Franco Cordelli, A proposito della Antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli – Poesie di Mario M. Gabriele da  Astuccio da cherubino (1978),  a cura di Giorgio Linguaglossa

Una nota personale di Franco Cordelli

L’Antologia Il pubblico della poesia (1975)

 Quante volte ho raccontato questa storia? Temo più d’una. Ma poiché la ripeterò per una ragione oggettiva, la ristampa de Il pubblico della poesia, spero sia l’ultima.

I problemi sono due. Perché sentii la necessità, chiamiamola così, di compilare questa antologia? Perché oggi, a distanza di quasi trent’anni, la si ristampa?

Potrei rispondere in tre modi.

  1. È stata spesso scambiata per una specie di mania la mia ansia classificatoria. Naturalmente si tratta di una faccenda complessa. Se lasciamo che nei nostri cassetti si accumulino carte, biglietti, lettere, “oggetti desueti”, ecc., il giorno in cui ci capiterà di rimetterci le mani, saremo pieni di orrore. Il passato ci invade l’anima come puro feticcio, come non senso. L’archiviazione, la catalogazione sono il minimo consentito, se non per il riscatto di quegli oggetti (che invero sono tutti psichici), per la loro stessa trascendenza. Inutile aggiungere che la poesia – la concentrazione, il distillato di ciò che lentamente si accumula nel fondo di qualcosa – sarebbe il massimo di trascendenza possibile. Che fare quando i propri oggetti sono precisamente le poesie di tutti gli altri, qualcosa che per definizione si situa, di fronte alla coscienza individuale, a metà strada tra la dimenticanza e la luce, di mezzogiorno o di crepuscolo non importa? È da qui che nacque Il pubblico della poesia. Questo fu uno dei primi impulsi.
  1. Nel 1975 il dominio dell’ideologia avanguardista era allo stremo. Ma non lo si capiva affatto. Era anche nel momento di massimo dispiegamento della propria forza. Ho detto forza e non energia. Tutta l’energia s’era volatilizzata. Il senso di soffocamento, di occlusione, era totale. Che cosa avrebbe dovuto fare un giovane che avesse avuto voglia di scrivere? Occorreva che si creasse da sé lo spazio (interiore) per liberarsi da un modello tirannico. Ma crearselo non era facile affatto. Sembrava impossibile. C’era il rischio, supremo, dell’inattualità – o della ripetizione, dell’epigonismo. Deridevamo chi non aveva fatto suo quello che ritengo sia il patrimonio inalienabile dell’avanguardia, e che posso riassumere nel concetto di sorveglianza. Ma i seguaci dei Novissimi ci sembravano irrimediabilmente sterili. Era evidente che non vi sarebbero state altro che soluzioni individuali. Ed era altrettanto evidente che per conseguire queste soluzioni, occorreva combattere due battaglie e non una sola, quella per se stessi, per il bene, e quella contro gli altri, contro il male.
  1. Finora ho parlato di scrivere. Ma c’era anche il problema, assillante e difficile, di pubblicare. Non mi riferisco in questo momento al problema generale della poesia di venire alla luce: complesso per lo meno in tutta la modernità, problema legato alle vicende del mercato e non già a quello del gusto interno alla sfera della poesia. Mi riferisco a questo secondo aspetto, alle oscillazioni del gusto, alle ideologie di volta in volta chiamate a sostegno. Nel 1975 il dominio di un gusto rispetto ad ogni altro era pressoché assoluto. L’antologia Il pubblico della poesia, stampata da un piccolo editore che nasceva (o rinasceva) allora, si proponeva proprio questo: provare a compiere un gesto di forza, contrapporre ad una forza centrale una forza per l’intanto periferica. Di tentativi simili, in quel momento, ce n’erano una quantità incalcolabile, e così, penso, accade adesso. Ma in quel momento, questo gesto per me si caricava di un significato ulteriore, indiretto, personale. Nel 1973 avevo pubblicato il mio primo romanzo, Procida. Non avevo ambizioni smisurate. Avevo, anzi, ambizioni sbagliate, indotte proprio dall’ideologia dominante e che mi proponevo di combattere. Desideravo il riconoscimento (virtuale) non di tutti ma di una parte. Inutile dire: della parte di coloro che consideravo “i miei padri”, gli scrittori e i critici della cosiddetta Neoavanguardia. Il riconoscimento non venne (a ragion veduta: poiché ignoravo quanto m’ero già distaccato da questi padri presunti, e naturalmente mi sarei messo a ridere se avessi potuto sapere che un giorno costoro mi avrebbero accusato d’essere un militante della parte avversa, e proprio il mio compagno d’avventura nella compilazione dell’antologia, accanto a scrittori più giovani, m’avrebbe invece accusato d’essere rimasto fedele alle mie prime ragioni avanguardiste). Come si vede non era, non era ancora, come non è tuttora, un problema di qualità intrinseca del libro che avevo scritto e di quelli che avrei scritto dopo. Era precisamente un problema di lotta per la sopravvivenza, lotta per prodursi uno spazio culturale, lotta per egregiamente dannarsi l’anima. Era, insomma, un problema di “pubblicità per se stessi”.

Pubblicare. Pubblicità per se stessi. Il pubblico della poesia. Si sarebbe mai sfondato il circolo vizioso? Si sarebbe mai usciti dall’altra parte?

Perché ristampare Il pubblico della poesia? Nel 1975 già sapevo che la letteratura, come l’avevo vissuta, assorbita e assimilata negli anni di formazione, era un puro relitto della Storia. Più volte ho indicato nel 1970 l’anno (simbolico) della fine: l’anno dei suicidi di Mishima (morte del romanzo), di Celan (morte della poesia), di Adamov (morte del teatro). Quel tipo di conoscenza non implicava ovviamente la credenza che non si sarebbe più scritto, né che non si sarebbe più dovuto scrivere. Pensavo che era finito un certo modo di scrivere, un certo tipo di rapporto con la letteratura, e della letteratura con il pubblico. Ancora non si sapeva che questo modo era ciò che si chiama il Moderno.

