Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda
«Ognuno prende posto nel quadrato del senso»
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Poesie inedite in modalità kitchen
di Ewa Tagher
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[Ewa Tagher è nata a Lubiana nel 1980, trapezista presso il circo di Lubiana (occasionalmente si occupa anche di riassettare le gabbie dei leoni e dei dromedari). Spesso viene inviata dalla famiglia Dzjwiek, proprietaria del circo, alla ricerca di curiosità esotiche e fenomeni da baraccone.]
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Ewa Tagher
SCENA 16. TENTATIVO PER UN FILM.
“Le rive del Tevere dopo il tramonto:
nient’altro che trappole per topi”.
“Viktor! Dovresti ripetere la battuta,
la T di Tevere aveva echi calcistici.”
Oltre i ponti, al di là della città
Ewa incornicia fiori secchi, cocci, disfonie.
Dopo l’ultima mareggiata
resta in campo solo il malessere
l’entropia delle parole ha fatto sparire
ogni possibilità di fuga in avanti.
“Luci! Ma non vi accorgete che alla scena manca il delitto?
Portate assi, chiodi, sangue finto e curatéle”.
Occasionalmente Viktor parla alla regia
che ascolta solo le “r” le “s”, mai una vocale.
Ewa ha sentito dire che cercano una comparsa
così non perde l’occasione di farsi suora.
“Spostate il punto di vista! Così più in alto,
ecco finalmente viene fuori lo zenit!
Non una parola in più, il regista
si lascia morire sotto l’orsa maggiore.
Oltre il Danubio il film viene censurato,
troppa violenza a ridosso del break
oramai gli spettatori preferiscono
perdere tutto al primo giro di carte.
Ewa e Viktor con i cestini del pranzo in mano
intonano l’Internazionale, con accenni pop
il corrimano del metrò che lascia Cinecittà
tiene stretti i denti fino a frantumarli.
FASCIATURA
Ha piovuto ovunque, tranne che per strada.
Le scarpe oramai non servono più.
Chi può, citofona al Dottor Dapertutto
nel tentativo di portare ordine nel Caos.
I veri disperati nascondono brandelli di
di coscienza sotto le ascelle,
non ne possono più di bandierine
agitate dai difensori della verità a tutti i costi.
Un terzo della popolazione non si accorge di nulla.
Per loro è solo una distorsione. Basta una fasciatura.
“Se si sente soffocare, stringa il mio braccio,
io capisco e smetto”.
ADDIO ROUTINE
Stamattina gli abitanti di Roma Nord sono scesi in strada.
I letti, nella notte, hanno ingoiato chiavi, bancomat e forbicine.
L’edizione delle otto ha annunciato:
“Non sono più possibili i ritagli di tempo”.
Per le strade si discute se scendere nelle catacombe
o lasciare la città ai nuovi venuti.
Qualcuno per disperazione si accovaccia sui rami della tangenziale
e batte i denti a tempo: un abuso di semiminime.
La Storia, materiale di risulta, ha un fremito, poi collassa.
“Porta Pia è un varco aperto verso la dimensione dell’ Unheimliche”.
La Pasqua non sarà trionfo di trombe,
Cristo si rifiuta di morire.
Gli piace pensare che gli uomini siano inutili.
Per cinque minuti.
Poi piega con cura il sudario e lo abbandona
sui binari del tram Casaletto.
UMAMI
Il conforto della casa: una ciotola vuota.
“Dove sono finiti gli ultimi abbracci?”
“Battuti all’asta con le porcellane della nonna.”
Hanno schegge di ricordi, le orecchie.
lo senti, almeno tu, il tintinnio delle posate?
Sul velluto, attendiamo che il peggio passi.
Fuori, il pettirosso reclama un haiku,
ma oramai non abbiamo più il senso dell’olfatto.
Al pasto mancano gli attori,
il dramma della tavola è stanco di ripetersi:
ha preferito l’India e una ciotola di riso al tramonto.
SCENA 23
Ewa e Victor a un tavolo del Cafè de Paris.
L’archeoacustica in mano a gente che osa.
