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Risposta di Giuseppe Talia alla Domanda Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? con una poesia kitchen  di Giorgio Linguaglossa e Giuseppe Talia, Quando parlo della Poetry kitchen mi vengono in mente due movimenti principali dello scorso Novecento: il Futurismo e il Surrealismo comparati con l’attuale situazione mondiale, dalla lotta al Covid19, alla lotta (?) alle disuguaglianze, alla guerra in Ucraina, alla crisi energetica e alla minaccia nucleare

Promenade_nocturne_14 collage 50x50, 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne n. 14, collage, 50×50, 2023

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Domanda

 Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Risposta di Giuseppe Talia

Quando parlo della Poetry kitchen mi vengono in mente due movimenti principali dello scorso Novecento: il Futurismo e il Surrealismo comparati con l’attuale situazione mondiale, dalla lotta al Covid19, alla lotta (?) alle disuguaglianze, alla guerra in Ucraina, alla crisi energetica e alla minaccia nucleare. Le assonanze con i due movimenti sono parecchie ma con i dovuti distinguo e con la dovuta consapevolezza che lo spazio aperto dalla« nuova poesia» riconosce la base della propria epitrope.

La domanda di Giorgio Linguaglossa sulla «fine della Metafisica», forse a mio avviso andrebbe chiarita, penso che Giorgio non intenda la fine tout court della Metafisica, piuttosto un ricambio metafisico, così come è stato da sempre, essendo la metafisica connaturata all’uomo, ed è la metafisica che ci fa comprendere ciò che altrimenti non comprenderemmo. Non si prescinde dalla metafisica, quale che essa sia. Mi sembra che la definizione di «metafisica disillusa» di Roberto Bertoldo calzi bene nel contesto; in effetti, la poetry kitchen ha il merito di porre alcune domande fondamentali che non sono quelle maggioritarie che si attestano su posizioni personalistiche e che hanno esaurito la loro accidia nichilista.

La velocità, che era un caposaldo del movimento Futurista, è rinvenibile nei componimenti Kitchen: l’oggettuale rapporto con i media attraverso i dispositivi tattili, l’esautorarsi della diffusione e condivisione di miriadi di dati privi apparentemente di un senso globale, la nascita e la morte subitanea di ogni notizia a cui si sommano le fake news e le notizie non notizie, sono tutti sintomi, diremmo conclamazioni della «riduzione del Reale da trauma a spettro» (Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, 2022, pag 45).

A differenza del Futurismo, i poeti Kitchen non sono interventisti e al pari dei Surrealisti ripudiano la guerra come anche l’idea stessa di conflitto per il potere. Le immagini in movimento, il tono canzonatorio, la disillusione, le onomatopee, la personificazione, sono la più moderna dislocazione in luogo della semplice velocità; il traslato nella Poetry Kitchen è sostanzialmente ubiquo, la catena degli eventi si mescola agli oggetti e alle emozioni con differenti combinazioni di immagini pescate alla rinfusa tra la miriade di immagini e discorsi a cui siamo costantemente sottoposti.

La Poetry Kitchen non è una «scuola», mi si dice, piuttosto un ricambio d’aria, cambio di paradigma, di quelli che si rendono necessari di questi tempi per la prevenzione della propagazione del virus. La nuova aria si sintetizza in questa affermazione: la poetry kitchen adotta la fantasy dell’immaginario come supporto dell’ordine pubblico; ma questo è solo una finzione, un capovolgimento, in realtà la prassi kitchen agisce in vista del disordine pubblico. (Ibidem, Pag. 47).

In che termini però si parla di disordine pubblico? Lungi dall’essere rivoluzionaria e anarchica, nella più aderenza dei termini, la Poetry Kitchen non sembra avere nessun impegno politico, nessun motore pulsionale verso l’identificazione in uno schieramento politico piuttosto che in un altro, semmai si limita a registrare con critica totale ed integrale, questo sì, la fine, la chiusura dell’«impegno», come lo si conosceva nel recente passato, per il suo fallimento su tutta la linea. La conseguenza di ciò è che le categorie dell’illusione e dell’abbaglio prendono il posto della certezza e della verità.

La particolarità rivoluzionaria della Poetry kitchen, se proprio vogliamo rilevarla, risiede piuttosto nell’età media dei poeti che la compongono nella compagine attuale. È rilevante come la svolta, il turn over non sia partito dai giovani poeti ma da un nucleo fondativo che va oltre i settant’anni di età.

Il Surrealismo in Italia non ha avuto il seguito e la risonanza che altrove. Nella Nuova Ontologia Estetica se ne rinviene più di un barbaglio, anzi la sovversione dell’ordine pubblico investe anche il privato, nel privato sono custodite le chiavi di ciò che siamo, e se siamo ciò che comunichiamo, nel profondo del nostro luogo, “dove non si è e non si dice”, in quel vuoto si situa il rimedio della poetry kitchen.

Penso che siano tanti i punti di denuncia e i rilievi che la poetry kitchen rivela e pone nel quadro della “zona -catastrofe” che sta investendo l’Occidente. L’angoscia che ne deriva annichilisce i presupposti una volta caduti i prefissi, post-moderno, post-contemporaneo, post-human, che non facevano altro che rimandare nel tempo, spostare il punto un’asticella più in là piuttosto che dibatterlo. Dopo la posteriorità non rimane che la negazione, l’annullamento: “il non-desiderio che produce la non-angoscia.”

La non-poesia produce l’effetto catarifrangente della dispersione dell’io poetico in un non-io poetico, mascherato, ovviamente, falso e consapevole dell’irreparabilità dell’Ente che non ha più una casa certa nel non-luogo.

Il peso relativo del vuoto e dell’insignificanza vanno di pari passo con il risultato della loro somma la quale dipende dall’abbondanza isotopica, vale a dire dalla differenza di massa. Ogni autore dell’Antologia Poetry Kitchen (Ed. Progetto Cultura, 2022) ha un proprio peso specifico nella ricerca dell’isotopo con cui provare a riempire lo spazio vuoto, affinché si creino i movimenti, gli scambi, le collusioni, l’entanglement, i cortocircuiti narrativi e i droni dell’ubiquità. Alla luce di quanto detto, «prendere una carota e renderla poetica cucinandola» (dizione di Roberto Bertoldo), mi sembra un impegno da non sottovalutare se si guarda alla poesia italiana contemporanea maggioritaria dove si prende un cetriolo e si cerca di renderlo poetico facendolo passare per un crumble alle mele.

Penso di capire l’affermazione sul minimalismo impegnato sul sociale e fondato sulla quotidianità che Roberto Bertoldo rileva nella poetry kitchen, in effetti mancano nel kitchen tutte le categorie estetiche “alte” preferendo alle note alte altre note, i discorsi si muovono su piani bassi, la cloche della barra di comando è posizionata sul sorvolare invece che sull’impennarsi, non tanto per soprassedere quanto per fotografare reale e irreale, ne viene che le immagini catturate non combaciano del tutto, perché la velocità con cui il Reale-reale e quello supposto cambiano, rende quasi impossibile far combaciano i tasselli, l’immagine risulta sgranata e dai contorni non ben definiti. L’uso del distico, in questo caso, agevola la parallasse e incita l’epitrope a tendere continui agguati, a superare l’accidia nichilista. Spostare i foni del bel canto in una scacchiera sostanzialmente a-metrica, produce il disallineamento degli accenti che si posizionano non più in una funzione suasoria ma distopica.

Strilli Tranströmer 1Seconda Domanda

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Risposta

La domanda è ambiziosa e difficile, presuppone l’espressione di una poetica, di una visione che non può che essere lungimirante e dunque ardua nel suo stabilizzarsi. Le poetiche del Novecento si sono frantumate con l’avvento della Neoavanguardia, la crisi innescata dal “Gruppo 63” è stato uno tsunami che ha contribuito alla svalorizzazione del linguaggio. Lo sperimentalismo quale presupposto irrinunciabile della Neoavanguardia, si è concluso in un vortice dalla cui macinatura linguistica non è risultato nessun prodotto duraturo. L’estremizzazione plurilinguistica di Eduardo Sanguineti con Laborintus (1965) ha sparigliato le carte della poesia italiana, a seguire di quella, la rivoluzione involutoria del 1971 ad opera di Montale e Pasolini con Satura e Transumanar e organizzar, hanno invalidato le “poetiche forti”, da quel momento in poi è stato un susseguirsi di rese e qualche resistenza, ad esempio lo stesso Mario Luzi si è dovuto rinchiudere nel suo tardo-manierismo per poter sopravvivere.  L’ultimo in termini di resa è stato Gianfranco Fortini con Composita Solvantur (1994). Nel frattempo, a latere delle così dette “poetiche forti”, si sono sviluppate delle diramazioni di “poetiche deboli”. Parrebbe naturale pensare che dopo una crisi per ricostruire un rapporto e un tessuto comune, si rovisti nella tradizione, si cerchi nelle proprie radici la continuità per edificare dalle macerie di cui sopra, l’atto poetico e il suo complemento, il testo.

Le poetiche deboli del secondo Novecento sono quasi tutte imperniate sull’io lirico-io poeta investito di tutti i poteri. Sull’onda delle due linee, quella innica e quella elegiaca, le poetiche deboli si sono chiaramente attestate sulla linea elegiaca, di pascoliniana memoria nel ritmo, il contenuto, invece, ruota sulla rielaborazione elementare di sofismi e truismi low cost.

Marginalizzare l’io lirico – l’io poeta significa deviare dal centro per una visione larga, allungata sul circostante abisso. È solo prendendo coscienza dell’abisso, soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione dal proprio io-poeta-io lirico che può emergere l’indicibile, la metafora. “Nella metafora convergono tutte le aporie del linguaggio, lato effabile e il lato ineffabile, il dicibile e l’indicibile.” (Giorgio Linguaglossa, La Poiesis Kitchen, 2022).

Sul solco del modernismo europeo, la poetry kitchen lavora sul passaggio al post-modernismo, una volta palese che la memoria non è più collegata con la tradizione e che la tradizione non è più la storia. In questi anni di lavoro e di confronto sulla rivista telematica L’ombra delle Parole e del trimestrale di poesia, critica e contemporaneistica, il Mangiaparole, la Poetry kitchen ha esplorato un largo campo di possibilità a partire dal «compostaggio dei linguaggi deiettati, dismessi e tolti» (G. Linguaglossa, Ibidem). Il risultato sicuramente ha portato alla nascita di un coro di voci, di un flusso di nuova coscienza poetica, ibrida, fluida, mutevole, instabile, né poesia né prosa.

Mimmo Pugliese

Dis-oggettivare il tempo e la forma ritengo sia tratto saliente della Poetry kitchen. Allontanarsi un po’ di più dalla metafisica e muoversi nell’interregno del rovescio della medaglia. Rincorrere sembianze di realtà e contaminarle di altra sostanza.

Ultrasurrealismo che si esplica nella frammentazione che sonda il vuoto e nello stesso lo determina. Esattamente questo incastro provoca un movimento tellurico nel quale, per esempio, ” la pallottola” e la “gallina Nanin”, per quanto assolutamente inconciliabili nella realtà, esprimono significazione.

Ultrasurrealismo che ri-forma l’espressività conducendo non verso le «magnifiche sorti e progressive» ma che si insinua nelle intercapedini e nelle contraddizioni di un evo che ha sembianze di gambero. Può essere che produca neppure un solletico ma, tuttavia, aziona la connessione esistente tra quanto diuturnamente è e l’altrove di ciascuno.

L’ego sostituito dall’Es è l’altrove di ognuno che, galleggiando nel vuoto, accomuna “bianche geishe” e “pistacchi del commissario”, “zar di Russia” e “misuratore delle ombre” o, ancora ” sassolino inerte” e ” cane scemo”.

La spoliazione del senso significativo è il carattere distintivo della Poetry kitchen, libera-mente in libero-corpo, che solo apparentemente viaggia senza meta.

Promenade notturna 6 Collage 40x40, 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne n. 10, collage, 30×40, 2023

Giuseppe Talia

– we-we, si dice a Napoli

– sei stato a Napoli?

– non di recente

– l’antiquario ha fatto la proposta

– conviene?

– sì, il 35% deve rimanere originale, il resto si può citare

– vero, a San Basile hai ricordato le poesie Frankenstein

– devi tener conto dell’abilità dei punti di sutura

Giorgio Linguaglossa

Kitsch poetry

Dopo essersi ingollato una boccia di marmellata all’albicocca di proprietà del poeta Mario Lunetta che abitava nella capitale in via Accademia Platonica n. 37, il pappagallo Gazprom aprì la porta d’ingresso della abitazione del critico Linguaglossa il quale stava golosamente consumando un uovo alla coque.

Sulla soglia dimorava il poeta Gino Rago con sotto il braccio destro una torta ai mirtilli, lamponi, shrapnel al fosforo bianco e una fotocopia della gallina Nanin opera di Lucio Mayoor Tosi.

Il pappagallo Gazprom aveva appena volato dall’appendiabiti al tavolo da cucina dove finì di ingurgitare i residui della torta e anche una confezione di gorgonzola che giaceva incustodita scolandosi sopra anche una bottiglia di Bourbon, si guardò soddisfatto allo specchio e proclamò con voce stentorea:

«Il vincitore della battaglia di Jena e lo sconfitto di Waterloo sono la stessa persona, sono io!».

Accadde un forte bagliore. Il critico Linguaglossa si stava lavando i denti con il dentifricio Pepsodent plus antiplacca allorché una lampadina con il filo in tungsteno incandescente andò a mal partito.

Quella mattina il poeta Gino Rago stava prendendo un caffè al bar di Trebisacce, correggeva le bozze del suo libro “Storie di una pallottola e della gallina Nanin”.

Sempre a Roma, seduta ad un caffè della Circonvallazione Clodia n. 21 Marie Laure Colasson redige il verbale degli acchiappafarfalle, ci mette dentro tutti i poeti della Poetry kitchen.

Ewa Lipska stava aggiustando la redingote al pappagallo Proust quand’ecco che il poeta Lucio Tosi è diventato un bambino, la mamma gli sta aggiustando il grembiule di scuola e lo rimprovera, gli grida: «stai attento, maleducato!», «ne combini una dopo l’altra!», «sei sempre il solito!».

Francesco Intini ha appena acquistato un revolver a tamburo da 6 colpi calibro 7.65, spara un colpo in aria, dice che Faust ha chiamato al telefono Belzebù per una metastasi mattutina.

Un ippopotamo bianco sta fumando un sigaro cubano in compagnia di Francesco Intini al bar sito proprio davanti al Colosseo, quand’ecco che interviene il poeta-chimico Vincenzo Petronelli che dice: «it will not be easy to handle, il plutonio è un isotopo del favonio e il leone è la marca del water che ho in bagno. Il Colosseo è una dentiera e la groviera è un dentifricio per cani, il che è già un ottimo argomento per l’enthymema».

Proprio in quel momento a Lubjana il critico marxista Tatarkiewick stava litigando con il filosofo Žižek circa il concetto di «vuoto» nella pittura di Rothko

A Londra il cagnolino della regina Elisabetta prende ad abbaiare in tedesco rivolto allo Zar del Cremlino che le si avvicinava. «I cani hanno un istinto interessante, non trova?», ha commentato la regnante rivolgendosi al ministro degli esteri…

Note biobibliografiche

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze, 2013. È presente con dieci poesie nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2016.; con il medesimo editore nel 2017 esce la raccolta poetica La Musa Last Minute. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Giorgio Linguaglossa nasce nel 1949 e vive a Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 pubblica  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei, la Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia metastabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen  perseguita dalla rivista rappresenta l’esito dello sconvolgimento della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa viene ad esaurimento la metafisica del novecento e si entra nel condominio personale delle parole, una sorta di «nuvola» delle parole gratuite e libere, cioè a disposizione di ciascuno.

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Risposta alla Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica? È solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie, Poesie di Mimmo Pugliese, Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Francesco Paolo Intini

Uomo sotto la neve

Lucio Mayoor Tosi, Uomo in bicicletta sotto la neve, 2023, opera digitale

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Risposta alla Domanda:

Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica?

La «nuova poesia» crea le sue «nuove» categorie ermeneutiche. La «nuova poesia» è nient’altro che «una messa in scena» con annesso e connesso la abolizione del simbolico e del sublime. La sublimazione presuppone la rimozione, è per questa ragione che la «nuova poiesis» avendo abolito la sublimazione può fare a meno, correlativamente, anche della rimozione. Una volta libera da queste due estremità la «nuova poiesis» può estendersi sulla superficie della estimità, essendo libera anche della intimità o interiorità che della rimozione ne è storicamente il prodotto alienato e contraffato.

La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, si muove all’interno di una zona di interoperabilità tra gli oggetti (interni e esterni) e gli attanti, una zona di discretizzazione di tutte le funzioni della trasduzione, essendo la trasduzione nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di trasduzione; è solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie; heideggerianamente, c’è la presenza della «terra», con tutta la sua pesantezza e voluminosità che ingombra. Le funzioni poetiche diventano così meri espedienti. E gli espedienti diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto trasduttivo.

Che altro è l’espediente della «pallottola» che nella poesia di Gino Rago attraversa ampi spazi e svariatissimi personaggi di plurimi tempi se non una relazione trasduttiva, un colloquio costante con la morte?, con la sua presenza ingombrante?; che altro sono gli inciampi linguistici e gli shifter, gli scambi di binari semantici di Francesco Paolo Intini se non l’ossessione della pulsione di morte dei significati convalidati dalla pratica sociale?, che cosa sono quei «pendeloques» (ciondoli) di Marie Laure Colasson se non manifestazioni del «mondeggiare» degli oggetti ovunque si volga lo sguardo?, quel «mondeggiare» che avviene in una condizione di assenza di orizzonte?, anche le «descrizioni» di Vincenzo Petronelli in realtà sono espedienti che portano fuori strada il lettore, interpretano una variante di quel «mondeggiare» privo di mondo e di orizzonte che è nient’altro che la nostra epoca glocale. Secondo il filosofo marxista Slavoj Žižek la freudiana pulsione di morte deve essere adottata quale categoria centrale del capitalismo, una categoria che si è internalizzata ed è diventata una adiacenza del mobilio psichico. La pulsione di morte abita il cuore del capitalismo odierno. La poetry kitchen è ossessionata dalla presenza di questa pulsione di morte che tenta di esorcizzare con un caleidoscopio di immagini, di figure, di icone, di avatar e di situazioni ultronee, ma si tratta pur sempre di un esorcismo, di una magia bianca in realtà la pulsione di morte è la protagonista assoluta della poesia kitchen che avviene mediante una «messa in scena» che avviene all’interno di una relazione di trasduzione che converte gli estremi in, come dire, estimità internalizzate.

La pop-poesia kitchen può essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura: un negoziante, un orologiaio, un barista, un bambino, chiunque tranne che da un letterato.
«Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo lessico che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il kitchen è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato e privatizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle Agenzie emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. Così, ogni discorso diventa un percorso kitchen ad ostacoli.

Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog rientri nel silenzio dell’Essere. Andiamo tutti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo; diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose e intonse per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto più volte Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbe sottoscriverle anche un filosofo marxista, e magari verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.

(Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)

Marie Laure Colasson

Poesia n. 34 della raccolta Les choses de la vie (Progetto Cultura, 2022).

34.

Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král

Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez

Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur

La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir

Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages

Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible

La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable

Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.

*
Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král

Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso

Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero

La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio

Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi

Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile

Finita la deboscia i gabbiani
lasciano delle impronte sulla sabbia

Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo

Mimmo Pugliese
Il tango ha i capelli ricci

Hai nascosto le parole dietro i denti della pioggia
le matite accanto ai gatti sugli scafali del metaverso.

La memoria degli aghi di pino
bussa alla catatonia del polonio.

Sulle sbarre di sabbia diventa latte il ritorno
girato l’angolo è magro il fruscio del segnalibro.

Tra virgole d’asfalto si riposano gli elefanti
sorvolano il sudore i citofoni delle banche.

La giacca di flash-back centrifuga bustine di thè
su ponti inesistenti resistono passeri rampanti.

Non ti hanno visto partire
erano spenti i semafori.

Ha capelli ricci il tango uscito dallo specchio
ZZzzz…ZZzzz… video in riconnessione…..

Fuori è pomeriggio

Il pomeriggio che abbaia
si perde dietro all’eco del labirinto

Un rumore di motori scende dai tetti
innervosisce le briciole, scompone il vento

Nella fessura degli armadi
la luce bagna impermeabili nuovi

Quando la collina naviga nella pioggia
sono àsole le canne sulla strada

Alberi che non ti sono mai piaciuti
sciolgono gli intrighi delle onde

Ha dita di sale la botola
che scrosta i muri alla fine del fiume

La traiettoria del sonno si lascia dietro
scarpe e cifre smaltate sulla camicia

Mordono la luna gli storni
mentre parli ai cani della vendemmia

Francesco Paolo Intini
MARLIN

Ci sono missili che fanno la spesa al supermercato
Comprano nature morte senza copyright.

E intanto che nel nervo X si elencano le sinapsi da bloccare
Bartolomeo Colleoni segna un punto nella partita a golf

Ma forse non c’è stato e dunque il fegato chiude il coledoco
dopo la pestilenza , subito dopo Pasqua, oppure prima della Lotteria

Anche ora che la minaccia sembra sepolta
I contromissili di questa parte mostrano grossi sigari dalle ogive.

Ci sarà come trovare aria pura negli intestini
Penetrare da qualche altra parte e respirare nel duodeno.

Nell’attesa che il pancreas blocchi il dotto
Una gru parla in Televisione di una foglia
Che si secca di scendere giù dall’ albero.

Rallegra un Marlin con la testata bionda
Più della moglie appena uscita dal parrucchiere

CARO DESTINO

C’è un destino sul fondo del tegame
Ne parla Tiresia su richiesta di Re Nasone
La condizione umana coperta di teflon
E la Sfinge che torna al suo quiz:
Quale caffè dopo il postmoderno?

Diresti che il pranzo è servito e il ragù galleggia sul Tg
Chi alza la mano per spostare un bicchiere
giura d’aver visto l’angelo ma un bagnino lo convince
che raccogliere bollini è il Bene dell’umanità.

Gazze e corvi continuano a beccarsi.
La peste diffonde le sue idee nell’intestino crasso.
C’è un’appendice che s’infiamma
Un’idea, l’immortalità del moplen
che scuote come un T-rex nell’ano.

La stessa carne esposta ai pesci
E dunque che vale spogliarsi di bianco
Rendere al blu le bare?

E’ un affaccendarsi di notai ed eredi al letto di morte.
Ah ma se facciamo firmare una Guernica
Finisce che la cornice ci fa causa!

La linfa sale alla testa del verde
Quanti giri fanno i sanfedisti?

La vista del mandorlo si annebbia
La lingua ingrandisce l’ascessi a spese del dentista cieco.

Affini! Macchinisti!
Grida Antigone che si sbellica dalle risate
scambiando Creonte per l’onorevole Trombetta.

Lucio Mayoor Tosi
Primo pomeriggio

Un sottopentola, o tovaglietta. Di paglia, un po’ sfrangiata ai bordi.
Per forza di colore bordò. Chiaramente usata.

Anche farsi una sigaretta. Tavolo con casamenti per l’intero universo.
Nessun profilo, tutte le cose messe di fronte.

Quando d’improvviso. / E’ l’ora dei nani, tre quattro mosse
in paradiso di coscienza. E lì scavare, scavare.

Grigio, colore dominante. Acqua di colonia. Blu e nero
il monitor confinante col cimitero.

Un campo di luce più ristretto di quello del sole. Ora
primo pomeriggio. Raggi dal sottosuolo bene attivi.

Fermo come impalcatura ascolto. Se cuore e bellezza
siano confinanti.

«Confina con me. Il sottopentola» dissi. Quindi lei
sbattè la porta. E giurò di non vedermi mai più.

L’importanza di ogni cosa è misurabile scandendo
ogni sillaba del prontuario “Nuovo tempo”. Metodi

per il soccorso giornaliero. Homo sapiens. Prima
del digiuno. Lui e la sua coorte di oggetti.

Una poesia, quella di Lucio Mayoor Tosi, che sopravvive priva di alcun principio gerarchico, direi anarchica, con un metro polisillabico in distici che sta lì come una sentinella armata; ma armata di che?, di nulla, direi, perché la poesia è costruita senza alcuna costruzione (costrizione), sembra nata già decostruita, già rottamata e buona per la pattumiera del non riciclo. Sembra quasi che l’autore di Candia Lomellina si diverta a produrre scarti non riciclabili, scarti inquinanti ma non tossici, scarti che aggiungono inquinamento a inquinamento, così, giocando spensierato e alleggerito da tutti i pesi, perché l’importanza di ogni cosa (non) è misurabile, e l’homo sapiens se ne sta lì «Lui e la sua coorte di oggetti». (g.l.)

Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti:  NATOMALEDUE” è in preparazione. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume saggistico di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia? Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali? Risposta alla Domanda di Francesco Paolo Intini

Promenade notturna 9 40x40 collage 2023

Marie Laure Colasson, foto, 2022

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Domanda

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?

Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

 

Risposta di Francesco Paolo Iintini
5 marzo 2023 alle 10:37 

Caro Giorgio, rispondo volentieri e “a modo mio” alla domanda che mi hai posto anche se la filosofia è per uno non specialista come me, un campo difficilissimo da calpestare e in ogni angolo mi è quasi impossibile schivare le mine sotto i piedi. Parto perciò da ciò che abbiamo sotto gli occhi. “Invaso \invasore” non mi sembra un mantra qualsiasi o uno slogan. Contiene, secondo me, la valenza di ’Io penso dunque sono”, ha l’ambizione cioè di fondare ogni ragionamento su questo conflitto. Non per niente chiunque si accinga a parlare sull’argomento è obbligato a dare testimonianza di verità a questo fatto evidentissimo da cui sembra che non ci siano vie di uscite praticabili. Non lo sono tutte quelle vie che sbucano in una trattativa di pace che non prevedano un ritorno allo statu quo originario dell’ Ucraina. Non lo sono perché se ci si affida al ferro della logica si sottintende di escludere ogni ricorso alla fiducia reciproca. E tra i contendenti sembra proprio che non ce ne sia in maniera assoluta. Per questo, l’unica regola praticabile è la guerra “fino alla fine”, per conclusione necessaria, come si trattasse di una somma di addendi. Già! il problema però è capire cosa si intende per “fine “e se questo sia davvero coerente, per forza di sillogismo, con il punto di partenza che si sposa perfettamente con un altro e cioè se il principio: “salviamo l’umanità dalla sua autodistruzione” abbia la stessa valenza del principio di “autodeterminazione dei popoli” e se tra i due principi debba prevalerne solo uno di fronte a una loro impossibile conciliazione. Come uomo libero, odio e disprezzo ogni forma di dispotismo, di sopraffazione e qualunque forma di guerra, la risposta però non dipende da me, ma da una partita tra due squadre, l’una di bambini l’altra di adulti. Se i nomi della prima sono sconosciuti, quelli degli altri sono noti a tutti. Quei Pipistrelli nel finale di Venerea stanno in attesa sul bordo campo sentendosi investiti di un ruolo cosmico nella storia dell’universo.
Lo scenario fisico però ne impone un altro di natura metafisica che riguarda il Bene ed il Male. Mentre il primo scenario ci sembra lontano questo ci fa cadere subito in noi stessi gettandoci in un’unica partita senza durata perché i giocatori si avvicendano continuamente in ruoli variabili indipendenti dal tempo.
Come non riconoscere una tela di Bosch in un campo Ucraino?
In parallelo il nostro inconscio non fa che generare mostri, mischia vigliaccherie ad eroismi, simula in piccolo l’assenza di giustizia mentre ne invoca, cerca un perdono che non gli sarà concesso, parla una lingua che sembra familiare ma che invece è incomprensibile perché ridotto a singhiozzo e balbuzie. Il “terror mortis” regna ovunque e probabilmente costituisce il nastro di Mobius che unisce interno ed interno, di cui tu parli. La poesia, a parer mio, risponde a questo estremo bisogno di ordine che ci arriva sotto forma di paura e che riempie gli spazi tra parola e parola, tra un fotogramma ed il successivo. Cosa sono le grandi costruzioni da Omero a Dante e Shakespeare, Leopardi passando dai greci se non un tentativo di mettere ordine, fissare in una narrazione ordinata e tollerabile il brutto, l’orrido, l’assurdo e il nulla in cui la vicenda umana si scioglie? Come tutte le costruzioni ordinate esse rappresentano entropia che si congela in versi concatenati l’uno all’altro secondo un senso, si pietrifica in regole sintattiche e armoniche, in ritmo che fa vibrare corde interiori e sconosciute.
Tutto ciò andava bene in una società che non aveva prospettive cosmiche e assegnava centralità alla figura umana intorno a cui, come un germe in un’ostrica, cresceva la perla delle grandi opere artistiche, delle scoperte scientifiche, l’ottimismo delle magnifiche sorti e progressive.
Difficile immaginare l’asimmetria di fondo del nostro tempo per cui il futuro non è altro che un cambio radicale di prospettive in cui la proiezione della mente diventa più intelligente di chi l’ha creato e ne assume il ruolo in forma di persona cosciente. Quello che si prospetta non è difficile immaginarlo in termini di rapporto tra pensiero libero e potere. In questo contesto stare nell’oggi significa scottarsi della lava del vulcano che cresce di potenza sotto i piedi. La stessa che frantuma le costruzioni e le seppellisce per conservarne lacerti, illustrazioni, citazioni da museo, versi per ogni occasione, orme di dinosauri ad uso e consumo della stanza della regina delle api.
Quale allora il ruolo della poesia nel periodo di mezzo? Come chiedere di costruire un diamante e affidarlo al fiume incandescente. Meglio non farne o corazzarlo in maniera da renderlo refrattario, indigeribile, impresentabile e improponibile come un virus che abbia come unica chance di entrare nel sistema.

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage 30×40 cm, 2023

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Tre poesie di Francesco Paolo Intini

ROBA DA AUMENTO DELLA CIODUE.

Anche il cloro dice la sua
e l’immagine si dissolve nel corridoio.

Il sole irrompe con le stampelle
Fa Enrico Toti ma poi ritorna nel monumento
ogni tanto meraviglia la luce di una cometa
e la via lattea risente dei saluti al fronte.

Tutte le volte che si risalì dalle Marianne
Bevemmo un sorso di vetriolo.

Un inciampo chiuso in uno scaffale
e tra acidi una fiala di ammoniaca
Compare all’improvviso:

-Non mettere in inventario le malefatte
E del ghiacciaio ignora le bare.

Ninfe e satiri si rincorsero nei mortai.
Rubini e smeraldi a bordo campo.

Parve evidente il cambiamento epocale
ma tacemmo accanto agli abstract del 43.

I floppy gli hippy i falchi nella PS,
il più potente cadde da un grattacielo o si suicidò
Come un Rockefeller in disgrazia.

Si conserva la bara, gli eredi depongono chip ai suoi piedi.

Una mantide si raccoglie in preghiera
Divora ruggine e scarta vinile.
Maledizioni partono aspettando il turno.

LIGHTNING ACCOUNTS

Se ne stette immobile tra nuvole di gesso.
Perché voleva Giove alla lavagna ma di fronte ebbe un sussulto
Una scappatoia accelerata da uno sbadiglio.

L’equazione si restrinse a una matrice:
calcolo e nessun elettrone.

Nascono così i carri armati? Ma perché caricarli
Di lupara e jumbo sui piccioni?

Da qualche parte farà zig zag
Sotto la cattedra celeste, tra le gambe di Giunone
Su una barca che si sfracella a destra e manca

Mira a Capaneo tra figure della Panini
Angelillo e poi Rivera un calcio all’arbitro
Un altro a Sivori con l’aria di Beatrice.

Non era un fulmine nemmeno un calcolo di bile
Qualcosa che deborda stratosfera e di sotto
Un plasma col vestito d’arlecchino.

