € 18, a cura di Giorgio Linguaglossa. È in corso di stampa un libro di poesie presso Mimesis editore. indirizzo email:protokavi@gmail.com

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Wisława Szymborska (1923-2012) INTERVISTA pubblicata su “L’espresso” il 31 ottobre 1996 e POESIE SCELTE da “Epitaffio”, “Basta così” “Nel sonno”, (Adelphi, 2014) e “Monologo per Cassandra”, “Possibilità” “Conversazione con una pietra”, “Terrorista che guarda” “Prospettiva” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska

Czeslaw Milosz Wislawa Szymborska

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Basta così è il titolo della raccolta postuma di Wisława Szymborska curata da Ryszard Krynicki e tradotta da Silvano De Fanti per Adelphi. Poche poesie prima che sopraggiungesse la morte della poetessa polacca avvenuta il 1 febbraio del 2012.

Ho letto con curiosità l’episodio della pubblicazione di una poesia della giovanissima Wisława sulla rivista più prestigiosa del suo paese. Aveva spedito alla nota rivista alcune poesie che furono subito bocciate dalla redazione perché giudicate «banali e superficiali». Poi, però, uno dei redattori propose alla Szymborska numerosi tagli ad una sua poesia ed insistette affinché venisse pubblicata. Fu così che apparve la prima poesia della Szymborska sulla prestigiosa rivista di letteratura. Quello fu il battesimo letterario della poetessa polacca.

Ecco qui queste poche poesie che il curatore presenta nella forma autografa: foglietti scritti a mano con una grafia attenta e minuta, attraversata da correzioni e ripensamenti. Piccoli versi che non hanno nulla di prezioso, dove non c’è nessun struggimento dell’anima ma una precisissima attenzione per i dettagli delle situazioni e degli oggetti (i dettagli degli oggetti sono molto più importanti degli oggetti), gli spiragli del quotidiano che ci aprono abissi di senso, cose che vediamo tutti i giorni senza farci caso. Il viaggio nel mondo della poetessa polacca è il nostro viaggio, quello che noi tutti ogni giorno facciamo attorno al nostro dito e attorno al nostro «io». Traduzione in semplici frasi dell’assurdo del mondo quotidiano. L’assurdo di chi mette «tutto in ordine dentro e attorno a lui», di chi crede di avere la risposta pronta per tutti i problemi e «appone il timbro a verità assolute, / getta i fatti superflui nel tritadocumenti/, e le persone ignote/ dentro appositi schedari».

E poi ci sono quelle esilaranti composizioni rivolte come frecce acuminate contro gli intellettuali che si nutrono di «parole» inutili e superflue: «parole per spiegare le parole», «cervelli intenti a studiare il cervello», «boschi ricoperti di bosco fino al ciglio», «occhiali per cercare gli occhiali».

«Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta»
(Wisława Szymborska, Torture)
WISLAWA SZYMBORSKA_3

Wisława Szymborska

Credo che la lettura della poesia della Szymborska abbia una funzione ecologica e profilattica della intelligenza, è una difesa della singolarità dell’uomo minacciato dalla invasione di massa del pensiero normalizzato. La poetessa polacca segue uno schema indiretto di esposizione, racconta un evento, magari trascurabile, che tutti abbiamo notato ma che abbiamo dimenticato perché ci è sembrato ovvio, appunto, normale; va per la via più breve attraverso il metro libero verso la cosa che vuole dire, ma poi accade che perde il filo di ciò che sta dicendo e cambia registro, parla di altro, apparentemente, per poi ricordarsi di quel filo lasciato in sospeso e lo riprende, lo riannoda, lo accorcia, lo allunga, lo mette sotto la lente di ingrandimento, lo abbandona di nuovo e lo riprende. Fa ad un tempo una poesia populistica e intellettualistica, minimalistica e antiminimalistica, ironica e autoironica, antifilosofica e filosofica, ermeneutica e antiermeneutica. In una parola, fa una poesia del nostro tempo nichilistico, accetta del Nihil il Nihil senza rimpianti religiosi o filosofici, senza inutili struggimenti, senza contorcimenti; sa che nel nostro mondo di oggi non c’è religione o filosofia che tenga; non c’è religione affatto, e forse non c’è neanche una filosofia che possa consolarci. Religio nel senso di stare insieme, non è più una cosa del nostro tempo. In realtà, la Szymborska minimizza ciò che va minimizzato e mette sotto la lente di ingrandimento i nostri piccoli tic quotidiani, le nostre contraddizioni, le nostre manie, le nostre piccole normalità quotidiane. È il suo modo di trattare il «quotidiano», il suo particolarissimo periscopio. È stato anche detto che la Szymborska è una poetessa minimalista. Nulla di più falso e fuorviante, la sua è una poesia che mette al centro del proprio fare il problema dell’Interrogazione.

È una poesia che si interroga su tutto, che chiede lumi al lettore, che lo convoca, che lo sfida, che lo provoca ad interrogarsi sulle sue medesime interrogazioni, che lo fa sentire importante. Non è una poesia che dice al lettore: «Vieni qui, guardami, guarda quanto sono bella!»; è una poesia che dice al lettore: «Vieni, conducimi, dimmi tu che cosa devo fare in mezzo al ginepraio del mondo». È una poesia di grande responsabilità estetica. Si diceva una volta, una poesia umanistica. Non so se è esatto, io mi contento di dire che è una poesia che si aggrappa al dubbio come all’ultima delle certezze. Forse in ciò è davvero umanistica in quanto problematica, e problematica in quanto umanistica. È una poesia modernistica nel senso più alto del termine, e problematica come lo può essere una poesia umanistica.

Per la Szymborska la poesia non è come una seconda pelle, come un abito che ti sta stretto alla vita, che non ti lascia respirare ma che sei costretto a portare per superiore costrizione, per educazione, per convenzione condivisa, ma un abito libero, abitabile, largo, elastico, comodo. Sappiamo da Wittgenstein che l’abito non è fatto per coprire il corpo nudo, non è quello il suo compito, altrimenti tutto sarebbe fin troppo semplice, ma per ben altri scopi che nulla hanno a che vedere con il freddo o il caldo da cui l’abito dovrebbe fornire protezione. Così, il linguaggio poetico è fatto per ben altri scopi che non per comperare un biglietto quando si sale sull’autobus. Si può prendere l’autobus o la metro senza aver mai letto un rigo di poesia. E la cosa riesce assai meglio dice la Szymborska che ci rivela che lei preferisce leggere prosa anziché poesia. Si vive meglio senza aver mai frequentato la Musa, dice la Szymborska. La Musa della poesia ama essere dimenticata, abbandonata in un angolo e dimenticata. Chi vuole risvegliarla dal suo letargo, spesso la fa fuggire. E per sempre. Così chi vuole comprarla con similori o con gioielli posticci. La Musa preferisce abiti lisi e trasandati. E, a volte, anche anime semplici. Abitate dal dubbio, però.

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Wisława Szymborska

Intervista a Wislava Szymborska pubblicata su “L’espresso” il 31 ottobre 1996

 Signora Szymborska, perché scrive poesie?

 Io proprio non lo so. Mi sembra che la risposta sia da ricercare fra i lettori, non fra gli autori. L’autore segue un impulso quasi vitale: e la risposta del lettore tiene in vita quell’impulso, che si perpetua. Perché il lettore d’un tratto ama una poesia? Forse qualcosa colpisce la sua memoria: qualcosa non lo lascia tranquillo tanto da dover tornare più volte su quel testo. A me capita questo quando leggo delle poesie. Come poeta scrivo perché si legga quello che scrivo: e scrivo perché ho bisogno di scrivere.

Spieghi ai lettori italiani, che la conoscono poco, qual è la sua poesia da cui sarebbe meglio partire per avvicinarsi alle sue opere, al suo lavoro.

Non sono in grado di farlo. C’è un filo conduttore che unisce tutto quel che ho scritto, ma per me è veramente impossibile esaminare in questo modo la mia poesia. però è una risposta che certamente un traduttore o un lettore attento sono in grado di dare molto meglio di me.

Ma come vorrebbe fosse interpretata la sua poesia?

A me piace quando un lettore o un attore legge i miei versi come se pensasse a voce alta. Vorrei fosse interpretata così la mia poesia. La cosa peggiore è la meta interpretazione, e iperinterpretazione: il volere a tutti i costi aggiungere qualcosa in più, qualcosa di troppo, che non c’è, alla poesia. Invece, sempre riferendomi ai miei versi, mi piace quando vengono letti guardando in faccia il pubblico, come in un discorso, con «nonchalance», come si stesse riflettendo ad alta voce.

Come scrive le sue poesie? Di getto o invece sono il frutto di una lunga riflessione?

L’ispirazione è sempre necessaria. La si può chiamare in modi diversi: estro, impulso… La mia poesia viene in genere descritta come «poesia riflessiva»: e lo è. Ma questo non ne fa una poesia fredda, programmatica, un lavoro a tavolino da burocrate. O almeno spero! Io traggo ispirazione da tantissime cose, ma tendo a scrivere poco: rifletto su quel che provo, non accetto facilmente tutte le prime parole «ispirate» che saltano in mente. Il problema è anche terminologico: da noi si tende ancora ad associare l’ispirazione solo e soltanto alla poesia, oppure la si riferisce solo a certi movimenti letterari delle epoche passate. A me sembra che ogni attività che richieda riflessione, ogni compito al quale ci si dedichi completamente, richieda un’ispirazione. L’ispirazione non è sconosciuta al medico, al chirurgo, all’avvocato, all’insegnante, allo studente e così via. È quel qualcosa che all’improvviso ti penetra il cervello con una chiarezza e evidenza tali da far vedere ciò che prima non c’era. Per la mia poesia è vitale: quando manca questo non scrivo più.

Lei ha sempre odiato i circoli letterari. Teorizza la solitudine del poeta. Ama far sapere che è inaccessibile, che le piace stare in disparte. Perché?

 All’inizio è naturale che i giovani poeti si riuniscano in gruppi. Il poeta solitario, fuori del mondo, deve avere una gran fortuna per riuscire a emergere e farsi sentire se non ha nessun contatto con gli altri poeti. Il gruppo all’inizio è necessario e naturale. Infonde anche una buona dose di coraggio. Ma può durare a lungo e certo non per tutta la vita. È di cattivo gusto e brutto segno quando, dopo una vita, ci sono ancora vecchi poeti che si tengono stretti al proprio circolo. E allora credo sia un disastro per entrambi, poeta e poesia.

L’ironia è uno degli elementi che fondano il suo lavoro di poeta. In tutte le sue opere l’ironia è un elemento fondamentale. Perché?

L’ironia è un concetto talmente vasto: le pagine più belle sull’ironia le ha scritte Thomas Mann, che pure ne distingue vari tipi. Spesso la gente confonde l’ironia col dileggio, lo scherno, il disprezzo per l’altro, e a volte diviene altezzosità che mette chi ironizza su un piano più elevato rispetto all’oggetto dell’ironia. Ma non bisogna dimenticare che nell’ironia c’è anche l’elementto della compassione. Io rido un po’ di me e un po’ di voi. Non dimentico mai di ridere prima di tutto di me stessa. Questa è l’ironia che preferisco e spero ogni tanto mi riesca così come la intendo.

Anche come antidoto contro il sentimentalismo

Sicuramente. La nostra è un’epoca che ha una paura folle dei sentimentalismi. Così l’ironia è una maschera dietro la quale ci si cela per dire qualcosa sinceramente, ma evitandoci l’imbarazzo del sentimento o della sincerità.

Cosa legge più volentieri?

Se parliamo delle mie letture, non quelle obbligatorie per lavoro o altro, allora più volentieri leggo prosa.

Non poesia?

No, affatto. Ho sempre amato tanto la prosa. Ho sempre letto prosa e quando ho iniziato a scrivere, quando pensavo che sarei stata una scrittrice all’età di dodici, tredici anni era per me inconcepibile la scrittura poetica. «Dio ce ne scampi dalle poesie», dicevo, «io scriverò enormi romanzi, in più volumi, grassi, massicci, intere biblioteche di romanzi!»

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Wisława Szymborska

È così che ha incominciato a scrivere quelle recensioni sui libri più strani e bizzarri che escono ancora periodicamente sul quotidiano ‘Gazeta Wyborcza’?

 Anni fa mi buttarono fuori dalla redazione del giornale per motivi politici – scrivevo una rubrica sulla poesia all’epoca. Poi qualcuno mi propose di aprire una rubrica tutta mia su qualsiasi argomento preferissi. E allora mi venne in mente di recensire o di trattare in un mucchietto di righe libri di tutte le specie, di botanica, pesca, culinaria, diari di donne sconosciute ecc. Tutti libri dei quali nessuno sa nulla, ma che esistono, che possono essere persino leggibili.

E funzionò?

erano tempi politicizzati nel senso meno salutare del termine e io feci del mio meglio perché la gente potesse per un attimo prender fiato da tutta quella propaganda. Credo mi sia riuscito, dal momento che la rubrica veniva largamente letta: la leggevano sapendo che in essa non si nascondevano dogmi ideologici. Sapevano che da me non avrebbero ricevuto il solito pappone propagandistico.

Nella sua opera manca l’elemento corporeo. Al punto che la sua poesia viene definita «asessuata».

Manca un certo grado di fisicità perché è una poesia riflessiva, cerebrale. e se si intende per fisicità la descrizione dell’amore fra un uomo e una donna, allora non la si troverà nella mia poesia, per il semplice fatto che ritengo l’amore fra l’uomo e la donna assolutamente indescrivibile. Io non ho mai letto un solo verso assolutamente passabile su questo argomento. Certamente fra le mie raccolte si possono rintracciare un paio di poesie scritte per una donna, o che hanno un punto di vista femminile… ma niente di più. Ma le donne non devono scrivere poesie d’amore…

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Wisława Szymborska

Epitaffio

Qui giace come la virgola obsoleta
l’autrice d’un paio di versi. La terra l’ha degnata
dell’ultimo riposo, sebbene in vita lo spettro
non abbia mai aderito a gruppi letterari di rispetto.
E anche sulla tomba di meglio non si trova
di questa filastrocca, un gufo e la bardana.
estrai dalla valigetta il cervello elettronico, passante
e medita sul destino di Szymborska un solo istante.