“Hai poggiato l’orecchio sul ventre della balena?”
Su un piatto il cuore, sull’altro una piuma.
Ecco il cameriere e un vassoio di tappi per le orecchie.
Victor, prova a leggere le labbra di Ewa,
che intanto non scrivono nulla.
I toni compresi tra un urlo e un cinguettio,
in mezzo bicchiere di succo d’arancia.
Ewa prova a leggere le labbra di Victor,
una sabba di fricative mano nella mano.
Non c’è un piano di rinascita
per il dialetto dell’infanzia.
Ewa e Victor all’aeroporto, per una fuga
verso il Messico con turbolenze di senso.
Un corteo di mosche atterra in ritardo,
il resto della storia è da romanzo popolare.
Nella quarantena degli idoli
ognuno fa rapporto a sé stesso.
SCENA 46
Al bivio tra la poesia e la sciarada
le risponde solo l’Eco.
Incapace di fare follie, Ewa
stanotte ha perso versi.
Per riparare telefonerà a se stessa:
il ricevitore intasato dal traffico del rientro.
“Avevi promesso di scrivere.”
“Ho preso appunti. Ma li ho mangiati.”
L’ eroica coppia del gatto e il topo
anche stasera ha fatto cartoon.
In preda a allucinazioni da latte fresco,
Ewa, si autocensura:
“Come pensi di poter usare
Occorrenze, significanti e mestoli,
continuando a prostituirti su carta?”
Chi vanta di avere crediti in poesia,
lo sa che solo i santi vivono al di sopra delle proprie possibilità?
Ewa ha urgente bisogno di parlare a se stessa:
in un bar di fine ottocento a Villa Ada alta.
“Sei in ritardo. Il tre verticale mi fa tremare”.
Maschile Femminile
Non Maschile Non Femminile
Ognuno prende posto nel quadrato del senso.
Ewa gira l’angolo e lascia a terra i propri stracci.
SCENA 47
Sulla parete a sinistra il Golgota, di profilo.
Oltre la finestra una profezia di città.
La clinica di sei piani seduta sulle fogne dell’Urbe.
E così che ci si ammala, un errore dopo l’altro.
Ewa stringe il 42. “Prego si accomodi”.
Viktor la accompagna, la cornetta ancora in mano.
“Non ha più il terzo occhio, l’ha ingoiato ieri
Dopo aver immaginato la morte della madre”.
L’infermiera le misura la pressione, poi la fa sdraiare.
Ewa è a pancia in giù, sulle gambe di Victor.
“Passami la cornetta, voglio telefonarle….”
Ewa annaspa, per guarire deve imparare a nuotare.
L’aria nella stanza satura d’inchiostro,
Con le ultime bracciate Ewa traccia il proprio sgomento.
Possono andare. Viktor in ginocchio cancella l’ultimo errore.
“La linea è occupata… riproverò più tardi.”
PROVE PER UNA SCENOGRAFIA
“C’è vita nelle copie in gesso?”
Forse una possibilità di luce.
La periferia si arma, alza la voce,
poi la perde, nell’arco di un solstizio.
Gli sfondi da cortile non vanno più di moda
ha vinto l’improvvisazione e la vendita al dettaglio.
L’allestimento per la prossima scena
ha a che fare con un tic senza imbarazzo
a seguire una catena di torce , borborigmi,
mani in preghiera e tracce di nicotina.
Villa Borghese ha una nuova acconciatura
ai cancelli approcci di ruggine e corde di chitarra:
solo il Galoppatoio ha speranza
di entrare nel circuito dei benpensanti.
Il tema di Paolo e Francesca
contrasta con l’atmosfera sinistra dell’Inferno
hanno sbagliato luogo e ora
“Fermi qui, sull’orlo di un diario intimo.”