Neanche un albero che esponga i suoi protoni
Un gesto misero come dire matto al Re. Continua a leggere

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Video di Gianni Godi, voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson, Domanda: Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫metafisica☼? Nel mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso, Discorso della Montagna, poesie kitchen di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Mimmo Pugliese

Video di Gianni Godi voci di Alice e Pilar Castel ispirato alle “Strutture dissipative” di Marie Laure Colasson

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Oggi, nel 2023, non si può porre mano ad alcuna ermeneutica dell’arte a seguito della Fine della poiesis, di quella che un tempo si chiamava «arte» nel tempo della storia lineare e progressiva; oggi, nel tempo della storialità (cioè della storia non-progressiva), la fine dell’«arte» trascina con sé anche la fine della critica d’arte. E qui il discorso si chiude. La poiesis kitchen è l’espressione artistica più consapevole alla domanda della posizione dell’«arte» in un mondo «storiale»; ovvero, in un mondo «storiale» ci può essere soltanto una poiesis «storiale», cioè non-storica, che non abita più un orizzonte storico. La nuova fenomenologia del poetico è la fenomenologia di una poiesis storializzata che si presenta incubata e intubata in una duplice cornice, se così possiamo dire, una cornice esterna al quadro e una cornice interna ad esso. La poiesis possibile sarà soltanto quella che si situi all’interno tra le due cornici, nell’intercapedine tra le due cornici là dove si apre uno spazio vuoto, vuoto di significazione. Si tratta di una poiesis ovviamente priva di «essenza» e di qualsivoglia «interiorità».
Quelle interiorità ridotte a palline luminescenti, sfere che rimbalzano e galleggiano all’interno di una macchina celibe dove majorette in reggicalze ballano con scheletri redivivi il tutto accompagnato da spezzoni di triviali musichette marziali e acuti di un melodramma soporoso…

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(Giorgio Linguaglossa)

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Domanda

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della ♫ fine della storia ☼?
–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della ♫ metafisica ☼?
–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi ♫ eventi epocali ☼?

Promenade notturna 1, Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage, 40×40, 2023

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Marie Laure Colasson

Rispondo in breve alla prima domanda di Giorgio Linguaglossa

perché è quella che ritengo fondamentale, le altre sono domande di contorno di cui mi sarà lecito rimandare ad altra occasione l’onere di una risposta.
Con la parola «♫metafisica ☼» di cui si parla nella domanda penso si intenda la legislazione del linguaggio a cui noi tutti storicamente sottostiamo: la grammatizzazione della voce orale che ha fondato la nostra civiltà occidentale con tutti i suoi innumerevoli tropi e figure retoriche. Ma la «metafisica» è l’opera di una gigantesca grammatizzazione, non è un corpo unitario e infrangibile, la si può infrangere togliendo alle parole la loro destinazione di legalità e di utilità, sospendendo, con un atto di deposizione, le parole dal loro significato ordinario.

Nel pensiero di Walter Benjamin la verità si dà solo nei «cocci del pensiero», nelle parole depositate sul fondale marino del dimenticato, sottratte al rimosso e all’oblio dalla rete del «pescatore di perle» e del «pescatore di stracci». Benjamin aveva escogitato una precisa strategia in grado di infrangere l’incantesimo di una tradizione che considerava alla stregua del «bottino di guerra» dei «vincitori della storia». Si tratta di una straordinaria collezione di citazioni, minuziosamente appuntate sui suoi taccuini e della quale il filosofo faceva il contenuto fondamentale della sua speculazione.
La citazione, come forma del nominare, se sradicata dal suo contesto semantico e sintattico originario, consente di ricongiungersi alla potenza del dire prima che intervenga la legislazione del senso e del significato. Le citazioni organizzate dalla tecnica del montaggio recidono i vincoli che le tenevano avvinte alla ♫metafisica☼ del «significato»; qui il principio di autorevolezza dell’enunciato viene soppiantato da quello di libera individualità delle parole liberate dalla sottomissione al significato ordinario socialmente condiviso.

Ha scritto Linguaglossa in un commento postato il 28 febbraio 2023:

“Oggi abbiamo a disposizione la «musica» e le «parole» ovunque: non solo nelle sale concerto, ma, nei teatri, nei cinema, nelle sale d’aspetto dei dentisti, nei negozi di alimentari, nei supermarket… come la «musica» anche le «parole»: siamo invasi da parole di tutti i conii, da quelle bicefale a quelle alto allocate, parole insulse, prometeiche, cafonesche, a quelle prive di significato, parole vuoto a perdere… così non solo negli aeroporti ma anche in spiaggia e finanche nel mare a bordo dei pedalò siamo assediati dalle musichette orripilanti e dalle parole dei bagnini… tutto questo ha cambiato il nostro rapporto con la musica e con le parole; innanzitutto, dobbiamo liquidare una volta per tutte l’ideologema mitico della «voce originaria», come se ci fosse una mitica «voce» nella mitica «interiorità» in grado di affiorare in superficie
(con tanto di duende) e di irrorare di bellezza composita il foglio bianco del poeta intonso. Tutto ciò è un mito! In realtà, non c’è nessuna «voce» originaria e tantomeno «narrante», non c’è nessuna «origine» e nessuna «autenticità» da salvaguardare e quindi non c’è nessuna «duende» originaria, nessuna «nostalgia», non c’è nessuna «autenticità» da liberare nella voce dispiegata. Tutti miti di un bel tempo che fu. E con la scomparsa della «voce» originaria del poeta, abbiamo i suoi sostituti: delle «voci» multilaterali che provengono da ogni dove.”

Il poeta di oggi agisce in modo analogo a quello del «collezionista» di Benjamin, le parole intimamente intrecciate all’origine del loro valore d’uso e di scambio si configurano presso la nuova fenomenologia del poetico, una volta liberate dall’origine, in guisa antisistematica; libere di agire in base al principio di libertà, le parole non sono più soggette alla legislazione di quella «metafisica» (la tradizione) che ne irrigidisce il senso e il significato.
Possiamo considerare il collezionismo di oggetti di Benjamin una procedura analoga al collezionismo di frasari nella poetry kitchen, una procedura che consente di sostituire il valore d’uso e di scambio delle parole con un valore dato dal mero piacere disinteressato del poeta. Così, gli oggetti liberati dalla schiavitù dell’utilità e del significato, vengono «riscattati». Si tratta di un’attività rivoluzionaria governata dal kairos che sconvolge l’ordine imposto dal passato e legittimato dalla tradizione.
Le citazioni anonime, i frasari anonimi costituiscono il nucleo centrale della tecnica compositiva della nuova fenomenologia del poetico, nella quale non vige il principio logico-causale ma un intento azionatorio-predicatorio insito nel linguaggio. Verrebbe da pensare, allora, che proprio il kairos rappresenti la categoria portante della poetry kitchen.
Il kairos che governa il rinvenimento di «perle e coralli» (dizione di Benjamin) perduti, il kairos che culla il passeggiatore, il flâneur, nel reticolo delle strade di Parigi.

“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato.
Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle.
Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”.1

1 Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti

Giorgio Linguaglossa
Discorso della Montagna

Il Presidente del Globo Terrestre alzò la cornetta del telefono
Urlò:
«Il misuratore dei bidet è andato a prendersi un caffè, ha attaccato un cartello alla vetrina del negozio di ortofrutticolo di via Pietro Giordani con su scritto:
“Torno subito”»
E continuò con questi frangenti:

«È in corso la denazificazione della poetry kitchen!
È in corso la saponificazione della formaldeide!
Non dimenticate di prendere un’aspirina, la sera, e una di Lexotan la mattina e dopo i pasti, vi toglie il mal di stomaco
È vietato fornicare con la vicina di ombrellone
Ai nani è vietato indossare gli shorts
È vietato pomiciare con un LGBT
È vietato chiudere i rubinetti del gas prima di uscire
È vietato chiudere i flow cash dei bancomat
È consentito indossare la canottiera solo d’inverno
Non è permesso immergere i savoiardi nel caffelatte
Non dimenticate di assumere il prolettico dopo pranzo
La penicillina è diventata astemica
La majonese è una combriccola milanese
L’alopecia è una torta Sacher con la Lichtung al centro
Il poliptoto è il nome scientifico della medusa mediterranea
Il maggiordomo Camembert ha deglutito per errore la créme caramel di propietà del poeta Michal Ajvaz
Madame Colasson usa sempre il filo interdentale Colgate Control»

Fu a questo punto che Papa Francesco dal Vaticano interloquì in modo appropriato:

«Spolverate più spesso la piramide di Cheope con lo spazzolino da denti Kukident e poi lucidatela con il lucido da scarpe Nugget
Non fidatevi del Mago Woland, è un malmostoso putleriano, un fidejussore, un profittatore
Ogni evento ha il suo contrario ope legis
Il periplo è analogo al peplo
Il contrattempo è in allestimento
Il contraddittorio è in allestimento
Il collutorio contiene la clorexidina
È in allestimento anche il futuro
Per il passato ci incontreremo domani»

Gli ofidi sono ventriloqui, parlano spesso con i T-Rex
Il Velociraptor ha deglutito il pesce Lavrov
Anassagora beve un bicchierino di vodka in compagnia di Prigožin
Il cateto di Pitagora litiga con l’ipotenusa di Aristarco

Così il Parlamento ha votato la fiducia al Governo di unità nazionale
La legge di stabilità contiene l’autorizzazione al termovalorizzatore dell’Urbe
Il pappagallo Totò ha augurato “Buongiorno!”
Achille ha raggiunto la Tartaruga
Un pesce in marsina si sta lavando i denti con Pepsodent anti placca quando il misuratore dei bidet, il Mago Woland, dopo aver masticato un würstel ha continuato con questi frangenti:
«Dio è diventato impotente! Questa è la migliore prova dell’esistenza dell’Essere e del Dasein, lo stigma della sua impotentia coeundi!»

Nel mondo capovolto Churchill va in bicicletta e Fausto Coppi è il primo ministro del Regno Unito
Lo scolapasta andò a picchiare contro la pentola di Chernobyl in ebollizione
Fa ingresso nell’ologramma il Corvo di Salaparuta il quale spedisce una cartolina alla papessa Giovanna con su scritto “Viva l’Italia!”
Nella circostanza, un nano esce da una poesia di Michal Ajvaz, bussa alla porta della abitazione del critico Linguaglossa e non trova di meglio che radersi la barba con una lametta Bic tripla lama
Si guarda allo specchio, sorride, fa dei versacci, dei cilecca e dei princisbecchi e dice:
«Caro Linguaglossa, Lei è il terrore dei poeti elegiaci!»

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken ha dichiarato al G7:
«We’re not going to tell the russians how to negotiate, what to negotiate and when to negotiate»,
con una postilla significativa:
«They’re going to set those terms for themselves»

Marie Laure Colasson

Das Ereignis ereignet (l’evento avviene, Heidegger), L’ultimo periodo della vita di Heidegger è stato dedicato alla nozione di Evento (Ereignis), ma il filosofo non è riuscito a cavare un ragno dal buco. Il concetto di Evento è sfuggente, imprendibile, se fosse prendibile non sarebbe un Evento. Per esempio, la nuova poesia. Bene, se fosse leggibile non sarebbe più un Evento. Per essere Evento non deve essere né leggibile né prevedibile.
La poesia di Linguaglossa è l’unico discorso che Gesù potrebbe pronunciare se tornasse sulla terra. Che altro potrebbe dire? Non c’è nulla da dire di significativo…
L’Evento è in se stesso una Enteignis, («espropriazione»), ciò che eravamo prima dell’evento ora non siamo più. L’Evento è ciò che rivoluziona il nostro «proprio», ci dispossessa delle nostre proprietà e ci restituisce alla espropriazione di noi stessi. L’Evento non è qualcosa di cui pensare ma qualcosa che avviene, che precede il pensiero e lo trasloca. II pensiero post-metafisico che prende dimora nell’evento, non è un atto di fede ma una presa d’atto, una presa di coscienza dinanzi a ciò che si presenta come irriconoscibile, infatti l’Evento è sempre irriconoscibile, si presenta come nuovo linguaggio di cui appropriarsi. Con lo svanire dell’essere nel rapporto di scambio nasce il «nuovo». Heidegger afferma che dell’Evento non si dà una teoria o una conoscenza, ma un’esperienza, e che «l’esperienza non è qualcosa che mistico […] ma è il raccogliersi che porta a soggiornare nell’evento» e come tale «un accadimento che può e deve essere mostrato»: il «pensiero preparatorio» è già esso stesso esperienza dell’evento.
Al di là dell’alone di mistico che aleggia nelle parole del filosofo tedesco, possiamo tradurre il concetto così: prima della Rivoluzione Francese non c’era nulla tranne l’ancien Régime, nessun Evento, dopo di essa il nuovo evento cambia la storia dell’Europa e del mondo occidentale e le coscienze degli uomini. L’imprevedibile (e l’irriconoscibile) è diventato realtà. Analogamente, una «nuova poiesis» all’inizio è sempre imprevedibile e irriconoscibile, ma dopo di essa la poiesis è cambiata per sempre. Prima del 1954, anno di pubblicazione del libro d’esordio di Tomas Tranströmer, 17 poesie, la poesia europea era diversa, pensava e scriveva ancora in chiave di mimesis, era neoverista nelle sue profondità; dopo quel libro la poesia europea è cambiata, per sempre. Certi Eventi che accadono non tutti li intercettano, e magari i suoi effetti risuonano a distanza di decenni, ma questo risiede nella struttura stessa dell’Evento che si presenta sempre con le caratteristiche della invisibilità e della impredittibilità.

Due parole sul bellissimo video di Gianni Godi. Questo è per me un Evento, inatteso e imprevedibile in quanto Evento. Che Gianni Godi abbia preso lo spunto dalle mie «strutture dissipative» mi dà soddisfazione… le nuoveopere camminano, gli eventi sono in cammino… La nuova poesia è difficile, problematica, irriconoscibile molto più facile è fare le poesie della interiorità e della bellezza sfregiata. Sull’amore non saprei che dire, io che ho molto amato, dinanzi all’amore resto senza parole. E forse questo è la migliore poesia: una poesia senza parole, come una musica senza note… l’ideale per ogni poeta o musicista.

Marie Laure Colasson

da Un masque rouge fait de pétales de coquelicot

1.

Un masque rouge fait de pétales de coquelicot
empeste d’opium les bouches d’égouts de Paris

Un crâne étiré en pain de sucre
boit assidûment le sang des aigles

Un nain et un géant mongol
détectent l’oreille au sol les confessions d’un merle

La blanche geisha cachée derrière un écran de soie noire
entrevoit l’orifice hideux d’un boa chansonnier satirique

Eredia embrasse à coups de poings
et de mitraillette une monstrueuse ventouse

D’une voix timbrée le siège du bus
écrase une meute survoltée dans un étau de charpentier

Des petits riens s’échappent en tous sens
les couronnes des rois flirtent avec le temps

(inedito)

Una maschera rossa fatta di petali di papavero
impesta d’oppio i tombini di Parigi

Un cranio a forma di pane di zucchero
beve con assiduità il sangue delle aquile

Un nano e un gigante mongolo
percepiscono con l’orecchio al suolo le confessioni d’un merlo.

La bianca geisha nascosta dietro uno schermo di seta nera
intravede l’orifizio schifoso d’un boa chansonnier satirico

Eredia bacia a colpi di pugni
e di mitraglietta una mostruosa ventosa

Con una voce altisonante il sedile dell’autobus
schiaccia una muta esasperata nella morsa di un falegname

Piccoli niente scappano in tutte le direzioni
le corone dei re flirtano con il tempo

Mimmo Pugliese

La barca

La barca è finita in cielo
gli elefanti in salopette stordivano tarocchi

Zigomi e seni quadri marciavano in cassaforte
una ruga di cortisone abbraccia pupazzi di neve

Le lampade della sera si inginocchiano alle tonsille
ha fatto boom il promemoria del gelsomino

Le schiene delle bottiglie dirigono il traffico
dalla tana il dentifricio scavalca la cresta dei galli

Sabbia e sale avevano scarpe intrise di occhiali
bighe contromano masticavano aghi

Posacenere demodè inseguivano molluschi
portapenne a transistor affilavano rasoi

Le trame dei tappeti erano aloni di bocche
dal bagnasciuga spuntava la gobba delle piramidi

Il petto sudava tricicli
sulla cima del ventaglio pioveva

Cornicioni resettano metri di caffè
la catapulta diventa dirigibile

Al centesimo mese dell’anno il sirtaki vomita inchiostro
vetri distopici scarnificano la risacca

Gianni Godi  è nato a Monte Porzio nel ’37 (Pesaro-Urbino). GG è artista transmediale. Per esprimere l’arte in genere sperimenta i nuovi mezzi che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione e questo vale anche per l’arte della scrittura. In un momento di debolezza ha pubblicato a proprie spese il libro di poesie, Memorie di Automi, nel 1986 con “Forum Quinta Generazione”. Nel 1994 ha edito, una sola copia e in proprio, il libro Viaggio Cilindrico nella Materia.  (Date le dimensioni da lui richieste, 160 x220 cm, non ha trovato un editore). Verso la fine degli anni ’90 ha costruito il modello del libro Viaggio Sferico nella Materia ed ha proseguito e prosegue con molti lavori di Videopoesia. È convinto di fare cose bellissime e complicate dalla confusione ed è per questo che da un po’ di tempo ha deciso di dare un taglio sferico alla sua vita museale dove ha finora esposto tutte le sue opere. Alcuni eventi trascorsi: 1985 – Lavatoio Contumaciale – Roma – Sorrisi e Canzoni non stop………2009 – Onishi Gallery – New York – XX WOMEN MADE IN SOUTH OF ITALY- Video e Foto di Donne di San Luca (RC)…2012 Roma – RO.MI. – Videoart – Contamination 5. 2006 FESTA NAZIONALE DELL’UNITÀ – Pesaro – Arti Elettroniche a cura di MM Gazzano – Video-installation Piciedroquadro per single. 2007 Danon Gallery – NY, – THE FLOWER OF BUDDHA Silk and metal carpets from the Forbidden City. Proiezione su parete scura del videoclip Fiore di Loto. 2012 Castelvecchio di Monte Porzio – Pu – 3 GIORNI DI CENERE – rassegna di parole e forme – agosto 2012 – Installazioni e performance in piazza –

2014  Teatro del Lido – Ostia Lido – Con l’Associazione Spazi all’Arte – Proiezione del Cortometraggio TRASH SPLENDOR – https://youtu.be/Y3dswdnVfTM
2015. Un Video inserito nella rappresentazione TEATRALE dell’opera RED ROSES AND DOMESTIC ACID,  di Pilar Castel (Quarzell) andata in scena  nell’agosto 2015 a New York.

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, Calabria Letteraria-Rubbettino Editore, una raccolta di n. 36 poesie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, nonché nella Agenda Poesie kitchen 2023 edite e inedite Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle).

Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore della Antologia Poetry kitchen e del volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato  un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchen, poesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo.

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Le radici della poesia di Marco Tabellione, Poiesis o Dichtung?, Il concetto di poesia da Giambattista Vico ad Heidegger attraverso Jaspers, Derrida fino ai giorni nostri

foto Un abito della collezione autunno inverno 2011 2012 The Rodnik Band intitolato Venere in paillettes che ha reso omaggio a vari artisti ha fatto riferimento alla Fountain di Marcel Duchamp del 1917

Foto della collezione autunno-inverno 2021 che rappresenta Venere in paillettes

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Le radici della poesia

di Marco Tabellione

Studiare la poesia rappresenta sempre un’avventura della mente, ma anche dello spirito e dell’emotività, come se l’arte delle parole riuscisse da sé a dare vita ad un universo globale e complesso, come se la poesia potesse davvero assurgere ad essere tra le arti la più capace a testimoniare l’integrità dell’essere umano, e il significato più profondo di ciò che è precipuamente umano. Del resto l’esaltazione di cui essa gode presso tutte le civiltà, ma anche il blasone che continua a conservare nella contemporaneità testimoniano appieno la sacralità di cui spesso l’arte poetica è rivestita. Per comprenderne le ragioni si può cercare di individuare alcuni autori che hanno tentato di evidenziare il percorso della poesia dalle sue origini, e di chiarirsi i motivi della sua nascita.-

Definire l’arte poetica è impresa a dir poco titanica, perché essa fa parte dei misteri dell’essere umano, in quanto ha accompagnato l’origine e lo sviluppo della civiltà. Giambattista Vico nella sua immensa opera La nuova scienza, tra le facoltà culturali umane pone la sapienza poetica al primo posto in ordine di nascita, molto prima delle altre discipline umanistiche o addirittura delle scienze esatte. L’idea di Vico è che il linguaggio poetico nasca contemporaneamente alla facoltà verbale dell’essere umano, o meglio ancora che il linguaggio nasca con caratteristiche poetiche. Lui immagina i primitivi, che chiama giganti (ma il riferimento è probabilmente alla mitologia greca, ad Esiodo per esempio che indica giganti e titani tra i primi nati dall’unione di Urano e Gaia) alle prese con i misteri e le paure del mondo, li immagina mentre fantasticano su dei e divinità per spiegare i pericoli e le difficoltà delle vite, mentre inventano svariate divinità attraverso cui sentirsi protetti, dalle quali anche farsi punire, nel tentativo di dare vita alle prime forme di organizzazione comunitaria e dunque di legge (Vico nota che Iovis il genitivo di Iuppiter, Giove in latino, ha la stessa radice di ius-iuris cioè legge o giustizia presso i romani). Li immagina passare dal linguaggio gestuale ai primi monosillabi, e successivamente alle prime parole con cui nominare le cose del mondo, sia esistenti sia non esistenti, li vede infine mentre fantasticano e creano l’idea di una trascendenza che possa indirizzarli e guidarli. Ed ecco il miracolo, il passaggio alla base delle culture: dall’ignoranza dei primitivi al sorgere delle prime curiosità, dalla paura e dal mistero suscitati dal mondo naturale alle prime idee di oltre, dimostrate dalla pratica della sepoltura, fino alla creazione delle prime religioni e delle prime cosmogonie. Nasce così non tanto la religione o la metafisica, quanto la poesia, e la poesia nasce come conoscenza, come prima forma di conoscenza che spalanca il campo appunto alla religione e alla metafisica.   

È evidente in questa ricostruzione vichiana la presenza di una particolare idea di poesia, ciò la poesia come creazione, come fare, come dare vita dal nulla. Il linguaggio umano cioè diventa per i primitivi la dimensione dei primi significati da attribuire all’esistenza. Le idee sorgono innanzitutto come parole; è, cioè, il linguaggio, nella sua origine poetica, che dà vita ai significati, i quali non preesistono al linguaggio; e ciò diversamente da come sosterrà Husserl, padre della fenomenologia, secondo il quale invece i significati sarebbero indipendenti dal linguaggio, come dimostra il caso ricorrente in cui sosteniamo che abbiamo l’idea ma non ci viene la parola. Altri filosofi, al contrario di Husserl, proseguiranno sul solco di Vico, fino al caso estremo di Jacques Derrida che sosteneva che “tutto è linguaggio”. Per Vico indubbiamente se non tutto è linguaggio, sicuramente vale il principio espresso nel vangelo di san Giovanni, secondo il quale come è noto “In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio e il verbo era Dio”. Sappiamo che per Vico tale impostazione (di significato primariamente teologico) vale nel senso del carattere iniziatico che il linguaggio avrebbe nella sua origine appunto poetica, tanto che la lingua costituirebbe lo scopo stesso del pensare umano, o meglio pensiero e linguaggio sarebbero in sostanza la stessa cosa, come è anche nell’idea dei greci che utilizzano la parola logos per indicare entrambi.

Gli stessi greci inoltre ci offrono etimologicamente la parola che noi utilizziamo per indicare poesia, cioè poiesis, che vuol dire appunto creare, e che ci permetterebbe di vedere nel poeta soprattutto il creatore, come creatori di linguaggio e pensiero furono i primi parlanti. Il poeta, cioè, secondo questa visione sarebbe un creatore, e creatori di linguaggio e dunque di poesia furono gli arcaici uomini preistorici che diedero vita alle prime forme verbali, probabilmente per costruzione onomatopeica.

Vico, a questo proposito, addirittura sostiene che le idee non nascono prima del linguaggio, sarebbero piuttosto conseguenti al linguaggio, perché la concretezza fisica, a cui i giganti primitivi erano legati, li avrebbe portati a creare prima il verbo fisico e poi le idee spirituali, i concetti. Va detto però che tale idea di poesia non è la sola avvallata dalle tradizioni e dalle civiltà che si sono susseguite nei secoli. Il romanticismo, ad esempio, ha sì mantenuto l’esaltazione della creatività del poeta, ma lo ha considerato come una specie di invasato, di posseduto dal linguaggio poetico, che sorge nella sua mente per servirsi di essa quasi come strumento, secondo una visione che tende a considerare il poeta come un mezzo della lingua e non viceversa. In base a questa interpretazione, la visione del poeta muove sempre da una ispirazione; è il sorgere misterioso e spontaneo dell’empito creativo che determina il primo germe del fare poetico, e l’ispirazione non nasce dalla individualità cosciente del poeta, da una sua volontarietà, piuttosto gli viene regalata.

Non per niente, Dante nel primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di ispirarlo, di offrigli una sorta di apporto divino, la vocazione profonda dell’arte delle parole di cui Apollo è protettore. Lo invoca perché Dante sa che da solo non è affatto in grado di dare un resoconto seppur sommario della sua estatica esperienza paradisiaca, poiché, dice in sostanza l’Alighieri, con le sole armi della poesia come arte, come tecnica (l’un giogo di Parnaso) non si potrebbe dare inizio a questo, per altro inutile e fallito in partenza, tentativo di dire l’esperienza del divino. A monte della creatività poetica, c’è dunque l’ispirazione, non sono l’abilità creativa, anzi la sorgente stessa dell’afflato poetico non è che in questo monito linguistico e immaginativo che sembra nascere indipendentemente al di fuori.

Ma che cos’è allora questo originario germoglio poetico? Difficilissimo dirlo, a meno che non ci si rivolga ad Heidegger, il quale, come ha ricordato Massimo Cacciari in molte conferenze dedicate all’unicità del linguaggio poetico, per le ragioni sopra esposte non utilizza il termine di origine greca poesie, ma quello latino di Dichtung, che potremmo tradurre con “dettato”. Il poeta cioè ubbidisce ad un dettato interiore, e ciò è lo stesso Dante ad affermarlo quando, dopo aver incontrato nel Purgatorio il poeta pre-stilnovista Bonagiunta Orbicciani, che gli chiede da dove derivi il suo “dolce stil novo”, risponde facendo proprio riferimento ad un dettato interiore “Io sono uno che come detta il cuore scrive” (alla lettera: “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”).

Scrivere o meglio ancora poetare, secondo questa visione non vuol dire tanto creare, cioè plasmare, mettere in atto un’abilità, un fare (poiesis appunto), ma vuol dire seguire un dettato, ubbidirgli addirittura, e non per niente il temine Dichtung etimologicamente si ricollega anche a quello di dictator, che a Roma designava la carica temporanea di sei mesi assunta in caso di pericolo per le istituzioni, termine dal quale poi deriva quello spregiato di “dittatore”. Per Heidegger la Dchtung è innanzitutto linguaggio, linguaggio però che si detta, si dà all’ascolto del poeta, per cui essere poeta vuol dire primariamente ascoltare e non parlare, vuol dire cioè ascoltare un linguaggio interiore. L’idea di linguaggio interiore fu formulato tra i primi da Vygotskij, linguista russo vissuto durante la dittatura staliniana e affidato allo studio di bambini problematici, il quale mise in relazione l’acquisizione dall’ambiente culturale di stimoli linguistici, da rielaborare individualmente, con i progressi dell’apprendimento. Su un versante ancora più misterioso e ovviamente metafisico Heidegger giunse ad individuare addirittura una completa identità tra il linguaggio interiore e l’essere stesso, vedendo nel linguaggio “la casa dell’essere”.

Nella visione di Heidegger il linguaggio, e ancor più il linguaggio poetico, non sarebbe solo uno strumento di comunicazione o espressione, ma sarebbe la fonte stessa delle idee, la forma materica che permette la nascita delle idee, le quali non preesistono al linguaggio e, rappresentando la fonte stessa della coscienza, sarebbero collegate con l’essere profondo dell’uomo fino ad influenzarlo radicalmente. Poetare dunque non vorrebbe dire solo fare, creare (poiesis) vuol dire innanzitutto immaginare il linguaggio, cioè rispondere alla Dichtung che abita ognuno di noi, e dunque in ultima istanza poetare vuol dire essere contattando l’essere. È probabilmente lo stesso tipo di identità tra linguaggio ed essere che spingeva Rimbaud ad affermare “io non penso ma sono pensato”. Come è noto Rimbaud appena adolescente paragonò il poeta ad un veggente, sottolineando la necessità di un’azione poetica che fosse innanzitutto aperta all’ascolto, e successivamente dialogo della ragione con questa matrice profonda dell’essere umano. Le Illuminations già dal titolo sottolineano questa specie di accensione di luce che la poesia comporta, in un senso che non coincide ovviamente con l’amissione razionalistica dell’illuminismo, il quale utilizzò la metafora già religiosa della luce, in un’accezione laica se non addirittura ateistica, per indicare la funzione totalizzante della ragione. In Rimbaud torna il significato mistico dell’illuminazione, nella quale però la ragione non è abolita, ma dialoga con le profondità dell’essere umano.

Dunque Poiesis o Dichtung? Entrambi si dovrebbe dire, nel senso che, essendo artista, anche il poeta si muove in un ambito di abilità, linguistiche o metriche o musicali, le quali abilità richiedono talento ed estro. Pur tuttavia è evidente che senza l’ispirazione originaria l’arte diventerebbe ben poca cosa; in fondo è lo stesso Dante a riconoscerlo, quando nel citato primo canto del Paradiso chiede ad Apollo di assisterlo con entrambi “i gioghi del Parnaso”, perché ora l’autore della Divina Commedia confessa di aver bisogno soprattutto dell’ispirazione per poter proseguire.

L’esistenza di un monumento linguistico letterario nel profondo di ogni essere umano, per cui essere poeti e scrittori vuol dire appunto attingere da questo spazio di ricchezza, può essere comprovata dalla teoria di Jung sull’inconscio collettivo. Jung chiama in causa gli archetipi, e li riprendi da quelli che Freud invece tratta come simboli arcaici. Si tratta di componenti psichici collettivi, derivati da sedimenti che non interessano le individualità in quanto tali, ma in quanto individualità appartenenti al genere umano. Il modo che l’inconscio ha di rivelare tali archetipi assomiglia moltissimo al linguaggio simbolico della poesia, tanto da autorizzare a dire che si tratta dello stesso tipo di meccanismo psicologico e linguistico.

Jung sostiene che molti simboli onirici, i quali si rivelano nei sogni delle persone, non possono essere spiegati solo con le vicissitudini del singolo, ma rimandano ad un sostrato collettivo, dal quale il nostro inconscio attinge per le sue formazioni simboliche. Questa comune radice linguistico-simbolica, che risiede nell’uomo un po’ come gli istinti che agiscono negli animali – istinti il cui sorgere misterioso è utilizzato da Jung per motivare il sorgere altrettanto misterioso degli archetipi umani – questa radice archetipica, si diceva, non solo ha anche fare con le formazioni mitologiche dei popoli arcaici, ma appare vicina alla radice stessa della poesia. In un certo senso Vico anticipa Jung, quando descrive la nascita della propensione linguistica nell’essere umano definendola poetica a priori, e probabilmente il filosofo napoletano si riferisce inconsapevolmente ad un motivo arcaico, una tendenza simbolica e immaginativa, non lontana dalla dimensione psichica in cui si formarono gli archetipi collettivi junghiani.

Fase generativa, misteriosa e arcana, la quale ha a che fare con esperienze che Vico definisce divinatorie, e che investono le prime due età della storia umana individuate dall’autore della Scienza nuova, vale a dire quella sacra e quella eroica, dominate rispettivamente dalla percezione sensoriale e da quella sentimentale e passionale, mentre raziocinio e consapevolezza logica sarebbero state acquisite dall’uomo solo durante un terzo stadio. In definitiva nel secondo periodo quando l’uomo è già immerso in una configurazione passionale e sentimentale della propria visione del mondo, la necessità relazionale avrebbe spinto i nostri antenati ad elaborare la dimensione linguistica grazie alla quale sarebbero giunti a nominare e a significare la realtà, a determinare la coscienza – cioè una consapevolezza sempre più progredita sul mondo – e a produrre quell’incredibile creazione affabulatoria che darà vita alla mitologia e alle religioni, che a loro volta contribuiscono a rimpinguare la coscienza stessa.