Nel sonno

.
Ho sognato che cercavo una cosa,
nascosta chissà dove oppure persa
sotto il letto o le scale,
all’indirizzo vecchio.
.
Rovistavo in armadi, scatole e cassetti,
inutilmente pieni di cose senza senso.
.
Tiravo fuori dalle mie valigie
gli anni e i viaggi compiuti.
.
Scuotevo fuori dalle tasche
lettere secche e foglie scritte non a me.
.
Correvo trafelata
per ansie e stanze
mie e non mie.
.
Mi impantanavo in gallerie
di neve e nell’oblio.
Mi ingarbugliavo in cespugli di spine
e congetture.
.
Spazzavo via l’aria
e l’erba dell’infanzia.
.
Cercavo di fare in tempo
prima del crepuscolo del secolo trascorso,
dell’ora fatale e del silenzio.
.
Alla fine ho smesso di sapere
cosa stessi cercando così a lungo.
.
Al risveglio
ho guardato l’orologio.
Il sogno era durato due minuti e mezzo.
.
Ecco a che trucchi è costretto il tempo
dacché si imbatte
nelle teste addormentate.

.
Monologo per Cassandra

Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.

E’ vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se non fossero mai esistiti.

Ora lo rammento con chiarezza:
la gente vedendomi si interrompeva a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.

Li amavo.
Ma amavo dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e da dove nulla è più facile del vedere la morte.
Mi dispiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.

Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –

È andata come dicevo io.
Però non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.

(da “Sale” 1962)

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Possibilità

Preferisco il cinema.
Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare
che l’intelletto ha la colpa su tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d’altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie
al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi,
da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti,
che non mi promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari, perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa
che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.

Conversazione con una pietra

Busso alla porta della pietra
– Sono io, fammi entrare.
Voglio venirti dentro,
dare un’occhiata,
respirarti come l’aria.
– Vattene – dice la pietra.
– Sono ermeticamente chiusa.
Anche fatte a pezzi
saremo chiuse ermeticamente.
Anche ridotte in polvere
non faremo entrare nessuno.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Vengo per pura curiosità.
La vita è la sua unica occasione.
Vorrei girare per il tuo palazzo,
e visitare poi anche la foglia e la goccia d’acqua.
Ho poco tempo per farlo.
La mia mortalità dovrebbe commuoverti.
– Sono di pietra – dice la pietra
– E devo restare seria per forza.
Vattene via.
Non ho i muscoli per ridere.
Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

.
***

Terrorista che guarda, 1974:
La bomba scoppierà nel bar alle tredici e venti.
Adesso sono solo le tredici e sedici.
Alcuni faranno in tempo ad entrare,
Altri a uscire.
Il terrorista ha già attraversato la strada.
Questa distanza lo tiene in salvo dal pericolo,
e la visuale è proprio come al cinema.
Una donna con la giacca gialla, ecco entra.
Un uomo con gli occhiali scuri, lui esce.
Dei ragazzi in blue jeans se ne stanno a chiacchierare.
Le tredici diciassette minuti e quattro secondi.
Il più basso ha fortuna e salta sullo scooter,
quello più alto entra dentro.
Ore tredici e diciassette e quaranta secondi.
C’è una ragazza col nastro verde tra i capelli.
Ma ecco che l’autobus ne impedisce la vista.
Ore tredici e diciotto.
Non c’è più la ragazza.
Ma se è stata così sciocca da entrare,
lo si vedrà quando li porteranno fuori.
Ore tredici e diciannove.
Beh, non esce nessuno.
Ma ecco che esce ancora un uomo grasso e calvo.
Però, così, come se stesse cercando qualcosa per le tasche e
alle tredici e venti meno dieci secondi
rientra a veder se trova quei suoi miseri guanti.
Sono già le tredici e venti.
Ma come va piano il tempo.
Ecco, forse ora.
No, non ancora.
Sì, adesso.
È la bomba che scoppia.

.
Prospettiva

Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.
Forse smarriti
O distratti
O immemori
Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia
Che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra
E chi guarda dall’alto
Sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
E io, solo per un istante
Certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.

Wislawa Szymborska

Nasce nel 1923, nel 1931 Wisława Szymborska si trasferisce con la famiglia a Cracovia, città alla quale è stata sempre legata: vi ha studiato, vi ha lavorato e vi ha sempre soggiornato, da allora fino alla morte. Allo scoppio della guerra nel 1939, continua gli studi liceali sotto l’occupazione tedesca, seguendo corsi clandestini e conseguendo il diploma nel 1941. A partire dal 1943, lavora come dipendente delle ferrovie e riuscì a evitare la deportazione in Germania come lavoratrice forzata. In questo periodo comincia la sua carriera di artista, con delle illustrazioni per un libro di testo in lingua inglese. Comincia inoltre a scrivere storie e, occasionalmente, poesie.

Sempre a Cracovia, Szymborska comincia nel 1945 a seguire in un primo momento i corsi di letteratura polacca, per poi passare a quelli di sociologia, presso l’Università Jagellonica, senza però riuscire a terminare gli studi: nel 1948 fu costretta ad abbandonarli a causa delle sue scarse possibilità economiche. Ben presto viene coinvolta nel locale ambiente letterario, dove incontra Czesław Miłosz, che la influenzò profondamente.

Nel 1948 sposa Adam Włodek, dal quale divorziò nel1954. In quel periodo, lavorava come segretaria per una rivista didattica bisettimanale e come illustratrice di libri. Nel 1969 si sposa con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz, che muore nel1990. La sua prima poesia, Szukam słowa (Cerco una parola), fu pubblicata nel marzo 1945 sul quotidiano «Dziennik Polski». Le sue poesie vengono pubblicate con continuità su vari giornali e periodici per parecchi anni; la prima raccolta Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) venne pubblicata molto più tardi, nel1952, quando la poetessa aveva 29 anni.

In effetti, negli anni quaranta la pubblicazione di un suo primo volume venne rifiutata per motivi ideologici: il libro, che avrebbe dovuto essere pubblicato nel1949, non superò la censurain quanto «non possedeva i requisiti socialisti». Ciò nonostante, come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica, nella prima fase della sua carriera Szymborska rimase fedele all’ideologia ufficiale della PRL: sottoscrisse petizioni politiche ed elogiò Stalin, Lenin e il realismo socialista. Anche la poetessa-Szymborska cercò in seguito di adattarsi al realismo socialista: il primo volume di poesie del 1952 contiene infatti testi dai titoli come Lenin oppure Młodzieży budującej Nową Hutę (Per i giovani che costruiscono Nowa Huta), che parla della costruzione di una città industriale stalinista nei pressi di Cracovia. Aderì anche al PZPR (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, «partito operaio unito polacco»), del quale fu membro fino al1960.

Tuttavia, in seguito la poetessa prese nettamente le distanze da questo «peccato di gioventù», come da lei stesso definito, al quale è da ascrivere anche la seguente raccolta Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Anche se non si distaccò dal partito fino al 1960, cominciò ben prima a instaurare contatti con dissidenti. Successivamente Szymborska ha preso le distanze dai suoi primi due volumi di poesie.

Dal 1953 al 1966 fu redattrice del settimanale letterario di Cracovia «Życie Literackie» («Vita letteraria»), al quale ha collaborato come esterna fino al1981. Sulle pagine di questa pubblicazione è apparsa la serie di saggi Lektury nadobowiązkowe (Letture facoltative), che sono state successivamente pubblicate, a più riprese, in volume. Nel 1957  fece amicizia con Jerzy Giedroyc, editore dell’influente giornale degli emigranti polacchi «Kultura», pubblicato a Parigi, al quale contribuì anche lei. Il successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957.

Dal 1981 al 1983 Wisława Szymborska è stata  redattrice del mensile di Cracovia «Pismo». Negli anni ottanta intensificò le sue attività diopposizione, collaborando al periodico samizdat «Arka» con lo pseudonimo «Stanczykówna» e a «Kultura». Si impegnò per il sindacato clandestino Solidarność. Dal 1993 pubblica recensioni sul supplemento letterario del «Gazeta Wyborcza», importante quotidiano polacco. Nel 1996 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura «per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d’umana realtà». Ha anche tradotto dal francese al polacco alcune opere del poeta barocco francese Théodore Agrippa d’Aubigné. Le sue opere sono state tradotte in numerose lingue. Pietro Marchesani ha tradotto la maggior parte delle sue raccolte poetiche in italiano; La sua più recente raccolta poetica, Dwukropek (Due punti), apparsa in Polonia il 2 novembre 2005, ha riscosso uno strepitoso successo, vendendo oltre quarantamila copie in meno di due mesi. Dopo diversi mesi di malattia, il 1º febbraio 2012, Szymborska è scomparsa nel sonno presso la sua casa a Cracovia. Dopo essere stata cremata è stata sepolta nella tomba di famiglia.

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Solomon Volkov “Dialoghi con Josif Brodskij” (Lietocolle, 2016 pp. 422 € 20) estratto delle affermazioni di Brodskij con una sua poesia “Odisseo a Telemaco”, traduzione di Galina Dobrynina e postilla di Giorgio Linguaglossa

iosif Brodskij DiscoveryÈ vero: come scrive Serena Vitale, il genere dell’intervista costituisce, dopo la poesia e la saggistica, «la terza forma letteraria in cui Brodskij si espresse». Di qui l’idea di raccogliere tutte le interviste che il poeta russo (premio Nobel 1987) concesse a Solomon Volkov, il suo vero maieuta. Dialoghi maieutici dunque, conversazioni a metà tra il pubblico e il privato, tra il serio e il semiserio e il faceto, con quel pizzico di civettuosità e di umano che fanno di questi dialoghi una forma di letteratura viva e vitale. Ritengo che si impara più dalla lettura di questi dialoghi che non da una intera sessione universitaria sulla poesia moderna. «In questi Dialoghi, raccolti da Solomon Volkov nell’arco di quindici anni, Iosif Brodskij racconta la sua infanzia in una Leningrado devastata dalla guerra, l’avventurosa vita di poeta clandestino. Capitoli speciali di ricordi, sono dedicati ai poeti mentori di Brodskij: Auden, Achmatova, Frost e Cvetaeva e alle loro influenza sulla formazione del giovane poeta, che nel 1987 è insignito del Premio Nobel. Pubblicato in America nel 1998, tradotto successivamente in molte lingue, dopo un “pellegrinaggio” di 17 anni il libro per la prima volta appare in Italia a cura di LietoColle» (dalla nota di diffusione di LietoColle). 

(Giorgio Linguaglossa)