In ogni modo, questo tipo di coscienza – mentre mi induceva ad ogni understatement nei confronti delle ambizioni in assoluto intrinseche a quell’atto tanto naturale quanto di pura hybris che è scrivere una poesia o un romanzo o una commedia – questa coscienza non era così sciagurata da consegnarmi, nudo, alla militanza – alla militanza come scappatoia, uscita di sicurezza, rivincita. La militanza era quello che era, uno strumento – che lasciava intatta ogni nostalgia per ciò che non c’era più.

Naturalmente subentrava il rischio che la militanza, come pura gestualità, come resa all’evento, poco a poco guadagnasse tutto lo spazio, come è successo a tanti scrittori-ideologi. Di giustificazione in giustificazione sarebbe stato facile uscirne con le ossa rotte. Ripeto: indipendentemente dal proprio personale talento e dalle condizioni storiche. Ovvero, giocando come il gatto con il topo, proprio con la debolezza dell’uno (il talento) e la preponderanza delle altre (le condizioni storiche). Di alibi possibili ce ne sono tanti quante le verità: ma la propria verità (cioè la mia) è una sola, ed era allora quella che è oggi: l’idea che sporcarsi le mani fosse necessario, ma che di questo si trattava, d’uno sporcarsi le mani – non bisognava chiamarlo con un altro nome.

Nel 1975 era necessario. Oggi lo è altrettanto? E si può ripetere ciò che era solo un gesto? Tra l’altro, esso non si è manifestato in quanto conoscitivo: l’avanguardia come momento militante del moderno, la militanza come salute (e malattia) o malattia (e salute) della gioventù, ma anche in quanto boomerang: il ruolo di burattinaio, o di demiurgo, trasferito dall’arte alla vita ha forse alleggerito il senso di colpa togliendogli la sua forma, consumandone i margini? A me pare che, al contrario, lo abbia suffragato, come controprova, o accresciuto – come la vita accresce l’arte, ne testimonia, non meno di quanto l’arte accresce la vita e ne certifica, o compila, il senso. Ma qui entra in scena un paradosso della Storia, chiamiamolo così, un po’ pomposamente. Le diverse esperienze e gli opposti caratteri hanno diviso le strade dei due curatori, rimasti a guardarsi sempre (così credo), ma da lontano. Allora, trent’anni fa, credo d’essere stato io a trascinare Berardinelli nell’avventura. Egli in principio era, se non ricordo male, piuttosto riluttante. Ora la guida è lui, lui è il vero giudice, io della poesia sono diventato un lettore distratto, nella poesia non vedo più la figura d’un’emancipazione “politica”. Perché accade questo? Perché oggi lui è la guida e io mi lascio trascinare? Per Berardinelli non so. Il nodo tra poesia e militanza forse non s’è mai sciolto: a suo modo sente il problema della “giustizia poetica” in modo più cocente di quanto non lo sento io – che ho elaborato frattanto una mia personale teodicea. Io, in questa teodicea, accetto con letizia il contrappasso. Ma, alla letizia, vorrei aggiungere una glossa. All’improvviso, mi sono riconosciuto, come persona che si è formata nel 1968, una caratura tutta speciale, o meglio, forse, un ghigno. Mi sono riconosciuto tardivamente come intrinseco a quel simbolo, parte di esso, riflettendo sulle esperienze, così diverse dalle mie, di persone che avevano fatto tutt’altro che scrivere. Penso a chi fu protagonista fino al 1978, ai terroristi (di famiglia operaia) che non si sono mai pentiti, ma anche a chi fu protagonista dopo, nel quindicennio socialista. Tutti costoro non ignorano i propri errori e la natura di essi, non ignorano cioè il male. Eppure, rimangono ad essi, agli errori, e a ciò che ne stabilisce la natura, diciamo il male, assurdamente, demoniacamente fedeli. È in questo senso, e solo per questa affinità culturale, o generazionale, che non posso sottrarmi alla proposta di ripubblicare l’antologia di trent’anni fa, che di quel tempo è un piccolo riflesso.

Post scriptum.

Confrontato con la nostra antologia, il panorama della poesia italiana contemporanea è migliorato o, viceversa, peggiorato? E poi: la poesia è come la sinistra sempre in crisi, sempre in via di rifondazione? Eccetera. Forse a causa del fatto d’essere diventato un lettore occasionale, ritengo che questo panorama sia migliorato. Non vedendoli più, non incontrandoli, non essendo offuscato dalle loro persone, in genere lamentose, o litigiose, ovvero posto nudo e crudo di fronte ai libri, codesti libri sfolgorano. Tra coloro che non compaiono, o non comparirono, ne Il pubblico della poesia, o che rispetto a quell’epoca sono maturati in modo inequivocabile: Cosimo Ortesta, Iolanda Insana, Anna Cascella, Elio Pecora. Ma poi: Patrizia Valduga, Gianni D’Elia, Marco Palladini, Mario Santagostini (uno dei miei preferiti). Tra i più giovani aggiungo: Riccardo Held, Gilberto Sacerdoti (che però dieci anni fa sembrava più robusto), Alba Donati (uno degli esordi più originali), Paolo Jacuzzi, Umberto Fiori, Fernando Acitelli, Plinio Perilli (questi ultimi due, al contrario di quanto ho detto prima, mi piacciono come persone), Luca Archibugi (a giudicare dai manoscritti), Claudio Damiani, Paolo Febbraro (altro eccellente esordio), Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco, Silvia Bre, Marco Ceriani. In assoluto, il poeta che mi ha più impressionato (ma sono costretto a riferirmi a una lettura dal vivo in un festival) è Enzo Di Mauro. Mi piaceva anche prima, al tempo di Notturna, l’esordio. Ma il suo mutamento, ascoltandolo, mi apparve impressionante. Alessandro Fo non lo conosco, i suoi libri non si trovano.