Ma, lo ripetiamo, questa straordinaria sequenza sorge da un atteggiamento iniziale e iniziatico che è già poetico, è già poesia. Ecco perché Heidegger sosterrà che la poesia prima di creare ascolta; dal silenzio, come direbbe Ungaretti, essa tira fuori le parole e i loro connotati simbolici per offrirli alla collettività, e riesce a farlo perché attinge da un tesoro che è a sua volta collettivo, se ha ragione Jung quando parla di inconscio collettivo e va a riscoprire i miti antichi per avere conferma delle sue intuizioni. Scrivere poesia, adagiarsi sul linguaggio interiore, farlo parlare, non vuol dire solo dare vita ad un’esperienza artistica o estetica, o peggio semplicemente culturale, vuol dire contattare l’essere nella sua forma più pura, secondo quelle coordinate che Karl Jaspers, forse più di Heidegger, ha proposto. In Metafisica Jaspers sostiene che se l’esser-ci, la nostra sola sola possibilità di vivere l’essere, cioè essere qui e ora, viene vissuto nella consapevolezza della resa al mondo, cioè nella forma della contemplazione, allora l’essere, che è trascendenza ma anche immanenza, può davvero rivelarsi a noi, possiamo davvero cogliere “la meraviglia dell’essere” nonostante la nostra condanna alla consunzione, cioè al vivere per morire, ciò che il filosofo tedesco chiama “naufragio”. Ma questo cammino finale, questo incontro con l’essere è appunto la grande tentazione della poesia e del linguaggio, è la sua finalità fin dagli albori linguistici; è l’obiettivo di “dire l’essere”, che la poesia continua a perseguire da sempre, fallendo ogni volta e ogni volta ricominciando, come “Adamo che dà il nome alle cose”.

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Marco-Tabellione-2021Marco Tabellione (5.5.1965), laureato nel ’91 in lettere moderne all’università “G. D’Annunzio” di Chieti, con una tesi sulle avanguardie poetiche degli anni Sessanta, specializzato alla LUISS di Roma in giornalismo. Collabora con quotidiani e riviste letterarie nazionali e insegna materie letterarie. Vincitore a Perugia nel 1990 del premio di poesia intitolato a Sandro Penna, nel 1998 ha vinto il premio “Giovani autori” curato dalla Fondazione Caripe di Pescara, mentre nel 1999 il premio “Palazzo Grosso” di Riva presso Chieri (Torino) con il volume di poesie Incanti. Nel 2003 con la raccolta Tra cielo e mare è stato tra i vincitori del concorso “Adottiamo uno scrittore” indetto dalla provincia di Pescara, e nel 2004 si è classificato secondo al premio abruzzese Sant’Egidio indetto dalla cooperativa Tracce di Pescara. Per le edizioni Tracce di Pescara ha pubblicato nel 1995 la raccolta di poesie Gli uni e gli altri bui e il saggio sul giornalismo televisivo L’immagine che uccide. Nel 1998 è stata pubblicata la raccolta di poesie InCanti, sempre per le edizioni Tracce, mentre nel 2000 le edizioni Samizdat di Pescara hanno curato la raccolta di versi, L’alba e l’ala. Nel 2001 è uscito il suo primo romanzo Il riso dell’angelo per le edizioni Tracce, mentre risale all’anno 2002 il saggio di letteratura La cura dell’attimo edito da Samizdat di Pescara. Nel 2003 è uscita l’ultima raccolta di poesie intitolata Tra cielo e mare e pubblicata anch’essa da Tracce. Nel 2009 è uscito il romanzo L’isola delle crisalidi per le edizioni Runde Taarn, che nel 2010 ha vinto il premio Zenone riservato alla narrativa. Lo stesso romanzo L’isola delle crisalidi nel 2010 è risultato finalista al premio Lamerica e ha vinto il premio speciale della giuria al premio De Lollis. Nel 2011 ha vinto il premio di poesia Spinea e nel 2012 è giunto secondo al premio “Liliana Bragaglia” con il racconto inedito La bottega del libraio. Infine nel 2013 ha vinto il premio di giornalismo sezione ambiente “Vivi l’Abruzzo”. Nel 2015 è uscito il suo ultimo libro, il saggio Il canto silenzioso, viaggio nei segreti della poesia (edizioni Solfanelli) premiato nello stesso anno al premio di saggistica Città delle Rose di Roseto e finalista al premio Roccamorice. Nel 2016 il racconto L’uomo che decise di morire sulla Maiella ha ottenuto il premio speciale della giuria al premio sulla Letteratura paesaggistica. Nel 2017 è giunto terzo al premio nazionale di poesia di Civitaquana e la raccolta inedita Ogni voce si è classificata seconda al premio Pablo Neruda. Nel 2018 il volume di versi L’eternità dell’acqua (2017) è risultato vincitore del primo premio per la poesia alla rassegna dell’editoria abruzzese e nel 2019 ha conseguito il premio Maiella per la poesia, con la raccolta inedita Ogni voce il primo premio al concorso Il parco di Antonino. Nel 2021 è uscito il suo ultimo romanzo La vita che non muore per le edizioni Il viandante.

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Lettera di Simone Carunchio a Giorgio Linguaglosa a proposito della presentazione della Antologia Poetry kitchen tenutasi alla Fiera del Libro di Roma, La Nuvola, l’11 dicembre 2022, con l’elenco degli assiomi e delle linee di forza della poetry kitchen e due poesie dell’autore, La fine della Metafisica?

Il Mangiaparole 18 Poetry kitchen

Caro Giorgio,

Mi auguro tutto bene per te. Per me non c’è male.

Come sempre ringrazio te e tutta la redazione e i poeti che si aggirano all’Ombra per gli spunti di riflessione che vengono proposti. Ultimamente non sono più riuscito molto a seguire e ancor meno a partecipare alle discussioni sull’Ombra delle parole. Un po’ perché la produzione è talmente ampia da lasciare storditi; un po’ perché avevo bisogno di ‘disintossicarmi’; un po’ perché ho smesso di fare il pendolare e, quindi, avevo meno tempo di leggere altre carte che non fossero quelle di lavoro.

Mi sono però interessato. A fondo, all’antologia Poetry kitchen. E di questo vorrei parlare. Impulso che mi è venuto soprattutto dopo aver assistito alla presentazione del libro alla Fiera del libro di Roma dell’11 dicembre 2022. Come sai, mi occupo del giuridico, in particolare tributario, e, pertanto, in questi ultimi tre anni da fare ce n’è stato moltissimo a causa del fatto che quasi tutti gli aiuti statali erogati per fronteggiare le varie urgenze, prima sanitaria e poi bellica, sono passate per il fisco. Materia, quella tributaria, peraltro, ancora alla fase embrionale (rispetto per esempio al diritto civile).

Prendo spunto da queste brevi note iniziali, concernenti in particolare la mia utile attività, per mettere subito in chiaro, come già feci presente anni fa (era il 2017, ormai, quando ti inviai una lettera sulla NOE, poi pubblicata il 5 giugno 2017 su L’Ombra delle parole, sui temi del frattale, dello spossessamento dell’io e del giudizio), che non mi trovo affatto in accordo con espressioni tipo “la fine della metafisica”. La metafisica, infatti, che si concretizza in tutto ciò che esiste (ma magari non c’è, ma talvolta anche sì), si manifesta quotidianamente, a mio parere, in primo luogo nell’istituzione, la quale non è finita per niente; anzi: pare più viva che mai! Forse anche troppo! Ciò che è venuto a mancare è l’ontologia, il discorso sull’essere (e il dover essere e il non essere e il poter essere), il quale è talmente complesso che racchiuderlo in solo discorso pare davvero impresa impossibile.

In ogni caso, forse, si sta dicendo la stessa cosa, solo utilizzando e sostituendo i due diversi vocaboli. E così arrivo a bomba a uno dei capisaldi del tuo Saggio introduttivo La poetry kitchen presente in apertura dell’antologia di poesia contemporanea Poetry Kitchen: la fine della metafisica.

Comunque sia, premetto, prima di addentrarmi nell’analisi del Saggio, oggetto primario di questo intervento scritto, che, come già affermato in precedenza, mi sono deciso a scriverti in proposito perché, come sai (o almeno credo che tu sappia), sono stato presente alla presentazione della suddetta antologia alla Fiera del libro di Roma del 2022 di pochi giorni fa, riuscendo a comprendere meglio il ‘gesto’ insito nel modo di fare poesia in Cucina. Ciò che ho appreso in presenza è l’oggetto secondario di questo intervento scritto. Naturalmente il mio scopo attuale è quello di spingere sempre più in là il pensiero.

Antologia Poetry kitchen

Orbene, che si ricava dal Saggio introduttivo?

Sulla base di un solido pensiero filosofico (Žižek e Agamben in primis, ma anche Platone; Foucault, Lyotard, Wittgenstein, Adorno, Baudrillard, Welsch, Desideri, Ferraris, Leopardi, Marx, Heidegger), che prende in considerazione la sociologia, la psicoanalisi, la politica, l’esistenzialismo, mi sembra che si affermi:

– che la realtà, la vita, è troppo per essere presentabile e trattabile;
– che l’ideologia è di supporto alla realtà;
– che la realtà è divenuta liquida;
– che la realtà è relativa (compreso il soggetto e l’oggetto);
– che la realtà è divenuta tecnologica;
– che si è nell’epoca della fine della metafisica;
– che l’umanità è suicidaria;
– che il linguaggio non ha più contatti con la realtà;
– che il soggetto è assoggettato al linguaggio;
– che il soggetto ‘artistico’ cerca di dominare il linguaggio;
– che l’arte è imitazione di imitazione di idee (imitazione della realtà?);
– che l’arte è tale perché lo decide un’autorità;
– che qualsiasi oggetto può divenire arte (e che quindi c’è un progresso fenomenologico sociale nel quale l’arte da aulica è divenuta bassa);
– che nell’arte c’è un di più che corrisponde a ciò che non c’è;
– che il concetto di mimesis non è più valido;
– che la nuova poesia è evento linguistico (e che pertanto rappresenta se stesso?);
– che la nuova poesia è affollata di mondo;
– che la nuova poesia corrisponde al sublime tecnologico;
– che la nuova poesia non ha più messaggi da inviare;
– che la nuova poesia ha origine in un luogo (mistico) precedente al linguaggio (alla lingua?) (Es, Inconscio, Preconscio) (fondamento negativo);
– che la nuova poesia è fuori dal significato, dal significante e, forse, anche dal significativo;
– che la nuova poesia è gratuita;
– che la nuova poesia è rivoluzionaria (poiché tende a nuovo ordine delle cose);
– che la nuova poesia è performativa (è quello che è);
– che il nuovo poeta non vuole dominare il linguaggio;
– che la nuova poesia è realistica al massimo grado, in quanto irrealistica;
– che la nuova poesia non ha più niente da dire;
– che la nuova poesia non propone nessuna etica (morale?);
– che la nuova poesia questiona la verità;
– che la nuova poesia è un prodotto dell’attività immaginativa e della tecnica;
– che la nuova poesia ha come tecnica di riferimento quella del cinema (montaggio) (e che quindi sintassi e semantica sono ‘antiquate’);
– che la nuova poesia, come qualsiasi prodotto della creazione, ha come scopo il non detto;
– che la questione fondamentale è l’adattamento al Nuovo in gioco di perenne dialettica (degli opposti, dei contrari, della contraddizione).

Corretta la ricostruzione del messaggio del Saggio? Mi pare di sì. Eh sì: la dialettica, la dialettica degli opposti. Quando un discorso può effettivamente dirsi vero (e non falso)? Forse solo quando è contraddittorio, poiché rappresenta fedelmente la realtà, o meglio la percezione logica della realtà, la quale, come dimostra la fenomenologia, quando è sottoposta ad analisi (la realtà), essa non può che apparire contraddittoria: è la struttura della lingua fonetica (esemplare in questo senso è Linee di fenomenologia del diritto di Kojève: alla fine della storia – che si potrebbe anche identificare con il presente non analizzato – il diritto è tutto e niente allo stesso tempo).

Il Saggio introduttivo mi pare che sia perfettamente dialettico nella sua logica consequenzialità. Per esempio: la poesia non ha più niente da dire, ma dice la questione della verità; la poesia è nella verità che rappresenta se stessa, ma essa rappresenta la realtà liquida; il soggetto artistico tenta di dominare il linguaggio, ma il poeta non vuole dominare il linguaggio; etc. Un discorso dialettico così strutturato è un discorso forte, difficile da attaccare. Per farlo, rispettando la stessa dialettica, è necessario quindi porre di fronte al testo un contesto diverso e, in più, identificare alcuni valori, alcune fondamenta, che non sono messi in discussione nel testo ma ne appaiono come i capisaldi.

Un primo fondamento è il seguente: la poesia è un’arte. Ma siamo certi di questo?

Un secondo fondamento è che il nulla possa produrre l’essere. Ma siamo certi di questo?

Relativamente a tale ultima questione (che poi ci può condurre alla prima), la quale deriva da un’impostazione esistenzialmente atea, si può opporre, per esempio, il pensiero religioso, nel quale si afferma: come è possibile affermare, come fanno in molti, che dal nulla scaturisca qualcosa? Solo da una cosa può scaturire una cosa: il non essere è una cosa come anche l’essere è una cosa (tra i vari: Kardec, Il libro degli spiriti). Certamente è poi possibile discettare su che tipo di cosa sia: ci sono cose che esistono, ma non ci sono (per esempio la responsabilità), e ci sono cose che esistono e ci sono (per esempio un bicchiere).

E tale questione interpretativa si pone al massimo grado nella lingua e nelle creazioni effettuate mediante la stessa, ossia, in particolare nella poesia. Nell’ambito delle altre arti (pittura, scultura, fotografia, musica, cinema, etc.), vale a dire di altri linguaggi, la questione del non essere si pone più che altro in via speculativa, ossia di discorso (naturalmente logico) sull’opera d’arte, e non afferisce direttamente all’opera in sé, la quale è lì, presente, nella complessità dei suoi significati nell’istante stesso della fruizione.

Ecco che quindi la riconducibilità della poesia alle altre arti (e pertanto alla loro condizione di prodotto di mercato) mi pare non così scontata (senza contare il diverso impegno degli arti, del corpo, nelle arti e nella poesia, la differente fruizione da parte dell’utente, etc.). Ne consegue, quindi, che anche l’analogia tra l’artista e il poeta possa e debba essere messa in discussione (e quindi dovrebbe essere messa in discussione la comunanza che tra le varie categorie della creazione è stata effettuata dalle avanguardie del secolo scorso).

In questo senso il ruolo del poeta e dell’artista nel mondo contemporaneo dovrebbero forse essere distinti: il poeta mi pare che possa sopportare una ricostruzione della realtà, nella sua verità, molto più complessa di quello che può avvenire nelle altre arti, soprattutto per la semplicità tecnica del suo mezzo, la quale non ha necessità di importanti supporti esterni (quali apparecchi e strumenti vari).

In più il poeta ha a disposizione la stessa ‘materia’ delle istituzioni: le parole. Ecco che quindi il fascino per il cinema non può eliminare le tecniche proprie della parola: retorica e sintassi in primo luogo. Inoltre non è possibile scappare al senso: esso può essere latente o patente, ma è comunque presente (anche perché, comunque sia, la letteratura è sempre autobiografica, che essa espliciti l’io o meno). O almeno il lettore è automaticamente indotto a cercarlo.

Per esempio, io lettore ho dato un senso ai versi della Tagher e di Intini citati nel Saggio: Ewa si rende conto che non può sfuggire al senso (e il senso attualmente è quello del galoppatoio, quale metafora della condizione umana nella nostra società), o, meglio, che per lasciare gli stacci ha necessità di cominciare a galoppare; e Intini sopravvive alla socialità (scafandri e onde radio quale metafora della stessa società organizzata come un galoppatoio) per cercare qualcosa di intimo. In questo senso ho quindi trovato piacere in altre poesie, le quali mi hanno permesso di interpretare la realtà diversamente da come mi capita di fare in automatico. Continua a leggere

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Ilya Yashin, Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”, Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto, Commenti di Marie Laure Colasson, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa

 

Il Mangiaparole 18 Poetry kitchen
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twiter poetry di Giorgio Linguaglossa

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La ferita alla spalla Diomede l’ha guarita con insert di acido ialuronico antiadesivo, anticoagulante e ibuprofene
Erinomaco attraversando lo Scamandro ha incontrato una freccia in un occhio
Briseide è ingrassata ed è stata ripudiata
Aspasia fa la cura dimagrante
Eudossia guarda il televisore e si gode Odisseo che nel frattempo è tornato ad Itaca da quella megera di Penelope
Demostene è stato sostituito da Piantedosi
Il price cap è stato fissato a 60 euro al barile

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Giorgio Linguaglossa
5 novembre 2022 alle 17:18

È cosa nota la determinazione heideggeriana dell’essenza della metafisica come oblio della differenza di essere ed essente, nonché la contrapposizione del pensiero metafisico ad un pensiero più originario che che viene individuato da Heidegger nei detti dei pensatori aurorali presocratici. Si presenta così un contrasto: un’immagine della storia dell’essere che comincia con il pensiero autentico aurorale per poi cadere nell’oblio della differenza con l’avvento di Platone di contro ad un’immagine che pone la stessa storia dell’essere come storia dell’oblio – togliendo, allora, ogni compiuto riferimento autentico all’essenza dell’essere.
Per Heidegger la Seinsvergessenheit – l’oblio dell’essenza dell’essere, sarebbe succeduta ad un pensiero aurorale più autentico che sconosceva la Seinsvergessenheit. Da qui ecco il Wesen, l’Ente È qui in questione l’inizio della Metafisica – la quale resta pur sempre il pensiero dell’oblio.

Giunti alla fine della Seinsvergessenheit, adesso sappiamo (da Massimo Cacciari, Krisis, del 1976) che all’origine del linguaggio non c’è la parola ma il «grido», il grido di spavento e di terrore dell’homo sapiens perso nella savana che si ritira e si dirada. Giunti alla fine della metafisica e alla fine della storia, dunque, torniamo al «grido», alla «parola piena», alla parola «positiva», «ostensiva», alla parola performativa che esaurisce le sue significazioni nel detto, nell’integralmente detto. Nella situazione attuale della storia ridotta a storialità e della fine della metafisica ridotta a fuori-della-metafisica, la parola così deiettata ridiventa «piena», priva di sfumature semantiche. Ci troviamo nell’epoca della comunicazione universale che deprime ogni sfumatura di senso e preferisce la differenza bianco/nero dove il chiaroscuro viene tendenzialmente cancellato e rimosso e il Grande Altro tende a occupare e sostituire il piccolo altro… ed ecco la parola che rimbalza come una pallina di gomma…

Marie Laure Colasson
5 novembre 2022 alle 19:31

Scrive Linguaglossa :

«Nasce allora il Partito poetico a vocazione maggioritaria. Ecco, il mio lavoro fin dagli anni novanta ad oggi si è diretto a infrangere il tegumento del Partito poetico a vocazione maggioritaria. Il Logos chiama il Nomos, potremmo dire, la parola ha perso se stessa, vaga in una zona di compromissione nella quale a latitare è il significato, il referente, l’oggetto e che nulla lo giustifica, né il soggetto egolalico né l’oggetto posizionato… la parola liberata apre al discorso libero e liberato… così nel mondo storializzato (privo di storia) la poesia del novecento si allontana alla velocità della luce…»

Così, scopriamo che il Partito poetico a vocazione maggioritaria che fa della poetologia è rimasto privo di giustificazione, scopriamo che è arbitrario, né più e né meno come il disegno di decreto legge messo giù dal ministro Piantedosi dove ti accorgi che la norma manca di oggetto, davvero! l’oggetto è scomparso, si parla di “raduni” di 50+1 persone… Non si era mai vista prima d’ora una formulazione di tal fatta: è il mondo storializzato dove tutto è possibile perché tutto è arbitrario. Il linguaggio si sta storializzando. Così una norma che commina fino a 6 anni di carcere in realtà è senza oggetto, si parla di “raduno”, e il cittadino diligente d’ora in avanti dovrà prima fare il conteggio di quante persone ci siano in un “raduno”, se sono 49 potrà partecipare ma se sono 50, NO, perché a 51 scatta la sanzione penale fino a 6 anni di carcere. È talmente grossolana questa norma con la filosofia che la sottende che, ecco: le parole finalmente liberate si rivelano arbitrarie. La ideologia che sostiene e sottende quelle parole si rivela essere ancora più grossolana, rozza, inquisitoria, totalitaria. Evidentemente Piantedosi è andato a scuola di normazione da Putin!

Due domande a Giorgio Linguaglossa

6 novembre 2022 alle 15:21

Domanda: Una strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica?

Risposta. Sì, è una lotta incessante perché il «significato» permea il linguaggio comunicazionale impedendo di scorgere ciò che è al di là di esso, il significato è la cadaverizzazione del linguaggio… e la Musa muore anch’essa soffocata dai truismi e dai convenzionalismi.

Domanda: «Il non-senso sfugge alle leggi che governano il sistema capitalistico»?

Risposta: Penso di no, penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore, del significante e della accumulazione del capitale che in sé è un non significato in quanto atto di fede. Nient’altro.
Il capitalismo è una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede, si ha fede nella crescita del capitale e nella bontà di questa crescita come il credente ha fede in Dio e nella bontà delle sue azioni. Se cessasse la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cesserebbe di colpo anche il capitalismo. Entrambe le fedi: in Dio e nel Capitale sono legate insieme in un modo misterioso…

Marie Laure Colasson
14 giugno 2021 alle 19:43

Sulle ragioni della Crisi

Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:

«Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club – racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. – «Joyce, Duchamp, Picasso, Brèton… ci trovavamo alla Coupole dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

Francesco Paolo Intini
2 novembre 2022 alle 13:04

Caro Antonio Sagredo,

prima di scrivere sull’Ombra ho cercato di imitare Majakovskij, ma anche un po’ Esenin e Lorca, Eliot e Pound e Transtromer e da quando la mia frequentazione su questo giornale è diventata costante, chiunque mi sia capitato a tiro compreso Linguaglossa e tutti gli amici che sai e che fanno a meno di raccontarsi a partire dal proprio io. Perciò è difficile stabilire cosa di realmente mio sia rimasto.
Penso a una specie di deflagrazione dei linguaggi come se tutti questi poeti avessero incontrato sotto i loro piedi una mina colma di tritolo ed al sottoscritto toccasse di ricomporli seguendo i contorni di un puzzle assurdo. Tentativo goffo e destinato a perdersi o ad essere irriso da chi cercasse nell’ opera qualcosa di somigliante alla completezza e alla logica.

Confesso però che c’è un certo piacere nel ricomporli alla luce di qualche stacchetto pubblicitario e al mondo perfetto della cucina. Provo perciò a barcamenarmi in questo Stige e a portare a riva qualche verso pellegrino. Ma come ben sai mica è facile l’entrata nella città di Dite. Angeli delle tenebre stanno lì a guardia, pronti ad arpionarli e rigettarli al largo. Molti sono i peccati da pagare e anche qui ci vuole intelligenza, grazia e molta pazienza per andare avanti. Ciao.

Ilya Yashin

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Ilya Yashin

Il testamento di un oppositore russo colpevole di aver detto la parola “guerra”
07 dic 2022 da Il Foglio

Esorta i russi a combattere, opporsi, essere ottimisti per contrastare il regime di Putin: è il discorso che Ilya Yashin ha tenuto alla fine del processo che lo vede imputato per non aver usato l’espressione “operazione speciale” in riferimento all’invasione dell’Ucraina. Il discorso che l’oppositore russo Ilya Yashin ha tenuto alla fine del processo che lo vede imputato per aver usato la parola “guerra”. È stata proposta una condanna a nove anni da trascorrere in una colonia penale. 

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Intervista a Roberto Bertoldo sul libro Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022, L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione? Dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia, Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa F acrilico, 225x40
[Marie Laure Colasson, Medusa, Struttura dissipativa, acrilico 30×50, 2020]
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In questo quadro di Marie Laure Colasson siamo in presenza di un rovesciamento di tutti i codici figurali e di tutte le opposizioni distintive che fondano i sistemi dominanti (soggetto/oggetto, significante/significato, maschile/femminile, vita/morte ecc.); un rovesciamento non dialettico, ma parossistico, auto contraddittorio. Viviamo in una società che ha de-realizzato il reale e de-fondamentalizzato il soggetto, che ha sostituito il nome del Padre con il nome della Seduzione, e con ciò ogni opposizione al simulacro e alla simulazione riesce vana.
«Tutta la strategia della seduzione è di portare le cose all’apparenza pura, di farle irradiare e consumarsi nel gioco dell’apparenza».1 L’apparenza apparisce in virtù di un esorcismo, come un atto magico, come la testa di una medusa iridescente che appare nel quadro e che irradia il suo mana, veicola il farmaco inebriante del sortilegio, della albagia, dello stordimento. L’apparenza è illusione, l’illusione è apparenza e la superficie è l’illusione suprema dell’apparenza e il suo esorcismo. Nel quadro di Marie Laure Colasson il sortilegio ha il suo esorcismo, la sua formula magica, la sua vittoria tragica e il suo telos. Cessata la ragione della figuralità, resta la irragione del sortilegio. Se l’illusione muore per eccesso di realtà, resta la sua ambigua vertigine, il potere illusorio della vertigine. Gran parte della nostra cultura (scientifica, sociologica, filosofica, psicoanalitica), così impregnata del soggettivismo prospettico e così sensibile alle costruzioni e alle decostruzioni ermeneutiche, si affanna ancora a cercare sistemi di senso e di consenso tendenti ad una comprensione razionale e oggettiva del reale; tuttavia, ciò che sfugge è l’oggetto della sua stessa visione, la quale non è più figurabile in alcuna figuralità.
Il tutto diventa ambiguo, reversibile e paradossale. L’escalation esponenziale dei codici che riproducono incessantemente se stessi come simulacri di simulacri, si risolve nell’auto annientamento. Chi vive nella convinzione del reale è destinato a morire di reale, l’assenza del falso e del similoro condanna l’originale ad essere il falso e il similoro. In questa dépense, in questo gioco della reversibilità dei codici, si annuncia la trasparenza del reale.
L’esorcismo, dunque, si fa più pressante, in esso la fascinazione dell’osceno divora la scena, il suo spettacolo e la sua illusione contagiano tutte le forme trasparenti di informazione; la reversibilità e la contiguità non sono più soltanto i principi che regolano il simbolico, ma diventa l’ironia dell’Oggetto, il suo scaltro genio, la sua superpotenza maligna, il suo trionfo sul soggetto, il suo non lasciarsi imprigionare da nessuno specchio e da nessuna ermeneutica. Tutto è contiguo, ergo, tutto è reversibile nel suo opposto e nell’adiacente. L’eccesso del disordine simbolico è lo specchio delle nostre brame. Ma lo specchio avrà la sua vendetta e, con esso, la fascinazione che ne promana si riversa sul soggetto che ne frattempo è scomparso. La verità del reale si sottrae al reale. E quel che resta è il sortilegio.

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J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, p. 61.
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(Giorgio Linguaglossa)
foto A monument in Moscow to an early Soviet-era tactical nuclear bomb
Monumento a Mosca al missile dell’era sovietica. Nel 2016 all’uscita della stazione Metro Kuzmin è stato allestito il Viale degli Eroi della Seconda guerra mondiale composto oltre che da emblemi della tecnica militare sovietica anche da 15 lapidi commemorative. Il parco è dedicato a Feodor Aleksandrovic Poletaev (Riazan 1909- Cantalupo Ligure 1945) che combattè in Italia al fianco dei partigiani italiani. Il parco si completa con strade pedonali, parchi giochi per bambini e piste ciclabili.
L’illusione muore per eccesso di realtà o è la realtà che muore per eccesso di illusione?
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Gif pistola Hitchcock

Una mano impugna una pistola. Una porta si sta chiudendo, una figura esce di scena, il revolver è puntato verso la porta che si chiude. Un interno riguarda sempre una scena di delitto, perché nella società borghese c’è sempre un delitto da nascondere e un delitto da allestire come in una scenografia di palcoscenico. Anche in una poesia che non voglia essere oleografica e decorativa c’è sempre un delitto manifesto o latente che bussa alle porte dell’inconscio per venire alla luce… Lo sguardo poliziesco tipico della nostra forma di civiltà è lo sguardo distratto fatto con la coda dell’occhio… Il segreto viene svelato ogni volta dalla mano che fa un gesto, dalla coda dell’occhio che legge una immagine, un testo. Se non ci fosse un segreto da svelare non ci sarebbe uno sguardo. «Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…». (Adorno)».
(Giorgio Linguaglossa)

Intervista a Roberto Bertoldo sul libro: Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis 2022

caro Roberto Bertoldo,

il tuo libro [Sistema transitorio (dialogo sui sistemi di pensiero), Mimesis, Milano, 2022] è un dialogo con una misteriosa interlocutrice che si dipana lungo 143 pagine fitte al centro del quale c’è la ricerca e la individuazione di un «sistema transitorio» che riesca ad agevolarci nella scoperta di transitorie certezze, le quali, in quanto transitorie non sarebbero più certezze, o sbaglio?

Risposta: Innanzi tutto questo libro è la conclusione del mio personale sistema di pensiero che riconosce la propria transitorietà. Di esso, essendo composto di una decina di volumi, presento qui solo una sintesi e una giustificazione. Cerco insomma di giustificare la sua transitorietà e, al contempo, la necessità del pensiero sistematico se si vuole che il confronto dialettico sia proficuo e tollerante. Il dialogo in questo libro è principalmente con me stesso, tra dubbi e concessioni. Noi infatti non possediamo verità, ma tutt’al più idee fondate su certezze ovvero accertamenti, la cui transitorietà è dovuta al continuo progredire delle esperienze, personali e collettive, contingenti e scientifiche.

Domanda: L’interlocutrice del tuo colloquio ti chiede: «[Lei] mi sembra tanto uno che dice: io scrivo le mie opere, esprimo le mie idee, denuncio le ingiustizie e poi se qualcuno vuole usa tutto in battaglia». E tu rispondi: «È così. E non può fare altrimenti, se non prendere la pistola. Però la pistola è contro i suoi sentimenti e le sue idee, perché sa bene che dopo una rivoluzione si ristabilisce la gerarchia» (p. 93). Ma questo scetticismo giustifica la rinuncia all’azione, non credi?

Risposta: Non nel mio caso. Bisogna considerare lo scetticismo che io abbraccio, anzi che rifondo nel libretto Rifondazione dello scetticismo, uscito nel 2017. In esso cerco di dimostrare una mia vecchia considerazione secondo cui il dubbio riguarda la fondatezza delle certezze, la loro verità, non le certezze in sé. Che io, attraversando la strada, veda un’auto che sopraggiunge è indubbio, e quindi cerco di evitare di essere investito, il dubbio concerne piuttosto l’essenza della visione. Magari l’automobile è un miraggio. Ti cito, su questo punto, un passaggio del libro: «in effetti lo scetticismo è stato bollato avventatamente come inattuabile e destinato all’impraticabilità. Non è così, perché lo scettico ha certezze, ossia gli esiti degli accertamenti che attua quotidianamente, e anche se non le considera nel loro valore assoluto, ossia anche se esse non rappresentano per lui delle verità, se non ipotetiche, sono però fondamenti fenomenici e quindi dell’azione quotidiana. Per di più, alla base di questa alacrità dello scetticismo c’è una verità non accertabile che viene assunta come certezza e addirittura come verità ontologica, e quindi ipotetica, in virtù del suo carattere apriorico: il possibile. È questo possibile a validare, ben più della ontologica verità cartesiana, l’azione scettica. Il possibile è certo anche senza poter essere accertato, non si può negare che tutto possa accadere, quindi l’accadimento del possibile è vero fin quando non si accerta una verità assoluta che lo invalidi, cioè mai – perché il possibile non è invalidabile neppure dalla sua realizzazione –, o non si determina una condizione che lo falsifichi, fatto improponibile in quanto il Possibile ontologico concede possibilità anche all’impossibile. Inoltre tutto ciò che è possibile è ipotizzabile, quindi la verità sull’Essere, essendo ipotetica, conferma l’Essere come Possibile. Conseguenza di questo è che possediamo un’altra verità indiscutibile all’interno della logica estensionale: il possibile. Il quale, tuttavia, non essendo “falsificabile” (Popper) non rappresenta una verità scientifica ma metafisica, direi logico-metafisica. In ogni caso lo scetticismo si installa tra il regresso finito del dubbio cartesiano e il progresso infinito della Possibilità» (Rifondazione dello scetticismo, Mimesis, 2017, pp. 12-13). Continua a leggere

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Dopo la fine della Metafisica, Poesia da frigobar, scritta con un linguaggio aggiornatissimo, cioè da frigidaire con parole necessariamente conservate al freddo, La forma-poesia per eccellenza dei nostri tempi infetti dal virus del populismo, del sovranismo e del Covid19; la crisi climatica è la crisi del pianeta Terra, del capitalismo mondiale, crisi dell’Antropocene che accomuna Occidente ed Oriente, Nord e Sud, La crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie. E la poesia? Penso che la poesia abbia l’obbligo di riformulare i suoi parametri fideistici, Poesie kitchen di Guido Galdini, Mimmo Pugliese, Mauro Pierno, Raffaele Ciccarone

Foto volto con quadrato nero

Dopo la fine della Metafisica

La poesia che si scrive oggi avendo in mente un ente ricade nel modello del «vero» e del «verosimile», e quindi del realismo – Pieno di demerito e impoeticamente abita l’uomo su questa terra

Se prendiamo La ragazza Carla di Pagliarani (1960) o anche Laborintus (1956) di Sanguineti, lì vengono trattate (rappresentate) delle cose che realmente esistono; se prendiamo un brano de I quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, lì si tratta di un tema ben preciso: la morte del fratello «aldo» e della conseguente j’accuse del «sistema Italia» che lo ha determinato al suicidio. Voglio dire che tutta la poesia del novecento italiano e quella di questi postremi anni post-veritativi, rientra nel modello del «vero», e del «verosimile». Ebbene, questo «modello» nella nuova ontologia del poetico viene ad essere caducato,  messo in sordina; la distinzione tra verosimile e non-verosimile cade inesorabilmente ed entrano in gioco il possibile e l’inverosimile, l’ultroneo e l’erraneo; si scopre che l’inverosimile è della stessa stoffa del possibile-verosimile e che l’ipoverità è il lessico più evoluto della forma-poesia e della forma-romanzo di oggi.