Iosif brodskij 5

Josif Brodskij a Venezia

INTERVISTA

Brodskij: …Quante sciocchezze ho scritto! Se in Russia avessi avuto la possibilità di pubblicare tutto quello che mi passava per la testa sarebbe stato un completo disastro. Quindi, in qualche modo, devo essere grato per tutti gli ostacoli frapposti dalla censura in patria. Meno male che esisteva la censura!
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Brodskij: Ho iniziato a scrivere poesie per una semplice ragione: ti dà un’accelerazione straordinaria. Quando si scrive una poesia, vengono in mente cose che in fondo non sarebbero dovute emergere. Ecco perché ci si deve impegnare nella letteratura. L’ideale sarebbe che lo facessero tutti. È una necessità della specie, biologica, il dovere di un individuo verso se stesso, verso il suo DNA… in ogni caso, bisognerebbe parlare non tanto del dovere del poeta verso la società, quanto del dovere della società verso il poeta o lo scrittore. Ovvero, la società dovrebbe semplicemente ascoltare il poeta e cercare di imitarlo; non proprio seguirlo, ma imitarlo. Ad esempio, non ripetere ciò che è stato già detto una volta… Nei bei tempi andati era proprio così: la letteratura forniva alla società delle norme, dei modelli linguistici, e la società di adottava. Ma oggi, non si sa come, scopriamo che la letteratura si deve sottomettere alle norme imposte dalla società
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Brodskij: Posso paragonare l’influenza di Auden a quella di Achmatova; lei, infatti, e soprattutto i suoi principi etici mi avevano influenzato più o meno allo stesso modo; e non poteva essere altrimenti, dato che a quei tempi ero un ragazzetto completamente ignorante. Con Achmatova, anche se non avevi mai sentito parlare di cristianesimo potevi fartene un’idea. Era questa la sua influenza, prima di tutto umana. Capivi che non avevi a che fare con un homo sapiens, o perlomeno non solo con un sapiens, ma con un homo dei, no? le dovrei fare tre nomi: Anna Andreevna, Auden e Robert Lowell.
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Di Auden nel 1937 ho letto tutto quello che si poteva trovare in giro. Ci si poteva procurare, ad esempio, l’antologia della nuova poesia inglese, pubblicata nel 1937… Per quello che ne so, tutti i traduttori di questa antologia sono stati fucilati o imprigionati. Ne sono sopravvissuti pochissimi… È stata appunto questa antologia la fonte principale dei miei giudizi su Auden. la qualità delle traduzioni era orrenda, naturalmente, ma allora l’inglese io non lo sapevo, e così mi limitavo appena a ricostruire e analizzare qualche frase. Pertanto, le mie impressioni su Auden non potevano che essere approssimative, come le traduzioni del resto; un po’ mi ci raccapezzavo, ma non del tutto. ma più andavo avanti e più imparavo. A partire dal 1964 circa, mi sono messo a leggere Auden con regolarità, quando riuscivo a trovarlo, decifrandolo riga per riga, e verso la fine degli anni Sessanta ho cominciato a capirci qualcosa. e finalmente ho capito – e come potevo non capire- non tanto la sua poetica quanto la sua metrica. Cioè, la sua poetica è nella metrica, è in quello che in russo si chiama dol’nik, nel verso tonico, un verso disciplinato, molto ben organizzato, con all’interno la sua magnifica cesura da esametro. E quel tocco ironico. Non so neanche da dove venisse. Questo elemento ironico non è nemmeno un merito particolare di Auden, ma piuttosto della lingua inglese. E poi quella tecnica della reticenza tipicamente inglese. Insomma, Auden mi piaceva sempre di più. Alcune delle mie poesie le ho scritte sotto la sua influenza (nessuno potrà mai capirlo, grazie a Dio); Fine della Belle Époque, Canzone dell’innocenza e anche dell’esperienza, poi Lettera al generale (perlomeno fino a un certo punto), ed altre poesie. Tutte con lo stesso ritmo un po’ rilassato. A quei tempi mi piacevano soprattutto due poeti: Auden e Louis MacNeice, e anche adesso mi sono estremamente cari; semplicemente, leggerli è una cosa interessantissima… Soprattutto amavo una poesia di Auden, la sua Lettera a Lord Byron, avevo lavorato duro per tradurla, ed era diventata il mio antidoto contro qualsiasi forma di demagogia. Quando ero al limite e stavo per crollare, leggevo questa poesia. Il lettore russo potrebbe apprezzare Auden perché, in apparenza, è tradizionale. Cioè, Auden utilizza la struttura formale della stanza con tutti i suoi annessi e connessi, ma è come se della strofa non se ne accorgesse nemmeno. Dopo di lui, credo che nessuno abbia scritto delle sestine così belle. Cyril Connoly, suo contemporaneo, critico e scrittore meraviglioso, una volta ha detto che Auden è stato l’ultimo poeta della generazione degli anni trenta le cui poesie si potevano ricordare a memoria. Auden è unico, e per me rappresenta uno dei fenomeni più significativi della poesia mondiale. Mi concedo una dichiarazione sconvolgente: ad eccezione di Cvetaeva, Auden mi è più caro di tutti gli altri poeti.
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iosif brodskij sulla scrivaniaBrodskij: [parlando di vari poeti russi del primo Novecento]…un colosso come Chodasevic se li mette tutti sotto i piedi… Ma se parliamo del fatto che, alla fine del secolo, tutto nella scena culturale andrà al suo posto, beh, allora dico che nessuno dovrebbe preoccuparsi, perché è il tempo stesso che sistemerà le cose, con o senza la cortina di ferro. È la legge di conservazione dell’energia: l’energia rilasciata nel mondo non scompare senza lasciare traccia, indipendentemente dall’isolamento politico o culturale. E se per caso questa energia ha anche una certa qualità, allora non c’è assolutamente nulla di cui preoccuparsi. Sbagliano i poeti che si abbandonano al Weltschmertz [dolore cosmico] perché non vengono pubblicati, dovrebbero solo preoccuparsi della qualità di quello che stanno facendo. Perché se c’è qualità, prima o poi le cose si sistemeranno da sole… Quindi nessuno verrà dimenticato, ognuno avrà il suo posto. I geni sconosciuti non esistono, è solo una mitologia ereditata dal XIX secolo…
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Brodskij: Devo dire che, nonostante tutto, trovo Evtušenko più simpatico di Voznešenskij. Dal mio punto di vista, che non è certo inattaccabile, il russo di Evtuch è senz’altro migliore. Beh, in fondo che cos’è Evtuch? È una fabbrica che produce solo se stesso, e non ne fa un segreto. In questo è assolutamente onesto, a differenza di Voznešenskij, che si presenta come poète maudit
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Brodskij: Nella mente di Pietro il Grande c’erano due direzioni: il Nord e l’Ovest. Nient’altro. L’Oriente non lo interessava. Non gli interessava neppure il Sud (forse solo come categoria geografica). Era un uomo che ha trascorso una buona metà della sua vita a dialogare con l’Occidente e con il Settentrione, viaggiando, combattendo. Ecco in quali direzioni andava, e probabilmente, nella sua testa, esse erano la strada per l’assoluto, proprio perché era prima di tutto un sovrano, un essere politico, e non una sorta di demiurgo o un erede della romanità…
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Josif Brodskij e VeneziaBrodskij: Alcuni pensano che se una città ha avuto un inizio deve pure avere una fine, e che, a differenza di Roma o Parigi, San Pietroburgo, è, come dicono alle corse, una città “decisa a tavolino”. Cioè, le altre capitali si sono sviluppate in modo naturale e spontaneo, mentre la costruzione di San Pietroburgo è stata predefinita in anticipo. Questa definizione di San Pietroburgo come città “decisa a tavolino” mi sembra una parafrasi moderna delle parole di Dostoevskij: Pietroburgo è il luogo “più astratto e premeditato” del mondo… Naturalmente è innegabile che a un certo punto essa sia scivolata nel provincialismo…
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Brodskij: La Russia di oggi è un paese diverso, è totalmente un altro mondo. E trovarsi lì da turista è assolutamente pazzesco. Poi, di solito, ovunque tu vada, sei sempre mosso da una necessità interiore od esteriore. E io, francamente, nei confronti della Russia non ho più né l’una né l’altra. In realtà viaggiare, non è andare in un posto, è andarsene da qualcosa… Per me la vita è un continuo allontanarmi da qualcosa… A questo proposito l’Achmatova diceva una frase, che io amo molto. era pressappoco così: “L’assenza è il rimedio migliore contro l’oblio, mentre il modo migliore per dimenticare per sempre è vedere ogni giorno”.
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Brodskij: I miei primi libri li ha curati Lev Losev e non avrebbero dovuto essere due, ma uno solo. L’editore però ha deciso di pubblicarne due, per guadagnare più soldi: Fine della Belle Époque (le poesie dal 1964 al 1971) e Parte del discorso (1972-1976). Bene, su questo potevo anche essere d’accordo, perché il 1972 era diventato una sorta di confine, o almeno, il simbolo di una frontiera, quella dell’unione Sovietica, no? In ogni caso non era un confine psicologico. È vero, in quell’anno mi sono trasferito da un impero all’altro; tuttavia, non vedo confini psicologici nelle mie poesie di quel periodo, anche se penso che con la poesia Il Tamigi a Chelsea, scritta nel ’74, inizi una poetica diversa, una serie di versi differenti dai precedenti… Ma anche qui, ci si accorge di una poetica diversa solo quando i versi si trovano vicino a quelli che li hanno preceduti, a quelli che, in un certo senso, hanno preparato questo cambiamento, che ne hanno segnato il declino o, come si dice, l’esalazione dell’ultimo respiro. Solo così ci si accorge che è un’altra cosa. Quindi, non capisco con che criterio si debba dividere il tutto in capitoli e libri differenti e perché sia necessario operare questa divisione. Lasciamo pure che tutto segua il suo corso, come la vita, più o meno.
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Brodskij: Io non mi pongo al di sopra del lettore, così come, ovviamente, non mi pongo al di sotto… non mi sono mai considerato un autore, parola d’onore! Anche se forse queste parole, ora che le ho pronunciate, potrebbero essere prese per civetteria. In realtà per tutta la vita – questa è la cosa importante – mi sono sempre considerato prima di tutto come una sorta di unità metafisica, no? Mi sono sempre interessato soprattutto a ciò che avviene alla persona, all’individuo sul piano metafisico. Le poesie, di fatto, sono un prodotto secondario, nonostante si pensi sempre il contrario […] Quand’è che il poeta redige un libro? Quando può permettersi di farlo? Quando non scrive poesie. Ma quando non riesci a scrivere, vai fuori di testa, diventi una belva, e te la prendi soprattutto con te stesso. Quando non riesci a scrivere pensi che la vita sia finita.
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josif brodskijBrodskij: [Nuove stanze per Augusta], si tratta di una raccolta di poesie scritte nell’arco di vent’anni e rivolte ad un unico destinatario. In una certa misura, è la cosa più importante della mia vita. Mentre ci lavoravo avevo deciso che nessun’altro, nemmeno il più capace, avrebbe dovuto metterci le mani, e che sarebbe stato meglio se me ne fossi occupato io, tanto più che se non l’avessi fatto io, chissà che disastro avrebbero combinato gli altri! Poi, durante una conversazione con Lev Losev, ho avuto come un’illuminazione: ho riguardato tutti quei versi e all’improvviso mi sono reso conto che, magicamente, formavano una storia. E mi sembra che alla fine Nuove stanze per Augusta possa essere letta come un’opera a se stante. Purtroppo non ho scritto la Divina Commedia, e, a quanto pare, non la scriverò mai. Ma il risultato è stato un libro di poesia con l’intreccio tipico delle opere in prosa.
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Brodskij: Viviamo in una società che impazzisce per l’idea della cultura come prodotto, e perciò chiede continuamente libri, libri e ancora libri. Questo giochetto ha condotto la cultura a un punto morto: la verità è che quando scrivi non hai la minima idea di chi leggerà i tuoi scritti, di chi sarà in grado di capirci qualcosa. Capiranno? O non capiranno? Ed è così che dev’essere!
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Brodskij: Per come adesso va la mia vita non credo proprio che scriverò grandi opere, e che il lettore le leggerà […] Non so, magari, se Dio vuole, in futuro scriverò qualcosa di simile a Per il tempo presente di Auden. Come sa, non dipende da me, si scrive seguendo lo sviluppo della propria prosodia, e non perché si ha qualcosa da dire. Lei non ignora che il linguaggio impone una sua dittatura: ed è così che le parole cominciano a intonarsi l’una all’altra, a suonare… Non lo so, forse anche la mia prosodia si trasformerà in qualcosa di epico… D’altra parte, Montale, tanto per fare un esempio, non ha scritto niente di epico, così come Eliot, anche se lui forse non è uno da prendere come modello; anche Yates non ci ha lasciato nessun poeta epico.
josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

 Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.
Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.
Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Postilla di Giorgio Linguaglossa

giorgio linguaglossa

caro Gino Rago,
io colgo in questa straordinaria poesia di Brodskij lo spirito e la consapevolezza di un esule dalla grande patria, un quasi disertore, uno di coloro che si sono ritirati, che non hanno preso parte alla guerra, alla prima grande guerra imperialistica della storia dell’Occidente. E’ una riflessione di altissima profondità e attualità, con quell’accenno al figlio Telemaco liberato dal complesso di Edipo e dalla paura di Edipo. Edipo in quanto responsabile di tutte le guerre. Il padre. Il totem. L’Odisseo di Brodskij ha imparato tanto dalla guerra: che lui è soltanto un figlio di quella cultura che lo ha formato e prodotto. Che siamo tutti figli di quella cultura, nel bene e nel male, che non c’è via di scampo, che non puoi uscire dalla cultura che tu respiri e dalla lingua che parli. L’Odisseo di Brodskij è giunto in prossimità del nichilismo, e del relativismo, anzi, ha attraversato il nichilismo, come soltanto una guerra, un grande bagno di sangue ti può concedere di esperire.
Io leggerei questa poesia-chiave nel segno della nostra cultura di oggi, giunti al Tramonto dell’Occidente, ci volgiamo all’indietro a considerare i nostri progenitori: In primis Odisseo, il nostro progenitore, l’astuto inventore del terribile tranello che porrà fine alla guerra: quel cavallo di Troia, congegno simile alla bomba atomica, per quell’epoca. Brodskij legge, in questa formidabile poesia, la storia a ritroso dal punto di vista di un uomo giunto alla soglia del Tramonto dell’Occidente, un uomo che si rivolge al figlio, che nel frattempo sarà cresciuto e sarà diventato un altro uomo. Questo Odisseo problematico di Brodskij è una poesia-totem, una poesia delle poesie. Una poesia che chiude il ciclo di una civiltà. E chi non lo capisce, mi chiedo che cosa potrà capire mai di questa poesia, così desolatamente profonda e sconfinata. Brodskij non accusa Odisseo, anzi, lo assolve. Come Odisseo libera il giovane Telemaco dalla paura del padre-totem. Così sarà libero, libero di essere uomo di un altro tipo e potrà fondare un nuovo mondo, una nuova umanità.
Una poesia profondissima e amara. Amara per quelle verità che reca con sé.

Io, nel mio tentativo di rifare una poesia di Odisseo a Telemaco, mi sono messo sulla stessa onda d’urto del pensiero brodskijano, dal punto di vista di un uomo (Odisseo) che ha capito che forse ha sbagliato tutto, e che trova il coraggio di scriverlo al figlio, Telemaco, che intanto è cresciuto ed è diventato uomo su una isoletta nello sperduto mare.

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INTERVISTA a ELIO PECORA (1936) a cura di Giorgio Linguaglossa – “La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo?”,   “la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia”, “Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza” “La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii  beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento“, “la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato” – con un Commento impolitico  dell’intervistatore e una scelta delle poesie dell’autore da “Simmetrie” (2007)

foto donna sale le scale

Commento impolitico  di Giorgio Linguaglossa

Il percorso poetico di Elio Pecora ha inizio nel 1970 quando pubblica la raccolta d’esordio La chiave di vetro. Degno di nota il semantema simbolistico di quel titolo che ammiccava a una civiltà che non c’era più, che aveva riposto nel deposito bagagli smarriti ogni riferimento simbolistico. E non è casuale che Elio Pecora peschi proprio nel bagaglio simbolistico per il titolo della sua prima raccolta. I titoli sono importanti, sono sempre significativi di un percorso e di un progetto; e in quella specificazione di «vetro» c’era già tutta quanta la fragilità di quella «chiave» che mondi avrebbe dovuto aprire. Se non che quel mondo simbolistico era scomparso da un pezzo, spazzato via dalla contestazione del ’68 e dalla iperattività della neoavanguardia letteraria che occupava quasi tutto lo spettro di «nuovo».   Nel frattempo il boom economico si è arrestato, l’Italia  subisce l’invasione delle fiat Cinquecento, delle lavatrici, dei frigoriferi per tutti, inizia la balneazione di una popolazione  che si è trasformata in piccola borghesia rapace e rampante; si va tutti in villeggiatura al mare  mentre la classe operaia va in paradiso e il partito comunista sta all’angolo con le sua parole d’ordine diventate inutili. Nel frattempo, sia il romanzo che la poesia rinunciano alla rappresentazione di una società in rapido e tumultuoso cambiamento. Con Trasumanar e organizzar (1968) Pasolini abbandona la poesia al suo destino e si dedica al cinema, al giornalismo; Montale nel 1971 pubblica Satura, opera di svolta della sua poesia e della poesia italiana ed adotterà un linguaggio para giornalistico; scende dal podio simbolistico e si ritira nel suo olimpico scetticismo domestico. Questo è il quadro macro storico. Nel piccolo microcosmo della poesia italiana avviene una mutazione genetica, una mutazione che va di pari passo con la mutazione antropologica di cui parlava Pasolini. E la poesia si appresta a diventare una pratica di massa.

Quelle del giovane Elio Pecora sono poesie che abitano il registro colloquiale, il piano basso, il bisbigliato, una versificazione che appare antica per quel suo passo ritmico e cadenzato, fatta di suoni di quantità in delicato equilibrio, con cadenze interconnesse e ritmi apparentemente stabili ma che in realtà stanno appena al di sopra dei sommovimenti equorei  profondi della poesia di quegli anni. Una poesia dove il silenziatore ha una funzione dominante. Una poesia senza stacchi, acuti, o suoni sopra le righe del pentagramma, ma ritrosa e intima, che sembra non conoscere modellizzazione privatistica e invece è sapientemente elaborata in vista di una voce bisbigliata e sommessa. Ecco, possiamo dire che a questo registro minimo la poesia di Elio Pecora è poi rimasta fedele in tutto l’arco della sua produzione fino ai giorni nostri. Una poesia che si è mossa, come una invariante, fin dall’inizio, nel solco della continuità, ma senza essere conservativa, nel solco di una modernità che non equivaleva a modernizzazione, tantomeno forzata e sopra le righe come era in auge in quegli anni che ben presto divennero di «piombo». Una continuità che filtrava la poesia di Saba e Penna mediante il Pianissimo di Sbarbaro. Insomma, Pecora si ritagliava un suo Novecento e ripartiva da lì, da dove la poesia italiana si era interrotta e incagliata, ripartiva da una zona non ancora esplorata. E forse questo è stato ed è il merito della poesia di Elio Pecora: l’aver intravisto con chiarezza la direzione da intraprendere sin da subito, sin dal 1970. Un discorso poetico ricco di piccolissime cose, minuzie, amnesie, ricco di ombre e in chiaroscuro «come cartoline di saluti, come telefonate frettolose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe» (da Simmetrie, 2007).