In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano.

(2004)

Pubblichiamo qui le poesie di uno degli esclusi dalla Antologia, Mario Gabriele, con testi della raccolta del 1978. Sono testi che avrebbero potuto essere presi in considerazione dagli estensori della Antologia, pubblicati, tra l’altro da un editore allora di punta: Forum Quinta generazione. Dalla lettura dei testi si evince che Gabriele non aveva ancora messo a punto il suo inimitabile stile understatement da salotto borghese, ma a confronto con i testi degli autori antologizzati la mia impressione è che Mario non poteva essere antologizzato, le sue poesie apparivano, come dire, fuori gioco, fuori questione, non recavano in primo piano il «privato», non esacerbavano la confessione, non mettevano in mostra chissà quale originalità, però ad una lettura attuale si possono notare i primi passi nella direzione che lo porterà agli esiti degli anni Novanta e di questi ultimi anni.

(g.l.)

Mario M. Gabriele

Poesie da Astuccio da cherubino (Forum Quinta generazione, 1978)

EPIGRAFE N.1

Bisognava attendere,
essere composti nel dolore,
trovare un angolo e rimanere soli
mentre c’era chi trafficava per le stanze,
chi raccattava la speranza caduta a pezzi
e l’abisso oscuro allontanava da me
ogni tua forma, i moltiplico colori.

Anche così
la morte non ha reciso molto
se qui, nella tua casa,
ancora c’è chi ti ravviva di porta in porta,
riesumando oggetti, incespicando storie
per nulla desuete o lacrimose,
se m’ostino come sempre
ad attendere nel vetro che s’incrina
il tuo graffio dall’aldilà.

***

EPIGRAFE N.2

A volte
è come un rito d’altri tempi:
c’è chi accende il lucernario,
chi divaga sulle notizie della lapide
e gennaio fa prodigi contro un muro
di gerani e non ha senso abbellirti
come un piccolo giardino
se per te mi fingo
una nuova vita e mi calmo soltanto
sapendoti felice, in altre ionosfere,
fuori da questo luogo
che se mi volgo intorno
è una lunga città di morti, di segni,
di epitaffi strani.

***

EPIGRAFE N.3

Non sempre la tua assenza
è un lunghissimo black-out.
Spesso riemergi dal buio
in piccole intermittenze, baluginii,
vicino al lumino sopra la cònsolle.
– Non è che si ricavi molto con le preghiere –
dico agli altri
mentre sgranano la corona e attendo un tuo segnale
– tremolio o luccichio -,
brevi notizie dal tuo mondo.
A quest’ora,
– essenza o crisalide –
probabilmente già in un’altra dimensione,
dovrebbe soccorreti un Dio di pace e non di guerra.

***

La tua fede si riduceva al minimo:
pochi idoli, feticci effimeri
di chi crede che la vita sia solo un caso.
Ma Pasqua ti abilitava,
ti scioglieva dal martirio
del Dio assente o presente.
E come avrei allora potuto non amarti,
scioglierti dal dubbio totale?
– Si trattetrà -dicevo,
– di un vuoto da colmare -.
E ne venivi fuori titubante,
un poco in disagio per il lungo subbuglio
della ragione al profilo morbido dell’aurora.

***

Il tuo guscio di noce,
troppo angusto in un viaggio d’eccezione,
era un astuccio da cherubino
e tu un archetto incantatore
per cipressi e rododendri,
sempre più in fondo ad un cunicolo di sogni
se mai allora ne avessi uno.
Ma è assurdo
pensarti altrove, chiudere per sempre
con gli anemoni e le cose
lungo un fiume di nebbie e di carrubi,
con un lupo trifauce a guardia dei tuoi occhi,
lasciati al buio, al silenzio che deturpa.

***

Rinuncio all’assurdo, ai contatti
con le ombre, mentre gira a vuoto
il nastro del vecchio Grunding
per un tuo messaggio che non arriva.
Dicono
che morire è un lento allucinogeno,
un rapido svanire senza una stabile traccia.
Ma tu sei vivo, palpiti ancora nelle cose,
nè io ho bisogno di chiederti altre storie
se i miei figli piantano semi,
coltivano fiori per novembre,
se gli amici, i nemici riemersi
dalla penombra, ogni tanto cercano te,
a chiedere ragione della morte,
a far violenza del passato.

***

Come posso ritrovarti
tra mattoni e calcina,
qui tutto ben squadrato, livellato,
con questa frana all’improvviso
di terra e di radici?
E’ già molto
ricomporti nel ricordo,
mentre c’è chi tenta l’omelia
sul tuo bozzolo di neve.
Se qualcosa emerge
è subito un collage di fossili e lumachine.
Io, in disparte,
lontano da quella archeologia,
ti penso altrove: bruco, passero, girino…

***

Può darsi che sul tardi qualcosa emerga
dal fondo dei crepacci – buio o balume -,
tutto il diario di giornata
con le mappe e i sestanti,
che qualche reporter o viandante di passaggio
si fermi sulla tua terra strana,
fredda più di una dàcia
e ne sveli il segreto della tua staticità.
Non io,
fermo in mezzo a lenti prismatiche
e istantanee
vecchie, un pò in disuso,
come il tuo nome ormai.