«Ognuno prende posto nel quadrato del senso»
di Giorgio Linguaglossa
L’uomo moderno è quell’animale parlante nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente, afferma Foucault,1 annientato e costretto tra biopolitica e sovranità. Continua a leggere
[Lucio Mayoor Tosi, La Gioconda, immagine al computer, 2010 – Tra l’Australopithecus (oltre 3 milioni di anni fa) e l’Homo sapiens (circa 130 mila anni fa) da cui deriviamo, si situa la storia dell’Homo sapiens, in cui “Homo” è il nome del genere, “Homo sapiens” è il nome della specie dove “sapiens” è l’aggettivo specifico. Oggi, nel 2020, un organismo non vivente, un insieme di molecole, un cosiddetto, «decompositore», il Covid19, si è insediato nell’habitat dell’uomo. Suo compito precipuo è la trasformazione della materia organica in materia inorganica. In ciò segue un preciso ordito della Natura. La Natura agisce da equilibratore delle distorsioni indotte in essa dal Fattore antropico… Forse un giorno un altro micidiale virus verrà a completare l’opera del Covid19 e coopererà per far regredire l’Homo sapiens a Scimpanzè. Così, con la sparizione del Fattore antropico, la Natura ristabilirà l’equilibrio degli ecosistemi e continuerà a governare sul pianeta terra per i prossimi milioni di anni…]
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«Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1989, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1979 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2011»1.
A questi eventi io ci aggiungerei la pandemia del Covid19 in tutto il globo. Un fatto impreveduto e imprevedibile dentro il quale ci troviamo tuttora. Dal nostro punto di vista interno vediamo con timore e tremore che il «mondo di domani» non sarà più come il «mondo di ieri»; la Unione Europea si sta sgretolando, la questione dei coronabond divide l’Unione tra i paesi del Nord, ricchi e forti, e i paesi del Sud, poveri e deboli. All’esterno, ad est, Putin già prepara la forchetta e il coltello per sedersi al tavolo della ex Europa; ad ovest Trump brinda perché non avrà più davanti a sé un temibile competitor come l’Euro ma tanti staterelli divisi e conflittuali; più in là la Grande Cina con il suo disegno di dominio dell’economia mondiale con la via della seta.
Vista dall’interno, la grande cultura europea sembra non dare segni di vitalità. Sì, ci sono singoli pensatori: Michel Onfray in Francia, Agamben e Cacciari in Italia, nella repubblica ceca poeti Petr Kral e Michal Ajvaz… insomma, la grande cultura europea se c’è non ha più nessuna influenza sugli eventi. Orban in Uhgheria ha ottenuto pieni poteri e, di fatto, è un dittatore; il nostro Salvini ha già chiesto «pieni poteri» (e non è escluso che riesca a conseguirli); l’Inghilterra è uscita dalla Unione Europea con il suo primo ministro che dichiara tranquillamente agli inglesi «preparatevi a perdere i vostri cari».
E in Italia? Cosa hanno da dire i poeti in Italia? Giuseppe Conte invoca il «Bello» (si sottintende delle sue poesie), Maurizio Cucchi scrive un trafiletto sulla «scomparsa della società letteraria», gli altri tacciono o mettono I like su Facebook. Non v’è chi non veda l’anacronismo tra la gravità della crisi del mondo e le proposte dei letterati. Nessuno sembra avvertire la gravità degli eventi. Si continua a pubblicare libri implausibili se non allarmanti per la loro irrisorietà. Di fronte a tutto questo, la nuova ontologia estetica aveva acceso da anni i suoi riflettori sulla gravità e inevitabilità della Crisi. Adesso, l’emergenza gravissima del Coronavirus ha reso visibile l’iceberg in tutta la sua monumentale entità. Non c’è più tempo per rallegrarci. Il Titanic nel quale siamo imbarcati ci sta andando a sbattere.