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Elio Pecora

Intervista a Elio Pecora di Giorgio Linguaglossa

Domanda: Il tuo primo libro è La chiave di vetro del 1970 pubblicato con l’editore Cappelli. Perché quel titolo? In quel volume c’è in nuce una voce nuova di un poeta che prende le distanze dalla poesia dell’opposizione, dalla poesia d’impegno, ideologica e sperimentale di quegli anni. Possiamo dire che il tempo ha dato ragione alla tua poesia; la poesia che allora era in voga è stata dimenticata mentre  la tua poesia all’apparenza così esile e fragile oggi torna ad essere apprezzata.

Risposta: quel mio primo libro, che veniva da anni di letture, dai miei diari di ventenne, e da personalissime macerazioni, avevo dato un titolo che tuttora ritengo il più esatto ” Narciso in pensiero”: perché quell’io,  nell’attenzione alle proprie storie e al mondo che lo accoglieva e imprigionava,  poneva insieme consapevolezza e smarrimento. Ma l’editore Cappelli, che mi contentò nelle cure particolari del volumetto, chiese insistentemente un titolo diverso da quello che gli suonava “intellettualistico”. Seppi  tempo dopo che “La chiave di vetro” era anche il titolo di un famoso romanzo poliziesco di Hammet. Invece lo inventai guardando i dipinti di Magritte e decisi per quella chiave  trasparente, perché credevo, e credo, che l’uomo possa rispondere alle domande che lo inquietano e lo accompagnano solo se  mette in conto i limiti di ogni possibile risposta; e pure seguita a cercare la verità adoperando i suoi strumenti tutti assai fragili. Ho derivato questo modo di essere e di vedere,  prima di ogni scrittura, dai miei amati presocratici, in seguito ripensati  nelle analisi abbaglianti di Giorgio Colli,  e da Nietzsche che intravede nuove misure dell’esistere, più tardi da Bertrand Russell, dai diari di Max Frisch,  dalle percezioni affilate di Virginia Wolf, ma anzitutto  dal Leopardi che, nella mia prima adolescenza, mi si è presentato come il più alto e intimo riferimento.  Peraltro, nel tempo del mio primo libro,  mentre ero molto preso dagli scritti  di Freud  avevo stretto una forte amicizia con uno  psicoanalista tedesco, venuto a Roma per scrivere un romanzo, e di cui fui, per alcuni mesi, ospite in Baviera, in un paese di nevi,  dove  scrissi “Narciso in pensiero”  assiduamente riflettendo sul narcisismo e discutendone animatamente con il mio ospite.

Domanda: Alcuni critici affermano che nel secondo Novecento, dopo Laborintus (1956) di Sanguineti  e La Beltà (1968) di Zanzotto la poesia lirica ha esaurito la sua spinta propulsiva e che oggi si scrive una poesia non più lirica, una sorta di esperanto narrativo con degli a-capo. Qual è la tua opinione?

Risposta: Non ho esitazioni nell’affermare che la critica letteraria italiana attuale, per buona parte, soffre gravemente di inerzia, malattia che sta fra la pavidità e la cecità. Ed è condizione ben grave se  porta a riparare in sentenze scheletrite e ad arroccarsi in un passato di comodo,  già  tutto codificato,  dunque impossibile (per inerzia e pavidità) da ricollocare fuori di codici scontati e di facili nostalgie.  Rifugge insomma dal  rischiare nel presente più attentamente guardando e vagliando. (Non è casuale che il poco della migliore poesia delle generazioni più giovani propende all’elegismo.) Mi chiedo se  in un paese sfiduciato e depresso, proprio la poesia,  musa appartata e  fuori dell’utile, possa  essere data ancora per viva?  (A un osservatore attento non può sfuggire che gli stessi esegeti delle fini e degli esaurimenti, si contraddicono ogni volta in cui  dispensano  riconoscimenti anche eccessivi e rilasciano indubbi certificati di esistenza a singoli poetificanti. Quanto poi all”’esperanto narrativo con gli a capo”, di sicuro è fenomeno dovuto al “vogliamo tutto”, da cui “possiamo tutto”,  innescato  da   contestazioni affrettate e insensate in decenni ormai lontani.

elio pecora SimmetrieDomanda: Alcuni critici affermano che dopo il ’68 la poesia si è democratizzata, è diventato più facile scrivere poesia, tutti scrivono poesia che sembra  una pratica di massa, una scrittura facile, alla portata di tutti,basta andare a capo ogni tanto. Non ci sono più regole, non c’è più un Canone, sembrano scomparsi i modelli narrativi e poetici, e la valutazione critica sembra un atto casuale o, al più, arbitrario. Qual è la tua opinione?

Risposta: La storia non insegna, ma fornisce esempi ragguardevoli. Vi sono epoche in cui il nuovo consiste quasi solo nel respingere  il passato e non solo per quel che è obsoleto, ma anche per  quel che renda possibile la qualità nella prosecuzione.  S’abbuia la memoria, s’annientano i confronti. Si ritiene che solo da una “completa” libertà, intesa come spoliazione,  possa scaturire il meglio e il necessario. Basti ricordare  che, nei decenni seguenti alla fine della seconda guerra mondiale, è emersa una massa informe che ha chiesto quanto prima gli veniva negato: a una tale massa è stata riconosciuta non più di una confusa apparenza. Nella confusione è passato e passa di tutto e la stessa autorità crtitica è venuta meno: così ciascuno gioca  a suo modo. A questo punto il critico, sfiduciato e scontento, si concilia con se stesso inserrandosi in un recinto di negazioni e rischiando l’asfissia.

Domanda: Nel 1987 esce il tuo libro Interludio con l’editore Empiria di Roma. Ricordo che all’epoca, quando lo lessi,  fui colpito dalla nudità del tuo modo di parlare in poesia, come di un colloquio che si svolge in un territorio non più sacro ma ridotto allo stato laicale, come indica il titolo, tra due ludi, due festività del gioco, un parlare sommesso con una voce esile che si compie in un terreno sconsacrato. Quel parlare che tu hai continuato a coltivare come essenza della poesia: un dialogo, un colloquio, o meglio, un soliloquio in una stanza. È questo, credo, il timbro riconoscibile della tua poesia. Da quella data la tua poesia trae le conseguenze della propria imperturbabilità pur nel caos degli avvenimenti della cronaca e della storia. È una lettura corretta della tua poesia  o ho preso un abbaglio?

Risposta: Hai letto come meglio non posso augurarmi. Dici del tono nudo e sommesso. L’ho già più sopra accennato. Sento nei toni forti, gridati, piuttosto la debolezza che la forza. La poesia non è mai gridata e quando lo è suona di enfasi, di atteggiata. Vale anche per quella che definiamo epica. Gigalmesch,  Ulisse, Macbeth, Faust ci chiamano dalla loro parte soprattutto quando trovano gli accenti della verità, e questa non può essere esclamata, ma  solo accennata così come Eraclito dice della  Sibilla, che accenna non dice.  Non  convince l’eccesso del tono, la manifestazione recitata del vigore. Ho sempre sentito, fin dall’infanzia, che le parole durevoli sono quelle pronunciate con voce ferma, pacata;  perfino la bestemmia e l’insulto, detti sottovoce, fanno  maggior  male. Finanche il dolore si rivela profondo e immedicabile solo quanto svela e rivela con parole nude e chiare, anche solo mormorate.  Come per la  musica, quel che fa straordinaria una voce  è, così come annotava Roland Barthes,   la sua “ grana”  fatta di testa e di  ventre, di ragione e di sentimento, e tutto questo non può raggiungere la giusta espressione se non nella dovuta misura. La poesia, vado ripetendolo in diverse scuole, non è spontaneità e immediata emozione, non è  facile cronaca,  ma ricreazione di  queste  in un altrove che, al di fuori di quel che chiamiamo realtà, pure della realtà consiste e la significa. Da ciò la mia “ imperturbabilità”.  

elio pecora POESIE 1975 - 1995Domanda: Recentemente tu hai scritto: «Verso che stiamo andando? E sarebbe da rispondere:  da che veniamo?», mettendo in un certo modo il punto sulla questione della nostra contemporaneità. Il mondo che è rimasto orfano delle «Grandi narrazioni» sembra condannato, scriveva Montale, alla «balbuzie» a quel «mezzo parlare» che il poeta ligure aveva intravisto già all’inizio degli anni Settanta. Oggi veramente non si chiede più nulla al poeta e alla poesia? Qual è la tua opinione in proposito?

Risposta: La balbuzie montaliana, prossima ai borbottii e bofonchii  beckettiani, è la dimensione dell’uomo del Novecento,  corpuscolo fragile e infinitesimo in un fluttuare di universi infiniti. Conclusi gli ardori romantici, traversate guerre spaventose  e rovine tremende, l’uomo ha da accettare una nuova misura di sé, sapersi fragile e breve,  e in tale misura bastarsi e riconoscersi. Ma questo  lo antivedeva, già nel primo Ottocento,  il Copernico leopardiano. Può questo uomo ancora dare e dire molto , proprio  dopo  una  trasformazione travagliata e pure aperta a nuove crescite, in special modo della psiche. Hilman ha scritto che gli dèi camminano ancora fra noi e certo i sentimenti che li significano e gli umori che li contraddistinguono tuttora ci nutrono e ci spingono, Poeti come Brodskij e come Walcott non hanno dubitato e non dubitano della presenza della  poesia. ( Scendendo nelle giornate di tutti va ricordato che, mai  come in questi anni e in Italia, è cresciuto a dismisura il numero di coloro che scrivono versi e versicoli, oltre a prose più e meno sgangherate, svendendole per poesia. Se una tale proluvie di libri e libretti denuncia il poco e il niente che li produce, questa stessa proluvie dimostra quanto tuttora valga l’illusione e la speranza di affidarsi, in un universo di chiacchiere, a parole durevoli. E questo prova quanto sia viva e più che mai vincente, in tanto inutile rumore, l’idea di poesia.)  Vale ricordare che la poesia è un raro uccello? A pochi è dato,  per talento e per qualità di strumenti,  accostarla e  raggiungerla. Gli altri, i tanti, vanno piuttosto avvertiti, istruiti. La mia generazione imparava fin dalle elementari molte poesie a memoria, poesie degli autori maggiori, e questo bastava a portarsi dentro un patrimonio che stabiliva raffronti e misure. Forse il bisogno di consegnarsi agli altri con  parole durevoli potrebbe essere al meglio soddisfatto ripetendo le parole assolte e risolte che  la poesia,  raro uccello, ci ha lasciato e ci lascia  affidandocele. E’ una questione di ignoranza da combattere.

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Domanda: L’ultimo tuo libro di poesia ha un titolo significativo: Simmetrie (2007) pubblicato ne Lo Specchio Mondadori. Perché quel titolo? – Il libro, insieme al  volume Poesie 1975-1995 (Empiria, 1997), ci consegna il percorso di una poesia di sapiente compostezza metrica, che rimanda alla linea che va da Sbarbaro e  Saba,  e arriva a Penna e Bertolucci attraverso il progenitore della poesia italiana del Novecento: Pascoli. C’è il tema del viaggio e del congedo, un viaggio che si dirama  “lungo la strada del cuore” attraverso il “corpo”:

È una stanza il corpo
nido-cella-recinto.
Abito in cui bastarsi,
da non potersi assentare un istante.
Gabbia d’ossa e di arterie,
di dove assistere al mondo.

*

Un albero, per appoggiarvi la schiena.
Stare là, senza pensieri, senza possessi.
Il mondo davanti dietro interno.
Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
la tegola rotta, la stanza stretta?
Restare fino a che è dato,
senza orologio e senza calendario.
Chi ha deciso questa inquietudine?

Risposta: IL titolo “Simmetrie” riassume e significa quella mescolanza di opposti che per me muove  l’intera esistenza e l’essere in sé. Ho trovato e  trovo questa verità, ossimorica, in ogni istante della mia giornata. L’ho riconosciuta nella gioia-dolore che da Schopenhauer passa in Leopardi e che, nel Novecento Italiano, nutre e dà luce soprattutto in Saba e in Penna, a mio parere i poeti più  dentro il nuovo millennio: la ”serena disperazione” dell’uno, la “strana gioia di vivere” dell’altro. M’è toccato nell’infanzia: erano gli anni della guerra, mio padre era lontano sulle navi della marina militare, tutto era faticoso e doloroso da accettare, ma c’erano le poesie e le canzoni, gli orti che inverdivano a marzo,  le allegrie di mia madre dopo le oscure malinconie, le felicità improvvise, brevi, continuamente attese, instancabilmente cercate. Non ho mai smesso di vedere, di sentire, in tutto quanto mi tocca, in tutto quanto  affronto o rifiuto, nel mio stesso corpo che è insieme un peso e un dono, negli sconcerti e sconforti degli eventi pubblici, in un tempo di cambiamenti e di rumori,  la grazia di un affetto, la luce della bellezza, la voglia testarda di vivere e di continuare  che in ognuno resiste e alberga. Ho scritto molti anni fa un verso che in diversi ricordano: «Io compio l’avventura di restare.»  Ho scelto, molto tempo fa, prima dell’adolescenza, di stare nella vita  fuori della menzogna, ma anche fuori della tristezza come rifugio e medicamento. So che l’esilità e la fragilità non mi corrispondono se in ogni istante mi adopero per  vedere chiaro, per capire meglio.  Questa  è la sostanza che nutre le mie forme. 

Domanda: Molta poesia che si pubblica oggi, anche di autori di rilievo, sembra indirizzata al Ceto Medio Mediatico colto, quel pubblico di “poeti” che poi deve dare il plauso alla nuova poesia. Si realizza così un corto circuito tra le generazioni, una pratica molto diffusa tra i giovani oggi al di sotto dei quaranta anni che scrivono tutti allo stesso modo scimmiottando i modi della poesia maggioritaria. Qual è la tua opinione in proposito?

Risposta: Ho fin dalle mie prime poesie saputo che scrivevo  per il testimone attento e severo che mi porto dentro e subito dopo per gli altri, per  tutti gli altri. Sono stato per mia natura, o limitatezza, estraneo a scuole e   ideologie. Quanto alle scimmiottature e alle omologazioni, non ho dubbi: il poeta è fedele a se stesso, non può venire meno a questa fedeltà, pena il suo spegnimento. E  in conclusione: niente più della poesia denuncia il suo autore, le sue qualità e le sue mancanze. Sono sufficienti poche frasi, a volte un solo verso, per scorgere il vuoto e la bugia.