Questa possibilizzazione del molteplice è la diretta conseguenza di una intensa problematizzazione delle forme estetiche portata avanti dalla «nuova ontologia estetica», prodotto dell’aggravarsi della crisi delle forme estetiche tardo novecentesche che ha creato una fortissima controspinta in direzione di un nuovo modello-poesia non più ancorato e immobilizzato ad un concetto di eternità e stabilità del «modello del vero e del verosimile».

Il concetto di «verosimile» della poesia lirica e anti lirica che dir si voglia di questi ultimi decenni poggiava sulla stabilità ed eternità del soggetto che legiferava in chiave elegiaca o antielegiaca.

La poesia che si scrive oggi avendo in mente un ente ricade nel modello del «vero» e del «verosimile», e quindi del realismo in senso lato, ovvero, poesia fatta con il pilota automatico innestato.
La poesia che si scrive senza l’ausilio di alcun pilota automatico, è la sola poesia che è possibile scrivere Dopo la fine della Metafisica.
Il fatto è che l’uomo è «un animale metafisico» (dizione di Albert Caraco) che non può che riprodurre la metafisica anche dopo la fine della metafisica. Si tratta di un meccanismo infernale che non può arrestarsi mai, ma è preferibile esserne consapevoli. Ecco perché la «nuova poesia» assume a proprio tema centrale il perché della poesia, se si debba perseguire il senso e il significato, o si debba perseguire il fuori-senso e il fuori-significato.
Poiché la crisi è in poesia, la poesia reagisce diventando meta poesia, ricusando la vecchia metafisica per una meta ontologia. Il poetico non è uno spazio separato dal non-poetico, quanto che esso è la stessa meta ontologia che diventa nuova metafisica. La meta ontologia verte su ciò che è al di fuori della ontologia, fuori dell’ontico e, precisamente, sul nulla che costituisce le cose, sulla nientificazione che sta all’origine di tutte le cose e determina la nostra esistenza.

Riprendendo un verso di Hölderlin in cui il poeta dice:

«Pieno di merito, ma poeticamente, abita / l’uomo su questa terra»

Heidegger formula un’interpretazione rimasta storica che indica l’essere dell’uomo in presenza degli dei e dei «mortali». Gli uomini sono coloro i quali muoiono ogni volta, muoiono sempre di nuovo e infinitamente. Heidegger sottolinea che il fare poesia è il fabbricare «poeticamente» le «case», intendendo l’attività pratica del costruire abitazioni, in quanto anche la poesia è una «casa» che possiamo abitare. La poesia indica: «L’atto del fare si dice in greco  po…hsij. L’abitare [das Wohnen] dell’uomo dovrebbe essere [Poesie], cioè qualcosa di poetico». In base al detto del poeta, l’abitare dell’uomo non è un prodotto  di una delle tante facoltà dell’uomo, ma è il fondamento stesso dell’esserci: l’abitare è il modo principale con cui l’esserci attua la sua struttura fondamentale di essere-nel-mondo. L’abitare della poesia di oggi è la costruzione di un luogo dove vige lo scetticismo nei confronti del vero, dell’io e del reale; optare per la leggerezza, la volatilità, l’ultroneo e l’erraneo è ciò che dischiude la peculiarissima Befindlichkeit, il «modo» d’essere del nostro essere nel mondo, ma è questo «pieno di merito» la locuzione significativa usata dal filosofo tedesco, quel «merito» la poesia odierna lo svela come un «demerito», un minus habens un minus di essere.

L’umanità estraniata esternata dalla poesia di oggi è una umanità in minore, che si occupa di inezie, di dettagli insignificanti, trascurabili, inessenziali, minimi, che preferisce il Non è di Guido Galdini, che predilige il principio di dis-piacere, che opta per la libertà del desiderio di contro alla illibertà del principio di realtà, per una poiesis non più rappresentativa e non remunerativa. La poetry kitchen opta per il pensiero negativo, per la negazione radicale. L’umanità estraniata di oggi non sa di vivere in minore, in omicron, e non è neanche più capace di uscire fuori da questo stato di minorità,  non sospetta neanche di essere condannata alla minoritarietà della storialità. Ed è questo morire indefinitamente tra sovranismo, populismo e personalismo che la poesia di oggi ha il dovere di cogliere. Il motto di Hölderlin andrebbe derisoriamente riformulato così: «Pieno di demerito e impoeticamente abita l’uomo su questa terra».

La dizione «poesia da frigobar», impiegata da Marie Laure Colasson è da intendere in accezione positiva, contrassegna la poesia odierna, oggi la poesia più evoluta «è scritta con un linguaggio aggiornatissimo, cioè da frigidaire con parole necessariamente conservate al freddo». Condivido la tesi della Colasson, oggi lo scetticismo integrale affiancato da una robusta dose di fantasmi e di icone, avatar, sosia etc. è la forma-poesia per eccellenza dei nostri tempi infetti dal virus del panlogismo, del populismo, del sovranismo e del Covid19; la crisi climatica è la crisi del pianeta Terra, del capitalismo mondiale, crisi dell’Antropocene che accomuna Occidente ed Oriente, Nord e Sud. La crisi ormai ha assunto dimensioni planetarie. E la poesia? Penso che la poesia abbia l’obbligo di riformulare la forma-poesia per derubricare i suoi parametri fideistici.

(g.l.)

1 M. Heidegger, …“poeticamente abita l’uomo”… , in Saggi e discorsi, cit., p. 125

Mimmo Pugliese

Il coseno

Il coseno delle autostrade
che farcisce gli occhiali
resta fuori dalle buste della spesa
allo stesso modo dei capelli rossi
del collo di pelliccia
della neve di cartone
dimenticata nel cassetto
delle smilze scale mobili
battezzate con fieno acrilico
gòcciolano i mattoni
sui libri di geografia
Londra è lontana
arrampicata sui tronchi delle sequoie
dall’umore di mosto cotto
sul diario di bordo c’è scritto
che la prossima stella polare
avrà la targa con numeri romani
nella giungla dietro casa
gemelli siamesi traducono
il linguaggio dei passeri
non sfugge
all’occhio attento dell’oracolo
la differenza tra la tattica
ed il posizionamento dei terrazzi
all’ora del ditirambo

Guido Galdini

seguite ora le istruzioni
per il compimento dell’opera
prendete un foglio di sufficiente lunghezza
e copiate con disciplina queste frasi
appendetelo alla parete più opportuna
aggiungendovi, in basso (è facoltativo)
sull’esempio di René Magritte

questa non è una poesia

Mauro Pierno

Azzardo una visione poetica in franchigia. La forma esatta è un montaggio, un compostaggio di eventi- forma. La differenza tra kitchen poetry e realismo terminale sta nella commercializzazione di una idea. Davvero grandi differenze tra un verso di Oldani e di Bjelosêvic non le trovo.

Andando indietro tutto quello che era lontano
diventa più vicino e caro
(Il ritorno in avanti, P. Bjelosêvic)

ne godo che mi ammirino i vicini,
non sanno i fiori sono artificiali. (Esistere, G. Oldani).

La gratuità della ricerca NOE sta nell’ingranaggio
ormai inceppato delle poetiche. Appunto la ricerca trascende qualsiasi significato, si emancipa dalla stessa passione politica, Persegue l’errore.

Potrà solo mettere note esplicative alle allucinazioni.
Curare le ferite dell’ incomprensione con punti esclamativi (F.P. Intini)

Il Signor K. allarmato, ha esternato:
«Lasciamo almeno aperta una finestra, una possibilità esegetica.
Entriamo dalla porta di servizio!». (G. Linguaglossa)

E’ un primo binario per una futura composizione kitchen.(Rago)

Non continuiamo noi ad usarlo per dire qualcosa d’altro, in una situazione differente?». (M.L. Colasson)

Raffaele Ciccarone

Set 1

Adalgisa senza ombrello
incontra una pioggia
vestita d’argento fuligginoso
il cappello a punta nero
montava piume di struzzo
omaggio del suo pappagallo

Set 2

per abbandonare Alcatraz
Dedalo mette a punto
il volo verticale
Minosse ne è adirato
per il suo drone sparito

Set 3


gli era difficile trattenere
il taglio delle mezze lune
il sauro montato da Holden
saltava senza posa
il ritmo market movers
gli permetteva di schivarle tutte


la pipa di Simenon
sfarfalla banchi di fumo
Toulouse Lautrec cena
con sua bella al ristorante
Modigliani allunga
il collo al suo ritratto

.

Mauro Pierno è nato a Bari nel 1962 e vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014); di  alcuni ne ha curato anche la regia. In poesia è vincitore nel (1992) del premio di Poesia Citta di Catino (Bari) “G. Falcone”; è presente nell’antologia Il sole nella città, La Vallisa (Besa editrice, 2006). Ha pubblicato: Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014), Compostaggi (2020). È presente in rete su “Poetarum Silva”, “Critica Impura”, “Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche”. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (Terra d’ulivi edizioni, Lecce, 2017). Ha fondato e dirige il blog “ridondanze”.

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Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi componimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018)
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Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.
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Raffaele Ciccarone, nasce a Bitonto (Bari) il 10 Ottobre del 1950, dopo la laurea in Economia e Commercio a Bari, si trasferisce a Milano per lavorare in una grande banca, attualmente è in pensione. Si occupa di pittura e ha scritto poesie e racconti alcuni pubblicati su piattaforma di scrittura on line, con uno pseudonimo. Ha partecipato a gruppi di poesia di Milano e non ha mai pubblicato.

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Mimmo Pugliese, Una poesia kitchen, Infrangere l’ordine del discorso del sensorio e del suasorio costituisce un imperativo kantiano per un poeta kitchen, È possibile che la seconda epoca di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta, Herbert Marcuse, L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi, Gianni Vattimo

Marie Laure Colasson Pannello bidimensionale 40x40 2021

Marie Laure Colasson, Pannello bidimensionale su legno, 40×40 cm 2021

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Infrangere l’ordine del discorso del sensorio e del suasorio costituisce un imperativo kantiano per un poeta kitchen

Mimmo Pugliese

È mercoledì

Sui gradini della pioggia
la lucertola abbandona il quadro
sul tavolo twitta la bustina del the

Ha labbra antiche l’albero maestro
genitore di anfetamine
in vendita al mercato nero di Baku

I ricami delle farfalle
aumentano il contorno occhi degli zaini
domani le ore si conteranno al contrario di oggi

I bermuda a righe che hai comprato
fumano sigari cubani e la neve
cade solo davanti alla tua finestra

Sembra la luna crescente
la cicatrice sul lago
quando si chiudono gli ombrelloni

La periferia del deserto
è una barca antropomorfa
scodella di sete e tamburi

È alto un palmo
il giardino dove giochi
la lingua trasuda tutti i sensi.

REBUS

Ventimiglia
Famiglia
Bottiglia
Pastiglia
Scompiglia
Briglia
Conchiglia
Ciglia
Somiglia
Poltiglia
Biglia
Siviglia
Artiglia
Maniglia
Figlia
Guerriglia
Impiglia
Triglia
Meraviglia
Miglia
Fanghiglia
Ciniglia
Piglia
Flottiglia
Coniglia
Marsiglia
Consiglia
Pariglia
Quadriglia

.

Mimmo Pugliese è nato nel 1960 a San Basile (Cs), paese italo-albanese, dove risiede. Licenza classica seguita da laurea in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esercita la professione di avvocato presso il Foro di Castrovillari. Ha pubblicato, nel maggio 2020, Fosfeni, edito da Calabria Letteraria- Rubbettino, una raccolta di n. 36 poesie.

Nella «poesia» di Mimmo Pugliese non si rinviene davvero niente di ciò che pensavamo fosse una «poesia» tradizionale: qui è tutto crollato, tutti i ponti del discorso articolato sono caduti: i verbi con le loro declinazioni, le preposizioni, le articolazioni. Quello che resta sono una serie di costoni, di spezzoni, pezzi di architravi, schegge di colonne diroccate: parole scomposte e de-composte che non conservano più nulla di umano, dove non si rinviene alcun «pathos dell’autenticità», della lingua come «casa dell’essere» non è rimasto niente. Il che significa che qui valgono altre categorie ermeneutiche e valoriali, che ci troviamo nel bel mezzo di un sisma del 19° della scala Mercalli di cui la poesia maggioritaria e securitaria non si è accorta, direi che la pseudo-poesia kitchen di Mimmo Pugliese è la presa di cognizione di questo macroscopico dato di fatto.
Davvero, Pugliese ha celebrato il funerale della poesia con rime sparse e alternate. Adesso, non è rimasto più nulla di quello che eravamo abituati a considerare come poesia del novecento o, come dicevamo con un eufemismo, poesia dell’umanesimo. la fine della metafisica ha portato con sé lo sgretolamento di tutto ciò che apparteneva un tempo lontano a quella metafisica.

Storicamente, precipuo della moderna opera di finzione è lo sgretolarsi della possibilità di accedere al senso dei testi. Il carattere di finzione dei testi kitchen, la loro non-referenzialità ci dice che l’opera storicamente decostruisce attraverso la testualità ogni messaggio, ogni significato, ogni senso. La tradizionale forma di pensiero pensava che non potendo essere letterale, il testo possiede soltanto la pluralità delle letture come unica lettura; così l’unità di senso diventa frattura, abisso del senso e del sensato, la figuratività ha il sopravvento rispetto alla referenzialità, che tenderà a scomparire, ad inabissarsi. Da Borges in poi la letteratura contemporanea si presta all’idea di perdita del senso e alla apertura di letture molteplici; essa non può più porsi come modello del logos o norma generale. L’anti-referenzialismo dà troppo credito al suo opposto, lo suppone vero; occorre uscire al più presto dallo schema referenzialismo-antireferenzialismo. Identificando la significazione con l’attribuzione di un referente e, parallelamente, la non-significazione con la non-referenzialità, l’opera di finzione storicamente si sottrae per forza di cose alla questione del senso e del sensorio e del sensato. Ne risulta che il linguaggio dell’opera kitchen non può più dire qualcosa di sensorio e di sensato e sostenere che la letteratura non si lascia più comprendere ma fraintendere… Chiedo, quale «Potere della Parola» può avere la «parola» in un contesto kitchen? E rispondo: Nessuno.

Scrive Gianni Vattimo:

«L’ontologia non è null’altro che interpretazione della nostra condizione o situazione, giacché l’essere non è nulla al di fuori del suo “evento”, che accade nel suo e nostro storicizzarsi».

Ho citato apposta Vattimo per escludere una nostra definizione di ciò che possiamo intendere con il termine «ontologia». Ma parlare di «nuova ontologia estetica» implica e significa una accentuazione del sostantivo, noi sostantivizziamo il sostantivo e, parlando di ontologia estetica mettiamo in discussione tutte le categorie della antica e nobile ontologia estetica del novecento. Rimetterle in discussione non si esaurisce in una semplice «ri-appropriazione» di ciò che un tempo ci è appartenuto e che più ci piace, questo sarebbe un atteggiamento diminutivo del nostro argomentare e del nostro essere, rimettere in discussione le categorie su cui si regge la ontologia novecentesca implica la costruzione di altre e diverse categorie retoriche.

In un mondo in cui «il progresso diventa routine» e la stessa categoria del «nuovo» è utilizzata in toto dalla tecnica, appare chiaro che la strada da seguire sarà quella non della «appropriazione» del «nuovo» o della «riappropriazione» del mondo un tempo antico e bello, quanto la dis-propriazione di quel mondo e la presa d’atto che si è definitivamente chiusa l’epoca del «pathos dell’autenticità». La poesia che tentiamo di fare si è liberata del «pathos dell’autenticità» e della allegria di naufragi, ovvero, l’allegria dell’inautenticità.

(Giorgio Linguaglossa)

1] Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 11

Lucio Mayoor Tosi
1 agosto 2018 alle 10:29

Agosto è il mese migliore per parlare liberamente, senza doversi tanto preoccupare di apparire presuntuosi – e per parte mia ve ne sarebbe motivo – quindi ne approfitto. E torno al fatidico verso di Tomas Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

per dire che avrebbe anche potuto scrivere ” a destra, su una lapide nera le scritte d’argento”. E, a seguire, l’elenco delle immagini che volentieri accorrerebbero per subito partecipare al convegno. Ma sarebbe per l’appunto un elenco. Ecco, è più o meno questo che intendo dire quando parlo di rigidità.
Come evitare la scarna elencazione, per quanto composta di elementi bizzarri e sorprendenti… Qui sta l’abilità del poeta, a mio avviso, il problema nuovo che si presenta. Ed è straordinario osservare come ciascuno, qui, abbia saputo darsi una propria soluzione stilistica.

Giorgio Linguaglossa
1 agosto 2018 alle 12:13

Io un tempo lontano scrivevo poesie che avessero un «senso». Davvero, adesso un po’ me ne vergogno. Cercavo di dare un «senso forte» alle poesie che scrivevo. Ma sbagliavo. Un giorno incontro questa frase di Adorno tratta da Dialettica negativa, 1966 (ed.Einaudi 1970 p. 340):

«Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione».

Fu allora che abbandonai l’abitudine di scrivere poesie con un «senso», perché mi resi semplicemente conto che «esso sfugge alla questione».

Detto questo per dire che allontanandomi sempre più velocemente dalla poesia con posizione e proposizione suasoria, assertoria, unidirezionale, unitemporale, uninominale, innocentemente non dubitatoria, sono approdato, insieme ad altri compagni di viaggio, alla «nuova ontologia estetica» (che è una posizione davvero instabile!)… ma non per invaghimento del dubbio e della scepsi, posta così la questione sarebbe da superficiali, ma, per amore della verità, posto anche qui per scontato il concetto di «verità», cosa che affatto non è. In seguito, incontrai un altro frammento di Adorno che diceva:

«la coscienza non potrebbe affatto avere dei dubbi sul grigio, se non coltivasse il concetto di un colore diverso, di cui non manca una traccia isolata nel tutto negativo». (op. cit. p. 341)

Fu allora che mi resi conto che la poesia che si scriveva in Italia da alcuni decenni era una poesia ingenuamente assertoria, anti sceptica, semplificatoria… mi resi conto che le cose non stavano affatto così…

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Poesie kitchen di Alfonso Cataldi, Mario M. Gabriele, Il non-stile cosmopolitico dei giorni nostri annuncia e prefigura nella sua essenza fatta di tortile pieno la grande metastasi che è già avvenuta e sta avvenendo, La metafisica dello stile presuppone sempre una metafisica dei costumi, La disperazione e l’angoscia sono le ultime ideologie, utilissime ai fini dell’autoconservazione. Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato, Aforismi di Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, collage

 
Marie Laure Colasson Notturno 9 collage 30x25 cm 2007
Marie Laure Colasson, collage 30×30 cm, 2007
La speranza, l’ultima ideologia del mondo amministrato

 
.
Aforismi sull’arte
di Giorgio Linguaglossa
 
La vita che si mantiene in vita per la vita della produzione e il consumo si tramuta in contraffazione della vita quale essa veramente è; ma è vero anche il contrario: che chi cerca un senso da dare alla vita o un non-senso, si mantiene nell’orbita della speranza, ultima ideologia del mondo amministrato per chi non ha più speranza e si illude con lo specchietto retrovisore della speranza.
 
L’arte si mantiene in vita fin quando rilascia certificati di buona condotta e dichiara senza vergognarsi il principio dell’autoconservazione quale regolo base del consorzio civile.
 
Non c’è speranza di salvezza dall’autoconservazione se non nell’abbandono senza riserve di ciò che deve essere lasciato cadere.
 
Non c’è alcuna ragione di produrre un libro in più o in meno, soltanto un libro necessario ha diritto all’esistenza. Ma anche l’esistenza degli uomini non ha alcun diritto che la garantisca perché non c’è alcun libro che la dice.
 
Il concetto di intelligibile resta una aporia. Così il concetto di necessità. Non si dà alcuna ragione veramente necessaria. È necessario soltanto il vuoto. È per questo che noi realizziamo una poetica del vuoto.
 
Lo Jugendstil dei primi anni del novecento suppone e prefigura nella sua essenza fatta di tortile vuoto la grande strage che sta per avvenire.
 
Il senza-stile o stile cosmopolitico o stile globale dei giorni nostri, preannuncia e condensa in sé le leggi del mercato globale, del mercato unico. I tentativi di frapporre dazi e barriere allo svolgersi del mercato globale sono i colpi di coda del coccodrillo che mastica le sue prede con lacrime da coccodrillo.
 
Il non-stile cosmopolitico dei giorni nostri annuncia e prefigura nella sua essenza fatta di tortile pieno la grande metastasi che è già avvenuta e sta avvenendo.
 
La metafisica dello stile presuppone sempre una metafisica dei costumi.
 
La falsità dell’ontologia sta nella dimostrazione ontologica dell’esistenza o inesistenza di Dio. La vera questione risiede invece nella esistenza, o meglio, nella non esistenza degli uomini.
 
La bancarotta dell’ontologia sta in coloro che la ritengono un rapporto paritario tra il credito e il debito.
 
Una volta che sia stata fatta sloggiare dall’esistenza degli uomini la metafisica, si sta preparando per essi la bara dello spirito, subito seguita di frequente dalla bara degli uomini.
 
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno. Il senso è un totem, e come tale esso viene venerato.
 
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri.
 
Così anche la disperazione e l’angoscia sono le ultime ideologie, utilissime ai fini dell’autoconservazione.
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato.
 
La coscienza infelice è la costruzione di una coscienza falsa. Ma la coscienza falsa è sempre il prodotto di una coscienza infelice.
 
L’angoscia… perpetua il sortilegio come il freddo tra gli uomini. (Adorno)
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti. (Hegel)
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco. (Adorno)
 
 

La perdita delle case intermedie
di Alfonso Cataldi

… dalla forma indefinita di titoli e cognomi.

La ragazza con la valigia porterà comunque il vestito di paillettes
lasciapassare non richiesto sul canotto alla deriva.

Nel dubbio, Maria pesca.
Equazioni tra le nuvole.

Una mattina si è svegliata e si è chiusa nell’armadio.
ha partorito l’incendio delle case intermedie.

**

Settecento grammi di neuroni impoveriti e la frittata è fatta
– quanto il nocciolo della bomba sganciata su Hiroshima –

“Come? Usavo il tegame o la padella?
Meglio il fuoco grande o quello medio?”

Con chi non sa o non ricorda, gli agenti della CIA non si perdono d’animo
ricorrono al waterboarding.

“Confesso, l’ho ucciso tirandogli dietro un ombrello
nel giorno in cui la pioggia ha cancellato le coordinate.

ma è una tortura perdere le terre rare dentro di noi
ancora prima che sotto di noi”.

**

Dove si confermano le vicissitudini del mondo?
Non lo so, ma lei è stata cancellata da tempo

da qualunque parte si guardi
Giacomo sei pronto per il primo giorno di scuola?

No, non ce la farò, risponderò cose a caso
tipo che dodici più dodici fa trenta.

Da grande vuole fare il tipografo
Dice che non combacia più nessun carattere

attorno al cadavere ritrovato
la parola è sempre più lontana dalle immagini evocate.

**

Tu non puoi capire il cappottino rosso

La natura morta dentro il quadro clinico
si ripara con l’educazione solitaria.

«Tu non puoi capire il cappottino rosso
ce ne fossero di Jane Fonda, ce ne fossero state»

Il carabiniere al centro della scena indica l’eterno apparire del destino

«qui una volta era tutta campagna
le prove sono andate a ruba»

Le donne di Shamsia Hassani hanno atteso le macerie. Mélange
il tempo schiaccia le richieste del bonus di emergenza.

In alto mare, su qualche scrivania
all’INPS festeggiano con fuochi d’artificio e champagne

l’idoneità dei corpi stesi bene ad asciugare.

**

La ricerca non può dirsi chiusa

L’eventualità del disvelamento occipitale strappa la giacca agli eruditi
Pascal perde le equazioni strada facendo

La ricerca non può dirsi chiusa
la comunità locale è in subbuglio

«Tu che sembri serio e col green pass
hai voglia di voltare pagina all’organista?»

Anche a spingere, il diario di una schiappa non ci sta in un cruciverba.

Bartezzaghi allarga l’uno orizzontale
Bastasse far saltare gli schemi per ribaltare il risultato!

Greg, non quello di Lillo e Greg, proprio Greg la schiappa

è sempre dentro la performance e rischia una paresi
già gli antichi Egizi avevano inventato le cerniere.

L’arte per la poetry kitchen è ciò che si offre gastronomicamente, ma con segno invertito, alla delibazione e alla degustazione dei palati; ciò che si offre come delibazione, medaglia male appiccata sul petto, ornamento mal messo, si è convertito nel suo contrario. La poiesis kitchen si dà piuttosto come ciò che «chiude» la possibilità dell’aprirsi di mondi storico-destinali. La poesia kitchen è «chiusura» di mondi storico-destinali, ciò che si sottrae alle sirene dell’avanguardia e ciò che si sottrae alle malie di una retroguardia. È il «I prefer not to» di Bartleby di Melville ripetuto e reiterato all’infinito come possibilità dell’impossibile. Estrema ratio. È la nuova utopia del rifiuto assoluto e drastico, ad oltranza dei significati stabili e stabiliti.

La nuova fenomenologia della poiesis che chiamiamo poetry kitchen rientra nel mondo epocale del Ge-Schick dell’essere di cui parla Heidegger: non più apertura di mondi storico-destinali, non più apertura di epoche, non più inaugurazione di epoche storiche nelle quali si dà l’essere, non più il susseguirsi (tras-missione, Ueber-lieferung) di aperture, di epoche, non più come ciò che viene in presenza, ma come ciò che

viene in «chiusura» di un mondo storico-destinale, come inaugurazione della «chiusura». «Chiusura» che però non si dà mai come fine ma come tentativo di oltrepassamento del fine, tentativo di oltrepassamento della soglia del fine, e impossibilità di quell’oltrepassamento come superamento della metafisica della presenza e della luce che consente ed assicura quella luce. Quindi la fine della metafisica. In questo tragitto dovremo procedere con drasticità verso l’interminabile dissoluzione della presenza, che è il modo con cui si dà la presenza nell’orizzonte della metafisica, al di là della concezione metafisica del segno come ciò che «sta per» il significato, che tende a derubricare il segno scritto come ciò che sta per qualcosa che a sua volta sta per altro; procedere verso la liberazione del significante da ogni dipendenza che caratterizza oggi, nelle società mediatiche, la subordinazione del significante ai significati stabiliti dalla comunità.
È ovvio che qui stiamo parlando della fine dell’arte come rappresentazione e della fine della metafisica della presenza. La «casa dell’essere» non è più il linguaggio, l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia e adesso se ne va a ramengo per il mondo non più mondo. Il linguaggio poetico come cristallizzazione e sedimentazione di opere classiche e iscrizione monumentale è diventato una bara, la tradizione si è allontanata dalla tradizione, ha preso congedo da essa ed è rimasta orfana di senso.

1 Un recentissimo studio di una agenzia internazionale ha verificato che durante la pandemia i ricchi si sono arricchiti mentre i poveri si sono impoveriti. E che 40 famiglie italiane detengono una ricchezza pari a 160 miliardi di euro. (certo, una flat tax, ove fosse attuabile, aumenterebbe a dismisura la ricchezza dei ricchissimi e impoverirebbe a dismisura i già poveri).

(Giorgio Linguaglossa)

2 G. Vattimo, Introduzione a La scrittura e la differenza di J. Derrida, Einaudi, 1971 XXIII.

inedito
di Mario Gabriele tratto da Horcrux

Che ne dici, Lucy, se ci fermiamo a trovare
la Signora Doran nella RSA?

E’ rimasta sola
dopo la morte di Andrea.

Lucy riaprì un discorso
sulla sostenibilità del ricordo.

Cose d’altri tempi, riferì Tom,
come il volume Screwtape letters di C.S. Lewis.

Un messaggio arrivò in WhatsApp
decodificabile con il sistema d’accesso.

Era un’anteprima di modelli Live Style,
non profit per il Continente Nero
sostenuto da Goldman Sachs.

La storia su Romeo e Giulietta
era ancora nelle mani dell’MI5, dopo la Sars-CoV2.

Mi sembra che i libri abbiano storie diverse
rispetto ai social network.

-E’ una Lobby Time- disse Mike Jordan
che dal backstage aveva un occhio
per il Big Management.

Ma guarda come ti sei ridotta Lucy!
Ora chi vuol sentire Donna Joel?

Non basteranno le sutures cutanées
per essere la cover di Playlist
con gli scatti di Sebastião Salgado
su mondi estremi e biodiversi.

Ti ricordi di Overland?
Perché te lo chiedo?
Erano tutte donne che puntavano
alla bellezza in copertina
tranne Kathy Bates,
diabolica femmina in Misery.

La nostra storia ha capitoli finiti.
Il futuro è sempre possibile
imitando Gli ultimi fuochi di Elia Kazan.

Giorgio Linguaglossa says:
agosto 26, 2021 at 5:42 pm

In the room the women come and go
Talking of Michelangelo.

.

Il significato letterale di questi versi di Eliot sembra chiaro benché al livello più profondo sembra sollevare altre questioni.
In “The Love Song of J. Alfred Prufrock, ” il verso “I have measured out my life with coffee spoons”, allude al personaggio Prufrock che ha dissipato il suo tempo e il suo talento in festicciole e nella abulia della everyday life.
Dissimilmente, le frasi di questa composizione di Mario Gabriele possono essere lette ad un livello di superficie e ad un livello più profondo… ma è come se ci fosse qualcosa che impedisse di raggiungere una qualche profondità di lettura, qualcosa che resiste e che non ci consente di adire ad un livello più profondo… quel qualcosa di insondabile che si nasconde nel nostro odierno modo di vita, quel nucleo fatto di cinismo e di misericordia posticcia, quel divagare a buon mercato, quello scetticismo miserabile e quella miserabile impenetrabilità della superficie che è la vera essenza della vittoria della falsa coscienza.
(Giorgio Linguaglossa)

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Marie Laure Colasson, Tre poesie da Les choses de la vie, La poesia dell’«io penso dunque sono», Poetry kitchen, Philosohy kitchen, Dialogo a più voci Sull’erranza della metafisica, sul sacro, sul sublime, sul feticcio, sulle discariche, sul feticcio

Marie Laure Colasson

Tre poesie da Les choses de la vie

.

[Marie Laure Colasson è francese e vive a Roma, è pittrice ed ha esposto in varie gallerie d’Europa. Le poesie presentate sono inedite e fanno parte della raccolta di prossima pubblicazione: Les choses de la vie]

.

38.