***

Parlarti è impossibile
se in fumo o in sogno
sempre mi ritorni
per un monologo o per le tue pozioni.
Ma fu il colpo d’ala quando ti chiesi
perchè mai ti trovassi nella necropoli.
Ora l’inferno è sapere
quando riapparirai,
come farai a battere alla porta
con quelle mani già ali di farfalla?

***

All’orologio di San Bailon
nessuno fece caso nemmeno il vecchio boxer
insonnolito contro il muro.
Forse era il sogno del destino
il lungo scampanellio, il messaggio
di ignoti spazi, d’altri ponti radio.
Fuori c’era poco sole, poca brina
per le vie.
Al ritorno,
mi salutava una esangue giovinezza.
Era mutato il luogo,
il volto di mia madre, tra il pianto
e la pazzia.
Ed io a lei,
a dirle inusitate bugie, a calmarle
l’amara acqua della vita,
prima che il mondo, gli altri….

***

Sciamava sui monti una mite estate,
lungo il fiume tramava l’inganno
l’ignoto pescatore alla spalletta.
Tutto intorno batteva l’arsura
fino al muro d’ombra.
Era settembre un bisturi
sui fianchi della terra.
Tra boschi e colli diluiva a poco a poco
tutto il male dell’inesistenza.
Lento il giorno traeva dalla bigoncia
liquide ore di pace per il beghino insonnolito
e mi lasciava nel fondo
l’eco del Salmo appena sussurrato,
la vertigine del Tempo,
il solco della barca uscita allo scoperto.

***
Piegasti la schiena non una
ma mille volte
perchè si dicesse a tavola
al tuo ritorno:
– Signore, grazie di questo pane che ci dai –
perchè sia il buono che il cattivo
avevano per te ognuno
il bene in fondo all’anima.
Oggi che non abbiamo più nulla
da chiederti e tu da darci,
noi figli, tremiamo di paura, padre,
al pensiero del domani,
come chi porta tra le mani
un vaso di cristallo.

***

Sempre verrà l’autunno,
il rosso delle vigne
a terrazze sulle colline
fin che dura l’estate
sui boschi e i ramarri.
E’ un’erba verde
la voce che non torna
chiusa nell’orto amico
nel tempo dell’amore.
Legno nero e fumo.
Si riapre il dolore
come una finestra vuota.
Sempre se ne va l’autunno
in una tristezza
che nessuno più direbbe antica,
di ramo in ramo, di foglia in foglia,
come un furto vero
il nostro pianto greve.

Testata politticoMario M. Gabriele nasce nel 1940, ha pubblicato le raccolte di versi Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982); con prefazione di Domenico Rea, Premio Chiaravalle ed Enzo Assenza (1982); Il giro del lazzaretto (1985); Moviola d’inverno (1992); la tetralogia Le finestre di Magritte, (2000); Bouquet, (2002); Conversazione Galante, (2004); Un burberry azzurro 2008, Ritratto di signora 2009. L’erba di Stonehenge (2016) Ha curato monografie di autori del Secondo Novecento e antologie: Poeti nel Molise (1981); La poesia nel Molise (1981): Il segno e la metamorfosi (1987); Poeti molisani tra rinnovamento, tradizione e trasgressione (1998); Giose Rimanelli: da Alien Cantica a Sonetti per Joseph, passando per Detroit Blues (1999); La dialettica esistenziale nella poesia classica e contemporanea (2000); Carlo Felice Colucci – Poesie 1960-2001 – (2001); La poesia di Gennaro Morra (2002); La parola negata (Rapporto sulla poesia a Napoli) (2004), Colucci, un’antologia di testi critici e alcuni inediti –1963-2006- (2006).
E’ presente in Poeti nuovi, (1974), con una nota di Giorgio Bàrberi Squarotti, Febbre, furore e fiele, di Giuseppe Zagarrio, Mursia (1983); in altre antologie tra cui Le città dei poeti, Guida, Napoli, 2005, a cura di Carlo Felice Colucci e in Poeti della Campania, Marcus Edizioni, 2006, di G.B. Nazzaro. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016)

24 commenti

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24 risposte a “Franco Cordelli, A proposito della Antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli – Poesie di Mario M. Gabriele da  Astuccio da cherubino (1978),  a cura di Giorgio Linguaglossa

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21348
    La continuità è assicurata dall’uomo, la sua poesia è un felice derivato e insieme l’impronta.
    Anche oggi alcune poesie di Mario M. Gabriele brillano tra le altre , come tra queste, del ’78, mi pare “Sciamava sui monti una mite estate”, che finisce con “il solco della barca uscita allo scoperto”– dove sento note orientaleggianti, chissà se volute, di scarnificazione, come di un vuoto che allora si cercava di riempire nello svolgimento. Con le poesie di oggi, Gabriele sembra dirci che questa operazione è perfino ridicola, che lo svolgimento va per inerzia come un ripasso; che non è questa la cosa importante perché si pratica il fuori-poesia – che è dovunque si guardi – al mercato cittadino come nel deserto; quindi il non-senso: nessuna direzione di marcia oltre l’arrivo (tombale) che ci vide felici e infelici. Dunque nel 1978 Mario M. Gabriele era già oltre il “privato”, la confessione e la ricerca di originalità, come scrive Linguaglossa, per ragioni non so se filosofiche o esistenziali; opto per l’esistenziale, per l’uomo che sa vedere dentro sé gli specchi del “reale”. E già li frantumava.
    “Il pubblico della poesia” ebbe la fortuna del titolo perché commercializzava marche di nicchia. In altre parole si accettava la rimanenza, come di un esercito in ritirata. Reduci del Vietnam. Che ci stava a fare Gabriele?