Domanda: Vorrei finire l’intervista con la domanda che faccio sempre ai poeti intervistati: pensi che ci sarà posto per la poesia nel mondo del futuro?

Risposta:  Mai come oggi l’uomo e il poeta hanno tante domande a cui rispondere, emozioni e sensazioni e umori da raccontare, rilevare, percepire. Chi annuncia la morte della poesia, a mio parere accerta solo la morte che si porta dentro e la cupa volontà di giustificarla come condizione comune. Lo ribadisco: la poesia ha un posto nel presente e nel futuro ben più ampio e urgente che nel passato. La modernità ha reso più incerto e scontento l’umano, più esteso e oscuro il suo desiderio, più folte e complesse le sue domande. La poesia, questo lo credo fermamente e vado da anni ripetendolo, è “educazione ai (e dei) sentimenti”.

elio pecora 2

Elio Pecora

Elio Pecora è nato a Sant’Arsenio (Salerno) nel 1936,  da decenni vive a Roma.
Ha pubblicato romanzi, saggi critici, una biografica di Sandro Penna
(Frassinelli, ultima edizione 2006) e curato antologie di poesia
contemporanea. Ha collaborato con articoli letterari a quotidiani,
settimanali, riviste e a numerosi programmi culturali della RAI. Dirige
la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

 

In poesia ha pubblicato:

  – 2012     Dodici poesie d’amore  (Napoli,  Frullini Edizioni)
  – 2011     In margine  (Salerno/Milano, Oédipus )
  -2010     Tutto da ridere (Roma, Empiria)
  – 2007   Simmetrie (Milano, Mondadori)
– 2007   L’albergo delle fiabe e altri versi (Roma, Orecchio acerbo)
– 2006   Insettario/Insectionary (Roma, Almenodue)
– 2004   Nulla in questo restare (Trieste, Il Ramo d’Oro)
– 2004   Favole dal giardino (Roma, Empiria)
– 2002   Per altre misure (Genova, San Marco dei Giustiniani)
– 1997   Poesie 1975-1995 (Roma, Empiria; ristampato nel 1998)
– 1995   L’occhio corto (Il Girasole)
– 1990   Dediche e bagatelle (Roma, Rossi & Spera)
– 1987   Interludio (Roma, Empiria; ristampato nel 1990)
– 1985   L’occhio mai sazio (Roma, Studio S.)
– 1978   Motivetto (Roma, Spada)
– 1970   La chiave di vetro (Bologna, Cappelli)

POESIE DI ELIO PECORA
da Simmetrie (2007)

 

L’OCCHIO CORTO

Eventi da poco. Notizie prossime, come cartoline di saluti, come telefonate fretto
lose. Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe.
A volte, in pochi righi, appare l’allegria, passa velata la morte. Una folla, in
cammino  verso il giorno o la notte, verso il ricordo o la dimenticanza,
sosta dentro il presente.
Che vale di queste storie mentre il pianeta ruzzola e ruota, avanzano ghiacciai,
si consumano stelle, il tempo cambia di numero, si perpetrano orrori,
si assolvono speranze?
Vengono certo da umori segreti, da attenzioni a minimi segni: passi brevi,
desideri inseguiti, attese bestemmiate, rabberciate bellezze. Lacerti di 
un  mondo spiato, intravisto da un occhio corto.
*
Vanno: mani, piedi, volti
– sterminata moltitudine di attese,
di speranze, di uguali
per fame, per morte,
l’uno l’altro cercando
che rassicuri, impedisca,
tutti compiendo destini
variamente intricati,
mai cessando dietro le arterie,
fin dentro il riso o il grido,
la paura di essere cacciati
da un recinto indifeso.
*
Felice. Ma è possibile che questa felicità,
così colma, comprenda
anche tutti i disagi, tutti gli assilli?
Il sole alto sulla piazza, la folla svagata, i cani,
la violinista con l’orchestra nel registratore,
la vecchia dei fiori puzzolente di orina. Tutto visto, sentito,
e il pensiero dell’amore assente
e il pensiero di essere vivo e breve.
Felicità e disperazione.
*
Traversare il dolore
come una stanza scura,
contando i passi, i fiati.
Cercare nel chiuso
un buco, una crepa,
perché non sia memoria
ma presenza
in quell’assenza di luce.
All’uscita sapere
che toccherà tornare.
E l’allegrezza ancora
aspettando l’assalto.
*
Esistere
senza disperare della brevità,
conoscendola come spazio e confine.
Ma vale ogni giorno.
Dentro la contentezza sapere che finirà.
*
In ogni spigolo o lembo,
dietro le viscere e il cuore,
s’aprono spazi imprevisti
e ancora abissi e cunicoli.

(DOPPIO MOVIMENTO)

Un albero, per appoggiarvi la schiena.
Stare là, senza pensieri, senza possessi.
Il mondo davanti, dietro, intorno.
Uguale al ramo, alla foglia. Che importa
la tegola rotta, la stanza stretta?
Restare fino a che è dato,
senza orologio e senza calendario.
Chi ha deciso questa inquietudine?
Partire, tornare, tenere, trattenere,
quando basta appoggiarsi a un albero.
Invece, nella sazietà
temere la fame, sospirare nella contentezza. Così, da per tutto.
Non un attimo di sosta. Sempre una guerra,
un contrasto. Profumi che divengono fetori,
polpe che infradiciano,
parole come baccelli svuotati.
Una barca fragile su un mare senza fondo,
l’ansimo nella corsa dell’atleta,
l’urlo dopo il traguardo.
Non sapeva e gli è toccato imparare.
A che è valso?
Continua, come se non fosse avvertito.
Si sveglia da sogni confusi,
si dice che oggi capirà.
Un istante e tutto si ripresenta,
uguale a ieri e a ieri l’altro,
lo stesso disagio, la medesima angoscia.
Quando è cominciato tutto questo?
(…)

Elio Pecora, Simmetrie (Mondadori, Lo Specchio, 2007, pp. 115, € 12)

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INTERVISTA a LUCIANO TROISIO La filosofia del viaggio – La forza dei piedi – L’uomo esploratore –  Il viandante, Gli argonauti  – “Il viaggio come investigazione dell’ignoto?”,  “L’estremo Oriente”, “L’isola di Bali”, “Cos’è più importante, la longitudine o la latitudine?”, “Cos’è più importante per te, lo spazio o il tempo?”,”Viaggiare nello spazio non è un po’ come viaggiare nel tempo?” –  “Gli dèi scendevano tutt’intorno. Appunti balinesi” (Cleup. 2015 pp. 530 €  27) con un Commento di Giorgio Linguaglossa: “La filosofia del viaggio”

Terzo della Trilogia dedicata agli “appunti di viaggio”, questo volume è una monografia dedicata all’isola più famosa dell’emisfero australe: Bali. Eccezione indù in un assediante oceano musulmano, ha per secoli mirabilmente saputo tener testa prima agli arabi distruttori del magnifico regno giavanese Majapahit (di cui ha ereditato la raffinatissima cultura), poi ai colonialisti olandesi che la occuparono fino al 1951.
L’autore ha qui raccolto gran parte degli extravaganti appunti annotati durante alcuni dei viaggi compiuti in quella che è universalmente definita Insula Deorum, dove la religione permea e governa l’intera vita, l’intera giornata, dove il meticoloso allestimento delle offerte e delle straordinarie cerimonie, meraviglia e commuove l’attonito straniero.
foto Bali danza-barong (bollywood) musical indiano

Bali danza-barong (bollywood) musical indiano

Giorgio Linguaglossa: La filosofia del viaggio

«Qualcuno ha mai riflettuto sulla filosofia del viaggio? Ne potrebbe valere la pena. Cos’è la vita se non una forma di movimento e un viaggio attraverso un mondo estraneo? Oltretutto, il movimento, privilegio degli animali, è forse la chiave dell’intelligenza». Parole di George Santayana (1863 – 1952), filosofo spagnolo ma americano d’adozione, che nel saggio Filosofia del viaggio riflette sui vantaggi del movimento, prerogativa esclusiva degli animali. I vegetali hanno le radici e, inevitabilmente, la loro esistenza è ancorata al suolo. Non è così per l’uomo, che ha l’enorme vantaggio di essere dotato di piedi, con i quali si può spostare liberamente.

La forza dei piedi. Negli animali, spiega Santayana, la forza del movimento si trasforma in una esigenza di necessità, essi seguono la logica della sopravvivenza della specie. L’intelligenza della specie è un aspetto fondamentale per la sopravvivenza degli animali e dell’uomo: «È la possibilità di viaggiare che dà senso alle immagini degli occhi e della mente, che altrimenti sarebbero mere sensazioni e uno stato spento del proprio essere. (…) Per questo, invece di dire che possedere le mani ha dato all’uomo la sua superiorità – continua Santayana – sarebbe più penetrante dire che l’uomo e gli altri animali devono la loro intelligenza ai piedi». I piedi quindi sarebbero speculari alle  mani: senza i piedi le mani sarebbero del tutto superflue.

L’uomo esploratore. Ma quante tipologie di viaggiatore esistono? Moltissime: l’emigrante, l’esploratore, il girovago, il vagabondo, il navigatore, il nomade, il mercante e il turista. Se l’esploratore si mette in cammino alla ricerca dell’ignoto, nella certezza di ragguagliare l’ignoto al noto. Prototipo di un  tale tipo di viaggiatore ì l’Ulisse omerico il quale scopre nel viaggio l’essenza della propria qualità di uomo nuovo. Il girovago cammina a caso, è un perditempo, vuole spendere lo spazio senza badare al recupero di alcunché, il suo viaggio non avrà termine in quanto sarà costretto da una forza misteriosa e impellente a vagare in giro, nella speranza di trovare forse qualcosa che ha perduto; il mercante invece sottopone il viaggio ad un calcolo di costi e benefici, il viaggio sarà intrapreso seguendo una logica del profitto; il turista invece ha un concetto utilitaristico dello spazio e del tempo, vuole passare il tempo. Il turista è il tipico viaggiatore dell’epoca capitalistica. Al tempo e allo spazio chiede che il viaggio valga la pena di essere compiuto secondo un criterio di appagamento esotico e soddisfazione economica. L’emigrante invece è costretto a spostarsi da un paese all’altro, la sua è la forma più tragica e radicale di viaggio, perché indotto dalla necessità di sopravvivenza.

Il Viandante. Giuseppe Patella in un libro del 2013 ci ricorda la figura del viandante di nietzschiana memoria, che «rappresenta un nuovo tipo di uomo, l’emblema dell’uomo moderno che intende la vita come un continuo esperire, che vive libero da pregiudizi e da luoghi comuni, che segue l’etica del coraggio e dell’intraprendenza che è propria solo degli uomini liberi e artefici del proprio destino». Ma non solo, il viaggio è anche la metafora di ogni percorso mentale e filosofico, di cui peraltro la figura del viandante è l’emblema e Santayana la personificazione: «Tutta la mia vita – scrive il filosofo nella sua autobiografia – ho sognato viaggi possibili e impossibili, viaggi nello spazio e nel tempo, viaggi in altri corpi e menti estranee».

Gli argonauti. Poi c’è il viaggio degli argonauti, quei guerrieri che vanno sul mare alla ricerca dell’ignoto. E autori principi di questo tipo di viaggio sono i poeti e gli artisti, coloro che non temono di inoltrarsi in territori spirituali sconosciuti e infidi. E, probabilmente, a questa tipologia di viaggiatori fa parte  Luciano Troisio.

foto Bali la danza 1

Bali la danza

Domanda: Che cos’è il viaggio per te. Il viaggio come investigazione dell’ignoto?

R: Se fossi sincero risponderei non lo so. Si parte, si torna in un luogo per mille motivi. Anche per pigrizia, perché si conoscono gli endroits. Visitare un sito nuovo non è come “tornare” in un sito, specialmente se il ricordo è bello, se avete perso una donna. Tornarvi  è molto pericoloso, significa prepararsi alla Grande Delusione. Nello stesso tempo l’ignoto è in agguato dovunque, anche nella cella di clausura o del carcerato. Ma io ci sono abituato da molto, e il mio non è un viaggio unico e nemmeno chiaro a me stesso: sono molte dimensioni di viaggio tutte insieme (l’andare verso è fuso al fuggire da). Perché mi trascino dietro computer e disco esterno, cioè le attrezzature che mi permettono di scrivere, di lavorare meglio che a casa su molti miei testi incompleti e su immagini, di leggere i giornali, di conoscere le notizie anche locali, i fatti che succedono nel mio quartiere. Oggi sono venuto a sapere che si è costituito un comitato di residenti che controlla dove gli spacciatori nascondono la merce, proprio a meno di 300 metri da casa mia ecc.

(Ieri a Padova si è conclusa la ricognizione del corpo di San Leopoldo Mandic, il grande Confessore dalmata, durata più di 40 giorni, da parte di un’équipe di specialisti. Sarà traslato a Roma dai carabinieri, per essere esposto in febbraio nella basilica di San Pietro accanto a quello di Padre Pio). Ma è di ieri anche la notizia quasi da film neorealistico (in bianco e nero) accaduta migliaia di volte, che un giovane di Codevigo (sul bordo della laguna interna), correva in macchina per portare la moglie partoriente alla casa di cura di Abano; passata Piove di Sacco la signora fu colta dalle doglie. Il piccolo Noè aveva fretta di conoscere questo mondo, neanche il tempo di parcheggiare nei pressi di un ristorante ormai alle porte di Padova e Noè già strillava, sanissimo, tre chili e trecento grammi. Arrivo dell’ambulanza ecc., una notiziola, un trafiletto, sebbene la nascita di un umano non sia mai banale.

C’è il reale ma ci sono i libri e le guide. Un universo, e un viaggio, infinito. Dato che mi trovo in quest’area, come potrei ignorare le oltre 250 etnie seminomadi, di antica origine sino-birmano-tibetana, che abitano il Triangolo d’Oro e dintorni, in vari stati? Un tesoro di tradizioni, costumi come al carnevale, colori, oreficeria (in argento), lingue diversissime, molte senza scrittura. Endogamia/esogamia, sciamanesimo. Li vedete ai mercati e non sapete che parlano idiomi impermeabili, si sorridono e non si capiscono affatto tra di loro (quindi nemmeno si sposano, quindi niente esogamia). Già questo sarebbe un viaggio straordinario, esiste una ricca bibliografia, un itinerario che porterebbe lontano (dagli spacciatori del mio quartiere. Perché queste etnie sono da sempre i maggiori produttori di oppio del pianeta).