La peur prisonnière dans une bouteille de Bourbon
s’échappe s’introduit dans la compote de pommes

La compote indifférente déborde dans l’atmosphère

Eredia pupilles dilatées salive en bouche
avale l’atmosphère toute entière

Quatre soucoupes la regardent sans ciller
dansent un air de valse de presse-papier

La blanche geisha au mental absent
refuse de suivre la danse rocambolesque

Pas de soupape de sécurité
la peur prend peur de sa peur
délire cherchant ailleurs son passeport

pour d’autres frontiers

*

La paura prigioniera in una bottiglia di Bourbon
scappa s’introduce nella composta di mele

La composta indifferente deborda nell’atmosfera

Eredia pupille dilatate saliva in bocca
inghiotte l’atmosfera per intero

Quattro sottocoppe la guardano senza moto ciliare
danzano un’aria di valzer di fermacarte

La bianca geisha dalla mente assente
rifiuta di seguire la danza rocambolesca

Niente valvola di sicurezza
la paura prende paura della sua paura
delira cercando altrove il suo passaporto

per altre frontiere

39.

Le silence se referme comme un verrou grinçant
Eredia entre dans l’ombre de la blanche geisha
leurs ombres prennent un train pour
un “Voyage au bout de la nuit”

Bruit d’une respiration sifflante
un serpent au sourire à l’envers fume
un énorme cigare électronique

Les ombres tirent le signal d’allarme
hurlent des slogans pour arrêter bruit et tabagie

Un jet de lumière dorée dans une flaque d’urine
à l’hotel “Los Escargoles” de Madrid
sur fond noir d’une toile de Caravaggio

Sombre secret bercé d’illusions suicidaires
un caillou se transforme en citrouille
rue des Hauts Platanes

Les ombres voyagent dans les rayonnages du labyrinthe
abandonnent leurs vêtements sur le portemanteau
se réfugient dans la caravane abandonnée
de la proprieté du fakir Boris Vian

La grille se verrouille au plus profond du silence grinçant

*

Il silenzio si richiude come un chiavistello cigolante
Eredia entra nell’ombra della bianca geisha
le loro ombre salgono su un treno per
un “Viaggio al termine della notte”

Brusio di una respirazione sibilante
un serpente dal sorriso a rovescio fuma
un enorme sigaro elettronico

Le ombre tirano il segnale d’allarme
urlano degli slogans per arrestare rumore e tabagia

Un jet di luce dorata in una pozza d’urina
all’hotel “Los Escargoles” di Madrid
sul fondo nero di una tela del Caravaggio

Oscuro segreto cullato da illusioni suicidarie
un ciottolo si trasforma in zucca
rue des Hauts Platanes

Le ombre viaggiano nelle scaffalature del labirinto
abbandonano i loro vestiti sull’attaccapanni
si rifugiano nel caravan abbandonato
di proprietà del fachiro Boris Vian

L’inferriata s’inchiavarda nel profondo del silenzio stridente

40.

Eredia s’installe au sommet de la pyramide du Louvre
à Paris
se transforme en sphynx et interroge
d’une façon pernicieuse ce que’elle entrevoit

Une pomme d’orange répond qu’elle a perdu ses chaussons
et a froid aux pieds
Une affiche ne supporte plus d’être collée
sur le dos du vent
Une boite rouge veut devenir une savoureuse
grappa di prosecco di Treviso
Une casserole rêve d’épouser le roi de Perse
en grande pompe
Un escargot luisant ne cesse de tomber à force
de marcher trop vite sur des talons de 25 cm
Un ours désire se faire une mise en plis
ou des tresses à l’africaine
Un baiser épuisé de passer de bouche en bouche
souhaite s’enfermer dans un coffre-fort
dont nul ne connaîtrait le code secret

La blanche geisha sussurre à l’oreille du sphynx
qu’aucun n’a répondu aux demandes
et qu’ils n’ont su que se lamenter péniblement

Eredia retrouve son insolite parure dans son sac crocodile
Toutes deux heureuses d’avoir gagné leur bataille
contre un monde qui ne fume que des gauloises sans filtre
courent sous la pluie s’en abreuvent traversent
la mer Méditerranée pour se réfugier en Egypte

*

Eredia si installa in cima alla piramide del Louvre
a Parigi
si trasforma in sfinge e interroga
in un modo vizioso ciò che intravede

Un pomo d’arancia risponde che ha perduto le sue pantofole
ed ha freddo ai piedi
Un manifesto non sopporta più di essere incollato
sulla schiena del vento
Una scatola rossa vuole diventare una saporita
grappa di prosecco di Treviso
Una casseruola sogna di sposare il re di Persia
in pompa magna
Una lumaca lucente non smette di cadere a forza
di marciare troppo veloce su dei tacchi di 25 cm
Un orso desidera farsi una messa in piega
o delle trecce all’africana
Un bacio esausto di passare di bocca in bocca
si augura di rinchiudersi in una cassaforte
di cui nessuno conosce il codice segreto

La bianca geisha sussurra all’orecchio della sfinge
che nessuno ha risposto alle domande
e che non hanno saputo far altro che lamentarsi penosamente

Eredia ritrova la sua insolita parure nella sua borsa coccodrillo
entrambe felici di aver vinto la loro battaglia
contro un mondo che fuma soltanto gauloises senza filtro
corrono sotto la pioggia se ne abbeverano attraversano
il mar Mediterraneo per rifugiarsi in Egitto
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Prova di una Ermeneutica archeologica, Lettura della poesia di Anna Ventura del 1990 da Le case di terra, La poesia verso un mondo privo di metafisica, di Giorgio Linguaglossa, La poetry kitchen

Gif Sparo

Giorgio Linguaglossa

Prova di una Ermeneutica «archeologica»

Una poesia di Anna Ventura, tratta dalla raccolta Le case di terra (1990).

La parola alle cose

Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
È estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
-oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.

Sono trascorsi ben 31 anni dalla pubblicazione di questa poesia. Un tempo immenso se consideriamo che la rivoluzione telematica e globale che ha investito il mondo è tale che equivale, con il senno di poi, almeno a 300 anni. Anna Ventura viene dopo il decennio de «La parola innamorata», del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese, un vero e proprio diluvio di luoghi comunicazionali e posiziocentrismi. La Ventura si pone la seguente parola d’ordine: restituiamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose», lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari. Nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia dei pasolinismi alla Gianni D’Elia (poesia di seconda e terza mano), non c’è traccia della poesia pseudo orfica (di seconda e terza mano: Alessandro Ceni, Giuseppe Conte e coetanei), non c’è più traccia del post-sperimentalismo auto referenziale di un Edoardo Cacciatore e di Jolanda Insana e dei loro innumerevoli imitatori, qui si va alla radice: restituire la parola alle cose. Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che i poeti citati e i loro epigoni (di seconda e terza mano) hanno fatto e contraffatto: uno sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale contro valore e condivisore di quelle scritture nefaste.

Negli anni novanta si compie quel processo di trasformazione della «piccola borghesia», da categoria marxista a non-categoria; voglio dire che la piccola borghesia scompare dal telescopio della ragione e viene a far parte della «invisibilità» complessiva delle tradizionali classi storiche (borghesia, alta borghesia, piccola e media borghesia, proletariato, sotto proletariato); la nuova piccola borghesia che sortirà fuori dopo il decennio degli anni novanta sarà un ceto medio mediatizzato male acculturato che sarà preda di stilnovismi, di narcisismi, di sciovinismi, di sovranismi e populismi che avranno il loro apice con il governo giallo-verde Lega 5Stelle del governo Conte Uno (2018-2019).
Un succedaneo di questa situazione sarà il referente delle scritture poetiche destinate all’intrattenimento massmediatizzato di quella classe-non-classe che nel corso del tardo novecento e negli anni Dieci e Venti diventa una massa fluida e floreale, sarà il non-referente di un ceto medio mediatizzato «invisibile», una sorta di balena bianca capace di tutto deglutire e nulla digerire. Dopo il Craxismo arriva la debole sinistra post-comunista del Partito Democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe ora diventa un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo e importante per le sorti del capitale finanziario.

La poesia del tardo Novecento e di questi ultimi anni come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano, qua e là, delle prese di posizione da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale, pensiamo a Mario Lunetta, all’Anonimo romano, a Maria Rosaria Madonna, a Giorgia Stecher. La poesia di Anna Ventura è una di queste: la poetessa di Montesilvano salta, istintivamente, il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista del tempo di Giudici che nel frattempo è scomparsa, e si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto, che non c’è e che non si sa se mai ci sarà, ad un interlocutore «invisibile». L’odierno gusto maggioritario del poetico parametrato sul panottico digitale ci stimola all’uso di dispositivi di auto monitoraggio, ad essere accoglienti e obbedienti; oggi non c’è più una poesia che possa dirsi maggioritaria ma un modello diffuso che invita a pratiche scrittorie condivise, presentabili e comunicanti. A una scrittura servizievole.

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre,con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza: il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi, ma
non avevamo sconfitta la paura.

Per inquadrare storicamente la poetry kitchen nell’ambito del conflitto tra i generi poetici del secondo novecento, ripropongo di seguito alcune riflessioni di Giorgio Agamben e mie.

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi non solo un errore di prospettiva ma una manovra di depistaggio. Se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco e Palazzeschi con L’incendiario (1910) il poeta che fa saltare la continiana formula: Linea innica e Linea elegiaca.* Nel secondo novecento quella formula viene a cadere e deve essere sostituita da un triangolo scaleno che vede ai suoi vertici il terzo escluso: la linea postmodernistica che si evolverà nella Linea del discorso poetico che viene a situarsi a cavallo tra la fine del novecento e questi ultimi due decenni.

* Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

Il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi «politici» a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico (EdiLet. 2011), a cui faranno seguito alcuni approfondimenti sulla nuova ontologia estetica e la poetry kitchen. A mio parere la poesia del secondo Novecento e, di conseguenza anche del primo, va vista rovesciando la prospettiva: la progressiva trasformazione della lirica in discorso poetico, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

L’identificazione di una Linea dominante è un atto politico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come «il più grande poeta dopo Montale». Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne La beltà del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria; avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del secondo Novecento.

Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

La poesia verso un mondo privo di metafisica

Il gesto poetico di Letizia Leone ha una certa analogia con il gesto pittorico di Lucio Fontana. Il pittore voleva sondare il fondo dello sfondo, voleva andare a fondo, tanto a fondo da snidare ciò che c’è non solo nel fondo ma oltre il fondo, dietro il fondale del fondo. Dietro il fondale della metafisica che di quel fondo costituisce la struttura.
Letizia Leone vuole anche lei andare oltre e dietro il «fondo», sfondare il fondo, di qui il suo gesto poetico.

Ma, che cos’è questo andare al fondo del «fondo»? È nient’altro che andare Dopo e Oltre la metafisica e i suoi linguaggi per scoprire un’altra metafisica, o meglio, un mondo (poetico e linguistico) privo di metafisica… o meglio, che abbia i connotati di una nuova metafisica, quella dell’età della tecnica dispiegata.
La strada della poesia kitchen è segnata: andare al fondo del «fondo» per sbucare al di là del «fondo». Per far questo occorre liberarsi di tutti i luoghi retorici della poesia della tradizione, non soltanto saltando la dicotomia: Linea innica e Linea elegiaca, ma per progredire nella sola strada che si dà alla poesia occidentale: andare verso un discorso poetico che rappresenti la complessità del mondo privo di metafisica, il mondo della tecnica dispiegata. Se si pone attenzione agli strumenti retorici della poesia mia e di quella anche di altri compagni di strada della poetry kitchen, ci si accorgerà che viene derubricato l’intero impianto categoriale ed ermeneutico che consentiva la lettura della poesia della antica ontologia poetica.

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV. Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin, traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

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Giorgio Agamben, Stralci sull’arte, L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica, sulla metafora, Il contemporaneo, il nichilismo, il nostro tempo, techne, la topologia, la metafisica, Poesia di Francesco Paolo Intini, Trend Commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

 

[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020, la foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino…] (g.l.)

.

Giorgio Agamben

Idea della musa 

«A Le Thor, Heidegger teneva il suo seminario in un giardino ombreggiato da alti alberi. A volte si usciva, invece, dal paese, camminando in direzione di Thouzon o del Rebanquet, e il seminario aveva allora luogo davanti a una capanna sperduta in mezzo a un’oliveta. Un giorno che il seminario volgeva ormai al suo termine e gli allievi gli si stringevano intorno senza più frenare le domande, il filosofo rispose soltanto: “Voi potete vedere il mio limite, io non posso”. Anni prima, aveva scritto che la grandezza di un pensatore si misura dalla fedeltà al proprio limite interno, e che non conoscere questo limite – e non conoscerlo per la sua prossimità all’indicibile – è il dono segreto che l’essere, rare volte, può fare. Che una latenza sia mantenuta, perché possa esservi illatenza, una dimenticanza custodita, perché possa esservi memoria: questo è l’ispirazione, il trasporto musaico che accorda l’uomo alla parola e al pensiero. Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di dettato: dev’esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, perché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipolata da un soggetto. (Io – è chiaro – non posso ispirar-mi). Ma questa latenza è, anche, il nucleo tartarico intorno a cui si addensa l’oscurità del carattere e del destino, il non-detto che, crescendo nel pensiero, lo precipita nella follia.
Ciò che il maestro non vede è la sua stessa verità: il suo limite è il suo principio».

«Non vista, inesposta, la verità entra nel suo occidente, si chiude nel proprio Amente. “Che un filosofo cada in questa o quella forma di apparente incoerenza per amore di questo o quell’accomodamento, è concepibile: egli stesso può esserne stato cosciente. Ma ciò di cui egli non è consapevole, è che la possibilità di quest’apparente accomodamento ha la sua radice più profonda in un’insufficiente esposizione del suo principio.
Se, dunque, un filosofo è veramente ricorso a un accomodamento, i suoi discepoli devono spiegare in base all’intimo, essenziale contenuto della sua coscienza ciò che, per lui stesso, ha preso forma di coscienza essoterica”. L’insufficiente esposizione del principio lo costituisce come limite musaico, come ispirazione. Ma, per poter scrivere, per poter diventare anche per noi ispirazione, il maestro ha dovuto smorzare la sua ispirazione, venirne a capo: il poeta ispirato è senz’opera. Questo spegnimento dell’ispirazione, che trae il pensiero dall’ombra del suo occidente, è l’esposizione della Musa: l’idea.»1

Il nostro tempo

«Il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse».

Il contemporaneo

«Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. […] È dalla nostra capacità di dare ascolto a quell’esigenza e a quell’ombra, di essere contemporanei non solo del nostro secolo e dell’“ora”, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato, che dipenderanno l’esito o l’insuccesso del nostro seminario».3

L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica

«L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica – e la sua apparente comprensione a partire dall’aisthesis dello spettatore – non sarebbe allora un fenomeno così innocente e naturale come siamo ormai abituati a rappresentarcelo. Forse nulla è più urgente […] di una distruzione
dell’estetica che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’opera d’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile
distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte e l’aprirsi di fronte ad essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare. Ma forse proprio tale perdita e un tale abisso sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno se vogliamo che l’opera d’arte riacquisti la sua statura originale. E se è vero che è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, noi siamo forse oggi in una posizione privilegiata per comprendere il senso autentico del progetto estetico occidentale».
(L’uomo senza contenuto, p. 17)

«Se e quando l’arte avrà ancora il compito di prendere la misura originale dell’abitazione dell’uomo sulla terra, non è perciò materia su cui si possano far previsioni, né possiamo dire se la poiesis ritroverà il suo statuto proprio al di là dell’interminabile crepuscolo che avvolge la terra aesthetica. La sola cosa che possiamo dire è che essa non potrà semplicemente saltare al di là della propria ombra per scavalcare il suo destino».
(L’uomo senza contenuto, p. 155) Continua a leggere

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Domanda: Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?  La storia letteraria fatta a suon di esclusioni e di rimozioni, Poesie e Commenti di Francesco Paolo Intini, Gino Rago, Giorgio Agamben, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa

Foto Roma cassonetti con sposini

Roma, 2019, cassonetti della immondizia con foto di sposini gettate nella discarica

Francesco Paolo Intini

Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?

È una poesia che nasce ispirata da qualcosa ma finisce nel nulla-Qui è una signora, forse la direttrice dell’ufficio, che mi vieta di prendere due biglietti di prenotazione per lo stesso servizio- ma poi si dissolve cercando un significato non reale. Nessun punto è definitivamente al suo posto, con un senso compiuto definitivamente. Ogni verso respira per proprio conto ma finisce di respirare nel momento che cerca un raccordo. L’ispirazione interagisce con mondi insospettabili. Spesso con quello tragico.
Altre volte con l’ipermoderno. Fa uso di norma di un tempo reversibile che modifica il passato fino a falsificarlo e muove i fenomeni in senso inverso per cui l’entropia non esiste.
E dunque non c’è nulla da comunicare, nessuna lezione da impartire, nemmeno un palcoscenico da commuovere o da coinvolgere o qualcosa che assomigli alla ricerca di un premio, una rivincita, una prestazione dell’Io.
La poesia si svincola dall’etica. Diventa un movimento impossibile da gestire, da finire.
Incontra le contraddizioni che stanno alla vita civile come i teoremi alla geometria. “Qui non arrivano gli angeli \con le lucciole e le cicale …Qui è logico\ Cambiare mille volte idea” (Vasco Rossi – Gli angeli). In questo caso i rappresentanti della metafisica sono gli stessi della razionalità calcolante. I barracuda che inventano le strade per intrappolare i passanti e chiudere le vie di fuga.

Eva degli uffici postali

La scacchiera impose le sue leggi.
Una vipera soffiante il nido postale.

Vestale nel suo tempio.

L’oracolo parlò in pausa pranzo
delle scarpe sfuggite al controllo.

Una polvere le coprì. Libertà va cercando.
Dubbio, anarchismo e rigurgito di peste.

Fiorisce l’algoritmo sullo schermo.
Devia la colonna di cicche dal rigo di mattoni.

Mai più afferrare il frutto dello schermo
Il pensiero scopa le macchine.

Una mantide senza sesso
La vestaglia di lino.

*

Zampilla sangue dal terreno.
Ricaveremo combustibile per accendere Tebe.

Adattamento di carne a trivelle.
Un teatro rinnega la regia.

*

Si ha l’impressione di mani che strappano
E di alberi che lasciano fare.

*

Portarono via gli occhi
il frutto del ventre.

Ifigenia comandò una squadra di Kapò.
Persino l’aria fu divisa in fucili.

Bandito l’ossigeno nel giardino.

Delfi soffiò senza sorprendere.
Vietato ventilare le foglie lievi.

Solo i cartelloni restarono vivi
e risero, attorcigliati ai tronchi.

*

Le radici afferrano nuvole.
Ascoltano il rumore d’ingranaggi.

Una buona digestione anticipa il pranzo.
Eva, padrona dell’Eden, vieta di mangiare la mela.

Scorre l’asfalto sotto le auto.
Barracuda inventano le strade.

Nessuna uscita nella camera da letto.

(inedito)

Giorgio Linguaglossa

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».1

Le strutture ideologiche post-moderne, dagli anni settanta ai giorni nostri, si nutrono vampirescamente di una narrazione che racconta il mondo come questione «privata» e non più «pubblica»; di conseguenza la questione «verità» viene introiettata dall’io e diventa soggettiva, si riduce ad un principio soggettivo, ad una petizione del soggetto. Da questo momento, la poesia cessa di essere un genere pubblicistico per diventare un genere privatistico. Questo deve essere chiarissimo, è un punto inequivocabile. Che segna una linea che bisogna tracciare con la massima precisione.

E questo assunto Mario Lunetta lo aveva ben compreso fin dagli anni settanta. Tutto il suo interventismo letterario nei decenni successivi può essere letto come lo sforzo di fare della forma-poesia una questione pubblicistica, di contro al mainstream che ne faceva una questione privata, anzi, privatistica.

La pseudo-poesia privatistica alla Mariangela Gualtieri e alla Vivian Lamarque intercetta la tendenza privatistica delle società a comunicazione globale e ne fa una sorta di pseudo poetica, con tanto di benedizione degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale.

1 M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017

 

Giuseppe Talìa

Di Mario Lunetta non posso non fare altro che postare la sestina a lui dedicata in La Musa Last Minute, Edizioni Progetto Cultura, 2018.
Recentemente mi è stato detto che con La Musa Last Minute, io avrei in realtà proposto una “Antologia” di poeti contemporanei in versi. Non ci avevo pensato.

Mario Lunetta

“Muoiono anche i grandi poeti.”
C’è una lunetta perfetta stanotte.
Una lunetta comunista, anti-arrivista
Che non baratta la contraddizione
Col ghigno marxiano degli accalappiacani
Con la lingua funginosa di villi&villani.

Approfitto per chiedere agli interlocutori, qual è la differenza tra l’io lirico e l’Io narrante?

Gino Rago

Recensendo di recente le Poesie di Carlo Michelstaedter per la Piccola Biblioteca Adelphi, a un certo punto della recensione meditavo cosi:

“[…] Quali fenomeni linguistici possono proporsi o semplicemente affacciarsi nel far poesia allorché una più o meno lunga tradizione letteraria e anche un intero sistema stilistico cadono d’un tratto in frantumi determinando un vuoto?
Tale vuoto nasce da un qualcosa dentro la letteratura o al di fuori di essa?

Questo vuoto può dar luogo all’avvento di nuovi linguaggi?

Dalla critica più agguerrita e competente abbiamo appreso che al mutamento della società cambia anche la vita stessa delle persone. La conseguenza più diretta ed inevitabile è la rottura di quello che viene indicato come “patto comunicativo” fra poeta e pubblico: cioè, allo sgretolarsi di questo patto si assiste alla rottura di quella sorta di intesa, di accordo fra autore e pubblico.

Ciò è quanto si è verificato anche nel Novecento letterario-poetico europeo e anche italiano dopo la scomparsa di coloro che vengono definiti
Autori-Evento, Autori cioè che con la loro opera (per esempio Baudelaire, Whitman, Dostoevskij, Rimbaud, Nietzsche, Freud) spezzano l’accordo preesistente letteratura-pubblico e niente più, romanzo, estetica, filosofia, poesia, rimane come prima.
Per esempio, in Italia, Dino Campana (morto in manicomio) è il poeta che segna l’interruzione della continuità del “patto comunicativo” cui si è fatto cenno.
Con Carlo Michelstaedter (morto suicida ad appena 23 anni) questa interruzione si rafforza e diviene definitiva[…].”

Oggi, rileggendo questi due inediti di Mario Lunetta, a proposito del pensiero di Linguaglossa al centro della sua nota sulla non presentabilità né rappresentabilità del mondo in cui Lunetta cercava di operare, e riferendomi ad alcuni versi dei 2 inediti, a versi come questi:

“[…] il supposto immortale
non sa allora trovare altro conforto che pronunciare
a voce alta, specchiandosi in un olio di Cagli
tanto simile a un oscuro geroglifico gremito
di spazi inenarrabili, questo SOS che ha tutta l’aria
di un help pronunciato un attimo prima del naufragio:
Via, tenera amica, guarda ancora l’immortale
che conosci così bene: sì, proprio lui che a stento
ricorda il suo nome[…]

credo che Mario Lunetta poteva essere, aveva tutte le carte in regola per essere nel suo tempo un “Autore-Evento” in grado di spezzare il patto comunicativo preesistente fra poesia e pubblico del suo tempo, in modo che nulla fosse più come prima, filosofia, estetica, poesia.

Ma le superpotenze delle massonerie editoriali meneghine, anche sabaude e anche in parte dello stato pontificio glielo hanno impedito, a favore dell’esangue minimalismo…

I 6 versi di Giuseppe Talìa condensano felicemente, nella sua Antologia in versi di poeti contemporanei, il sentimento di Mario Lunetta sulla sua collocazione nel mondo con quella rasoiata “lunetta comunista, anti-arrivista…”

Giorgio Linguaglossa

 La storia letteraria fatta a suon di esclusioni e di rimozioni

Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, e compito della critica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni estetiche da interessi di parte. In tal senso, la rimozione e la cancellazione di un poeta come Mario Lunetta dalla scena poetica della seconda metà del novecento fino ai giorni nostri, è una operazione strategica: si vuole cancellare un intero settore della nostra storia letteraria recente in modo che chi resta sul proscenio della scena siano soltanto i sostenitori di gruppi di interesse editoriale.

Altra cosa è la individuazione della linea che naturalmente segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica (del tipo di quella sostenuta da Mario Lunetta) su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e acritiche che continuano inconsapevolmente la grammatica epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco.

Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si è definitivamente conclusa. E che occorra aprire una nuova pagina della poesia italiana. Con una sola parola: sono convinto che occorra discontinuità, imboccare con decisione la strada che ci conduca verso la nuova poesia, verso una nuova ontologia positiva, verso una nuova ontologia estetica.

Giorgio Agamben

Riporto il brano di Giorgio Agamben sulla  vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca (g.l.)

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

1] Giorgio Agamben in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114 Continua a leggere

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Strilli Lucio Mayoor Tosi

Composizione di Lucio Mayoor Tosi

La rivista pubblicherà le riflessioni dei poeti che vorranno cimentarsi nella risposta a questa Domanda:

Parafrasando Heidegger:

La fine della poesia e il compito del pensiero poetante.

Che poi è il medesimo quesito posto dall’Ombra:

Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?

 

Lucio Mayoor Tosi

Ho tardato perché. Hai tardato. Ho tardato.
Ho incontrato HURG. HuRg… HURG. HURG!

HURG! HURG? HURG! Hurg.
Hai fatto tardi perché hai incontrato un pericoloso Hurg!

HURG, grosso. Ah è tornato. Ha catturato un Hurg!
Hurg!? Hurg. Un grosso hurg. UUUh!

UUUh! Uh uh uh. Andiamolo a prendere

Figure haiku di Lucio Mayoor Tosi

Composizione di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa
5 agosto 2019 alle 18:57

La «voce» è quella che è presente nel gramma. Fuori del gramma la «voce» non esiste, è un ni-ente. La «voce» di una poesia de-istituisce tutta la poesia precedente, la de-coincide, e la nientifica. E questo è il miglior modo per articolare la tradizione. Non si dà mai una tradizione stilistica se non nei magazzini delle accademie, cose buone per le tesi di laurea e i dottorati di ricerca. Comunque la si giri, la «voce» deve essere irriconoscibile, se è riconoscibile, non si tratta di una «voce» ma di chiacchiera, del già stato, del defunto. Ecco perché dico che questa poesia di Lucio Mayoor Tosi è una «voce» assolutamente singolare, dotata di singolarità e quindi di irriconoscibilità. Tutta la restante poesia che noi riconosciamo rientra a buon diritto nella letteratura, nel buon costume letterario, fa parte del buon costume. Se fosse «riconoscibile» ricadrebbe nel genere del buon costume letterario, e quindi varrebbe zero.

La nuova poesia se è nuova deve lavorare sul gramma, e mai sulla «voce» che, di per sé è parente stretta della chiacchiera. Ogni linguaggio poetico una volta detto, si toglie, viene de-coinciso, non esiste più nel presente ma per il presente. È già parte del passato.

Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

«Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio, è Figura del presente. La impossibilità del linguaggio ad ospitare tutto il dolore del mondo coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

«Una ricerca poetica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia.»

1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

Composizione di Lucio Mayoor Tosi

Marina Petrillo

da: materia redenta (Progetto Cultura, 2019)

Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.

Limen rivelato in distillio di tempo
a calco di ignoto cammino.

Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
imene dei molti inganni.

Ad ombra di me indossai il sudario
abitando la solitudine degli Esseri Primi.

Carlo Livia

…“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.
La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

*

Nell’ignoto spazio, ogni cosa è componimento. Interludio vittorioso al sogno, dell’insolito tramestio manto, quando sogni trapassano l’imene della notte . Oracolare lento sovrapposto allo sbiadire del verbo incolume al sacro involucro. Parestesia, immobile insetto di cristallina forma; dubbio volatile insorto a universo sconoscente l’interludio dei mondi. Stabilisce ritmo il ricordo di sé su una sedia accidiosa alla calma dell’estate. Non riconosce stagione il limbo: lento catturarsi all’istante.
Aspira alla completezza, misterioso, il tramestio dell’io nel perdurante gesto di una Età dell ‘Oro. Turbinante forma accesa tra diapason avvertiti in fessurante linea tramortita dal gelido stridio del risveglio. Alla gemella prima luce.

(Marina Petrillo)

Giorgio Linguaglossa

cara Marina Petrillo,

La tua poesia tratta del nulla come ciò che consente alle parole di venire alla presenza. È una poesia figlia del suo tempo. Profondamente nichilista a dispetto della tua volontà e delle tue intenzioni.

L’essere non è un ente né il fondamento degli enti, ma l’evento del loro venire alla presenza.

La parola è ciò che viene immediatamente alla presenza. O meglio, la parola è ciò che permette alla non parola di venire alla presenza. Quindi, quando ci occupiamo dell’indicibile in poesia noi non possiamo che fare riferimento alla parola come quella «cosa» che viene-a-noi e, senza la quale non ci sarebbe nemmeno il moto del venire-a-noi.

La parola-ciarla della poesia plastificata e nebulizzata che si fa oggi è quella parola che troviamo già fatta, precotta, pronta all’uso.

Il nulla non è un ente né il fondamento degli enti, ma l’evento del loro venire alla presenza. Noi non possiamo mai vedere il nulla, ma il nulla è quella cosa che ci consente di vedere…

Giacomo Borbone

La fine della filosofia e il compito del pensiero. Alcune considerazioni su Heidegger

Scrive Heidegger nel suo Nietzsche che «Con l’interpretazione dell’essere incomincia pertanto la meta-fisica. Essa caratterizza in seguito l’essenza della filosofia occidentale.
La storia di quest’ultima, da Platone fino a Nietzsche, come storia della metafisica. E poiché la metafisica incomincia con l’interpretazione dell’essere come “idea” e questa interpretazione rimane determinante, tutta la filosofia, da Platone in poi, è “idealismo” nel senso univoco della parola secondo il quale l’essere viene cercato nell’idea e nell’ideale. Perciò, dal punto di vista del fondatore della metafisica si può dire anche: tutta la filosofia occidentale è platonismo. […] Nella storia dell’Occidente, Platone diventa l’archetipo del filosofo».15

Se la filosofia occidentale, cioè la metafisica, nasce con Platone e si dispiega a livello planetario nella sua forma più estrema con la tecnica moderna, allora cosa vuol dire, nella riflessione heideggeriana, “fine della filosofia”? Per Heidegger l’espressione fine della filosofia non assume delle connotazioni negative, nel senso in cui una cosa perisce, ma intende piuttosto il compimento di qualcosa nello specifico, il compimento della metafisica ad opera della tecnica moderna. Heidegger collega l’antico significato della parola tedesca Ende (fine) a Ort, cioè “luogo”, giacché per il filosofo di Me§kirch la fine della filosofia «è quel luogo, in cui la totalità della sua storia si raccoglie nella sua estrema possibilità. Fine come compimento (Vollendung) significa questo raccoglimento. […] Fine significa, come compimento, il raccoglimento nelle possibilità estreme».16

Questo lungo processo, iniziato con la filosofia di Platone, ha oramai raggiunto il suo apice e quindi il suo raccoglimento con la tecnica moderna ed in particolar modo con la cibernetica. A detta di Heidegger, per la filosofia era non soltanto ovvio ma anche legittimo diventare una scienza empirica dell’uomo, cioè «di tutto ciò che per l’uomo può divenire oggetto esperibile della sua tecnica, tramite cui egli si installa nel mondo modificandolo secondo le molteplici maniere del lavoro con cui gli dà forma. Tutto ciò si compie dappertutto sulla base e secondo le norme dell’esplorazione e dello sfruttamento scientifico dei singoli settori dell’essente».17

La frammentazione della filosofia nelle sue varie diramazioni scientifico-disciplinari era per Heidegger del tutto legittima, giacché il suo luogo (Ort) più proprio e peculiare si trova «nella scientificità dell’agire sociale dell’uomo».18
. Ciò significa che la filosofia, se incastonata all’interno di questa struttura concettuale ereditata dal platonismo, non può che approdare ad esiti tutt’al
più epigonali, giacché non c’è più nulla da dire. Se un tempo la filosofia si occupava, per dirla con Husserl, delle ontologie regionali, adesso questo compito è riservato alle scienze e al loro pensiero calcolante. Pertanto, continua Heidegger: «La fine della filosofia si mostra come il trionfo dell’organizzazione pianificabile del mondo su basi tecnico-scientifiche e dell’ordinamento sociale adeguato a questo mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione del mondo (Weltzivilisation) fondata sul pensiero dell’occidente europeo».19

Ma se le cose stanno così – e su questo Heidegger non ha alcun dubbio – allora quale compito resta al pensiero? Se con la tecnica moderna la filosofia è giunta al suo compimento, inteso come raccoglimento nella possibilità estrema e quindi ultima, allora, precisa Heidegger, bisogna ripartire da quella prima possibilità che i Greci dissero ma non pensarono. 20

Si tratta, insomma, di andare alle radici del problema, secondo il metodo filosofico applicato da Heidegger il quale, com’è stato fatto notare, consiste proprio nel «risolvere i problemi filosofici descrivendo il fenomeno alle radici del problema in modo tale da poterlo vedere libero da qualsiasi distorsione».21

La fine della filosofia e il compito del pensiero

Il compito che resta al pensiero consiste nel determinare ciò che riguarda il pensiero», cioè la Sache, ossia la cosa in questione. Heidegger, a tal proposito, cita due casi in cui la filosofia «ha da se stessa richiamato espressamente il pensiero zur Sache selbst, alla cosa stessa»22: Hegel e Husserl. Per entrambi, pur nella diversità dei loro metodi, la Sache della ricerca filosofica non è altro che la soggettività della coscienza, ma la semplice spiegazione dell’appello alla «cosa stessa» non ci è di alcun supporto, per cui, scrive Heidegger, diventa piuttosto necessario «chiedere cosa nell’appello zur Sache selbst resta impensato». 23

Ciò che resta da pensare è proprio ciò che non è stato pensato, ossia la verità come alétheia, la verità intesa come disvelamento (Unverborgenheit). Ciò che Heidegger intende per verità non coincide con la nota teoria della corrispondenza,con la adaequatio rei et intellectus, la quale pensa la verità come concordanza della conoscenza con l’ente è in tal senso che bisogna leggere la famosa affermazione heideggeriana secondo la quale «Il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare il pensiero greco ancora più grecamente»,24

La metafisica è in se stessa l’evento della dimenticanza del significato originario dell’essere, dimenticanza che in ultimo, nell’epoca della tecnica  planetaria, giunge al suo culmine massimo, là dove il  pensiero calcolante, proprio dell’impostazione scientifico-tecnica, con le sue leggi fisse e stabili, finisce per sostituirsi al  pensiero poetico- meditante, l’unico in grado di pensare e dire la verità dell’essere. Il dominio epocale della tecnica dà così avvio ad un vero e proprio capovolgimento dei modi di pensiero che delimitano la posizione dell’uomo dentro al mondo e in rapporto al mondo, per cui questi è chiamato a divenire il protagonista assoluto di un progetto di padroneggiamento operativo-conoscitivo in cui il reale è «un oggetto a cui il pensiero calcolante sferra i suoi assalti, ai quali nulla èpiù in grado di opporsi. La natura si trasforma in un unico, gigantesco serbatoio, diventa la fonte dell’energia di cui hanno bisogno la tecnica e l’industria moderne. La potenza che si nasconde nella tecnica moderna è ciò che determina la relazione dell’uomo a ciò che è».