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  2. Caro Giorgio,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21350
    questa mattina noto con piacere l’inserimento di una pagina a me dedicata nella quale sono presenti tutti i testi di “Astuccio da cherubino”, dedicati alla memoria di mio padre. Sembrerà ovvio, ma un figlio poeta non poteva farsi sfuggire fatti, eventi, dubbi, speranze, ricordi, e il senso dello smarrimento di fronte alla morte. Queste poesie rappresentano per me il deserto dell’anima da cui in seguito, sarà difficile per il lettore trovare la ginestra, o il fiore della speranza. Nel tempo in cui scrissi questi versi l’emozione domina sulla retorica e mi avvicino a Martino quando la chiede ad ogni evento su l’Ombra.Giuseppe Zagarrio nel suo Repertorio della Poesia Italiana contemporanea, trovò l’occasione per dire:”Qui aggiungiamo alcuni altri testi che ci sembrano non meno esemplari: per esempio quello di Mario M. Gabriele (Astuccio da Cherubino, Forum, 1978) tutto attraversato dalla mesta musa larica- si veda soprattutto la serie delle -epigrafi-, dove al di là del commosso partecipare (che è un fatto del tutto ovvio), quel che colpisce è il modo di insicurezza con cui la partecipazione si risolve: l’inquieta incertezza, il “dubbio”, la “titubanza” (sono motivi lessicali egemoni ) sulla reale consistenza di un rapporto sia pure dialettico col nostro caro estinto; da qui la vicenda del “fingersi””, “dell’attendere un segnale”, perfino dell’ostinato “attendere nel vetro che si incrina / il tuo graffio dell’al di là” e del disagio, dell’interrogare, del rinunciare, dello stesso assurdo convincersi, sentire come l’immagine cara vada sempre più appartandosi “in penombra”. A seguito di questo giudizio rimasi pensoso, chiedendomi che forse si trattava di qualcosa fuori le righe. Ma dovetti ricredermi quando anche Squarotti,in “Poeti Nuovi” fece un rilievo sorprendente. La mia storia poetica, pur avendo avuto riscontri eccellenti, rimane “invisibile”: In altre parole è la percezione intuitiva di Domenico Rea nella prefazione alle mie “Carte della città segreta”, quando scrive: “Ecco un caso patente di monopolio della mafia letteraria che opprime questa parte di mondo italiano e non permette ad alcuno di passare se non fa parte del clan.Invano sul lavoro di Mario M. Gabriele hanno scritto in maniera notevole uomini come Giovan Battista Vicari- uno dei pochi critici, come Giorgio Barberi Squarotti “.Ma non è un caso isolato. Di invisibili ce ne sono tanti come hai ben evidenziato tu Giorgio, quando fai notare l’assenza nelle antologie degli anni 70-80 di nomi come Busacca, Martino e il mio, durante il fervido periodo di espansionismo antologico. Di questo fenomeno non mi sono mai curato, credendo più nel continuo lavoro di ricerca linguistica e poetica, che non si esaurisce mai, perché consapevole che solo attraverso il rinnovamento, la poesia possa proseguire nel suo cammino, e nella presa d’atto da parte tua Giorgio, di una nuova rifondazione estetica dell’antologia che ti appresti a curare,dove il grave peccato di omissione e di invisibilità viene definitivamente abbandonato. E noi invisibili non possiamo che esserti grati se da ologrammi passiamo ad avere un corpo e un’anima.E di questo te ne siamo immensamente grati.

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    • Salvatore Martino

      Caro Gabriele ti rispondo in maniera lapidaria: questa è poesia

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      • Caro Martino, sapevo che mi avresti risposto perché è la tua poesia, quella che cerchi e forse non a torto nella Rivista.Dopo “Astuccio da cherubino”, non ho voluto più saperne di emozioni nelle poesie, perché sono un rogo che non mi posso permettere. Mi distruggono.E’ un continuo confessarsi con gli altri di fatti così intimi che necessitano di essere protetti perché fanno parte di un patrimonio esistenziale di cui è meglio tenerli nel caveau dell’anima. Dopo questa esperienza, come ho già detto nel mio commento sopra riportato, mi sono dedicato alla ricerca linguistica come approdo all’UNO e al TUTTO, non in senso metafisico, ma estetico, Se tu sapessi, quando realizzo un testo poetico come quelli che Giorgio ha riportato traendoli da un Viaggio con Godot, la potenzialità del dire si traduce per me in una indagine su l’Essere e il Nulla..Di tutte queste “orfanotropie” (il neologismo è mio) mi restano il piacere del testo e forse l’illusione che questo tipo di poesia possa piacere a qualche lettore, anche se alla base di tutto vi è un conflitto psichico mascherato dal linguaggio. Non voglio tediarti,ma ti ringrazio del tuo avvicinamento alla poesia oggi riportata.

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        • Salvatore Martino

          Carissimo Gabriele ho sempre pensato che la poesia è o non è,non conosce intermediazioni, né obbedisce a stilemi fissi e inderogabili. Quelle tue che leggo oggi mi colpiscono al profondo, in una consonanza totale con l’autore. Peraltro se io rimango legato ad una estetica che spesso qui passa per negazione del nuovo, e come viene spesso asserito, mi va bene è la mia misura, il mio stile, la mia vita di poeta, senza ricerche aprioristiche di stilemi nuovi a prescindere. Credo di essere stato abbastanza innovativo in anni lontani e non sospetti, ma cercando sempre di collegare la mia ricerca stilistica con il getto che nasceva dal profondo,la mia riserva aurea del mondo infero, la mia esperienza di vita, che si trasfigurava. E i pare che accadesse a te la stessa cosa.

          “Parlarti è impossibile
          se in fumo o in sogno
          sempre mi ritorni
          per un monologo o per le tue pozioni.
          Ma fu il colpo d’ala quando ti chiesi
          perchè mai ti trovassi nella necropoli.
          Ora l’inferno è sapere
          quando riapparirai,
          come farai a battere alla porta
          con quelle mani già ali di farfalla?”