La gente mi affascina, la folla mi spaventa. Ma il nuovo non è l’ignoto

foto Bali a spasso nell'isola degli dèi

Bali a spasso nell’isola degli dèi

2) come mai questa tua predilezione per l’estremo Oriente?

Il primo viaggio fuori dall’Europa l’ho fatto nel 1975, quando stava finendo la guerra in Vietnam. La meta era Bangkok, dove mi aspettavano tre amici, uno padovano, uno milanese e il terzo emiliano (si chiamava Fantozzi). Loro erano molto esperti di Oriente, io ero la matricola. Avevano scelto per me la Tailandia per la sua dolcezza. Il nostro albergo, il Miami, gestito da cinesi (esiste ancora) era diciamo molto ospitale, pieno di aviatori americani delle basi nelle retrovie, ragazzoni in licenza gonfi di dollari e con signorine del posto. Fu un viaggio mitico, ne ho scritto in vari miei racconti e amo citare almeno Ritorno a Luang Prabang, nel Laos che stava cadendo sotto la dittatura comunista (2 dicembre 1975) e noi riuscimmo ugualmente ad avere il visto. Vivemmo quei giorni in una dimensione strana, di un provvisorio indicibile mai vissuto prima, tutti scappavano a Vientiane, dove basta guadare il Mekong e si è in Tailandia, che significa Paese degli Uomini Liberi (adesso c’è un ponte, chiamato dell’Amicizia e anche dell’AIDS). La moneta locale (Kip) si svalutava a vista d’occhio, ce ne davano pacchi fissati con fermagli, i ristoranti chiudevano, gli argentieri e gli antiquari se la battevano, gli avvoltoi facevano affari d’oro coi francesi che vendevano tutto. I missionari Camilliani di Galliera veneta si rifiutavano di andarsene entro 48 ore, venne anche l’ambasciatore a pregarli invano. Quando La Bonne Fourchette decise di chiudere fece una gran festa, noi come sempre mangiammo lì coi padroni, carni squisite, cotte dando fondo alle erbe provenzali, vini pregiati di Bordeaux, champagne mentre la nave affondava. Alla grande. Pagammo con un enorme pacco di kip equivalenti a un dollaro e cinquanta. Insomma leggete il mio racconto. Ma poi da lì, visitata la Tailandia andammo a Singapore e Bali, dove  potemmo godere degli ultimi bagliori di un Eden che stava già cedendo alle orde del turismo bifolco. Su di me la “prima volta” ebbe un effetto magico, a cominciare dall’atterraggio. I miei sottili amici mi portarono anche sui vulcani, anche in quelli spenti collassati dove nessuno (allora) andava: sacri templi buddisti e indù, giacevano ancora immemori tra rovi all’interno dei silenziosi disabitati crateri (nessuno di noi quattro aveva una macchina fotografica). Ora quel cratere del vulcano Bratan, essendo fertile, è stato invaso da laboriosi ortolani musulmani di altre isole indonesiane (che coltivano soprattutto fragole), l’armonia commovente millenaria è stata profanata dal cretinismo architettonico delle prepotenti orribili moschee di latta. L’incanto delle gentili pantomime, che eternavano il raffinato Ramayana, di quando le bambine danzatrici erano istruite da grandi maestre, severe eredi di un’arte rinascimentale, non esiste più. Adesso è tutto banale per ricchi incolti che tanto non noterebbero la differenza.

Negli anni seguenti ho fatto l’accompagnatore turistico, in Afganistan, Pakistan, India, Sri Lanka, Nepal, Cina, Isole della Sonda, Nord Africa, Turchia. Ho fatto quattro volte il grande viaggio archeologico americano Azteco/Maya in Messico, Guatemala, Belize, Honduras: due pulmini Combi Volkswagen da nove posti. Uno lo guidavo io. Viaggi epici, i clienti sono venuti a trovarmi per anni, migliaia di chilometri con parecchie difficoltà per raggiungere le piramidi più misteriose, in mezzo alla giungla, per non parlare della guerra in Guatemala, gli infiniti posti di blocco, i volgari controlli dei governativi, le loro urla (regresar, bajar!), le strade tremende, polverose o fangose, dove si procedeva a una media di 15 all’ora. Memorabile. E naturalmente non esistevano ancora i pc, i telefonini. 

Fu in quel periodo che maturai una decisione culturale. Insegnavo all’Università, Letteratura del XX secolo, gli argomenti preferiti erano due: la poesia e la letteratura di viaggio. Quando mi resi conto che le mie deboli forze erano insufficienti per occuparmi di tutto (ad es.: dell’abbondante/mediocre letteratura sulle nostre colonie africane), decisi di limitarmi a un solo continente, quello che consideravo (come Gozzano) la cuna del mondo, e scelsi di restringere il campo all’Asia centrale, all’Estremo Oriente e al Sudest asiatico.
Anche l’amicizia con il mio illustre conterraneo Giovanni Comisso (ora dimenticato) fu determinante. Sebbene fosse ormai molto anziano e malato, mi introdusse con entusiasmo al mondo misterioso e seducente della Cina e del Giappone che aveva visitato negli anni Trenta. Prima c’era stato Gozzano in India e ancor prima Barzini sul fronte russo-giapponese, e alla spedizione punitiva contro i boxer, e nel 1907 al glorioso raid Pechino-Parigi col principe Borghese. Così cominciai una impegnativa schedatura di libri famosissimi di italiani sull’Asia per le mie lezioni. Poi, nella seconda metà del secolo scorso, finì l’era dei viaggi via mare (almeno 20 giorni per arrivare in Cina con le efficienti linee triestine). L’aereo, a elica, per quanto lento, abbreviò di molto gli spostamenti; con Mao al potere dal 49, tutti visitarono la Cina comunista e tutti scrissero libri (di vari livelli). L’elenco sarebbe infinito.

foto Bali cartina geografica3) E questa tua passione per l’isola di Bali?

R: Dipende soprattutto da due cause: la prima è la grande bellezza dell’isola in senso strettamente culturale, l’unico che mi interessi. Ma non sottovaluto i fiori e l’incanto smeraldino delle sue risaie collinari, tra le più famose del mondo. La seconda dipende dal fatto che mentre nella stagione secca (quando in Europa è inverno) si possono scegliere moltissime mete, nell’emisfero boreale intendo, durante la nostra estate, ai tropici piove dappertutto, e bisogna andare di là dell’equatore per trovare bel tempo. Beninteso, questo vale anche per l’Africa e l’America, ma limitandoci all’Asia le scelte sono pochissime.

foto Bali Indonesia-Sculture-popolari-collegate-con-indonesiano

Bali Indonesia-Sculture-popolari-collegate-con-indonesiano

4) Qual è il senso di questo libro di viaggi che vanno dal 1996 al 2014?

R: Diciamolo fuori dai denti. Questo è un libraccio che nessun editore voleva stampare. Solo la Cooperativa dell’Università di Padova ha accettato. E per di più ho aggiunto in extremis anche il Diario Shanghaiese risalente agli anni 1987-92, giudicato da più di uno un capolavoro (io ci casco sempre), e tuttavia rimasto, diciamo così, lotto invenduto. Peccato, perché almeno le pagine dei giorni di TienAnMen visti da Shanghai sono di un certo obiettivo interesse. Così abbiamo superato le 500 pagine, come un long seller americano, ma rinunciando a metterlo nelle librerie.

Essendo questo il terzo volume di una trilogia del viaggio, ho avuto il modo di riservare monograficamente o quasi, il tema dell’isola diletta. Per dirla tutta: ho esitato a lungo, chiedendomi se ne valeva la pena, se non fosse il caso di rinunciare, di sfrondare, di farne solo un’antologia, tenendo conto che il pubblicato sarà probabilmente circa la metà del materiale, disseminato in vari computer e CD introvabili, nonché in una trentina di agende scritte fittamente (e spesso macchiate di olio solare), che non ho nessuna voglia di riprendere in mano. Infine ho capito dopo tanta fatica che un lavoro così non si finisce. Bisogna interromperlo e basta. Ho deciso per il sì, naturalmente limitando la tiratura, evitando il macero. L’abbiamo donato agli amici, sperando che mi perdonino le eccessive divagazioni, i molti particolari minimalisti, inusuali. Confesso che c’è dell’amore in questo volume, per un’umanità bambina aurorale che non può non farti innamorare. Mi rendo conto che il mio è un atteggiamento fortemente influenzato (non certo dalla religione, ma) dall’aspetto letterario/liturgico/artistico, di un impegno, di un livello, che non ho mai visto in nessun altra parte del pianeta. Così le cerimonie spettacolari, specialmente i fantastici Festival, le sontuose cremazioni principesche, cui ho avuto casualmente la fortuna di assistere, con tutto il loro fasto pagano/asiatico possono recare una mia testimonianza non di maniera. Sono anche convinto che ai balinesi non interessi il mio libro (nonostante esista ogni anno a Ubud, un Festival degli scrittori). Anni fa esisteva a Legian un giornalino in italiano: Buongiorno Bali. Conoscevo la corpulenta direttrice (già silfide nudista a Goa), si trattava più che altro di pubblicità di pizzerie. Presentarlo in un ristorante-pizzeria? Ma il giornalino non c’è più. E gli istituti di cultura è meglio perderli.

Il testo della domanda allude a date assai distanti tra loro, nel frattempo è cambiato tutto, tecnologie, aeroporti, prezzi dei voli, baco del millennio, mode e modi di scrittura, una vita, io. (Come disse Sandro Penna) vorrei sapere se questo mondo ha ancora qualcosa per me.

Ma Bali non è tutta bellezza, l’aspetto turistico è spesso deprimente, la polizia è la più corrotta del mondo, la burocrazia avida nell’estorcere al turista. A Bali sono stato derubato più volte, borseggiatori mi hanno sfilato il portafoglio con la tessera di docente e quella dell’Ordine dei Giornalisti, più 300 euro, a Bali sono stato morso da una scimmia sacra e anni dopo da un cane con relative antitetaniche e punti di sutura. I balinesi sono sorridenti, ma spilorci in modo eccessivo e non esiterebbero a lasciarvi morire sul marciapiede. (Ovviamente ci sono anche molte eccezioni).

Il senso di questo libro: forse mi sfugge.

foto Bali struttura di lusso situata nella splendida isola

Bali struttura di lusso per turisti situata nella splendida isola

5) Perché il viaggio quando si può agevolmente viaggiare chiusi in una stanza con il pc acceso o con la immaginazione?

R: Antica questione, che nei tempi recenti si è modificata molto a causa delle innovazioni tecnologiche le quali permettono ormai a quasi tutti di stare nella propria caverna e oracolare che il mondo venga a trovarli. E quello viene. Ci sono carcerati e tetraplegici che fanno così il giro del mondo, a bordo del tappeto volante, c’è quel famoso scienziato costretto in carrozzella che il mondo addirittura lo modifica e innova realmente. Perché, attenzione, bisogna distinguere tra realtà e virtuale, tra l’immane fatica dello scalatore e il piacere supino di colui che attraverso un minimo drone lo spia salire. Esiste una ricca letteratura sul tema. C’è chi si scalmana ad attraversare (i suoi) deserti, e lo stilita sopra la colonna che ci fa la pipì. Sono convinto che arrivino tutti alla medesima meta, attraverso ingarbugliati circuiti diversi che sono il misterioso gioco dell’oca dell’esistenza

(ma il senso? Resta imprendibile).

6) Cosa altro vuoi scoprire con il viaggio che non hai ancora scoperto?

R: J’ai lu tous les livres, diceva qualcuno. Supponiamo che ormai abbia visto (quasi) tutto. Metti in conto che sono cardiopatico e ho l’interdizione a salire oltre i 2000 metri. Quindi le civiltà andine posso solo sognarmele, e così il Tibet (ma a suo tempo, un millennio fa, ho visitato il Piccolo Tibet, il Ladak, e sono salito fino a cinquemila metri. Sono stato malissimo, il naso mi sanguinava. La famiglia tibetana che mi ospitava (una donna energica e vari mariti legittimi servizievoli, dato che vige la poliandria) mi ha civilmente curato con verze e patate bollite. Così posso dire di aver visitato i più remoti alti suggestivi monasteri lamaisti. Ora non più.

Il motto di Comisso era: “vedere, non capire”. Non lo condivido affatto. Resta molto da vedere ma ancor più da capire, sebbene costi fatica e non sia affatto rilassante dover ammettere che si era convinti di aver capito.

foto Bali Indonesian-Sculpture

Bali Indonesian-Sculpture

D: Cos’è più importante, la longitudine o la latitudine?

R: Ho visitato in gioventù il Nord Europa, sono stato al castello di Amleto, tutto bello, soprattutto molto costoso per un giovane (allora quei paesi non facevano parte dell’Unione). E molto freddo. Io preferisco il caldo.

La longitudine mi fa pensare che le nostre matrici culturali provengono (come noi stessi) da est e vanno verso ovest. L’Asia è la nostra grande madre, l’America è la nostra giovane bella figlia. Per l’Asia ho timore reverenziale, per l’America no. (Credo anzi che siano gli americani ad averne verso gli europei). Dell’America ammiro soprattutto le eccellenze tecnologiche, ma anche l’Europa se la cava piuttosto bene. (Il problema della ricerca è soprattutto di capitali, non di cervelli).

8) Viaggiare nello spazio non è un po’ come viaggiare nel tempo?

R: Ho imparato che viaggiando nello spazio si può giungere in luoghi dove il tempo scorre in modo diverso, o addirittura non scorre affatto. Mi sono trovato spesso in situazioni dove ho avuto la certezza di quanto sostengo, però, via da quel contesto, non lo so più dire con parole convincenti.

9) Cos’è più importante per te, lo spazio o il tempo?

 R: Una volta, fino al liceo, pensavo che tempo e spazio fossero delle unità di misura certe, paletti affidabili. Oggi soprattutto il (passare del) tempo è in discussione relativa, in quanto connesso al movimento, alla distanza, alla temperatura, alla pressione e compressione, alla reazione chimica. (Fugge inesorabile, ma relativamente). Spesso mi sono chiesto se esista un’assurda confusione fra tempo e sua misura. In un certo senso è una questione filosofica collegata all’Esperimento e al suo Osservatore, che lo modifica.

Concludendo: lo spazio è sempre là, ma il tempo dov’è?

(Tempo scaduto)

Luciano Troisio 1

Luciano Troisio con pappagallo

Luciano Troisio, padovano, studi classici, ha insegnato nelle università di Padova, Pechino, Shanghai, Bratislava, Lubiana. Ha viaggiato molto specie nel Sudest Asiatico. È autore di varie pubblicazioni scientifiche e sperimentali.