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1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009, p. 5
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Per tornare alla poesia il fatto è che se si accetta in toto un certo tipo di poesia che prende lo spunto dalla «superficie» del reale mediatico, si fabbricano quelle che Maurizio Ferraris chiama le «postverità» o, più esattamente, le «ipoverità», secondo i cui assunti «non esistono fatti ma solo interpretazioni», cioè che assume come incontrovertibile che le parole siano libere rispetto alle cose. Partendo da questo assunto si va a finire dritti in un «liberalismo ontologico poco impegnativo».1
Questo tipo di impostazione finisce necessariamente in quella che il filosofo Maurizio Ferraris chiama «dipendenza rappresentazionale», ovvero «ipoverità», verità di secondo ordine, verità di seconda rappresentazione. Di questo passo si finisce dritti nell’«addio alla verità».2 La poesia del post-minimalismo, comprendendo in questa categoria tutti gli epigoni e gli imitatori del loro capostipite Magrelli, soccombe ad una visione non veritativa del discorso poetico il quale non corrisponderebbe più ad un valore veritativo (il discorso sullo statuto di verità del discorso poetico») ma ad un discorso liberato da qualsiasi contenuto veritativo in nome di una liberalizzazione della ontologia che diventa, di fatto, una epistemologia. Con la scomparsa della ontologia estetica nell’epistemologia si celebra anche il decesso di un discorso poetico che voglia conservare un valore veritativo critico.
La poesia del post-minimalismo riassume questo percorso di una parte della cultura poetica del secondo novecento approdando ad una pratica di non verità del discorso poetico, ed esattamente, al concetto di «ipoverità» della poesia.
Scrive Maurizio Ferraris: «Così, la postverità (potremmo dire la “post verità”, la verità che si posta) è diventata la massima produzione dell’Occidente. Quando si dice che oggi si producono balle in quantità industriale, la frase fatta nasconde una verità profonda: davvero la produzione di bugie ha preso il posto delle merci».3]
Il principio fondamentale di questo realismo post-veritativo è: la forma-poesia come produzione di ipoverità, di iperverità e di post-verità.
quando «i platani sul Tevere diventeranno betulle», saremo già nell’epoca del totalitarismo. Tu lo avevi già previsto. Quando la pandemia sarà terminata il capitalismo continuerà a esistere, e sarà ancora più aggressivo.
Il Covid19 ha sostituito la ragione. È possibile che anche in Occidente arrivi lo Stato di polizia digitale in stile cinese. Non credo che il neoliberalismo come modello economico sia in crisi. È probabile che lo shock causato dal Covid19 determini in Europa un regime di polizia digitale come quello cinese. Già Giorgio Agamben ci ha ammonito del pericolo che lo stato d’eccezione diventerà la situazione normale delle future democrazie illiberali. Il Covid19 non sconfiggerà il capitalismo, anzi lo rafforzerà. Il virus ci rende deboli e fragili, ci isola ed esaspera gli egoismi e gli individualismi, i populismi e i sovranismi. Nello stato della «nuda vita» agambeniana ognuno si preoccuperà della propria sopravvivenza. La solidarietà sarà una parola del passato. L’uguaglianza dello stato di diritto anche.
Il filosofo «Žižek afferma che il virus ha assestato un colpo mortale al capitalismo, ed evoca i fantasmi di un oscuro comunismo. Crede anche che il virus possa far cadere il regime cinese. Žižek si sbaglia. Non succederà niente di tutto ciò.» Condivido l’analisi del filosofo cinese Byung-Chul-Han. La Cina spaccia il suo Stato di polizia digitale come la soluzione della pandemia, esibirà la superiorità del suo sistema rispetto a quello delle democrazie dell’Europa. Idem Putin il quale ha dichiarato più volte che le democrazie liberali dell’Europa sono in disfacimento.
(Giorgio Linguaglossa)
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1] M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 122
2] Ibidem
3] Ibidem p. 115,116
Giuseppe Talìa
La poesia del dopo COVID-19.
Riguardo al Nostro Giuseppe Conte, poeta, che nel tempo ha invocato gli dei e che continua, dopo aver preso un abbaglio clamoroso scambiando un modesto video montaggio di un’agenzia di propaganda per un’immagine reale della prima guerra mondiale, non ce lo dimentichiamo, ricordiamo questa sestina cattiva da La Musa Last Minute, Progetto Cultura, Roma 2018.