          Quando si dice versi memorabili, che evadono da qualsiasi struttura aprioristica e intellettualistica. Kommos e pathos, ritmo e musica, immagine e pensiero, quotidiano e metafisica, Meditatio mortis trascritta dall’eros.

          ***

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  3. talento sin dall’inizio

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  4. Posto qui una poesia inedita di Adeodato Piazza Nicolai giunta alla mia email:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21353

    DALL’ONTOLOGIA ESTETICA DI AJVAZ

    In piena umiltà inseguiamo il paradosso
    della classica meta-poesia un po’ dimenticata
    o messa in cantina poiché (la crediamo)
    sia rimasta senza benzina. Forse meglio tuffarsi
    nei labirinti borgesiani o perdersi nella sua
    biblioteca infinita. Anche Jung e Jodorowski
    ci conducono in fiumi sotterranei che a volte
    spuntano sulla supeficie, ma solo come frammenti
    e lamenti delle viscere poetiche sotterrate
    da troppe teorie sparpagliate a vanvera un po’
    dapertutto … E il teorema di Zeno ha ancora qualche
    valore? Un disonore studiarlo tuttora? Da tempo
    tento di varcare certi confini immaginari, muraglie
    illusionarie. Non voglio ritornare né all’alfa né all’omega.
    Lasciatemi remare e poi ascoltare il fruscio delle vele
    sulla barca mai costruita dalle mie mani,
    chissà se ci sono altri porti sepolti da esplorare…

    © 2017 Adeodato Piazza Nicolai
    Vigo di Cadore, 27 giugno, ore 18:30

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  5. Nell’ultimo paragrafo dell’articolo di Franco Cordelli ci sono due affermazioni:

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21354

    «In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano

    La prima affermazione circa la «crisi della poesia» che sarebbe, a detta di Cordelli, una «bufala», la ritengo una battuta superficiale. Negare la «crisi» della poesia è come negare il riscaldamento globale della Terra, è una battuta alla Trump (che potrebbe anche essere vero, non si sa mai). Insomma, si tratta di una battuta di spirito riuscita male. Per la seconda affermazione secondo la quale i «poeti» sono «meno intellettuali d’una volta» e che «si adeguano» al piano basso, non ho nulla da eccepire.

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    • Io invece eccepisco: non tutti i poeti sono meno intellettuali di una volta e non sempre essere intellettuali significa essere più poeti. Il “quid” misterioso che trasforma parole messe in versi in “poesia” non dipende dalla quantità dei personaggi e delle vicende letterarie conosciute, ma dalla qualità della conoscenza. Il termine “cultura” deriva dal latino “colere” e ha un significato primario nel campo dell’agricoltura: una persona colta è come una pianta bel coltivata che svetta al calore del sole e è nutrita da una buona terra e da abbondante acqua. Ce ne sono di persone così: ma, come si è detto, restano “invisibili”. Meglio “invisibili” che intellettuali mancati (e salottieri).

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  6. La «nuova ontologia estetica» è un pensare l’arte in conformità con la caduta del Fondamento, un pensare il pensiero di un’arte che abbia in sé la forza che deriva dalla sua intima debolezza.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21355
    Non è un caso che un poeta come Mario Gabriele sia arrivato al suo stile inimitabile, al suo linguaggio nuovo dopo trenta anni di ricerca. Non era affatto semplice costruirsi un linguaggio idoneo ad esprimere la nuova poesia, ci sono voluti più di trenta anni. Ma non c’è niente di strano in ciò, questi sono i tempi della poesia. Per trenta anni e più l’atmosfera di stagnazione che si respirava in Italia non ha permesso agli intelletti migliori di esprimersi in poesia se non con i linguaggi eterodiretti ed ideologici del minimalismo…

    L’affermazione che l’arte prende congedo dall’esistente, ci porta alla ulteriore considerazione secondo cui l’arte si distacca progressivamente dai facticia dell’esistente, prende congedo dalla «verità», diventa un valore «posizionale», «prospettico», si pone come allestimento di un palcoscenico in cui la «verità» può essere richiamata ed elusa, tradita e tradotta in un’altra lingua in quanto non esiste né mai è esistito un linguaggio della «verità», né potrebbe mai esistere, pena la coincidenza tra il «nome» e la «cosa». Solo il discorso totalitario si presenta come coincidenza tra il «nome» e la «cosa». Della «verità» non ci restano neanche le tracce, neanche echi, tantomeno orme, impronte, ombre… La verità è un dileguantesi, si rivela nell’atto del dileguarsi in quanto si svolge nel tempo, è dotata di temporalità, è essa stessa un valore temporale, posizionale. L’arte moderna rappresenta l’oblio della verità e l’oblio della memoria. Èquesto, credo, il suo enigma.

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  7. antonio sagredo

    sia il Cordelli che il Berardinelli mi vennero a noia 40 anni fa.