Il mondo della tecnica è il mondo della soggettività incondizionata in cui l’essere è interpretato come volontà di potenza, è il mondo dell’uomo prometeico che tutto può e tutto dirige, che  predomina e che si afferma mediante l’organizzazione totale della terra che si esplica nella scomposizione dell’elementare e nell’assegnamento di leggi al reale, nell’oggettivazione, nella pianificazione, nella reduplicazione della natura.

Poiché questo calcolare domina completamente la volontà, sembra che accanto alla volontà non vi sia più null’altro che la sicurezza del puro impulso al calcolo, per il quale la prima regola del calcolo è il “calcolare tutto”.

Ciò su cui ci interessa riflettere in questa sede è che, secondo le categorie  interpretative heideggeriane, interrogarsi sul significato della tecnica moderna significa ripensare il senso compiuto della metafisica, il destino (Geschick) stesso dell’essere  dell’avvento dell’epoca tecnica viene intravista infatti la necessaria conclusione e il compimento ultimo del pensiero occidentale, ossia della metafisica della soggettità di cui Platone è padre, giunta a manifestarsi, nella sua forma culminante, con la volontà di potenza nietzscheana. Il dominio della tecnica si configura così come l’acme ultimo di un processo inderogabile che ha interessato il destino dell’umanità occidentale

15 M. Heidegger, Nietzsche, cur. F. Volpi, Milano, Adelphi, 1994, p. 714.
16 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero cit., p. 175.
17 Ivi, p. 176.
18 Ibidem
19 Ivi, p. 177.
20 Ivi
21 M. Wratthall, How to Read Heidegger, London, Granta Books, 2005, p. 9.
22 M. Heidegger,
cit., p. 179.
23 Ivi, p. 182.
24 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cur. A. Caracciolo, Milano, Mursia,1990, p. 112.

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La Nuova Poesia di Marie Laure Colasson, Francesca Dono, Mauro Pierno, L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, Il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica, Riflessioni di Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi

 

Botticelli polittico

Giorgio Linguaglossa

La lezione che ci viene da Mallarmé è che, da quando si è dichiarato che «Dio è morto», il poeta moderno è obbligato a crearsi PRIMA una propria metafisica, e soltanto DOPO può iniziare a scrivere poesia. Ecco la ragione che ci spinge da tempo a delineare il perimetro e i contenuti di una nuova metafisica. Senza metafisica si finisce per creare una poesia acefala, una poesia comunicazionale, una poesia-chiacchiera.

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

(Vincenzo Vitiello)

Più volte mi è stato chiesto che cosa esattamente intenda quando parlo di «patria metafisica» e di «patria linguistica» con riferimento alla poesia. La domanda è pertinente ma sarebbe sciocco pensare che io possa dare una risposta conclusiva ed esaustiva e che magari possa racchiudere la risposta in una o due paginette. A chi abbia la voglia di andare a leggersi i moltissimi interventi da me fatti su queste colonne, anche riguardanti poeti contemporanei, può trovare dispersi qua e là degli spunti, delle idee…

Qui posso dire soltanto che le parole fondamentali, le Grundwörter, che hanno segnato il cammino del pensiero occidentale, sono quelle che hanno pronunciato i grandi poeti del novecento. La verità si dà soltanto nella forma della costellazione scrisse un giorno Benjamin. Occorre andare a studiare la costellazione delle parole fondamentali di un poeta per accorgersi quanto la costellazione delle parole fondamentali di una poetessa come Maria Rosaria Madonna (1942-2002) sia distante dalle parole di Zanzotto o di un tardo Fortini… Ecco, quelle parole formano un cerchio. Sono sempre quelle parole che stanno dentro quel cerchio che producono senso, e non altre. Le parole di una patria linguistica sono segretamente imparentate tra di esse, e tutti questi legami stabiliscono una parentela e fondano una patria, una patria metafisica. Il poeta abita quella patria e non un’altra. Un poeta non può cambiare patria linguistica. Può evolvere, sviluppare certe metafore fondamentali ma sempre all’interno di una determinata patria metafisica e linguistica.

Ci sono epoche caratterizzate dall’attesa, attesa che si verifichino le condizioni affinché una patria metafisica possa sorgere. E questa attesa può anche durare decenni o, addirittura, secoli. In questi interregni temporali la poesia che si farà sarà una poesia priva di patria metafisica, e quindi destinata ad essere perenta, insignificante, ed essere dimenticata.

Ci sono poeti che con il loro lavoro preparatorio, con i loro avamposti creano le condizioni affinché una patria metafisica delle parole possa finalmente trovare luogo. Questo lavoro preparatorio dei poeti non è mai vano, prima o poi arriverà un poeta che raccoglierà i loro sforzi e troverà una patria metafisica presso la quale abitare. Ed entrerà ad abitarvi, condividendone il destino. Perché il destino di un poeta è scritto nella sua patria metafisica e linguistica. Lì, non si può mentire o barare.

Il linguaggio di Maria Rosaria Madonna potrà sorgere soltanto quando il linguaggio di Zanzotto e di Fortini sarà tramontato per sempre. Ma, allo stesso tempo, il linguaggio di Madonna apre le porte e preannuncia la poesia di Mario Gabriele e quella di Gino Rago.

Francesca Dono

da ci tocca nominare il Nulla

/…/

Dall’occhio del ciclone la margarina non mostra prove. Reale il raschiosulle case popolari. La polpa vegetale appanna i tetti e le antenne.Per l’oscurità blu sottosuolo. Tanto sudiciume sfregato contro le finestre. Mr. Crocodile scarta un bambino alla volta. Sono doni-dice-Come caramelle
comprate col bancomat. Un mercoledì ordinario.Peso del tempo.

/…/

apnea dei vestiti. Il quark ha composto rigonfiamenti e pianure. Lunghe notti di letargo.Tutto per far appassire la boa luccicante. Una cazzata cherry pop . Abbandonata a se stessa. Capite l’elemosina? Pungere le orecchie-Signorina Pearl – A misura del foro istantaneo.La luna sbadiglia con i corbezzoli della ruggine.

Dieci minuti.Venticinqueottobreduemiladiciannove. Un rantolo discute con la morte .Musica di frodo.

/…/

zigzag sulla rosa artica/Metà senza petali/L’altra parte discesa al pietrisco/Abbassare la testa e seguire il dorso tremante/ Un’ombra nel nido freddo/

[Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.]

Commento di Giorgio Linguaglossa

Eccellenti composizioni, Francesca Dono, con questi lavori sei entrata a pieno diritto nella nuova ontologia estetica. Certo, nominare il nulla non è affare di poco conto, hai dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali e di automobili digitali che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce in questi tuoi lavori è la disconnessione semantica, sintattica e ontologica del tuo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla, e lo fai con una fragranza asciutta e priva di utopia, priva di progetto. È il tuo account, sono i nuovi avatar ciò di cui tu narri… o meglio, non narri. E, così facendo e disfacendo nomini il nulla. Complimenti.

Tre poesie inedite di Marie Laure Colasson

19.

L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins

Les yeux au ciel bleu
mélodie modulée
piano et violon se répondent
fusion velours des instruments

Corps à corps des échanges des pulsions
eros chimique voluptueux

Les oranges les bruns les rouges s’entrelacent
tranchés de noir
quelques taches de blanc pour une lumière à cru

Les murs des villes
fissures et lézardes enduits couleurs-plastiques
grisailles sanglantes déchirures

*

L’albatro
sospesa stretta forte lei vuole
l’acqua trasparente lo scintillio dei pesci
dei fondali marini

Gli occhi al cielo azzurro
melodia modulata
pianoforte e violini si rispondono
fusione velluti degli strumenti

Corpo a corpo scambi pulsione
eros chimico voluttuoso

Gli aranci i bruni i rossi si intrecciano
trinciati di nero
alcune macchie di bianco per una luce a crudo

I muri della città
fessure crepe intonaci color plastica
grisaglie sanguinanti lacerazioni

20.

La lumière cristalline oeuvre sur son mental
et gaiement son corps exulte

Ler étoiles brodées de quatre lettres
des peuples entiers y participent

Malipiero magicien des sonorités
courtise assidûment Giulietta sur son piano

Une vague brune s’étend au delà des frontières
sans répit l’homme dégueule son venin

Eredia joue à la guerre
tandis que dans ses yeux le monde se renverse

Rupture d’un silence écouté
des miaulements de chats en maraude

Esther court dans l’obscurité
rencontre inattendue d’un espace clos

Una enveloppe cachetée “attenti alle truffe”
contient une escroquerie plus savante

Kantemir Balagov regard pénétrant
sans pitié fait tomber les masques

au sein de ruines de Leningrad

*

La luce cristallina lavora sul suo mentale
e gaiamente il suo corpo esulta

Le stelle ricamate di quattro lettere
di popoli interi vi partecipano

Malipiero mago delle sonorità
corteggia con assiduità Giulietta sul suo piano

Un’onda bruna si propaga al di là delle frontiere
senza sosta l’uomo vomita il suo veleno

Eredia gioca alla guerra
mentre nei suoi occhi il mondo si capovolge

Rottura di un silenzio ascoltato
di miagolii di gatti in sarabanda

Esther corre nell’oscurità
incontro inatteso d’uno spazio chiuso

Una busta sigillata “attenti alle truffe”
contiene una truffa più astuta

Kantemir Balagov sguardo penetrante
senza pietà fa cadere le maschere

nel grembo delle rovine di Leningrado

 

 

21

Le vent fait voler les feuuilles jaunies
ne laissant que l’austère squelette de l’arbre

Laure oublie son sac contenant tout sa vie
ne le retrouve en aucun lieu

Un enfant plus petit que son accordéon
appui sur les touches nacrées

Pietr sandwich eau minérale
plonge dans le vain sens des mots sur son portable

Des poètes aux barbes gourmandes aux pas perdus
sourire amusé de Dostoievski

Sergej en ventriloque déclame
Eeredia n’entrevoit qu’un coeur égratigné

La terre s’ouvre
des hommes murés dans le secret des aurores boréales

Dostoievski retrouve le sac de Laure
feuilles jaunies vains mots fausses barbes accordéon portable

Comme cendre elle reste suele en secret

*

Il vento fa volare le foglie ingiallite
non lascia che l’austero scheletro dell’albero

Laura dimentica la sua borsa che contiene tutta la sua vita
non la ritrova in alcun luogo

Un bimbo più piccolo della sua fisarmonica
preme sui tasti di madreperla

Pietr sandwich acqua minerale
si tuffa nel senso vano delle parole sul suo cellulare

Poeti dalle barbe golose dai passi perduti
sorriso divertito di Dostoevskij

Sergej ventriloquo déclama
Eredia non vede che un cuore graffiato

La terra si apre
uomini murati nel segreto di aurore boreali

Dostoevskij ritrova la borsa di Laura
foglie ingiallite vane parole false barbe fisarmonica cellulare

Come cenere rimane sola in segreto

Commento

In queste composizioni di Marie Laure Colasson ci troviamo di fronte al dimagrimento e alla essenzializzazione della struttura frastica: dimidiamento degli aggettivi, eliminazione della punteggiatura, adozione del distico, adozione dello stile nominale, precedenza assoluta al sostantivo e al nome proprio, eliminazione delle particelle connettive del discorso, adozione sistematica del salto e della disconnessione sintattica, impiego della peritropè, interruzione sistematica dell’unità frastica. Tutti elementi strutturali di un periodare che punta alla essenzializzazione del discorso poetico. Che sia una poetessa francese, ultima in ordine di tempo pronipote legittima di Mallarmé, ad operare un simile disboscamento degli elementi non essenziali del discorso poetico, non può non colpire. Ciò vuol dire che questa spinta alla essenzializzazione del discorso poetico è un comune sentire che è presente da tempo in tutta Europa, si avverte che c’è un bisogno di alleggerire il discorso poetico di tutti i tropi eliminabili e non strettamente indispensabili. Ed è quello che tenta di fare la nuova ontologia estetica.
Dostoevskij, Eredia, Sergej, Laura, Pietr, Kantemir Balagov etc sono nomi, indicano avatar, account, mittenti spogliati di significazione secondaria e primaria, sono delle icone semantiche che rimandano al nulla dietro di loro, al nulla che sta dietro e davanti al nostro mondo, si indicano azioni disperse avvenute forse per caso, stocasticamente improbabili, quantisticamente irrelate da entanglement.
Così, noi scopriamo con raccapriccio e rammarico che la poesia ha cessato di essere rappresentativa ed è divenuta presentativa. Si presentano le cose, le parole così come esse sono nel nostro mondo: mere etichette, label, notizie di se stesse che ci raccontano in modo indiretto di un mondo colpito da entanglement e da disfania, un linguaggio insieme disfanico e diafanico, disfonico e disforico, distratto, sfrattato dal reale, dematerializzato e de-semantizzato.

L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, accanto a noi, in modo inspiegabile e insondabile. In tal senso, possiamo dire che l’evento giunge alla sua fine, perché finendo, finisce anche la storia dell’essere che quell’evento racchiudeva. Scrive Heidegger: «Il pensiero che si raccoglie nell’evento», «Che cosa si può dire allora? Solo questo: l’Ereignis ereignet», tutto è trasparenza totale, e proprio per questo, oscurità. L’albatro, simbolo un tempo della purezza e del sublime è diventato metro della trasparenza dell’essere e di tutte le cose, ergo, oscurità, segnale muto, segno cieco, cieca diafania:

L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins

Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che dell’essere è destinale, quel che viene meno ora, quel che si sottrae è «l’eau transparente les miroitement des poissons», è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale purtuttavia alla fine di questa storia che abbiamo subito come sottrazione e velamento. Sottrazione e velamento che appartengono alla metafisica come loro limite, si rivelano invece essere proprietà dell’evento stesso, di cui ci appropriamo e ci dispropriamo. Ciò vuol dire che la sottrazione si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero non vi presta più attenzione, perché viene colto da smemoratezza e dimenticanza. Ciò che è da-pensare, questa diafania universale, giunge alla sua fine, e il pensiero non vi presta più attenzione per quanto possa ben continuare ancora a esistere la metafisica. Perché ormai che qualcosa vi sia nell’«acqua trasparente», non significa che sia essenziale né significativo per noi giunti al termine della storia dell’essere e della sua metafisica, «les miroitement des poissons» suonano alle nostre orecchie come il suono di un oboe sommerso, come il colore delle barriere coralline in via di disfacimento.

Il pensiero post-metafisico che si annuncia in questa poesia indica allora un modo di abitare le cose in via di sbiadimento, quel modo che abdica ad una presa di possesso del mondo da parte dell’io egolalico ma di un possesso spossessante, di una dis-propriazione, di un alleggerimento di ciò che può essere scaricato, un abitare la mondità senza la presunzione di averne la chiave per il suo accesso e la sua processualità.

(Giorgio Linguaglossa)

[Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica è coreografa di danza contemporanea.]

Mauro Pierno

P.P. Potente e preciso.
ma qualche tentennamento rimane.
Nella citazione
la dimenticanza. Il seme attentamente
inoculato può cosi nuocere alla creazione. Deve necessariamente finire. Lode
alla poesia con la scadenza.
Ha breve termine
la sintassi. Un popolo di formiche sfaticate.
Pure colle borsette dondolanti.
In Acheronte a folle.

[Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.]

Una citazione da Mallarmé, “La disdetta” di Marina Petrillo

 “I poeti che vivono d’ira e
beneficienza
Non conoscono il male
di questi dei oscurati,
Li dicono tediosi e senza
intelligenza”

Lucio Mayoor Tosi

Alle poesie NOE di Francesca Dono si accede per balzo, fin dalle prime parole. Nemmeno per un momento si ha l’impressione di un progressivo allontanamento dalla tradizione. Francesca è scaltra – nella negazione del significato. – In “Squarci”, per sue vie anche Edith Dzieduszycka ottiene risultati di questo tipo, di non significazione.
Comincio a familiarizzare con le poesie di Marie Laure Colasson, e mi piacciono, particolarmente se lette in lingua d’origine. Confesso però di non amare tanto il distico se disposto “ad elenco”. Intendiamoci, la mia obiezione è volta all’aspetto strutturale, qui per me a livello piuttosto basico (Le vent, Laure, Un enfant ecc.), e tuttavia nella fattispecie simile a qualcun altro della NOE.
Ringrazio Marina Petrillo per la citazione di Mallarmé. Molto pertinente ai giorni nostri.

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Poesia di Giorgio Linguaglossa da La notte è la tomba di Dio

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

foto di Evgenia Arbugaeva, la Torre

Giorgio Linguaglossa

(poesia inedita da La notte è la tomba di Dio)

Il bacio è la tomba di Dio

La torre del faro nella pianura di neve.
«Il bacio è la tomba di Dio».

C’erano scritte queste insensate parole
sopra l’ingresso della torre…

Ma forse non era quella la torre ma un’altra
che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico

dove sorge un’isba; nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva
sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.

Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti.
C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,

le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli.
[Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]

La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna.
Diventa luce.
[…]
La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
Nella picea onda del Canal Grande.

Ponte degli Scalzi.
L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.

Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica.
Il vento sfoglia le pagine dello spartito.
[…]
Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.

[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.]
[…]
Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir.
Ufficiali austriaci giocano a whist mentre il Signor K. asserisce:

«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà
non può violare il principio di non contraddizione.

Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti;
mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,

picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono,
a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…».
[…]
«L’universo è il cadavere di Dio e noi i suoi vermi.
Anche le parole che ora diciamo, il vento nella sua rovina
le porta via».
[…]
Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
è ritratta la Peste.

La Signora Morte impugna una pertica
che termina con una falce.

Ammassa i morti e taglia loro la testa.
E ride.

Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
E canta.
[…]
Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.
Wagner e List giocano a dadi

in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella

dell’«Amor sacro e l’Amor profano».
[…]
Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti
nel salotto color fucsia.

I clienti della locanda del buio brindano alla felicità
i calici di Murano scintillano.
[…]
Dio bussa alla porta d’ingresso; dice:
«posso aggiustare il rubinetto,

sistemare la lavastoviglie, riparare il frigorifero,
darle l’indirizzo di una casa di appuntamenti,

ho anche dei numeri per il Lotto…».
Incredibile, disse proprio così.
[…]
Ed entrammo in una stanza bianca, un pianoforte nero al centro.
Un bambino vestito di bianco suonava qualcosa

che i miei cinque sensi non percepivano.
Una voce dal parlatorio diceva:

«Il re morto è un dio vivente, il dio morto è un re che vive,
la tomba del re è la casa del dio

che si è dimenticato di essere un dio…».

Fu a quel punto che quelle parole inaccessibili risuonarono in me
mentre calpestavo il pavimento di linoleum bianco…
[…]
Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
“Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito

quel pensiero molesto.
Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:

«Non c’è più lutto tra i morti».
«Non c’è più lutto tra i morti».

*

[postilla dell’autore]
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Si tratta di un «polittico», parola che ritengo idonea, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto:
cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia.
Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.

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Paolo Valesio, Esploratrici solitarie (Poesie 1990-2017), Raffaelli editore, 2018, p, 186 € 20 Commento  di Giorgio Linguaglossa

 

gIF MAN SMOKE

è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?

Mi chiedo:

1) quali sono le esperienze significative che la poesia deve prendere in considerazione?
2) la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno e avranno       sull’avvenire e il presente della poesia?
3) è possibile la poesia in un mondo privo di metafisica?

Tre domande terribili. La poesia di Paolo Valesio parte dal bisogno di rispondere a queste tre domande sotterranee, di ricostruire delle parentele e dei legami parentali con la metafisica, quasi che questa consanguineità potesse sopperire alla mancanza di sangue, alla assenza di una metafisica delle parole. Per certi versi e somiglianze anche stilistiche la poesia di Paolo Valesio mi rammenta quella di Laura Canciani, anche lei poetessa di finissima ispirazione cristiana, anche lei in viaggio alla ricerca del Santo Sepolcro. Sottratta al «luogo», alla «patria metafisica», la migliore poesia contemporanea tenta di ricostruire e riallacciare i rapporti con la grande tradizione del Novecento, va in cerca della sua «patria» dimenticata e rimossa. È questa, penso, la problematica mission della poesia di Valesio, quel cercare di riannodare il “filo rosso” delle parole dagli anni novanta ai giorni nostri.

Scrive Valesio nella premessa al volume:

«Ci sono poeti che sviluppano la loro opera in modo lineare e ordinato, con puntualità (quasi ogni anno, una nuova raccolta); e vi sono d’altra parte poeti più “irregolari”, le cui opere appaiono a intervalli più o meno lunghi. Per parte mia, col tempo ho scoperto… che il mio lavoro si sviluppa con un altro tipo di “irregolarità”… quando le poesie cominciano a cristallizzarsi intorno a un nucleo, mi viene spontaneo rileggere la lunga serie negli anni… e temporaneamente lasciate da parte, per ripensarle e per inserire nel libro quelle che si rivelino pertinenti al nuovo nucleo. E così può accadere che questa raccolta contenga gruppi di poesie risalenti agli anni Novanta… Non so se… si possa parlare del famoso “filo rosso”, o al contrario di quel “filo bianco”… Probabilmente, la situazione qui è intermedia. Ma io credo che un filo ci sia (E intanto restano pronte molte altre poesie più o meno antiche, che aspettano di cristallizzarsi in future raccolte)».

Quello che rimane oggi, a distanza di quasi cinquanta anni della poesia con impianto narrativo-autobiografico, una volta caduta l’impalcatura ideologica dell’epoca tardo modernistica, quella che va grosso modo da Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) di Patrizia Cavalli al post-minimalismo delle scritture che uso definire «corporali» – in particolare delle scritture poetiche al femminile – si rivela essere una colloquialità corporale, ombelicale, post-utopica, che vuole officiare il rito di un simulacro di intimità, un dis-locamento del baricentro dell’«io» egolalico.
Ecco la risposta di Paolo Valesio:

Lo pterodattilo

Un uomo che si affidi solamente
alla sua intelligenza di pterodattilo
senza pensare che tutto
viene dall’alto
dovrebbe far ridere/piangere
anzi no – dovrebbe ispirare
una misura (da scuotere giù
con il resto della farina)
di compassione.

gif-tunnel

Un uomo che si affidi solamente
alla sua intelligenza di pterodattilo

La poesia di Paolo Valesio ci dice che il dialogo con l’interlocutore è diventato una genere problematico, un rimuginare sulla problematicità di una forma dialogo non più recuperabile. Il ricorso alla retorizzazione del corpo della poesia femminile di moda oggi si risolve in un vestito linguistico che non può rivelare alcun contenuto di verità. E mi chiedo, è ancora possibile rappresentare un «contenuto di verità», con annesso un contenuto di «senso»?, che non sia posticcio, arbitrario e programmaticamente feticizzato?
La poesia italiana che va di moda oggi illustra bene che un ordine di simulacri si sostiene solo sulla presupposizione di un ordine anteriore di simulacri. La tradizione deve essere ridotta ad un ordine di simulacri, così può essere de-funzionalizzata. Il magrellismo che è andato di moda in questi ultimi decenni illustra bene il cracking, la rottura della catena molecolare che ancora formava la cultura poetica dell’età precedente, diciamo almeno fino agli anni settanta del novecento, fino alle generazioni dei Bigongiari, Luzi, Fortini, Pasolini, Moravia, Siciliano, Ripellino. In seguito, come ha spiegato bene Alfonso Berardinelli più volte, è accaduto come una combustione di sintesi, quelle molecole culturali che erano andate distrutte durante il crack del modernismo avvenuto negli anni settanta, si sono ricomposte in altre catene di sintesi molto più adatte alla proliferazione nella cultura mediatica dei nostri tempi: ed ecco lo stile cosmopolitico della proliferazione poetica attuale dove il linguaggio è una segnaletica di flussi di parole-segni e di connessioni di superficie che hanno sostituito la precedente cultura della profondità. Assistiamo ad una concatenazione di parole-flussi dalla quale è scomparsa la profondità della letteratura, della tradizione.

Ha scritto il compianto Luigi Reina nel risvolto di copertina del mio libro nel 2011, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010):

«Se il linguaggio della post-avanguardia entrava in rotta di collisione con i linguaggi della scienza e della modernità, la Nuova Poesia Modernista prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla “differenza”, sullo “scarto”, sullo “statuto ambiguo”; e prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La Nuova Poesia Modernista è il tipico e più maturo esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia, tra Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire».

Ecco di nuovo Paolo Valesio:

Dietro ai quattro elementi due si annidano:
il fiore e il sangue

*

Preghiera della torera, 1

Ti aspetto inginocchiata sull’arena
prego le mie mammelle
costrette nel corpetto
prego le mie spalle larghe
sotto lustrini e mostrine.
ecco irrompi, toro – locomotiva
della coscienza esterna e schiacciante.

Conclusioni provvisorie finali

Il modo di produzione della cosiddetta «poesia» ha assunto una velocità edittale forsennata, dinanzi alla quale non c’è Musa che tenga, che riesca a stare dietro a questa velocità ultrasonica. La Musa è lenta, ama la lentezza, è gentile, si deposita, giorno dopo giorno, sugli oggetti e le cose come polvere… bisogna far sì che la polvere si sedimenti… soltanto gli oggetti e le cose impolverate possono trovar luogo in poesia, soltanto le cose dimenticate… tutto ciò che ricordiamo, ciò che la dea (un’altra dea!) Mnemosine ci dice è frutto del calcolo e della cupidigia. Alla strategia di Mnemosine dobbiamo opporre una contro strategia, dobbiamo dimenticare i ricordi, dobbiamo dimenticare i falsi ricordi che l’Inconscio ci pone sotto gli occhi, dobbiamo scavare più a fondo. La Musa è nemica di Mnemosine, ed entrambe sono segretamente alleate con un loro progetto di raggiro e di deviazione della nostra mente… dobbiamo perciò porre in atto delle strategie di contenimento e di inveramento dei ricordi, delle rammemorazioni. Dinanzi alle sciocchezze imbarazzanti che la poesia dei nostri tempi ci propone rimango allibito, ma dobbiamo farci forza e sopportare con tenacia questa montagna di banalità…
Il fatto è che le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate». Continua a leggere

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Donatella Costantina Giancaspero – Una poesia inedita – La neve a Roma, 9 febbraio 1965 – Commento filosofico di Giorgio Linguaglossa – Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole – La casa dell’essere è divenuta una abitazione scomoda ed inospitale, versione inglese a cura di Adeodato Piazza Nicolai, versione in francese di Edith Dzieduszycka

 

Roma neve 2

la poesia narra questo paesaggio innevato che è la memoria – Roma, 26 febbraio 2018, vista Quartiere Ostiense Piramide, foto di Donatella Costantina Giancaspero

Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015); fa parte della redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole.

 Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,

mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche ridicolo. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarlo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50,  io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) possiamo pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.

È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia» (la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo), di un nuovo modo di intendere alcune categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Roma 1965-Campidoglio-Piazza-dellAra-Coeli-Neve-a-Roma-9-febbraio-

Roma innevata, Campidoglio, nevicata del 9 febbraio 1965

Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole

Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1956) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, troppe parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico soltanto che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.

Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo e i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati abitanti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.

Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.

Che cos’è una patria metafisica?

Una patria metafisica delle parole la si costruisce in piena consapevolezza, e la può costruire soltanto una civiltà, non un singolo. È soltanto quando una patria metafisica delle parole inizia a declinare che si aprono delle «falle» e si inizia ad intravvedere un’altra luce, e con essa altre «cose» che prima non vedevamo. Non si tratta soltanto di una fotologia o di una riforma ottica, ma di un vero regno delle «cose» che viene avvistato. Solo a quel punto sorgono, possono sorgere le parole nuove. E allora non resta che ricostruire ciò che è stato decostruito, raccogliere i frammenti di quelle parole morte che sono state calpestate, e indugiare, prendere una distanza, rallentare e, se del caso, fermarsi. Perché noi siamo sempre in cammino verso una nuova casa dell’essere, dobbiamo sempre istituire un rapporto amicale con il linguaggio, quel linguaggio che è stato fatto sloggiare dalla casa ed è rimasto preda delle intemperie, del gelo e del raffreddamento delle parole. Quelle parole raffreddate sono le sole parole che abbiamo, non ne disponiamo di altre, sono loro che ci possiedono… E allora bisogna scaldarle, bisogna trovare una nuova abitazione riscaldata, con una buona stufa… Forse, questo cammino altro non è che un momento del Ge-Schick dell’essere, un tratto di quella peripezia dello Spirito che occorre perseguire.

Il mondo di retroscena custodisce le parole seppellite

vive in quanto quelle parole possono tranquillamente dormire dietro una scena, dietro un sipario, al riparo dell’ombra, separate dal mondo di avanscena illuminato dalla luce diurna del giorno. Allora, questo sforzo di oltrepassare la metafisica si rivela un vano tentativo se lo facciamo in nome e per conto della luce del giorno, perché siamo ancora e sempre prigionieri del linguaggio della metafisica del giorno, ciò che appare in quella luce sarà figlia del giorno ed esonererà ciò che dimora nell’ombra; la patria del giorno non coincide per niente con la patria dell’ombra, quella esautorerà quest’ultima. È questo governo delle parole ciò a cui dobbiamo rinunciare, le parole non vanno governate, sono loro che ci governano, la loro insubordinazione spesso si converte in ammutinamento, e tacciono, possono tacere per lunghi decenni, restando acquattate nel recinto del mondo di retroscena entro il quale si sentono al sicuro, perché lì non c’è alcun governatorato, alcuna imposizione, alcuna tassa da pagare, non c’è alcuna istanza superiore che dirige il traffico delle parole da adoperare come se fossero degli utilizzabili, le parole non sono degli utensili e noi non abbiamo alcun potere su di esse.