Riguardano la poesia: By logos, Lacaita, Manduria, 1979; Folia sine nomine, Seledizioni, Bologna, 1981; La trasparenza dello scriba, Vallardi, Padova, 1982;La poesia nel Veneto, Forum, Forlì, 1985; Ragioni e canoni del corpo, Asefi, Milano, 2001; Linee odierne della poesia italiana, Hebenon, Torino, 2001; Folia sine nomine secunda, Marsilio, Venezia, 2005.

Inoltre ha pubblicato le raccolte poetiche: L’angelo alle spalle, Rebellato, Padova, 1960; Anamnesi in tre versioni, Rebellato, Padova, 1965; Precario, Lacaita, Manduria, 1980; Persistenza del cavallino, L’Arzanà, Alessandria, 1984;I giardini della maharani, Mercato saraceno, Treviso, 1986; Prove di diluizione, Edit, Fiume, 1999; Le poetesse cinesi, Ad Histmum, Padova, 2000; Three or four girls, Signum, Milano, 2002; Parnaso d’oriente, Marsilio, Venezia, 2004,Oriental Parnassus, translated by Luigi Bonaffini, Legas, New York, 2006;Strawberrystop, pref. di Giorgio Linguaglossa, Faloppio, Lieto Colle, 2008;Papera Omnia, Panda, Padova, 2010; Locations, Impermanenza, Cleup, Padova, 2012.

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Aldo Onorati, dal nuovo libro “La voce e la memoria. Interviste a personaggi del Novecento” (EdiLet, 2015) – Intervista a Dario Fo (1978), con una nota introduttiva di Marco Onofrio

San Remo 2009 la pornostar Laura Perego ha fatto irruzione sul palco in perizoma e bodypainting

San Remo 2009 la pornostar Laura Perego ha fatto irruzione sul palco in perizoma e bodypainting

nota di Marco Onofrio

 Pubblicando questo volume di interviste e conversazioni, Aldo Onorati approfondisce la sua analisi dello “sfacelo umanistico” in atto nella società contemporanea. Come si è arrivati alla situazione che stiamo vivendo? Attraverso quali passaggi decisivi? Come e perché si è trasformato il mondo? Onorati raccoglie le analisi e le riflessioni elaborate, tra il 1960 e il 1989, a colloquio con una trentina di intellettuali italiani di rilievo. Le cose sono riportate nell’alveo della loro essenza e all’origine della loro aberrazione: gli articoli riconducono agli anni in cui, parallelamente al boom economico, cominciava a diffondersi la percezione reale, attraverso una coscienza critica acquisita, degli scenari già preconizzati dalla Scuola di Francoforte negli anni Trenta, ovvero il prezzo che la gente comune avrebbe pagato, in termini sociali e culturali, per la via intrapresa dalla politica, improvvida sostenitrice di uno “sviluppo” che in realtà mistificava logiche particolaristiche di profitto economico, appannaggio delle solite oligarchie.

   Onorati sollecita gli intervistati a confrontarsi; e lo fa con la visione ampia e olistica di un dibattito “aperto”, chiamando a interloquire persone distanti fra loro sia nelle idee sia nella prassi della vita, per cui la risultanza dei colloqui dipinge un quadro complesso, a 360°, degli scenari evocati. Sono conversazioni di particolare importanza testimoniale, poiché raccolte dall’interno stesso di una prospettiva di cambiamento, nello snodo nevralgico che articola la frattura tra il “non più” e il “non ancora”, tra un mondo che si allontana irrevocabilmente e un altro che comincia a manifestarsi. Dalla cartina di tornasole delle domande porte da Onorati, catalizzatrici di risposte rivelatorie e talvolta profetiche, si coglie il passaggio decisivo che porta alla luce della coscienza critica italiana il primo apparire dell’età “postmoderna”. Il mondo stava cambiando per sempre: dopo secoli di continuità, nulla sarebbe stato più come prima.

aldo onoratiSono interviste preziose per ricostruire lo Zeitgeist di questa grande trasformazione epocale, nella misura in cui riescono a catturare il clima ideologico e morale di alcuni decenni cruciali per la storia del nostro Paese, inquadrata nel più vasto ambito dell’Occidente: soprattutto gli anni ’70. I dibattiti suscitati dal confronto generatore delle idee si muovono dunque come sipari trasparenti e sovrapposti, sul palcoscenico dove la cronaca inscena la commedia della Storia: è un libro che occorre leggere tra le righe, nei suoi intrecci, nei suoi sviluppi, nelle sue pieghe nascoste, tra le spinte delle sue mille istanze propulsive.

Aldo Onorati Interviste copParticolarmente notevoli e ricchi suggestioni sono gli interventi di Dario Fo (qui riportato), Roberto Rossellini, Giorgio Bàrberi Squarotti, Diego Fabbri e Don Franzoni. L’intervista a Diego Fabbri è stata raccolta poco tempo prima della sua scomparsa e può quindi considerarsi una sorta di testamento spirituale. Quella a Dom Franzoni è stata raccolta pochi giorni prima della sua riduzione allo stato laicale, a causa delle divergenze ideologiche con le linee politiche del Vaticano. Di grande rilievo storico e culturale anche gli interventi di Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Giorgio Petrocchi, Gabriele Baldini, Domenico Rea, Sergio Quinzio, Goffredo Petrassi, Giulio Carlo Argan, Armando Armando, Giacomo Manzù, Leonida Repaci, Giorgio Saviane, Domenico Rea.

Aldo Onorati, La voce e la memoria. Interviste a personaggi del ’900, a cura di Marco Onofrio e Fabio Pierangeli (Roma, EdiLet, 2015, pp. 224, Euro 22)

  

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Pulp Fiction Bang Bang Bang

Intervista a Dario Fo (luglio 1978)

 Le stragi e il Potere – Il padrone e l’operaio – Il PCI e la cultura – I borghesi – Padova e Galilei – La scuola e le radici contadine e operaie – Il rito dionisiaco e il mito della dea madre – Il teatro – La droga

Domanda – La paura ricorrente dopo ogni strage si riallaccia alle sensazioni che ci sconvolsero al tempo dell’eccidio alla Banca dell’Agricoltura. Ormai è scoperto che la provocazione reazionaria orchestra un dramma che ci coinvolge tutti. Che cosa legge in questa trama così fosca?

Risposta – Quella provocazione, che pure fu gestita con abilità dai cosiddetti moderati, non funzionò solo perché le si opposero una classe operaia consapevole della sua forza e un’opinione pubblica attenta e culturalmente molto più matura di quanto non si aspettasse il potere, perché – sia chiaro – la provocazione di allora era la provocazione del potere. Uscì La strage di Stato, un testo che noi del circolo “La Comune” non solo leggemmo, ma divulgammo. Riuscimmo a venderne 25000 copie. C’era il processo “Lotta Continua-Calabresi” e noi, contemporaneamente, recitavamo la sera Morte accidentale di un anarchico. Lo avevo scritto – è ovvio – qualche tempo prima. C’era il problema di informarsi attentamente su quello ch’era successo. Ricordo che ebbi la possibilità di leggere, in via del tutto eccezionale, documenti importantissimi. Era sorto “Soccorso Rosso” e avevamo, quindi, contatti con decine e decine di avvocati, con gli stessi avvocati difensori di Valpreda e dei compagni messi in galera. Non mancarono neppure i giornalisti. Dunque, c’era il processo e noi, montando lo spettacolo, cercavamo di andare pari passo con quello che avveniva nell’altro teatro, quello della giustizia borghese. E venivano i compagni a sentire quei commenti, quelle informazioni di primissima mano. Fu allora che sentii per la prima volta un giudice parlare in pubblico. Era un giudice democratico che svelava come con quella grossa catena di delitti – le bombe sui treni, la strage, il gioco degli anarchici, etc. – si volesse in realtà constatare cosa succedeva e valutare la reazione.

Domanda – E quale fu la reazione del PCI e degli altri partiti di sinistra?

Risposta – Si affrettarono a prendere le distanze, partirono sulla difensiva, non capirono che bisognava invece attaccare subito e non permettere alla DC e alla sua polizia di orchestrare la caccia all’anarchico…

Domanda – Comunque, proprio a sostegno degli anarchici si manifestò un forte movimento di opinione…

Risposta – Il movimento si sviluppò in una forma, diciamo, spontanea. Da parte del PCI e del PSI (più del PCI che del PSI) si dava credito, con un atteggiamento rinunciatario, che potevano essere stati gli anarchici a provocare la strage, nonostante che l’indicazione di una manovra provocatoria del potere apparisse sempre più palese. Noi facemmo, due anni dopo, lo spettacolo Pum! Pum! Chi è? La polizia!, nel quale indicavamo i responsabili di quelle morti, del tentativo di colpo di Stato, del gioco della provocazione; denunciavamo come si cercasse di sbattere all’aria i giudici democratici, come li si incriminasse, etc. Era veramente una grossa manovra che vedeva implicati i ministri della DC, uomini di governo, lo Stato insomma nelle sue strutture fondamentali.

roma La grande bellezza fotogramma

roma La grande bellezza fotogramma

Domanda – E oggi? È ancora possibile al potere inscenare manovre provocatorie?

Risposta – È ovvio che la gente è disincantata, ha imparato da dove vengono le provocazioni, sa leggere nella trama delle manovre contro, per esempio, certe frange estremistiche di sinistra: il gioco sulle Brigate Rosse, sulle carceri che si ribellano (certe azioni velleitarie, spropositate e senza senso) la gente sa bene da dove viene e dove va a finire. A mio avviso, bisogna distinguere bene. C’è una frangia che viene dal carcere, i NAP per intenderci, gente che ha maturato un’idea politica e una disperazione, che ha sperato nella sinistra cosiddetta extraparlamentare e poi si è vista abbandonata, che ha seguito come unica indicazione del movimento delle Brigate Rosse il gesto clamoroso, l’azione allo sbaraglio. È tutta gente che spesso viene astutamente adoperata per fini ormai scoperti, come recentemente al processo per la strage di Brescia, dove si è abilmente tentata una specie di contaminazione tra estrema sinistra ed estrema destra. Non è casuale questo. Il gioco richiama quello degli anarchici. Brigate Rosse e Avanguardia Nazionale: gli estremi si toccano, si è detto.

Domanda – È l’eterna politica della DC…

Dario Fo

Dario Fo

Risposta – … cui fa comodo confondere tutto. Esiste una democrazia di centro, che vuole l’ordine, la pace sociale, etc., e ci sono le estreme: tra queste… l’una vale l’altra. A confortare queste interpretazioni c’è, purtroppo, la complicità e il tacito consenso della sinistra, del PCI e del PSI. Ormai la gente è scaltrita, ha capito tutto, sa che i grandi giochi di matrice mafiosa, le rapine in serie, i sequestri hanno un’origine comune che, gira e rigira, è sempre legata al potere. Parlando spesso con la gente semplice, con l’uomo della strada, mi sono reso conto che ha grandi intuiti e non si lascia più sorprendere né stupire. Sì, c’è quello che bofonchia, che dice basta; l’operaio, no, l’operaio ha capito: questo credo sia un fatto importante.

Domanda – Il senso della sua commedia L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone, trova puntuale conferma nella scuola, dove il figlio dell’operaio si trova in grave imbarazzo rispetto al figlio del padrone. Vogliamo parlarne?

Risposta – Allora presi spunto dalla Lettera a una professoressa. Il discorso dei ragazzi di don Milani era provocatorio. Quali sono le 300 parole che conosce l’operaio? Sono 300 parole del linguaggio del padrone, ed è perciò svantaggiato rispetto al padrone che ne conosce 1000. Ma l’operaio ha un suo linguaggio, di cui il padrone non conosce nemmeno una parola. Era questo il senso della commedia.

Foto del calciatore Balotelli insieme a due fans del Costa Rica 2013

Foto del calciatore Balotelli insieme a due fans del Costa Rica 2013

Domanda – A proposito esplose una grossa polemica col PCI su cosa significasse “cultura”.

Risposta – Il PCI esalta una cultura unica, interclassista. Noi dicevamo: no, il contadino e l’operaio hanno tutto un loro linguaggio, fatto di immagini, di conoscenze, di onomatopeiche estranee alla cultura del potere. È nella sua cultura che l’operaio deve riconoscersi, e quella deve sapere, e sapere la sua storia. Ripetevamo una frase di Gramsci: «Se noi non conosciamo da dove siamo venuti, non riusciremo mai a capire dove dobbiamo arrivare».

Domanda – Quale obiettivo proponeva, quindi, con quella commedia alle classi subalterne?

Risposta – La cultura del potere è il risultato di una rapina continua alla cultura popolare dei contadini, degli artigiani, dei movimenti operai. Questa è grande, è vasta, è piena di indicazioni. Bisogna riappropriarsi anche di questa cultura per poter diventare una classe. La borghesia, quando è diventata egemone, s’è dovuta fare in fretta la sua cultura, qualcosa strappando all’aristocrazia e molto ai contadini. Chi erano, infatti, i borghesi? Erano una classe completamente nuova. E da dove veniva? Veniva dagli strati intermedi della società, veniva anche da quegli artigiani che si erano emancipati e che, grazie alla circolazione del denaro, allo scambio delle merci, alla nascita delle banche, agli interessi, etc., vedevano moltiplicarsi guadagni e profitti. Il capitalismo non è nato nel ‘700. È nato prima, nel ‘500, ed è legato alle Repubbliche Marinare; è nato nei grandi mercati come Genova, Venezia, Milano, Ancona, Pisa, etc., in Italia. La grande organizzazione dell’imperialismo capitalista di conquista non è sostenuta dai prìncipi, ma dalle banche, che facevano una specie di contratto-premio a chi dava denaro per sovvenzionare le spedizioni di conquista di territori immensi. Nel ‘500 Venezia diventa una città capitalista e distrugge tutto il mercato europeo immettendovi derrate alimentari che provenivano dal Medio Oriente, dall’Africa, etc., senza preoccuparsi di gettare sul lastrico migliaia di contadini, gli zanni della commedia, costretti a sradicarsi dalle loro terre e a cercare lavoro in città.

Domanda – In questo quadro di crescita di una nuova classe, come si inserisce il discorso della nascita di una nuova cultura?