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  8. Mariella Colonna

    Caro Gabriele,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21358
    queste poesie dedicate alla memoria di tuo padre mi sono entrate profondamente nel cuore: tu, tra gli anni settanta e gli anni ottanta scrivevi con un linguaggio modernissimo, riuscendo a fondere il frammento con la Nuova Poesia dell’Essere, IL FRAMMENTO dà corpo alla Nuova Poesia. L’ESSERE ci avvicina al tempo della memoria ai ricordi resi attuali dalla profondità de sentimenti, dall’intensità del calore umano che risce a rendere viva e tangibile la vicenda interiore, anche se si parla di “epigrafi”:

    EPIGRAFE N.3

    Non sempre la tua assenza
    è un lunghissimo black-out.
    Spesso riemergi dal buio
    in piccole intermittenze, baluginii,
    vicino al lumino sopra la cònsolle.
    – Non è che si ricavi molto con le preghiere –
    dico agli altri
    mentre sgranano la corona e attendo un tuo segnale
    – tremolio o luccichio -,
    brevi notizie dal tuo mondo.
    A quest’ora,
    – essenza o crisalide –
    probabilmente già in un’altra dimensione,
    dovrebbe soccorreti un Dio di pace e non di guerra.
    .
    Intenso il riemergere dal buio del ricordo (o della persona) in brevi lampi di luce, che si concretano più nell’attesa di un segnale che non in reali immagini: i sentimenti sono tutti lì, nel baluginare di una memoria che si vorrebbe presenza e la commozione nasce dalla conspevolezza che mai più potremo rivedere la persona cara com’era,lo sguardo, i gesti…solo in tono della voce rimane in noi come una musica e cerchiamo di non dimenticarla.

    Ma tu sei vivo, palpiti ancora nelle cose,
    nè io ho bisogno di chiederti altre storie
    se i miei figli piantano semi,
    coltivano fiori per novembre,
    se gli amici, i nemici riemersi
    dalla penombra, ogni tanto cercano te,
    a chiedere ragione della morte,
    a far violenza del passato.

    Fortissima questa presenza del padre tra “i figli che piantano semi e coltivano fiori per novembre”, gli amici e perfino i nemici lo cercano interrogandosi sulla morte. Qui il dolore si è trasformato da sentimento collettivo a tensione corale: la persona del padre è comunque dominante, ma come una nuvola illuminata dal sole, è diafana e ad un tempo penetrante, vicina alle stagioni e alla terra dove i semi diventano fiori.

    “Sempre verrà l’autunno,
    il rosso delle vigne
    a terrazze sulle colline
    fin che dura l’estate
    sui boschi e i ramarri.
    E’ un’erba verde
    la voce che non torna
    chiusa nell’orto amico
    nel tempo dell’amore.
    Legno nero e fumo.
    Si riapre il dolore
    come una finestra vuota.
    Sempre se ne va l’autunno
    in una tristezza
    che nessuno più direbbe antica,
    di ramo in ramo, di foglia in foglia,
    come un furto vero
    il nostro pianto greve.”

    Molto belli i versi dell’ultima lirica qui nel blog: un ritmo di ballata ma non compiaciuto, nel senso e nei colori delle immagini e delle stagioni “com’erano” e adesso non sono più…E’ “un’erba verde la voce che non torna”: non torna come voce ma come la più semplice e poetica presenza naturale, l’erba verde direi “racchiusa” nell’orto amico e “nel tempo dell’amore”, nemomenti fuggitivi della vita che adesso, presenti in altra forma, sono pur sempre gli stessi e riaprono il dolore del distacco La “ballata “si conclude con l’addio all’autunno, che se ne va sempre “di ramo in ramo, di foglia in foglia”. La mia emozione è grande: ho conosciuto un Mario Gabriele molto diverso da quello attuale. Modernissimo come oggi, ma più incline al ripiegamento solitario sul ricordo e sul tema dell’amore. Grazie, Mario Gabriele, che ci hai rivelati l’aspetto più gentile ed commovente della tua anima!

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    • Inizio con il solito e imprescindibile grazie, Hai saputo perfettamente sondare il fondo di queste poesie e te ne sono sinceramente grato.Per una retrospettiva più organica, ti invito a leggere il commento che ho elaborato per Martino e dal quale molte cose vengono a galla.

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  9. Mariella Colonna

    Giorgio Linguaglossa dice che a Mario Gabriele ci sono voluti 30 anni di ricerca per giungere allo stile attuale: è vero, ma già quarant’anni fa c’erano tutte le premesse…oggi meno sentimenti , in apparenza, ma altrettanta intensità, sensibilità al nuovo,lievità penetrante delle immagini.

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  10. gino rago

    Le Epigrafi di Mario Gabriele come Pianissimo di Camillo Sbarbaro, nel rinnovamento della lirica italiana del Novecento e del posnovecento.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21362

    Gli ottimi commenti che precedono il mio, e in particolare le riflessioni di Giorgio Linguaglossa e di Mary Colonna, mi inducono a meditare su una
    certa analogia fra l’aura sbarbariana, nel clima d’un’Italia ancora giolittiana, e
    l’atmosfera poetica nei versi di Mario Gabriele, in un’Italia postneorealistica
    e vagamente “sessantottina”, nel rapporto dei due poeti verso la figura
    paterna destinata a fare i conti con la morte.
    La parola di Mario Gabriele, come fu e resta quella di Sbarbaro, si alza limpida, immediata, nuda. Trascrive in un linguaggio chiaro
    la malinconica mitologia di un ulisside moderno, in un abbandono trasognato nel quale si smarriscono il sentimento dell’”Io” poetante e il senso stesso dell’essere. E come in Pianissimo di Sbarbaro, anche nelle
    Epigrafi di Mario Gabriele una certa forma di aridità del vivere tende
    stilisticamente a risolversi in essenzialità, in purezza linguistica, in semplicità
    senza retorica in grado di sottrarre massa, calore e peso alle facili emozioni,
    secondo la lezione acmeista dell’adamismo già rilevata nei versi di “LORO”
    di Edith Dzieduszycka,
    proposti su una pagina fortunata de L’Ombra delle Parole da Giorgio
    Linguaglossa.
    Che linguaggio rimane al poeta quando sente d’essere trasformato in
    “cosa” se non il frammentismo in cui si riconosce, e si accelera, la crisi
    dell’Io, da un lato, e il carattere frantumato della realtà stessa, dall’altro?
    Chi butta sguardo e cuore oltre le siepi del proprio tempo è destinato
    alla incomprensione e alla solitudine. Temo che a suo tempo sia successo
    proprio questo a un Mario Gabriele fin da allora consapevole della inconsistenza dell’ Io e della coscienza non più luogo della integrità né
    più unità di misura di ciò che si diceva “reale” …

    Gino Rago

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    • Caro Gino, l’accostamento a l’aura vociana di Camillo Sbarbaro mi onora moltissimo, tanto da dire di non essere estraneo ai magnifici testi inclusi in Pianissimo, almeno nella musicalità. Direi che Astuccio da Cherubino non è che la propagazione di un’eco che supera i confini dell’indifferenza e si concretizza come tu dici bene, nell’essenzialità linguistica, in semplicità senza retorica nel revival del ricordo e dell’amarezza dell’Assenza. Grazie di questo tuo commento di carattere interno e linguistico.