Nella «nuova ontologia estetica» non c’è nessun pathos delle parole o del tempo o della perdita, tutto ciò è impallidito e si è allontanato, è ormai una galassia che non ci interessa più; l’oggettività della nuova poesia nasce non da una acquisizione ma da un allontanamento, da una dismissione di gravezza, da un alleggerimento dalla pesantezza.

Può darsi che la nuova ontologia della parola poetica sia destinata ad attraversare il deserto di ghiaccio della dissoluzione delle Forme di un tempo, della tradizione, può accadere che quelle Forme adesso ci parlano dal loro irrigidimento in una lingua morta che non comprendiamo più, può darsi che anche questa gigantesca dissoluzione delle Forme sia un momento necessario del Ge-Schick dell’essere di cui ci ha narrato Heidegger e che questo allontanamento sia stato salutare, ci abbia fortificati, fortificati nella debolezza e nell’impallidimento.

 

E adesso leggiamo una poesia della nuova patria delle parole.

Donatella Costantina Giancaspero

La neve a Roma, 9 febbraio 1965

È già dentro la notte la sospensione
della neve.
Il sonno tende l’orecchio al di là del calorifero,
in cerca di una vibrazione.

Da una fessura filtra la sequenza in controcampo
dei nastri viola e gialli di Carnevale,
legati al vento della finestra.

Su, c’è ancora neve:
si specchia in quella che resta a terra
e sulle case di periferia.

Ma’, posso scendere giù?”

Gli stivaletti da donna, modello sportivo
senza tacco,
di camoscio marrone, con finiture in pelle gialla,
numero 35, possono adattarsi al piede più piccolo.

Affondano fino a un angolo di marciapiede,
davanti al capolinea del bus in sosta.

L’autista e il bigliettaio si scaldano con le sigarette.
Forti della divisa grigia. Fumano
come una pattuglia a difesa del mezzo
– verde scuro schizzato di fango –
e di questo confine della città.

È dissacrante il gioco della neve contro la lamiera.
L’ultimo colpo cade a vuoto.

*

The snow in Rome, 9 february 1965

Already inside of the night is the suspension
of snow.
Sleep lends its ear beyond the radiators,
searching for one vibration.

From a crack, a countervailing sequence filters
from violet and pink Carneval ribbons,
tied to the wind of the window.

There is snow: farther above:
reflecting itself with the one on the ground
and upon suburban homes.

“Mamy, can I go down?”

The lady’s small boots, sport-model
without heel,
of brown chamois, with finishes of yellow skin,
size 35, adaptable to the tiniest foot.

Sinking up to the angle of the sidewalk,
in front of the parked bus at the end of the line.

Driver and ticket-taker warm up with a cigarette.
Proud of their gray work uniform. They smoke
like a patrol defending the vehicle
–dark green, mud-splashed –
for this end of the city.

Outraging the playing of snow against the steel.
The final pounding falls in the null.

© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem The Snow in Rome, 9 February 1965, by Donatella Costantina Giancaspero. All Rights Reserved.

*

 

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Il Nichilismo. Dialogo Ernst Jünger Martin Heidegger – Una riflessione sul Nichilismo di Giacomo Marramao e un commento di Giorgio Linguaglossa – Letizia Leone, Due poesie sul tema del Nichilismo

 

Foto sopraelevata con treno

la «svalutazione dei valori» è diventata una «condizione normale» «Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso»

Ernst Jünger in Oltre la linea (1955) sviluppa una comprensione del nichilismo come espressione di una «svalutazione dei valori», diventata una «condizione normale», onniavvolgente e onnipresente. Per Jünger ogni contatto con l’assoluto è diventato impossibile o problematico. Lo scrittore tedesco distingue un nichilismo attivo e uno passivo, forte e debole, ma resta fedele ad una concezione del nichilismo che consente un contro movimento salvifico; Jünger pensa che sia possibile, in qualche modo, uscire fuori del nichilismo, andare «oltre» la «linea». Insomma, Jünger ha una visione ancora ottimistica del nichilismo, pensa ancora in termini di «superamento» e di «contro movimento» a partire dalla diagnosi di Nietzsche e di Dostoevskij. Jünger pensa sì, in conformità con Nietzsche, che ciò che sta per cadere deve essere lasciato cadere, anzi, aiutato a cadere, ma vede al termine di questa caduta, l’orizzonte di un cominciamento, di un «contro movimento», vede possibile l’attraversamento del nichilismo, che, insomma, la meta ultima si avvicina. Attraversare la «linea» significa giungere in una dimensione dove il nichilismo diventa una condizione normale e un aspetto normale della realtà. Dove tutto è in gioco, scrive, non si tratta di gettare ponticelli sopra l’abisso, non sono sufficienti le strategie di contenimento… Jünger raccomanda una sorta di «resistenza» che consenta, nel mezzo del nichilismo dispiegato, di trovare delle «oasi» di sopravvivenza, di libertà (la morte, l’amicizia, l’arte, l’eros) nelle quali coltivare territori di verginità della interiorità nelle quali l’individuo riesca a contenere l’avanzare del «deserto» del nichilismo. Ecco come Franco Volpi sintetizza la posizione di Jünger :

 “Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni sistematiche delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli: la gnosi, i presocratici, gli eremiti della Tebaide. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale del nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della «viaticità» del pensiero, del suo essere continuamente «in cammino» per sentieri «interrotti», del suo orientarsi su semplici «segnavia»”.

Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente
e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca

Che cosa mai sarebbe servito dire ai Troiani mentre i palazzi di Ilio rovinavano,
che Enea avrebbe fondato un nuovo regno?

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere
a una rappresentazione del niente. La mente si avvicina alla zona in cui dileguano
sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone.
Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti,
antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa
allo stesso modo si può avere esperienza del morire, non della morte. 1]

La difficoltà di definire il nichilismo sta nel fatto che è impossibile per la mente giungere a una rappresentazione del niente.

La mente si avvicina alla zona in cui dileguano sia l’intuizione sia la conoscenza, le due grandi risorse di cui essa dispone. Del niente non ci si può formare né un’immagine né un concetto.
Perciò il nichilismo, per quanto possa inoltrarsi nelle zone circostanti, antistanti il niente, non entrerà mai in contatto con la potenza fondamentale stessa.

(Ernst Jünger)

heidegger nel bosco

Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.

 A Jünger risponde Heidegger nel 1960 correggendo il tiro e la gittata della sua riflessione sul nichilismo. Ma Heidegger pensa invece in modo più radicale il fenomeno del nichilismo che non può essere confinato in una sorta di «malattia» da cui se ne può uscire, in qualche modo, guariti dopo aver apprestato delle cure. Il filosofo tedesco pensa semplicemente che dal nichilismo non se ne esca affatto e che tutto sta nel prenderne atto. Sostare e camminare nel nichilismo, soltanto questo possiamo fare, e «soltanto un dio ci può salvare.

 Il tentativo di attraversare la linea resta in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Ed è per questo che esso si esprime ancora con i concetti fondamentali della metafisica (forma, valore, trascendenza).

 In che linguaggio parla lo schema fondamentale del pensiero che prefigura un attraversamento della linea? Il linguaggio della metafisica della volontà di potenza, della forma e del valore deve essere salvato al di là della «linea» critica? E in che modo, se proprio il linguaggio della metafisica e la metafisica stessa, sia essa del Dio vivente o del Dio morto, hanno costituito in quanto metafisica il limite che impedisce il passaggio oltre la linea, cioè l’oltrepassamento del nichilismo? Se le cose stessero così, l’attraversamento della linea non dovrebbe necessariamente implicare una trasformazione del dire, e richiedere un mutato rapporto con l’essenza del linguaggio? E ancora, il suo riferimento al linguaggio non è tale da richiedere anche da parte sua un’altra caratterizzazione del linguaggio concettuale delle scienze? Se spesso ci si rappresenta questo linguaggio come nominalismo, è perché ancora si rimane irretiti nella concezione logico-grammaticale dell’essenza del linguaggio. Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa Appunti sul Nichilismo – con due poesie inedite: Il bacio è la tomba di Dio, di Giorgio Linguaglossa e Frammenti per Sally, di Lucio Mayoor Tosi, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Foto di Evgenia Arbugaeva, Weather man, Siberia, la Torre

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

Giorgio Linguaglossa

Appunti sul Nichilismo

Nietzsche definiva il nichilismo il processo di «svalutazione dei valori finora supremi»,

i quali soli  conferiscono all’ente il suo «valore». «Unospite inquietante» lo definiva Heidegger. Diceva del nichilismo, che ormai è impossibile «metterlo alla porta», e invitava a «guardarlo bene in faccia». Nietzsche osava affermare di essere «il primo perfetto nichilista d’Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso – che lo ha dentro di sé, sotto di sé, fuori di sé».

Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzitutto Heidegger. Dalla metà degli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente Nietzsche (1961), Heidegger individua nel nichilismo la traiettoria dell’Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari ottocenteschi, ma fin dalle origini greche.

Il concetto di nichilismo assurge dignità di elemento portante nella filosofia in Nietzsche. Ne La gaia scienza, infatti, il filosofo tedesco annuncia la «morte di Dio» e la vacuità di ogni valore, auspicando l’autosoteria dell’Übermensch, dell’Oltreuomo, unico modello in grado di sottrarre l’uomo europeo dalla decadenza in cui l’ha precipitato la religione cristiana.

Heidegger individua la causa del nichilismo nella metafisica,

sostenendo che: «La metafisica in quanto metafisica è l’autentico nichilismo. L’essenza del nichilismo si dà storicamente nelle vesti della metafisica. La metafisica di Platone non è meno nichilistica di quella di Nietzsche. In quella l’essenza del nichilismo resta solo celata, in questa giunge interamente alla comparsa», dove per «metafisica» egli intende quella tradizione di pensiero che pone il problema dell’essere dell’essente, andando oltre (metà) l’essente stesso, in una irrealistica dimensione trascendente.

L’inizio del Novecento È caratterizzato dal fenomeno delle avanguardie che porteranno a compimento la rivoluzione delle arti plastiche, letterarie e figurative in un impeto di distruzione del vecchio mondo volto alla realizzazione di uno nuovo (proprio come sosteneva Turgenev nel romanzo Padri e figli!). Da questo punto di vista, le due guerre mondiali devono essere ricomprese nel quadro ideologico-psicologico  del compimento della potenza detonante del nichilismo e della progressiva perdita dei nicciani «valori» orientativi di «scopo», «unità» e «verità».

Laboratorio 4 NuoviIl fenomeno delle post-avanguardie letterarie

e artistiche del secondo Novecento rappresenta la stigmatizzazione del riposizionamento combattivo di gruppi artistici e soprattutto letterari che cercano  di ritagliarsi un posto e una funzione nell’ambito del dispiegamento universale della forma-merce e del mercato globale che non contempla più alcuna funzione di «valore» all’arte e alla letteratura nel sistema società. È la reazione della nuova letteratura di fronte ai cambiamenti epocali che la relegano al di fuori del sistema mercato e delle nuove istituzioni culturali. La metafisica ha prodotto il mercato globale, e il mercato globale è il compimento (Vollendung) della metafisica. È qui che si apre la nuova stagione del nichilismo come «stato psicologico» del mondo contemporaneo. Il nichilismo, dirà Heidegger, viene concepito come «stato psicologico», «ciò significa allora: il nichilismo riguarda la posizione dell’uomo in mezzo all’ente nel suo insieme, riguarda il modo in cui l’uomo si pone in relazione con l’ente in quanto tale, in cui configura e afferma questo rapporto e quindi se stesso; ciò non significa altro che il modo in cui l’uomo è storicamente.»1]

«Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore» , così recitava il nono punto del manifesto programmatico del Futurismo di F.T. Marinetti e soci, pubblicato il 20 Febbraio 1909 su Le Figaro. O più ‘nichilisticamente votate soltanto alla distruzione: questo È il caso di Dada, definito dagli stessi dadaisti come: «un fenomeno che scoppia nella metà della crisi morale ed economica del dopoguerra, un salvatore, un mostro che avrebbe sparso spazzatura sul suo cammino. Un sistematico lavoro di distruzione e demoralizzazione… che alla fine non è diventato che un atto sacrilego».

Del resto come preannunziarono nel loro manifesto: «Dada non significa nulla. È solo un prodotto della bocca».

Laboratorio lillaScrive Heidegger: «Forse l’essenza del nichilismo

consiste nel non prendere sul serio la domanda del Niente. In effetti la si lascia inesplicata, si rimane cocciutamente fermi allo schema interrogativo di un aut-aut da tempo abituale. Con l’approvazione generale si dice: o il Niente “è” “qualcosa” senz’altro nullo oppure deve essere un “ente”. Poiché però, evidentemente, il Niente non può mai essere un ente, non rimane che l’altra possibilità, cioè che il Niente sia l’assolutamente nullo.

[…]

E se il Niente, in verità, non fosse un ente, ma non fosse nemmeno mai ciò che è soltanto nullo? E se la domanda dell’essenza del Niente non fosse, sulla scorta di quell’aut-aut, nemmeno posta in termini sufficienti? E, ancor di più, se la mancanza (Ausbleiben) di questa domanda dispiegata che chiede dell’essenza del Niente fosse la ragione (Grund) del fatto che la metafisica occidentale deve cadere vittima del nichilismo? Il nichilismo sarebbe allora esperito e concepito in modo più originario ed essenziale, quella storia della metafisica che spinge a una posizione metafisica di fondo nella quale il Niente, nella sua essenza, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito. Nichilismo significherebbe allora: il non pensare, per essenza, all’essenza del Niente. (…) Nietzsche riconosce, sì, il nichilismo come movimento soprattutto della storia occidentale, ma non è capace di pensare l’essenza del Niente perché non è in grado di cercarla domandando, egli deve diventare il nichilista classico che esprime la storia che sta accadendo ora. Nietzsche riconosce ed esperisce il nichilismo poiché pensa lui stesso in modo nichilistico. Il concetto nietzschiano del nichilismo è esso stesso un concetto nichilistico. Nietzsche non è capace, nonostante tutte le intuizioni, di riconoscere l’essenza occulta del nichilismo perché lo concepisce fin dall’inizio e soltanto in base al pensiero del valore come il processo della svalutazione dei valori supremi. Egli deve concepire il nichilismo in tal modo perché, mantenendosi nella traiettoria e nell’ambito della metafisica occidentale, pensa quest’ultima fino in fondo.»2] Continua a leggere

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ROBERTO BERTOLDO da La profondità della letteratura (Mimesis 2016 pp. 330 € 24) Estratti dal libro:  il Bello, il Vero, Leopardi, Autenticità, Coscienza, Metafisica, Poesia, Essere, Tempo, Verità, Sperimentalismo,  Surrazionalismo,  Nullismo,  Nichilismo assiologico, Postcontemporaneo. Le categorie del nostro tempo, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011; Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016.

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, La profondità della letteratura, Mimesis 2016.

«Oltre la verità cartesiana, e i suoi effetti, non c’è alcuna verità che sia al contempo empirica e logica, senza appigli analitici, quegli appigli che portano all’altro tipo di verità, che va per la maggiore: quella ipotetica.

Mirare alla comprovazione dativa degli oggetti esterni è stato l’obiettivo diciamo ontologico. L’esito purtroppo è, al di là di ogni dubbio, solo ontico, cioè “ti penso dunque esisti”. Sì, se guardo o tocco la matita, cioè un dato esterno, la matita esiste e, se guardo e tocco, io, cioè il dato interno, non solo esisto ma sono, al di là di ogni dubbio. E se avvaloro l’io, se gli comprovo come causa effettiva dell’io funzionale ma la natura di questo io, per me materiale, è solo ipotetica), avvaloro anche il suo pensare, vedere, toccare. Di più non ci è dato avere come prova verace dell’ipotesi».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 319

Il Niente

«La dialettica è tra niente ed entizzazione: è il Niente, ovvero l’essere, che vuole entizzarsi; in questo impasse dialettico si trova la condizione ontologica degli enti». «L’essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo NiEnte è, per postulato, la Materia».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 25 e 27

Leopardi. Il Bello. Il Vero.

Riguardo all’affermazione che «tutto il vero», che in base agli assunti leopardiani è il presente, «è brutto», perché infelice, è evidente che se il futuro è più bello del presente, ossia del vero, per via dell’immaginazione e il passato per via del ricordo, l’operazione di immaginare e di ricordare si compie nel presente, che quindi è per forza il momento in cui si vive il piacere, ed inoltre «allo sviluppo ed esercizio dell’immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente o momentanea».1 E ancora: «Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».2 È vero che leopardi distingue tra ciò che si chiama piacere e ciò che è piacere e poco dopo aggiunge che il piacere provato nel presente non soddisfa ed è solo un accenno del piacere che si ritiene di poter provare in futuro, è tuttavia innegabile che il piacere se lo si proverà sarà un vissuto giocoforza presente: «l’attività, massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile».3

Poi Leopardi sostiene, contraddittoriamente, che l’uomo è infelice senza il vero, che è il presente; e, pur giudicando il presente brutto, o comunque non bello, dice spesso che il bello e il brutto sono relativi, connessi alla convenienza, alle abitudini, ecc. Il fatto è che la conclusione sillogistica «tutto il vero è brutto» si compone su una ambigua dissociazione tra bello e piacevole. Dice Leopardi in modo chiaro che suoni, voci, sapori e odori appartengono «al piacevole o dispiacevole ma non mica al bello né al brutto»,4 però spesso questa chiara distinzione viene da lui trascurata, al punto che gli oggetti belli dell’immaginazione e del ricordo non sono proprietà solo della vista, sino a consistere anche in qualche cosa di astratto e addirittura di piacevole. 5

1 Zib., 28 febbraio 1821 [1703]

2 Zib., 20 gennaio 1821 [532]

3 Zib., 12 febbraio 1821 [649]

4 Zib., 30 settembre 1821 [1748-1749]

5 R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 227

La bellezza

«Il bello è un obiettivo irraggiungibile, come l’anarchia, l’amore, ecc., e l’arte è uno strumento come l’anarchismo, l’innamoramento, ecc. Sono gli strumenti ad essere concreti, gli obiettivi sono utopici o generici e comunque modellabili».

«La ricerca del bello da intendersi come resa della datità… è più importante della sua realizzazione (…) La bellezza quindi non è inutile anche se è un’invenzione. In fondo, tutte le invenzioni dell’uomo sono utili, magari non l’utilità che può avere un piatto…» 1

«La bellezza, considerata intrinseca o dipendente da forma o da funzione, proporzione, simmetria, armonia, verità, autenticità, purezza, perfezione morale, commozione, anche profondità, ecc., è sempre un abbaglio».2

1 R. Bertoldo op. cit. p.287

2 Ibidem p. 313

Autenticità

«La solitudine di uno scrittore è determinata proprio dalla sua autenticità, ossia dalla sua singolarità».1

«La verità corrisponde all’autenticità».2

 1 R. Bertoldo op. cit. p. 291

2  Ibidem. 297

 Coscienza

«Certo: la coscienza si nutre di inconscio, ma ciò che più conta è che l’inconscio si nutre di prodotti della coscienza e li reimmette, rivestendoli di sé, all’interno della coscienza. Ci sono pregiudizi nella coscienza, c’è un circolo vizioso che complica il giudizio quanto è complicata ogni creazione. La separazione tra inconscio e coscienza non è netta, né chiara, non si riesce a sapere dove inizia l’uno e dove inizia l’altra».1

1 R. Bertoldo  op. cit. p. 228

Metafisica

«Quando si critica la metafisica, si tende a dimenticare che la sua natura è tanto ontologica quanto fenomenologica (metafisiche dell’infinito), fenomenica (metafisica del tutto) e trascendente (metafisica della totalità). L’Essere rappresenta il campo ontologico, il darsi dell’Essere o darsi ontologico il campo della fenomenologia materialistica, il darsi dativo, il solo non metafisico, costituisce nel suo aspetto sensoriale il mondo fenomenognomico».1

Poesia

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni». «La poesia sorge, come ogni arte e ogni dato, in questo luogo dell’autenticità, dove il mondo fenomenologico e il mondo fenomenico… si incontrano e fondono la materia circoscritta…»

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni. La poesia è l’arte più elevata…».2

Essere

«L’Essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo Niente è, per postulato, la Materia. Ma anche il Nulla è, a maggior ragione, assenza dell’Ente, quindi NiEnte. In base a queste due premesse, risulterebbe, per via del sistema di equazioni, che l’Essere, ovvero, la Materia è Nulla. Si può negare questa conclusione sostenendo che il NiEnte non è propriamente Nulla, in quanto nel NiEnte c’è comunque la sostanza dell’Ente, però in base all’assunto leopardiano che l’Infinito è il Nulla, un materialista che consideri appunto la Materia infinita – sappiamo che ci sono anche materialisti esclusivamente empirici come molti illuministi – non può che constatare la Materia, sostanza dell’ente, come Nulla, sia che si annulli sia che non si annulli. Così il Nulla ontologico coinciderebbe con il Nulla ontico ovvero il NiEnte. L’annullamento di ogni valore trascendente derivabile dal particolare nichilismo ontologico leopardiano determina tra l’altro la vita fenomenica come valore imprescindibile. In sostanza, poiché per Leopardi l’infinito è uguale al nulla, che la materia non s’annulli mai (materialismo metafisico) o che si annulli (chiamo questo materialismo ‘afisico’) non c’è differenza riguardo gli effetti assiologici. La vita che vale nulla, per via del niente a cui gli enti sono destinati, è in pratica tutto ciò che si ha, l’unica cosa che si possiede, da questo discende il suo estremo valore».3

Tempo

«Riguardo il tempo, la sua natura ontologica è percepibile fisicamente. Ciò vale anche per la materia ma non per lo spazio, la cui acquisizione è puramente logica».4

«La certezza è l’esito di un accertamento, quindi riguarda solo ciò che può essere accertato, dunque la realtà, ossia tutto ciò che viene recepito».4bis

Verità

«La verità è un’ipotesi perché non ci può essere verità obiettiva».5

1 R. Bertoldo La profondità della letteratura Mimesis, 2016, p. 17

2 Ibidem, p.23

3 Ibidem, p. 27

4  e 4bis Ibidem, p.32

5 Ibidem, p.37

 Sperimentalismo

«Lo sperimentalismo è fallimentare proprio per questa sua ansia di novità, esso può essere indipendente dalla propria epoca, manca quindi di contenuto. Una novità prettamente formale non può attecchire e se la si applica in modo posticcio denuncia tutta la pacchianeria del suo autore». «Gli orizzonti di attesa sono l’emblema del vitalismo artistico mal riposto. Creare per la massa significa aderire all’ottusità». 1

«Le opere d’arte, per Adorno, non coincidono però con ciò che manifestano, ossia la verità, sia perché sono qualcosa in più di essa, e mettiamoci pure la pretesa bellezza e il piacere che ne consegue, sia perché ne sono la velatura. Quindi il godimento estetico non può essere l’unico fine dell’arte». 2

«L’opera d’arte, malgrado i fenomenologi, non è un numero ma “un constructum“, cioè un “artificio psicologico”, per usare le parole di Derrida quando rileva l’originalità di Husserl. L’opera ha senso, come tutte le espressioni che prediligono quello che gli psicologi chiamano “linguaggio interno”. Questo linguaggio deriva dalla trasformazione del linguaggio esterno, personalmente ritengo che l’interiorizzazione sia favorita dalla delusione verso la collettività e dal grado di autismo presente nella persona. La caratteristica iù interessante del linguaggio interno è la “predicatività assoluta, in quanto la predicatività genera suggestione. Nel linguaggio interno, quindi, il senso predomina sul significato. E “il senso della parola, come ha mostrato Paulhan, rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola”. Il senso è allora al di là delle singole parole e anche al di là dell’espressione concettuale che le riunisce». 3 «”Proprio nel significato della parola sta il centro di questa unità che chiamiamo pensiero verbale”». (cit. Lev S. Vygotskij)                                                                        

1 op. cit. p. 175

op. cit. p. 172

3 op. cit. p. 163

Surrazionalismo e surrealismo

«La cultura borghese, razionalistica sin nelle sue irrazionalità, ha prodotto il nichilismo al posto delle divinità nobiliari e, con esso, la letteratura fenomenologica in sostituzione di quella ontologica. La gnoseologia, avvalsasi nel medioevo dell’ontologia e nell’età moderna della fenomenologia… oggi, a farsi garante della borghesia, scade in prodotto predeterminato» 1

Nel simbolismo i sensi deragliano ma la ragione è vigile, nel surrealismo a deragliare è l’immaginazione (la freddezza creativa di molti epigoni ha poco a che vedere con certe creazioni di Eluard, Breton o Aragon, ma pure  in questi istitutori è evidente l’autoimposizione onirica e dell’automatismo), nel surrazionalismo non si deraglia ma ci si lascia coinvolgere dai sensi e dalla ragione.

Quando per la prima volta parlai di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intuizioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena postsimbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi […] Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva.

La poesia surrazionale, che è  magari anche di altri ma è difficile dirlo da fuori in quanto riguarda più il produrre che il prodotto, non ha niente di divino e di magico, è invece l’esito di una concentrazione razionale ed emotiva di carattere, posso dire, filosofico […] Sono approdato a quella che ho chiamato ‘fenomenognomica’, una filosofia scettica che concede all’uomo solo, ma è tanto, l’immanenzione, cioè questa forma di attraversamento che produce una sorta di comprensione fisica che la poesia… esprime, almeno in me, mediante ciò che ho chiamato ‘tonosimbolismo’ […] Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale»2  

Sul nullismo come avversario del nichilismo «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico»

«Il nulla non è un vuoto, non è un annullamento, in quanto il vuoto e l’annullamento lasciano un’attesa o un ricordo. Il vero nulla è il mai. L’altro nulla, quello che da sempre in un modo o nell’altro trattiamo, è relativo, secondo prospettiva: è il contrario del nostro obiettivo. Per il materialista il nulla è uno scopo eterno, eternamente posticipato […]

Ciò che è divertente, è che noi spesso sosteniamo la non pensabilità del nulla nello stesso tempo che giudichiamo le parole un semplice simbolo delle cose. Se una parola non è mai il suo referente come si può sostenere che il solo pensarlo rende il nulla un qualcosa? Se la simbologia sostanziasse i referenti allora dio esisterebbe davvero e non solo verbalmente. In realtà non è così, le idee sono semplicemente metareali e si può parlare del nulla senza ipostatizzarlo «Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.

Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.

Di fronte al mondo, date le spalle al nulla […] Il nullista non crede alla possibile percezione della pura oggettività, neppure a ben vedere può credere sicuramente al nulla. Il nullista, che è tale solo dopo aver attraversato, e portato con sé, il nichilismo, s’adegua alla propria percezione della verità, non alla verità.

Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

Per il nullista il mondo è autosufficiente, non così per il nichilista che ancora fa subire al mondo la sua provvisorietà […] Il nullista si è emancipato dalla delusione per il nulla trascendente e da punto di vista ontologico il nulla è per lui l’indefettibilità dell’essere (ovvero della materia come sostanza), il nulla è che non ci sarà mai annullamento ontologico.

Sul Postcontemporaneo

La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e che indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età moderna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».3

Non dobbiamo liberarci solo dalla metafisica ma anche e soprattutto, in quanto la fonda, dal linguaggio metafisico. Il concetto di ‘senso’, per esempio, legato a finalità, almeno intenzionali, è un concetto teleologico. In realtà tutto ha senso, ogni cosa ha senso in sé, grazie a sé. Il senso del mondo è il mondo. Avere senso non è un rimandare ad altro da sé ma un essere sé, essere. Il nostro senso è esserci».4

«Le categorie di Moderno, Postmoderno e Postcontemporaneo sono da me intese come categorie esclusivamente storico-scientifiche. Il moderno ha come modello la scienza di Newton, il postmoderno grosso modo quella di Einstein. Non avrei usato il brutto termine postcontemporaneo se non mi fossi accorto che il postmoderno descritto dai filosofi veniva ad identificarsi in pratica col decadentismo filosofico, che è la cultura tanto dei nostalgici quanto dei detrattori del moderno… Il postcontemporaneo… corrisponde almeno alla luce delle attuali idee scientifiche, al nullismo e ai suoi sviluppi».5

«L’Io è frammentato, ma i suoi frammenti sono interattivi e trovano la loro unità individuale nel progetto e collettiva nella storicità dei metodi. L’Io non può rinunciare a questa unità progettuale ed epistemologica se vuole dare un senso alla sua vita senza scopo, se vuole difendere – in una difesa titanica, e questa è la sua grandezza etica – le forme dal fluire inarrestabile della materia. Questo è il suo senso: resistere il più possibile e aiutare le altre forme a resistere il più possibile contro l’inevitabile nulla ontico e l’indifferente materia (la ‘natura matrigna’), smettendola di rinviare ad un dopo e oltre (il mondo metafisico) o di farsi sedurre, alla stregua dei nichilisti attivi, da una indebita appropriazione e distruzione del mondo fenomenico».6

1 Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura Mimesis, 2011 p. 137

2 Ibidem pp. 250, 251

3 Ibidem pp. 26-29

4 Ibidem p.31

5 Ibidem p.236

6 Ibidem p. 240

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Il Vuoto

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Questa riflessione di Roberto Bertoldo viene a porsi nel momento in cui la credibilità della letteratura e della poesia toccano il punto più basso, è proprio in questo punto che il poeta piemontese rilancia con forza il pensiero di una poesia e di una letteratura che sappiano farsi carico della loro responsabilità estetica. Il mondo frammentato, o ridotto  in frammenti non è una invenzione dell’Ombra delle Parole, è dall’inizio del secolo breve che la problematica era nell’aria e che coinvolgeva altri problemi filosofici e politici.

A proposito dei «frammenti», ecco quanto scrive Mario Praz in ordine all’opera di esordio di Eliot: «Nel 1922, in The Waste Land, Eliot aveva dato espressione al consapevole disorientamento di un’epoca che, iniziatasi colla prima guerra mondiale, può dirsi duri tuttora e non si saprebbe meglio definire che col titolo di un volume dell’Auden, The Age of Anxiety, l’epoca dell’ansia. The Waste Land chiudeva il suo barbarico edificio con alcuni frammenti di poeti del passato, vestigia di una nobile e secolare tradizione di cultura, e con la dichiarazione: “Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine“. The Waste Land voleva essere insomma un edificio di bassa epoca deliberatamente eretto sull’Ultima Thule del pensiero europeo, proprio al limite della desolazione incombente che minacciava di travolgere ogni traccia d’una cultura secolare».

Nel mondo post-metafisico dell’“organizzazione totale” fondata sulla tecnica, ogni cosa ha un posto definito, coincidente con la funzione strumentale assolta all’interno del sistema. Anche il linguaggio assolve questo compito, tecnicizzandosi. L’uomo interroga gli enti come oggetti esterni da cui determinare il senso dell’essere: il loro e il proprio. Ma la metafisica, così intesa, conduce all’oblio dell’essere, che si nasconde anziché rivelarsi, e all’utilizzo strumentale degli enti nell’orizzonte del mondo tecnicizzato. Anche l’uomo, segue la stessa sorte, diventa “ente”, oggetto, cosa, strumento. Il pensiero si riduce a servizio del sistema: strumento fra gli altri per la soluzione di problemi interni alla “totalità strumentale” in atto nelle società contemporanee. Occorre dunque ripristinare il contatto con le sorgenti dell’essere.

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927)

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927) aveva individuato l’ontologia come destino e compito dell’uomo. Noi siamo l’ente che si interroga sul problema dell’esserci dalla prospettiva opaca del Dasein, la “deiezione” dell’esser-ci, dell’essere gettati in mezzo al mondo. Un modo per superare l’impasse di una metafisica che, per consunzione di principio, tradisce il proprio andare “oltre”, è fare dell’esistenza umana una manifestazione dell’Essere, che in essa si rivela e insieme si nasconde. L’Essere è la totalità che emerge da ogni singola cosa del mondo. È l’origine fondante che regge gli enti all’interno, e ne apre la soglia ontologica, cioè la luce entro cui l’ente si fa visibile in quanto è. L’Essere è il bordo non aggirabile della comprensione. Non spetta all’uomo cercare l’Essere, o tentare di conoscerlo. L’uomo non può far altro che abbandonarvisi e accettare le rivelazioni di cui l’Essere stesso prende iniziativa. L’Essere si manifesta per illuminazioni che accadono e, accadendo, si consegnano all’uomo. Tali rivelazioni avvengono attraverso il linguaggio poetico.