Giuseppe Conte
Né ferite né fioriture sono possibili
Lo dice il telegiornale non stop h24
E alla tavola rotonda che fu di re Artù
Si siedono ora tredici famiglie del gruppo
Bilderberg a cui importa solo il think tank
Della Parca parcheggiata nell’Economia
Tomas Tranströmer
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.» Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi. Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»
Il problema dell’Aufgabe des Denkens come oltrepassamento del nichilismo e preparazione di una nuova dedizione – si configura ora come problema dell’aporetico oltrepassamento del principio di non contraddizione. Questo il tremendo compito assegnato da Heidegger al pensiero filosofico – che il pensiero deve assumere per affermare la sua attività ed autonomia. Solo nel segno di questo compito, solo nella ricerca di una giusta esperienza dell’origine si apre per l’uomo la possibilità di una vita autenticamente etica:
«Ethos significa soggiorno (Aufenthalt), luogo dell’abitare. La parola nomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’apertura del suo soggiorno lascia apparire ciò che viene incontro all’essenza dell’uomo e, così avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. (…) Ora, se in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine «etica» vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo in quanto e-sistente è già in sé l’etica originaria».1
La ricerca di questa etica originaria si cela nella tensione dell’Aufgabe des Denkens: il pensiero dell’essenza dell’essere come Léthe definisce il luogo, lo spazio aperto entro cui l’essenza dell’uomo trova il suo soggiorno. L’illuminazione di questo luogo essenziale è il compito del pensiero. Attraverso la comprensione dell’origine si può tornare all’originario, ad una pratica dell’origine, alla frequentazione di ciò che è originario, all’azione nel framezzo dell’ente e della storia. Solo con tale comprensione preliminare, possiamo essere com-presi nella nostra più vera essenza.
Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il discorso poetico nella forma del polittico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.”
(Giorgio Linguaglossa)
E’ incredibile come la quartina di Tranströmer, con quel finale:
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.
corrisponda alla nostra situazione quotidiana, prigionieri all’interno delle nostre abitazioni, con tutte le porte e le finestre chiuse a causa del virus Covid19.
(Marie Laure Colasson)
Giorgio Linguaglossa
Stanza n. 1
K. invia il Signor F. sulla terra con una minuscola teca
K. sfregò uno zolfanello sul muro e accese il sigaro.
Il suo occhio di vetro sembrava osservarmi.
Poi accese il fuoco, ci mise sopra un bricco il quale cominciò a tossire.
Uscì fuori una figura di fumo che si contorceva.
«Ecco, questo è il Signor F.» disse K. «È una persona ragionevole,
con lui si possono fare ottimi affari…».
«Sa, è stato per tanto tempo nell’aldilà. Adesso però è stato dichiarato innocente.
E per questo riabilitato e restituito al pianeta Terra,
tra gli umani».
Fece una giravolta. Uno sgambetto.
Si infilò il monocolo sull’occhio di vetro.
Mostrò una minuscola teca. «Ecco, questo è il vasetto di Pandora.
Contiene il Covid19, un affaruccio con la corona lipidica che si scioglie ad una temperatura
di 27 gradi. Mille volte più piccolo di un globulo rosso…».
Azazello fece uno sberleffo, una piroetta.
«La sentenza di assoluzione è la prova di un errore giudiziario», disse K. con sussiego, riprendendo il discorso interrotto.
«Ciascuno è intimamente innocente»,
«E intimamente colpevole». «La confessione è il miglior argomento
in pro del giudizio».
Poi prese a passeggiare in cerchio.
Nel frattempo una ladyboy in calzamaglia a rete iniziò a litigare con Azazello.
«Sei piccolo e brutto!, e stupido!, non sai neanche come si tratta una Milady!, tornatene da dove sei venuto, scimunito!».
«È estremamente riprovevole giocare con il Covid19, non crede?», riprese K. il filo del discorso dove lo aveva lasciato. E si aggiustò la mascherina.
Nel frattempo, la teiera si alzò dal tavolo
E versò nella tazza di F. un tè bollente.
Che il Signor F. bevve d’un sorso. Deglutì sonoramente.
Il pomo d’avorio fece su e giù.
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