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  11. Claudio Borghi

    Condivido quel che scrivono Salvatore Martino e Mariella Colonna.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21363
    Il dolore tenta di farsi parola, affida alla poesia la possibilità di un dialogo con l’assenza di una vita perduta. L’apparente rarefazione di emozioni nella recente poesia di Gabriele cela una ferita profonda, che la ragione non può ridurre a categoria del pensiero, quindi la chiude in un recinto di pietra, volontariamente la rimuove per non farsene annientare. Il nichilismo si direbbe, in questo senso, un’autodifesa, una reazione biologica all’annientamento psichico. Non credo che la poesia diventi grande e originale solo quando si erge razionalmente sopra le emozioni sublimandole in rarefatte astrazioni, come potesse dominarle. Ripenso alla scena finale di Solaris di Tarkowskij, al protagonista che ritrova il suo cane, la casa e il giardino che un po’ alla volta si restringono fino a dissolversi nell’Oceano del Pensiero. La dimensione dello spazio e del tempo, che percepiamo essere la vita, si riduce a visione inconsistente. Dobbiamo riconoscere che emozione e impersonale nichilismo, soggettività e oggettività, tempo interno e tempo esterno ci sfuggono in ugual misura, solo possiamo tentare di dire quello che ci attraversa, la poesia come la vita.

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    • Grazie, Caro Borghi. Oggi ti offro il Kalumet della pace.Fumiamolo insieme in una nuova atmosfera colloquiale e critica. Ognuno con la propria personalità. Che ne dici?

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      • Claudio Borghi

        Io non mi sono mai sentito in guerra, caro Mario, ho sempre percepito in te, come confermi nella replica a Salvatore, la paura più che la condanna o la liquidazione delle emozioni. In questo senso, accolgo di cuore la tua apertura e il tuo invito a un confronto franco e, finalmente, disteso.

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  12. Flavio Malaspina
    Una poesia tradotta da Adeodato Piazza Nicolai

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21364
    Arisen
    Arisen
    In the absolute silence of my existence
    Disordered eternity
    I am reborn
    Alone
    In the supreme forgetfulness
    Of life

    © 2017 American translation by A. P. Nicolai of the poem
    by Flavio Malaspina. All Rights Riseved.

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  13. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/29/franco-cordelli-a-proposito-della-antologia-il-pubblico-della-poesia-del-1975-a-cura-di-alfonso-berardinelli-e-franco-cordelli-poesie-di-mario-m-gabriele-da-astuccio-da-cherubino-1978/comment-page-1/#comment-21365
    Adeodato Piazza Nicolai
    UN’ALTRA DONZELLA

    Nei borghi dell’egocentrismo
    gorgheggiano mitografi retro-
    grafanti, astrattisti biforcuti e/o
    depistanti; concetti deboli,
    scorie psicoderivate deteriorate
    dal lirismo barocco/ballocco che
    non sa roccare il rock-and-roll ma
    solo un lento, disperso nel tempo.
    Forse farà bene all’intestino
    coltivare solo il tuo giardino,
    origliare un’Ora et Labora
    nell’ora della morte del cigno.
    La poesia non nasce dallo specchio
    e neanche da una botte sgangherata:
    Forma e Sostanza sposati
    con l’eleganza sono la danza
    che mai separa la musica
    dalla donzella che balla
    senza inciampare
    o predicare retorica falsa …

    ©2017 Adeodato Piazza Nicolai
    Vigo di Cadore, 22 giugno, ore 13:25

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  14. Non avevo letto tutti i commenti alle bellissime poesie di Gabriele in memoria del padre. E mi commuove il fatto che, proprio di fronte ai sentimenti forti e veri che si provano quando muore una persona che amiamo, Mario Gabriele e Claudio Borghi abbiano trovato la via di una serena ricomposizione dell’ antica “querelle” che li aveva temporaneamente divisi. questo DIMOSTRA CHE CI SI INCONTRA SU VIE CHE RIPERCORRONO TRACCIATI ANTICHI, LEGAMI ANCESTRALI: IL RAPPORTO CON IL PADRE (perdonatemi le maiuscole, ma non riscrivo per questioni di tempo) che adombra quello tanto dolorosamente sofferto e rimosso con Dio padre, oggi dichiarato morto…o meglio realmente ucciso dagli uomini infinite volte e…recuperato nell’amore del Padre terreno su cui si può riversare tutta la tenerezza e la riconoscenza in parte dovute a quello “celeste”. Il nulla scava un abisso invalicabile tra noi e le persone amate che abbandonano questo mondo: ma il Poeta, in questo caso Mario Gabriele, recupera la presenza colmando l’assenza con il tempo della memoria. Tutto questo non ci commuoverebbe se il Poeta non avesse messo dentro le parole ogni “frammento”del proprio cuore e la propria anima. Complimenti Gabriele e Borghi! Sono proprio felice che la POESIA abbia saputo compiere quello che le semplici parole dettate dalla passione (per la poesia) non hanno saputo fare! Mariella

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