In questi ultimi anni la poesia italiana

In questi ultimi anni la poesia italiana ha mostrato segni di un cambiamento, di rinnovamento, si sono verificati dei ripensamenti sulla eredità che il secondo Novecento ci ha lasciato. Questo lo ritengo un fatto positivo. Personalmente, mi ritengo coinvolto in questo processo di rinnovamento della poesia italiana, forse certe mie affermazioni possono suonare apodittiche e eccessivamente taglienti, ma credo che sia necessario, in questa contingenza stilistica della poesia italiana, essere ed apparire categorici, anche con il rischio di essere fraintesi.

Il richiamo a Tranströmer era necessario, la prima opera di Tomas  Tranströmer, 17 poesie, risale nientemeno al 1954 e da noi quelle poesie sono state tradotte dall’encomiabile Enrico Tiozzo soltanto da pochi anni. Il fatto è che un ritardo così cospicuo di un libro così rivoluzionario ha determinato e contribuito alla provincializzazione della poesia italiana sempre più chiusa entro i suoi asfittici recinti. Credo che sia necessario, oggi, riproporre il problema del «cambio di paradigma», ritrovare i nostri progenitori di una poesia «diversa»; sono convinto che cercare strade nuove sia un dovere imprescindibile per la nuova poesia italiana. I poeti nuovi ci sono, basta cercarli e saperli leggere: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Antonio Sagredo ed altri che non nomino, la loro poesia è da tempo indirizzata in nuove esplorazioni e direzioni di ricerca, ed è talmente «diversa» da quella cui siamo abituati che rischia di passare inosservata.

Ad esempio, la «sospensione della temporalità», l’accelerazione e il rallentamento del tempo interno di una poesia» (secondo la teoria espressa in questa rivista da Steven Grieco-Rathgeb) che la «nuova poesia» persegue è una condizione preliminare della praxis poetica. In tal senso, la poesia occidentale può e deve far propri alcuni assunti di posizione poetica presente negli haiku giapponesi e, conseguentemente, nei tentativi di scrivere haiku «occidentali». La sospensione, il rallentamento e l’accelerazione della temporalità sono dei modi per introdurre una «rottura» della stabilità temporale e introdurci in una condizione di instabilità. Una condizione di disequilibrio che apre un varco nella memoria profonda e consente di riallacciarci alla condizione primaria della nostra psiche, agli «oggetti profondi» (le «posate d’argento» di Tomas Tranströmer) che giacciono e si depositano nel fondo della condizione stabile del nostro sottosuolo, una dimensione libera da quella illusoria credenza nella stabilità e nella continuità spazio temporale della nostra vita quotidiana. Leggiamo due versi fulminanti di Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è più nero.

Il nuovo concetto di «tempo» di cui Prigogine dà il trionfale annuncio nell’opera From Being to Becoming (1978), ci dice di un «secondo tempo», non più parametro (come nella fisica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica, il «tempo interno». Continua Prigogine: «la giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha ancora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio». L’obiettivo polemico è dato dalla critica alla tradizione occidentale «centrata sul tempo» e l’immagine «senza tempo» della fisica classica irretita dal modello platonico della Verità eterna e atemporale. Non a caso la storia della filosofia da Kant a Whitehead sarebbe segnata dallo sforzo di rimuovere questo ostacolo mediante l’introduzione di un’«altra realtà», il «mondo noumenico», gli «oggetti eterni» etc.. Tuttavia la meccanica quantistica e relatività generale sono portatrici di «una negazione radicale dell’irreversibilità temporale».

Ora, sta di fatto, che ciascuno di noi nella esistenza quotidiana sperimenta in sé un «tempo interno» che è diverso dal tempo interno di un altro essere vivente. Il «tempo interno» quindi è una realtà ontologica che non può essere dimenticata in sede di ontologia, perché ciascuno di noi lo sperimenta quotidianamente, ed esso esiste, pur non esistendo un tempo sovrano e unidimensionale. Il «tempo», per Prigogine, rappresenta il «filo conduttore» che consente di articolare a tutti i livelli le nostre descrizioni dell’universo. Resta però oscura la sua origine: «Come potrebbe sorgere da una realtà essenzialmente atemporale questo tempo creatore che costituisce la trama delle nostre vite?».
Si ripropone così il tema agostiniano del «prima» della Creazione. E il problema della ragion sufficiente dei processi unidirezionali come il tempo nel quale viviamo.
Ecco, io direi che la «nuova poesia» ci costringe a riparametrare il nostro «tempo interno» con il «tempo esterno» e a rimodulare la nostra sensibilità nei confronti del «mondo».

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LE FONDAMENTA ONTOLOGICHE PER UNA POETICA DEL VUOTO – LA DOMANDA FONDAMENTALE DI LEIBNIZ: “Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. Leibniz, Martin Heidegger, Robert Nozick, Giacomo Marramao “Il Nulla nientifica se stesso”, “La teoria egualitaria” di Nozick, con un Appunto di Giorgio Linguaglossa sul “Sistema stabile del Vuoto”Appunto di Giorgio Linguaglossa: Le fondamenta ontologiche per una poetica del vuoto

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Il filosofo americano Robert Nozick nelle sue Philosophical Explanations (Cambridge, Mass. 1981, p. 122) ha riproposto da domanda di Leibniz: «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?».

*

“Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?”. La domanda di Leibniz è una domanda estrema, essa sconfina con i margini del linguaggio metafisico. È la domanda prima. O la domanda ultima, oltre la quale non è possibile andare. Di qui la liquidazione, da più parti, come “mal formulata”, “insignificante”, “folle”. «Ma perché – ha fatto notare Robert Nozick – la rifiutano allegramente invece di osservare con disperazione che essa pone un limite a quello che possiamo sperare di capire?». È una domanda così formidabile che anche uno che di recente l’ha ripresa e l’ha chiamata ‘la domanda fondamentale della metafisica’, Heidegger, non propone risposte e non cerca nemmeno di far vedere come le si potrebbe rispondere.

L’interrogazione era stata ripresa da Heidegger in una forma sensibilmente modificata: «Perché in generale l’ente piuttosto che il nulla?» (Introduzione alla Metafisica, 1953). È la domanda fondamentale dalla quale dobbiamo partire, la domanda che, per il suo rango, merita il primo posto tra tutte le domande. La domanda per Heidegger «la più vasta, profonda e originaria», alla quale non è possibile sottrarsi.

Capovolgendo la domanda, io penso che un ipotetico abitante dell’Iperspazio a 10 dimensioni più il tempo (Secondo la tesi del famoso fisico Michio Taku), così si esprimerebbe: «Perché in generale il nulla piuttosto che l’ente?», in quanto dal punto di vista di un tale abitante l’assurdo sarebbe ipotizzare l’esistenza dell’ente, posto che il nulla sarebbe la modalità normale di esistenza del suo Super-pluriverso simmetrico e stabile.

Ma ipotizzare un “sistema simmetrico e ordinato”, uno stato naturale e privilegiato quale potrebbe essere il Vuoto, lo si può fare soltanto a partire da un universo dissimmetrico quale il nostro, affetto da instabilità, inflazione, fluttuazione e dalla freccia irreversibile del tempo. È possibile ipotizzare, come ha fatto Robert Nozick, l’esistenza di una quantità minimissima di nientità che è sfuggita alla forza di nientificazione e che ha prodotto l’universo; in questa speculazione ci conforta la fisica delle particelle sub-atomiche che, appunto, galleggiano nel nulla e, in quanto tale, esse sono (e non sono). Questa nientità è quindi inerente all’ente come facente parte della sua stessa “sostanza”.

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Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Perché esiste l’universo piuttosto che il nulla? L’esistenza  dello spazio-tempo dovrebbe essere considerata una forma di “creazione”? La risposta è: avrebbe potuto non esserci nulla piuttosto che qualche cosa. Molti scienziati sono dell’idea che l’esistenza dello schema matematico di un universo non equivale all’esistenza reale di quell’universo. Rimane dunque ciò che Drees definisce “la contingenza ontologica”. La teoria di Hartle-Hawking si accorda piuttosto bene con questo senso più astratto di “creazione”, perché è una teoria quantistica. L’essenza della fisica quantistica è l’indeterminazione: la predizione in una teoria quantistica è la predizione di probabilità più che di certezze. Il formalismo matematico di Hartle-Hawking fornisce le probabilità che un universo particolare, con una organizzazione particolare della materia, esista in ciascun momento. Nel predire che c’è una probabilità diversa da zero per un particolare universo, si afferma che c’è una possibilità ben definita che esso sarà realizzato. Siamo qui di fronte ad una “realizzazione di possibilità“.

Possiamo ipotizzare che il Vuoto è un sistema stabile e simmetrico che ospita una gigantesca forza di nientità o di vuotità. Trattasi di un sistema a-dimensionale (secondo alcuni pluridimensionale), un sistema stabile e simmetrico che non ospita il movimento. L’immobilità del Vuoto sarebbe il risultato di un sistema di forze in tensione in perenne equilibrio. Il sistema del Vuoto è un sistema abitato da una gigantesca forza di vuotità, una forza in tensione perenne e stabile che, è paradossale, per esistere, ha bisogno di produrre continuamente universi instabili e dissimmetrici abitati dalla freccia del tempo. Ora, è anche possibile ipotizzare che questi infiniti universi non sgorghino dalla sua superficie o dai suoi orli ma che abitino stabilmente in esso Vuoto. E che nel sistema del Vuoto ritorneranno quando si concluderà il viaggio dell’entropia del nostro universo. Mi sembra ovvio aggiungere, in epigrafe, che da questa ipotesi topografica non c’è alcun posto per dio. Dio, infatti, è stato fatto sloggiare dai suoi stabilimenti del nostro universo. E anche dagli altri universi; gli resta semmai soltanto un Non-luogo dove abitare: il Sistema a-dimensionale, stabile e infinito del Vuoto.

Secondo la tesi del famoso fisico Michio Taku, dio è una entità che parla matematica e che abita l’Iper-spazio a 10 dimensioni più il tempo. Solo che ancora non abbiamo una matematica in grado di leggere le frasi che dio pronuncia nella sua dimora nell’Iperspazio. Il problema dell’autenticità nella nostra epoca si pone come l’orizzonte decisivo delle  filosofie  del nuovo esistenzialismo, proprio perché dio sembra aver abbandonato il nostro piccolo universo e si è ritirato a villeggiare nella sua vasta dimora presso l’Iper-spazio. Sta a noi e solo a noi, dunque, trovare le chiavi di una esistenza giusta e dignitosa. Così oggi si torna a parlare di autenticità come si parla di Iperspazio, cioè di entità distanti quanto la luna da noi semplici enti mortali.

Robert Nozick 2

Robert Nozick

Giacomo Marramao testo tratto da Minima temporalia (2005, lucasossella editore)

«La domanda per il filosofo americano presuppone “una teoria egualitaria“, nel senso che divide gli stati in due classi: «gli stati N (naturali o privilegiati) che non richiedono (né ammettono) spiegazione e quelli che viceversa la richiedono (che vanno cioè spiegati come ‘devianze’ da N imputabili casualmente all’azione di forze F). Nozick adduce al riguardo gli esempi di Aristotele e di Newton: per il primo, lo “stato naturale” che non richiede spiegazione era la quiete, e le deviazioni da questo stato si determinavano per l’azione costante esercitata da forze impresse; per il secondo era invece costituito dalla quiete e dal moto rettilineo uniforme, mentre tutti gli altri moti dovevano essere spiegati mediante “forze non controbilanciate che agiscono sui corpi”. A questi esempi potremmo affiancare dal canto nostro… proprio quella di Leibniz. Con risultati un po’ curiosi, se non addirittura paradossali: per la metafisica leibniziana nessuno stato del mondo soddisfa i requisiti di N, poiché ogni situazione del mondo, anzi il mondo nel suo complesso, necessita – in quanto contingenza e devianza – di una giustificazione. Si potrebbe azzardare allora, sempre avvalendoci della stilizzazione di Nozick, che il solo “stato N” sia rappresentato in Leibniz dalla mera potenza o virtualità… e che E sia costituito invece dall’azione impressa a questi ultimi dall’Ens existentificans. Riceverebbe così un’ulteriore conferma e chiarificazione la tesi per cui nulla esisterebbe senza il conato all’esistenza impresso ai possibili dalla forza “esistentificante” di Dio.

Robert Nozick 1Ma torniamo alla forma di domanda “perché c’è X anziché Y?”. A essa si attagliano per Nozick particolarmente le teorie egualitarie: “C’è uno stato non-N anziché uno stato N a causa delle forze F che hanno allontanato il sistema da N. E se c’è uno stato N, c’è perché nessuna forza non controbilanciata ha allontanato il sistema da N“. È in conformità a questo dispositivo che la domanda “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?” implica “una presunzione favorevole alla nientità [a presumption in favor of nothingness]”. La domanda ha, in altri termini, un senso solo se si presume che il nulla sia lo stato naturale o privilegiato che non ha bisogno di spiegazioni, mentre ogni devianza dal nulla – sia pure un aliquid impercettibile – va spiegata mediante il ricorso a fattori causali speciali. La difficoltà del problema risiederebbe però a questo punto nel fatto che “qualsiasi fattore speciale in grado di spiegare una deviazione dalla nientità diverge a sua volta dalla nientità, per cui la domanda chiede di spiegare anche quello”. La questione che Nozick deve porsi a questo stadio della sua explanation suona davvero schiettamente “leibniziana”: è possibile immaginare il nulla come uno stato naturale – ovvero una situazione simmetrica iniziale – che “contenga in sé la forza con cui produrre il qualcosa?”…. Resta tuttavia in piedi la plausibilità dell’argomentazione: assumere il Nulla come stato “naturale” potrebbe anche voler dire che esso deriva da una potentissima forza “nientificante” (tanto per intenderci: simmetrica e opposta all'”esistentificante” di Leibniz), una vacuum force, una “forza aspirante che risucchia le cose nell’inesistenza”. Diremmo allora che il Nulla “nientifica” se stesso: See how Heideggerian the seas of language run here! Quanto è heideggeriano, qui, l’oceano della lingua!” – esclama ironicamente Nozick. In base a questa idea si giungerebbe alla conclusione che c’è qualcosa anziché niente perché c’era una volta una forza di nientità che ha nientato se stessa. Producendo qualcosa. Forse, però, si è nientata solo in parte, producendo qualcosa ma lasciando ancora un po’ di forza di nientità [force for nothingness] residua” (Ibidem).

Abbiamo in tal modo l’esatto rovescio dell’Endspiel, del “finale di partita” leibniziano. Rovescio talmente perfetto da lasciarne intatti tutti i passaggi intermedi: dalla radicale contingenza del mondo all’allineamento orizzontale dei possibili. Ma un allineamento siffatto è proprio quello contemplato dalle “teorie egualitarie“, verso cui Nozick sembra nettamente propendere: “Una teorie egualitaria [egalitarian theory] coerente non considererà più naturale, o privilegiato, il non esistere o non sussistere, nemmeno per una possibilità, e metterà tutte le possibilità sullo stesso piano. Un modo per farlo è quello di dire che tutte le possibilità sono realizzate”. Conclusione – ancora – clamorosamente leibniziana, si sarebbe portati a dire. Salvo due differenze: “impercettibili”, forse, ma davvero decisive.

In primo luogo, le possibilità sono in Leibniz tutt’altro che “fittizie”, come si è visto, ma non realizzate: sono soltanto idealmente presenti pari jure “in Dio”, essendo la loro compossibilità intrinsecamente condizionata dalla universale concorrenza a esistere.

In secondo luogo: abbracciare la teoria egualitaria non implica soltanto rispetto alla domanda “Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?”, una neutralizzazione del contrasto implicito nel piuttosto-che, ma un azzeramento del paradosso che proprio quella particolare forma di interrogazione – e non un’altra – tenta di indicare o di evocare.

[…]

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Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Il problema radicale dell’essere e del nulla non è una questione che si ponga “provvidenzialmente” a un determinato stadio della storia del Nichilismo, a un’«ora X» dell’«oblio» o della “manifestatività” destinale dell’Essere. È un problema che può porsi, e che è stato di fatto variamente posto, in tutte le “epoche” della riflessione filosofica. Lo specifico contributo heideggeriano alla questione sollevata da Leibniz sta – come aveva osservato a suo tempo Luigi Scaravelli in un magistrale saggio su Il problema speculativo di Martin Heidegger – nella dimostrazione che l’«unità in cui l’essere e il nulla coincidono non è l’identità, né la dialettica del sapere». Questa unità avviene piuttosto «come continuo allontanarsi in noi dell’essere di noi stessi, in quanto l’allontanarsi di quest’essere è l’agire come costruzione d’una realtà che è il mondo stesso».

[…]

In quanto Ente “esistentificante”, Dio non solo fa si che esista qualcosa piuttosto che il nulla, ma anche che omne possibile habeat conatum ad Existentiam, che “ogni possibile abbia un conato all’esistenza”, dal momento che l’universale non ammette una ragione di restrizione dei possibili. Da ciò consegue però soltanto che “ogni possibile può essere detto existiturire in quanto si fonda sull’Ente necessario esistente in atto, senza il quale non vi sarebbe alcuna via per cui il possibile pervenga all’atto”; ma non che “tutti i possibili esistano”, che l’intera gamma della potenza pervenga all’atto: ciò che si darebbe esclusivamente a condizione che tutti i possibilia fossero compossibilia. Ma poiché, nella pretesa di esistere tutti, i possibili si trovano in conflitto, solo alcuni – in ragione della reciproca incompatibilità – giungono all’esistenza. Sta qui l’inestirpabile radice della divergenza delle serie“».*

Giacomo-Marramao

*Giacomo Marramao Minima temporalia. Tempo spazio esperienza lucasossella editore, 2005 pp. 32 segg.

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Per la definizione di un’estetica in Martin Heidegger, di Marco Onofrio (Parte I) con un Commento di Giorgio Linguaglossa sul problema della lontananza della Poesia dall’Essere

Martin Heidegger

Martin Heidegger

A ben vedere, il termine “estetica” suona vagamente inappropriato all’interno dell’orizzonte filosofico heideggeriano. Heidegger stesso rifiuta il termine “estetica”: riportare l’arte al punto di vista dell’estetica significa, infatti, appiattirla in uno schema intellettualistico, di “strumentalismo soggettivistico”, riducendola a documentazione opaca e inautentica, con ciò stesso incapace della rivelazione ontologica cui l’arte è chiamata per vocazione costitutiva. Parlare di estetica implica l’appartenenza a un tempo ancora staccato da un reale e profondo contatto con l’essere. Heidegger guarda con diffidenza a diversi postulati della filosofia occidentale: in particolare,  l’interpretazione della realtà in “metafisica”, del pensiero in “logica”, dell’arte in “estetica”. Eppure il suo interesse per il fatto artistico è vivo e documentabile. Egli si affida apertamente alle suggestioni dell’arte, proprio perché ne presuppone l’importanza e la validità. Il suo giudizio negativo nei confronti dell’estetica non esclude affatto la possibilità di un’interpretazione filosofica dell’arte. Peraltro, l’interesse estetico non è fine a se stesso, bensì inquadrato in altri e più vasti ambiti di ordine teoretico. L’attenzione per l’arte, dunque, è tutta interna a uno sforzo di interpretazione generale della realtà. L’arte è ricondotta alla struttura dell’essere nella sua necessità di rivelazione.

Heidegger utilizza citazioni poetiche: non per sfoggio di cultura, o per ornamento, o per alleggerire il discorso (che anzi con la poesia si fa più ermetico). La poesia viene accolta come elemento consustanziale al discorso filosofico. Lo stile filosofico heideggeriano si configura tipicamente come “dialogo” fra pensiero e poesia. L’interesse sempre più accentuato verso la poesia risponde alle esigenze di un discorso “poetico-pensante” che Heidegger elabora nel corso degli anni come uno dei più validi tracciati per cogliere la realtà in modo autentico. La parola poetica, analizzata nell’eco labirintico delle sue suggestioni etimologiche, diventa il perno attraverso cui l’espressione s’involge in giri e rigiri tortuosi, fitti di echi e ritorni, riprese continue e ridondanze, dall’interno stesso di un ragionamento teso a rincorrersi nella conquista del suo stesso accadere, con l’apertura di un “work in progress” dagli esiti incerti.

Heidegger in his hutLa poesia ha parole che manifestano e al contempo nascondono l’essere, parole cariche di inespresso. Heidegger pensa la poesia mentre poetizza il pensiero: poetare e pensare sono indissolubili. Il suo metodo ermeneutico dialoga con le profondità creative del testo: penetra l’inespresso di ciò che la poesia dice, attraverso un pensamento che porta il pensare in colloquio col poetare. Filosofia è ascolto dell’essere attraverso il linguaggio che lo manifesta, e il linguaggio che manifesta l’essere è la poesia. Il pensare si risolve in commento alle parole fondamentali di alcuni poeti, parole-chiave che fanno sognare il lettore e riflettere il filosofo. Quali poeti? Quelli vincolati al Diktat dell’essere, centrati sull’origine, aperti al rischio del tremendo, del sacro, dell’abissale profondità. Ad esempio un poeta-filosofo come Friedrich Hölderlin. Si riporta di seguito uno specimen significativo del metodo heideggeriano, applicato ai versi (ne bastano un paio) della poesia di Hölderlin “Arrivo a casa”:

In grembo alle Alpi è ancor notte chiara e la nuvola, 

poetando cose di gioia, copre là dentro la valle che s’apre.

«Quanto la patria ha di amico e di aperto, di chiaro, di brillante, di splendente, di rilucente, viene incontro, all’arrivo alla porta del paese, in un apparire radioso ed amico che è unico. (…) Come nomineremo questo apparire radioso e quieto in cui tutto, cose e uomini, rivolge il suo saluto a colui che cerca? Noi dobbiamo nominare questo farsi incontro invitante della patria con la parola che pervade con la sua luce tutta la poesia Arrivo a casa: “il gioioso” (das Freudige)… Il gioioso è il poetato (das Gedichtete).  Il gioioso viene intonato dalla gioia alla gioia stessa. Per questo esso è ciò che riceve gioia e dunque è pieno di gioia. Ma ciò che è pieno di gioia può a sua volta dare gioia. Così il gioioso è al tempo stesso ciò che dà gioia. La nuvola “in grembo alle Alpi” si tiene sempre più in alto, andando incontro alle “argentee altitudini”. Essa si scopre all’alta chiarezza del cielo, mentre al tempo stesso “copre … la valle che s’apre”. La nuvola poeta (dichtet). Giacché essa guarda ciò da cui essa stessa è guardata, il suo poetato non è una pensata o una trovata vana. Il poetare è un trovare. A tal modo la nuvola deve ben uscire da sé andando incontro a qualcosa d’altro, che non è più essa stessa. Il poetato non sorge per mezzo di essa. Il poetato non viene dalla nuvola. Le sopravviene come ciò che le si fa incontro (entgegenweilt). La chiarezza aperta in cui la nuvola si trattiene (verweilt) rasserena questo trattenersi. La nuvola è rasserenata nel sereno. Ciò che essa poeta, il “gioioso”, è il sereno. Noi lo chiamiamo anche “lo spazio libero” (das Aufgeräumte). D’ora in avanti pensiamo quest’espressione in senso rigoroso. Lo spazio libero è liberato, diradato, illuminato e ordinato nella sua spazialità. È solo il sereno, lo spazio libero, che può aprire ad altro lo spazio che sia per esso il luogo adeguato. Il gioioso ha la sua essenza nel sereno che rasserena. Il sereno stesso, a sua volta, si mostra innanzi tutto in ciò che dà gioia.», etc. etc. [M. Heidegger, “La poesia di Hölderlin”, Milano, Adelphi, 1988, pp. 18-19] 

martin heidegger a passeggio

martin heidegger a passeggio

Quand’è che Heidegger conquista al suo discorso filosofico questa forma poetico-pensante? La svolta è segnata dalla conferenza romana su “Hölderlin e l’essenza della poesia” del 2 aprile 1936. Qui si certifica il cambio di rotta tra il primo e il secondo Heidegger. Nella prospettiva metafisica, che Heidegger considera ormai compiuta, il linguaggio è strumento esistenziale condizionato dal soggetto. Ma assumere il linguaggio come strumento porta ad ignorare l’originaria appartenenza della parola all’Essere. Il linguaggio si banalizza a “chiacchiera”, a “rimasticatura”. In realtà il linguaggio non è lo strumento dell’uomo, ma la casa dell’Essere in cui l’uomo si limita ad abitare. Il linguaggio è la struttura incondizionata e disutile (a fini immediati) dove l’Essere si rivela spontaneamente. La poesia è il linguaggio originario che riverbera la “grazia” dell’Essere, cioè l’irradiazione tremenda del sacro. La Dichtung esprime il Diktat dell’Essere autorivelantesi nel linguaggio. L’Essere dètta la propria rivelazione: l’uomo deve limitarsi a “lasciar essere” l’evento. È dunque la poesia che rende possibile il linguaggio, non viceversa! L’uomo non deve ergersi a “padrone dell’ente”, ma abbandonarsi al suo compito di “pastore dell’Essere”.

Nel mondo post-metafisico dell’“organizzazione totale” fondata sulla tecnica, ogni cosa ha un posto definito, coincidente con la funzione strumentale assolta all’interno del sistema. Anche il linguaggio assolve questo compito, tecnicizzandosi. L’uomo interroga gli enti come oggetti esterni da cui determinare il senso dell’essere: il loro e il proprio. Ma la metafisica, così intesa, conduce all’oblio dell’essere, che si nasconde anziché rivelarsi, e all’utilizzo strumentale degli enti nell’orizzonte del mondo tecnicizzato. Anche l’uomo, da ultimo, finisce per diventare “ente”, oggetto, cosa, strumento. Il pensiero stesso si riduce a servizio del sistema: strumento fra gli altri per la soluzione di problemi interni alla “totalità strumentale” in atto nelle società contemporanee. Occorre dunque ripristinare il contatto con le sorgenti dell’essere. L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927) aveva individuato l’ontologia come destino e compito dell’uomo. Noi siamo l’ente che si interroga sul problema dell’esserci dalla prospettiva opaca del Dasein, la “deiezione” dell’esser-ci, dell’essere gettati in mezzo al mondo. Un modo per superare l’impasse di una metafisica che, per consunzione di principio, tradisce il proprio andare “oltre”, è fare dell’esistenza umana una manifestazione dell’Essere, che in essa si rivela e insieme si nasconde. L’Essere (con l’iniziale maiuscola) è la totalità che emerge da ogni singola cosa del mondo. È l’origine fondante che regge gli enti all’interno, e ne apre la soglia ontologica, cioè la luce entro cui l’ente si fa visibile in quanto è. L’Essere è il bordo non aggirabile della comprensione. Non spetta all’uomo cercare l’Essere, o tentare di conoscerlo. L’uomo non può far altro che abbandonarvisi e accettare le rivelazioni di cui l’Essere stesso prende iniziativa. L’Essere si manifesta per illuminazioni che accadono e, accadendo, si consegnano all’uomo. Tali rivelazioni avvengono proprio attraverso il linguaggio poetico.

L’estetica di Heidegger ravviva in chiave moderna alcuni capisaldi del pensiero estetico occidentale, ad esempio il concetto plotiniano di arte come disvelamento ultranaturalistico della verità, o il potere irradiante della claritas tomistica (uno dei tre requisiti della bellezza, secondo San Tommaso). Grandi scrittori come Joyce e Proust hanno basato la propria poetica sulla ricerca delle “epifanie” (si leggano le illuminanti note di Giacomo Debenedetti, raccolte ne Il romanzo del ‘900), per cui – grazie a una «nuova, ulteriore comunicativa che gli oggetti improvvisamente acquistano» ‒ le cose «come per un misterioso, invisibile e tuttavia sensibile animarsi» dei loro connotati «ci confidano il loro segreto essenziale, il loro senso», sicché «l’arte nasce e si giustifica in quanto riesce a ottenere che gli oggetti, gli attimi si aprano, sprigionino la rivelazione che essi annunciavano, tenendola chiusa, invisibile, e come carcerata». Compito dell’artista è assecondare questo evento di rivelazione, predisponendosi a farsi cercare dall’essenza.

(Marco Onofrio)

 Heidegger nella casa di campagna

Caro Marco,

indubbiamente, nel pensiero di Heidegger il linguaggio è prossimo all’Essere ma di un tipo di prossimità che si rivela lontanissima. Comunque stiano le cose, è la sola prossimità di cui l’uomo dispone. È questo il fulcro del pensiero di Heidegger sul linguaggio poetico e sulla poesia. La poesia non può che parlare da una immensa lontananza per poter giungere ad una vicinanza con l’Essere.

 «L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parole, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola […] L’uomo è in quanto parla […]

Il linguaggio fa parte in ogni caso di ciò che l’uomo ritrova nella sua più immediata vicinanza. Dappertutto ci si fa incontro il linguaggio. Per questo non è meraviglia se l’uomo, non appena prende, riflettendo, visione di ciò che è, subito s’imbatte anche nel linguaggio…»*

 «Il Linguaggio parla – L’uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere è ascoltare. L’ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da un vincolo di appartenenza».

Il problema del linguaggio si pone in corrispondenza con il senso dell’esistere dell’esserci. Dopo Was ist Metaphysik? (1929) la filosofia di Heidegger accentua sempre più il suo carattere kerygmatico e teologico, si annuncia come portatrice di un messaggio di redenzione. All’annuncio subentra una riflessione sul modo con cui si dà l’annuncio e sul modo con cui l’Essere parla e sul modo con cui l’uomo ascolta e «cor-risponde»; così il Linguaggio (das Worte, die Sprache, die Sage) si annuncia mediante l’evento (das Ereignis) in corrispondenza con il poetare del poeta (il Dichten, il Denken, il Danken). Tutti i grandi pensatori, chiosa Heidegger, hanno pensato e detto das Selbe (l’identico), e «ogni pensatore pensa un unico pensiero» e «ogni poeta poeta un unico pensiero».

«Ma l’Essere, che è dunque  l’Essere? È se stesso… L’essere è il più lontano di ogni essente ed è tuttavia, più vicino all’uomo di ogni essente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, sia un angelo o Dio. L’Essere è ciò che è più vicino. e tuttavia la vicinanza rimane per l’uomo lontanissima».

heidegger nello studio

heidegger nello studio

Le numerose asserzioni kyerigmatiche di Heidegger gettano luce sulla matrice religiosa del suo pensiero estetico: «noi giungiamo troppo tardi per gli Dei e troppo presto per l’Essere» e altre come «Hölderlin, rifondando l’essenza della poesia, determina e inizia una nuova età. Questa è l’età della indigenza, perché essa sta sia in una duplice mancanza e in un duplice non: nel non più degli Dei fuggiti e nel non ancora del Dio che ha da venire». E in alcuni passi posti all’inizio dello Humanismusbrief: «Il pensiero compie il rapporto dell’Essere con l’essenza dell’uomo. Esso non crea tale rapporto. Il pensiero altro non fa se non offrirlo all’Essere come ciò che a lui è dato dall’Essere. Questo offrire consiste nel fatto che l’Essere giunge al linguaggio nel pensare. Il linguaggio è la dimora dell’Essere. In questa abitazione abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa abitazione. Vegliando, essi portano a compimento il rivelarsi dell’Essere, in quanto, mediante il loro dire, portano al linguaggio e nel linguaggio custodiscono questa rivelazione».

Il Denken è Andenken (ricordo, memoria), ma anche la poesia è figlia di Mnemosyne, «la memoria, il raccolto ricordare ciò che deve essere pensato, è il fondamento e la fonte del poetare». «Il pensatore dice l’Essere. Il poeta nomina il Sacro […] Si conosce più di una cosa sul rapporto fra filosofia e poesia. Niente sappiamo del dialogo che intercorre tra poeti e pensatori che abitano vicino su monti quanto mai separati».*

«Il linguaggio è il linguaggio. Tale affermazione non ci porta a un fondamento del linguaggio estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. L’affermazione “il linguaggio è il linguaggio” ci lascia sospesi sopra un abisso… »*

«Il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato… In ciò che è stato detto il parlare resta custodito.

Se pertanto dobbiamo cercare il parlare del linguaggio in una parola detta, sarà bene, anziché prendere a caso una parola qualsiasi, scegliere una parola pura. Parola pura è quella in cui la pienezza del dire… si configura come una pienezza iniziante. Parola pura è la poesia […] Ascoltiamo la parola già detta:

 

Una sera d’inverno (Georg Trakl)

 Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola è pronta
E la casa è tutta in ordine.

 

Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l’albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
 

Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.*
 

(Giorgio Linguaglossa)

* Untervegs zur Sprache 1959, trad, it. 1973 Mursia Editore

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