Risposta – Questa nuova classe, con enormi risorse finanziarie a disposizione, vuole imporre la propria egemonia attraverso dei gesti. Ecco la nascita delle grandi cattedrali del periodo comunale italiano, ecco i palazzi fastosi, ecco i Palazzi della Ragione. Quello di Padova, per esempio, il più grande spazio coperto che esista al mondo, non fu voluto da un principe. Lo volle, invece, proprio quella comunità nuova che aveva bisogno di imporre il proprio prestigio per affermare il proprio potere contro Venezia, ancora guidata dai nobili. Il conflitto tra Venezia – una falsa repubblica, in fondo oligarchica – e una repubblica democratica come Padova è, in realtà, di vasta portata. Investe persino le università: la grande scienza padovana contro quella di Venezia. Il Ruzzante opera a Padova e ha la possibilità di vivere grazie a un cardinale esiliato da Venezia per le sue idee politiche, che a Padova raccoglie e sostiene i fermenti democratici vivi e nuovi. È colpa di Venezia se il conflitto diventa massacro, il massacro di un’opposizione. Inoltre, proprio a Padova maturano i grandi movimenti rivoluzionari del tempo. Galilei non a caso si trova a Padova. Se fosse rimasto lì, nessuno lo avrebbe toccato. Quando va a Fiorenza, cade nella trappola: è lì che lo arrestano; è da lì che va a finire a Roma, dove l’incastrano. L’obiettivo allora è chiaro: a proposito della cultura, dobbiamo capire quanto la borghesia progressista ha preso a piene mani dal patrimonio fertile del semiproletariato e del proletariato. E una volta capite le cose, riproporle al proletariato stesso. È quanto ho tentato di fare col Mistero buffo e altre opere.

Riparte il Chiambretti Night con Eto'o... e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto'o

Riparte il Chiambretti Night con Eto’o… e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto’o

Domanda – Come può, la scuola, recuperare certe radici contadine e operaie?

Risposta – Credo che lo sforzo più grosso la scuola debba farlo per una verifica soprattutto del linguaggio. L’indagine sulle origine delle lingue è affascinante. La lingua che parliamo e che si impone a scuola è la lingua del potere. Manifestiamo i nostri pensieri attraverso una lingua che è falsa. Subiamo continuamente censure di mille modi espressivi, di forme dialettali, di termini onomatopeici legati al gesto. C’è tutta una lingua legata all’origine del gesto. Il dialetto ha tutta una serie di modi figurativi che possono bene essere introdotti nella lingua. Lo ha dimostrato Rabelais, in Francia. Rabelais ha un linguaggio vivo, straordinario, pieno di invenzioni e di centinaia di modi di dire popolari, del popolo minuto addirittura, ch’egli aveva inserito nella sua prosa scandalizzando la gente di allora. Lo stesso Dante, nel De Vulgari eloquentia, con una paziente ricerca di moduli diversi, vari e infiniti, costruisce uno strumento espressivo che servisse alla borghesia nascente. C’è, al proposito, una frase di un poeta provenzale: «Noi dobbiamo annodare i versi, el vers, adoperando i modi e i termini del volgo, ma annodarli in modo che il popolo stesso non li riconosca. Così, dopo averlo defraudato, glieli imponiamo per farlo sentire ignorante». Ecco un’indicazione di come si muove il potere. Il potere non ha bisogno solo del mercato o del denaro. Ha bisogno di appropriarsi di tutto, del modo di scrivere e di parlare, del modo di costruire e di fare teatro, del modo di addobbare, di camminare, di vestire, etc. Tutto gli è necessario, per imporlo e imporre il proprio prestigio.

Domanda – Quindi la scuola…

Risposta – La scuola deve scoprire queste cose e smascherare l’accorta violenza del potere ma, soprattutto, deve ridare al popolo quello che il popolo ha costruito, fabbricato e inventato.

Domanda – L’animazione e la drammatizzazione, che ruolo pensa possano avere nella scuola?

Risposta – Alla base del problema c’è un equivoco. Il teatro è nato come momento di aggregazione della gente. In alcune grotte pirenaiche, sul versante francese, è dipinto un uomo vestito da capro che danza in mezzo a dei capri. L’esigenza di prendere atteggiamento risale molto indietro nei secoli. Riuscire a entrare nel branco, imparare movenze e atteggiamenti degli animali e imitarli voleva dire per il cacciatore non solo procurarsi più facilmente cibo per sopravvivere, ma anche, allo stesso tempo, ingraziarsi la divinità che sovrastava quei capri e ottenerne il viatico per uccidere. Rito, dunque, e imitazione, ma anche patto collettivo. Il rito dionisiaco, nella sua matrice, è presente dappertutto. Oltre che in Grecia lo troviamo in Scandinavia, in Africa e persino in Cina: al fondo c’è sempre un rapporto uomo-divinità fondato sulla richiesta-concessione del permesso di sopravvivenza. Chi ci dà la vita? È la terra coi suoi prodotti e i suoi animali che, se c’è siccità e manca l’erba, muoiono subito. La terra è la madre di tutti. Nasce, così, il mito della Dea Madre, il cui figlio addirittura si sacrifica per l’uomo: muore, rivive e si offre come carne da mangiare, come sostegno vitale. Del resto, la stessa parola “tragedia” vuol dire “canto del capro, sacrificio del capro”, il capro espiatorio. La prima forma di teatro è questo rito dell’uomo di mangiarsi Dio che è entrato in un capro.

bello donna truccataDomanda – Anche la religione cristiana, nel rito della comunione, mi sembra conservi questo motivo.

Risposta – Certo, il “prendete e mangiate: questo è il mio corpo” è il momento cruciale del rito, nel quale tutti mangiano Dio e si sentono figli di Dio e, come tali, impegnati a legarsi l’uno all’altro e a fare comunità. Ma quel rito, nella sua forma originaria, non era liberatorio; era anche altamente scurrile. Per fare certe azioni, bisognava liberarsi da inutili pudori, eccitarsi, fare l’orgia. Allora si beveva e ci si sbronzava fino a gettarsi alle spalle risentimenti, livori, pregiudizi e complessi. Nel rito dionisiaco le baccanti diventavano terribili: erano quelle che sbranavano il capro, lo facevano a pezzi, lo mangiavano crudo; erano quelle che uccidevano l’uomo. La stessa danza era un complesso di gesti liberatori per ritrovare una comunanza. In essa certe donne non abbastanza affascinanti abbandonavano complessi ed esasperazione, venivano applaudite e abbracciate, si compiacevano di se stesse e si esaltavano. Poi c’era l’orgia, sentita come il momento nel quale tutti gli elementi di una società potessero procreare, e non soltanto i migliori o i più ricchi che avevano una, due, tre capre da vendere o da offrire per potersi sposare: così, tutti indistintamente, uomini o donne che fossero, bevevano a sazietà, menavano le danze e si lasciavano andare lanciandosi parolacce, frizzi salaci e battute spiritose. Questa è la nascita del teatro.

Domanda – Dov’è, e in che cosa consiste, l’equivoco di cui parlava prima?

Risposta – Il teatro, rispetto alla letteratura, ha sempre determinato nel racconto e nell’azione un pensiero chiave. Non a caso Omero era un teatrante; era uno che raccontava nei ritmi, nei canti; raccontava accompagnandosi con lo strumento. Era un fabulatore: che fosse uno solo, o due, o dodici, o un popolo intero, è un altro discorso. E fabulatore è sicuramente quello che ha raccontato Orlando, come tutta la tradizione del popolo non è letteraria. Pensiamo, invece, a Shakespeare. Brecht ha detto una cosa stupenda: “Peccato che Shakespeare sia bello anche da leggere!”. La rappresentazione, insomma, fa parte di una determinata chiave culturale, mentre la lettura è un’esigenza che nasce da un determinato modo politico di imporre al popolo una chiave culturale. Due cose molto diverse, dunque. Rappresentazione significa gesto, tempo, pausa, respiro, risata; significa improvvisazione; significa azione. Invece, se leggi Shakespeare, ti trovi spostato in una chiave che non è quella per cui è nato. Allora, che vuol dire drammatizzare? Purtroppo, nella scuola attuale è falso il discorso della drammatizzazione, perché nasce sempre da una chiave letteraria. Da anni vorrei riuscire a impiantare una scuola per far capire cosa significa, per esempio, il rapporto tra una frase e la pausa. Ma non ho tempo; il lavoro che faccio non mi dà tregua. Una frase io posso dirla in cento modi diversi e la pausa che vi faccio è determinata dal ritmo: se io sono rapido, sviluppo nell’intenzione della pausa. Se poi io, nella pausa, faccio un gesto, determino un’altra chiave che arricchisce il discorso. Le parole sono, quindi, determinate dal gesto, dal ritmo, dal tempo. Inoltre, la frase posso dirla camminando, o scherzando, o gridando: allora, vuol dire che ho venti, cinquanta modi di esprimere lo stesso fatto. Ecco perché il teatro è qualcosa di ben più importante della forma letteraria. Il teatro mi permette di cantare; il teatro smuove attraverso la luce, il buio, uno strumento, il suono; il teatro offre mille suggestioni attraverso la dimensione: posso recitare in piedi, seduto o sdraiato; posso recitare in un capannone, alla Scala, al Palazzo dello sport, in piazza. Tutta questa infinita gamma di possibilità espressive sono negate alla forma scritta. Non esiste ancora una disciplina culturale che abbia approfondito per intero tutto il complesso discorso sul teatro. Il teatro è un’arte con un fondamento scientifico che è zero rispetto a quello di cui avremmo bisogno per conoscerne tutti gli aspetti, tutte le potenzialità, tutta la prodigiosa ricchezza.

bello trucco-nero-delle-labbra-rosseDomanda – Dopo le note polemiche con i dirigenti televisivi, le è stata finalmente data la possibilità di presentare alla massa dei telespettatori alcune delle sue migliori commedie. Che cosa pensa della TV? Quali possibilità offre il mezzo televisivo a chi voglia fare del lavoro politico?

Risposta – La TV è un mezzo di comunicazione straordinario, come il teatro del resto, e, come il teatro o la canzone o l’opera, può essere reazionario o rivoluzionario. Dipende dall’uso che se ne fa. Non è mai la chiave di un’espressione, che poi è tecnica soprattutto, a determinare la funzione del mezzo, ma è l’ideologia che sta dietro al mezzo stesso. No, non c’è dubbio: la TV è uno dei mezzi di comunicazione più belli che esistono. È un mezzo, però; e non si può parlare di mezzi più o meno rivoluzionari e catalogarli. È il loro impiego che conta, e li qualifica o squalifica. È un mezzo, stupendo, che può essere adoperato in chiave reazionaria o in chiave rivoluzionaria. Perché fare le classifiche? È sempre il potere che inventa i livelli, le graduatorie. Che senso ha distinguere qualitativamente fra rivista e opera? Che senso ha dire che la tragedia è migliore della commedia? I Greci hanno sempre guardato con molto disprezzo la commedia, ma, a un certo punto, hanno dovuto accettarla e l’hanno messa in secondo ordine rispetto alla tragedia. Ma è il potere che ha bisogno di questo! Il guaio è che, purtroppo, la TV non l’abbiamo noi in mano. L’avessimo, potremmo cercare di imporre il discorso politico, di inserirci nelle contraddizioni di questo nostro sistema, di stimolare l’anima popolare a una riappropriazione dei valori suoi più tipici.

Domanda – Un’ultima domanda sulla droga. Quale messaggio intende proporre con la sua commedia “La marijuana della mamma è la più bella”?

Risposta – Ho cercato di partire dalla chiave storica, perché la droga è, prima di tutto, un fatto culturale. Dicevo di Dioniso e dei riti orgiastici e liberatori. Il vino è una delle più grandi droghe: dà euforia, appaga e distende. Il pensionato, che non ha più lavoro né interesse alla vita, si aliena, cerca di stordirsi per non pensare. La casalinga frustrata oggi beve Fernet Branca: ne hanno fatto uno apposta per le donne, aromatico e meno amaro, più delicato e più alcolico. In Inghilterra la media delle alcolizzate fra le casalinghe ha superato quella dei camionisti. In Svezia e Norvegia hanno imposto leggi speciali per frenare il bere. In Italia ci sono ventimila morti di cirrosi epatica all’anno per alcolismo. Nei manicomi il 30% sono alcolisti. Ma il potere non si preoccupa di queste cose, gli va bene, ha il mercato buono: sono miliardi che entrano ed escono. Il potere inventa e prende le chiavi che gli servono. Nello stesso tempo la droga è un fatto di classe. Così, mentre è il ricco che consuma la droga, è la droga che consuma il povero. Il ricco beve whisky e si droga, ma riesce sempre a gestirsi; ha incentivi, ha interessi, per cui non fatica a staccarsene. Il povero che si avvicina alla droga lo fa per alienarsi, per dimenticare, per superare la propria disperazione, i disagi, la solitudine, la mancanza di rapporti, l’assenza di prospettive. Ma il discorso ha un altro aspetto. Infatti, per avviare a soluzione il problema – cosa che sembrano volere tutti –, non servono ospedali, né cliniche, né leggi. Gli esclusi vanno recuperati ribaltando il rapporto politico ed economico che condiziona e degrada il tessuto sociale. In Cina si è debellata la droga in pochi anni – ed era ai limiti massimi nel mondo –, perché è cambiato il rapporto fra la gente, il rapporto di interesse e il rapporto di produzione…

bello volto truccatoDomanda – D’accordo, ma non si può aspettare la rivoluzione per frenare il fenomeno…

Risposta – Secondo me, la lotta si può e si deve fare subito, ma in un’altra direzione. Bisogna strappare soprattutto i giovani alla solitudine, interessarli e coinvolgerli aprendo per loro quelle prospettive di lavoro e di vita che oggi mancano, annullare il rischio dello sradicamento sempre sospeso sulla loro testa. Non a caso, da noi, l’alcolismo si sviluppò attorno al 1850, quando furono aperte le prime tessiture, le prime grandi officine, etc. E si sviluppò al Nord, non al Sud: fu proprio lo sradicamento della gente dalla propria terra, dagli affetti e dagli interessi, a costringere il bracciante o il contadino immigrato a darsi all’alcool per dimenticare momentaneamente la precaria condizione della propria esistenza. Allora come oggi passano gli anni e il vecchio operaio torna al Sud e, come d’incanto, guarisce: non beve più; non ha più interesse a bere; tra i suoi trova altri incentivi, altri interessi, altri fatti. È il potere che inventa il discorso della droga, tanto è vero che già nel 1600 arrivavano nelle Asturie navi piene di coca da distribuire gratis ai minatori. La marijuana veniva data a pacchetti ai raccoglitori di cotone per aiutarli a resistere alla fatica, e in quantità tale che oggi si andrebbe in galera. Nell’America del Sud e in Somalia poveri disgraziati si sobbarcano, ancora oggi, turni di sedici ore di lavoro e, per farcela, prendono una droga ricavata da un’erba locale. Dunque, la droga c’è e il potere se ne serve: ne favorisce l’uso, poi pensa di scaricarsi delle gravi responsabilità, andando alla caccia del drogato e punendolo.

(intervista raccolta in collaborazione con Raffaele Di Paolo)

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