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Giorgio Agamben, Stralci sull’arte, L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica, sulla metafora, Il contemporaneo, il nichilismo, il nostro tempo, techne, la topologia, la metafisica, Poesia di Francesco Paolo Intini, Trend Commento di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura Dissipativa e Figura

 

[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020, la foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino…] (g.l.)

.

Giorgio Agamben

Idea della musa 

«A Le Thor, Heidegger teneva il suo seminario in un giardino ombreggiato da alti alberi. A volte si usciva, invece, dal paese, camminando in direzione di Thouzon o del Rebanquet, e il seminario aveva allora luogo davanti a una capanna sperduta in mezzo a un’oliveta. Un giorno che il seminario volgeva ormai al suo termine e gli allievi gli si stringevano intorno senza più frenare le domande, il filosofo rispose soltanto: “Voi potete vedere il mio limite, io non posso”. Anni prima, aveva scritto che la grandezza di un pensatore si misura dalla fedeltà al proprio limite interno, e che non conoscere questo limite – e non conoscerlo per la sua prossimità all’indicibile – è il dono segreto che l’essere, rare volte, può fare. Che una latenza sia mantenuta, perché possa esservi illatenza, una dimenticanza custodita, perché possa esservi memoria: questo è l’ispirazione, il trasporto musaico che accorda l’uomo alla parola e al pensiero. Il pensiero è vicino alla sua cosa solo se si perde in questa latenza, se non vede più la sua cosa. È, questo, il suo carattere di dettato: dev’esserci la dialettica latenza-illatenza, oblio-memoria, perché la parola possa avvenire, e non semplicemente essere manipolata da un soggetto. (Io – è chiaro – non posso ispirar-mi). Ma questa latenza è, anche, il nucleo tartarico intorno a cui si addensa l’oscurità del carattere e del destino, il non-detto che, crescendo nel pensiero, lo precipita nella follia.
Ciò che il maestro non vede è la sua stessa verità: il suo limite è il suo principio».

«Non vista, inesposta, la verità entra nel suo occidente, si chiude nel proprio Amente. “Che un filosofo cada in questa o quella forma di apparente incoerenza per amore di questo o quell’accomodamento, è concepibile: egli stesso può esserne stato cosciente. Ma ciò di cui egli non è consapevole, è che la possibilità di quest’apparente accomodamento ha la sua radice più profonda in un’insufficiente esposizione del suo principio.
Se, dunque, un filosofo è veramente ricorso a un accomodamento, i suoi discepoli devono spiegare in base all’intimo, essenziale contenuto della sua coscienza ciò che, per lui stesso, ha preso forma di coscienza essoterica”. L’insufficiente esposizione del principio lo costituisce come limite musaico, come ispirazione. Ma, per poter scrivere, per poter diventare anche per noi ispirazione, il maestro ha dovuto smorzare la sua ispirazione, venirne a capo: il poeta ispirato è senz’opera. Questo spegnimento dell’ispirazione, che trae il pensiero dall’ombra del suo occidente, è l’esposizione della Musa: l’idea.»1

Il nostro tempo

«Il nostro tempo non è nuovo, ma novissimo, cioè ultimo e larvale. Esso si è concepito come poststorico e postmoderno, senza sospettare di consegnarsi così necessariamente a una vita postuma e spettrale, senza immaginare che la vita dello spettro è la condizione più liturgica e impervia, che impone l’osservanza di galatei intransigenti e di litanie feroci, coi suoi vespri e i suoi diluculi, la sua compieta e i suoi uffici. […] Poiché quel che lo spettro con la sua voce bianca argomenta è che, se tutte le città e tutte le lingue d’Europa sopravvivono ormai come fantasmi, solo a chi avrà saputo di questi farsi intimo e familiare, ricompitarne e mandarne a mente le scarne parole e le pietre, potrà forse un giorno riaprirsi quel varco, in cui bruscamente la storia – la vita – adempie le sue promesse».

Il contemporaneo

«Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. […] È dalla nostra capacità di dare ascolto a quell’esigenza e a quell’ombra, di essere contemporanei non solo del nostro secolo e dell’“ora”, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato, che dipenderanno l’esito o l’insuccesso del nostro seminario».3

L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica

«L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica – e la sua apparente comprensione a partire dall’aisthesis dello spettatore – non sarebbe allora un fenomeno così innocente e naturale come siamo ormai abituati a rappresentarcelo. Forse nulla è più urgente […] di una distruzione
dell’estetica che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’opera d’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile
distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte e l’aprirsi di fronte ad essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare. Ma forse proprio tale perdita e un tale abisso sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno se vogliamo che l’opera d’arte riacquisti la sua statura originale. E se è vero che è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, noi siamo forse oggi in una posizione privilegiata per comprendere il senso autentico del progetto estetico occidentale».
(L’uomo senza contenuto, p. 17)

«Se e quando l’arte avrà ancora il compito di prendere la misura originale dell’abitazione dell’uomo sulla terra, non è perciò materia su cui si possano far previsioni, né possiamo dire se la poiesis ritroverà il suo statuto proprio al di là dell’interminabile crepuscolo che avvolge la terra aesthetica. La sola cosa che possiamo dire è che essa non potrà semplicemente saltare al di là della propria ombra per scavalcare il suo destino».
(L’uomo senza contenuto, p. 155) Continua a leggere

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La Nuova Poesia di Marie Laure Colasson, Francesca Dono, Mauro Pierno, L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, Il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica, Riflessioni di Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi

 

Botticelli polittico

Giorgio Linguaglossa

La lezione che ci viene da Mallarmé è che, da quando si è dichiarato che «Dio è morto», il poeta moderno è obbligato a crearsi PRIMA una propria metafisica, e soltanto DOPO può iniziare a scrivere poesia. Ecco la ragione che ci spinge da tempo a delineare il perimetro e i contenuti di una nuova metafisica. Senza metafisica si finisce per creare una poesia acefala, una poesia comunicazionale, una poesia-chiacchiera.

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

(Vincenzo Vitiello)

Più volte mi è stato chiesto che cosa esattamente intenda quando parlo di «patria metafisica» e di «patria linguistica» con riferimento alla poesia. La domanda è pertinente ma sarebbe sciocco pensare che io possa dare una risposta conclusiva ed esaustiva e che magari possa racchiudere la risposta in una o due paginette. A chi abbia la voglia di andare a leggersi i moltissimi interventi da me fatti su queste colonne, anche riguardanti poeti contemporanei, può trovare dispersi qua e là degli spunti, delle idee…

Qui posso dire soltanto che le parole fondamentali, le Grundwörter, che hanno segnato il cammino del pensiero occidentale, sono quelle che hanno pronunciato i grandi poeti del novecento. La verità si dà soltanto nella forma della costellazione scrisse un giorno Benjamin. Occorre andare a studiare la costellazione delle parole fondamentali di un poeta per accorgersi quanto la costellazione delle parole fondamentali di una poetessa come Maria Rosaria Madonna (1942-2002) sia distante dalle parole di Zanzotto o di un tardo Fortini… Ecco, quelle parole formano un cerchio. Sono sempre quelle parole che stanno dentro quel cerchio che producono senso, e non altre. Le parole di una patria linguistica sono segretamente imparentate tra di esse, e tutti questi legami stabiliscono una parentela e fondano una patria, una patria metafisica. Il poeta abita quella patria e non un’altra. Un poeta non può cambiare patria linguistica. Può evolvere, sviluppare certe metafore fondamentali ma sempre all’interno di una determinata patria metafisica e linguistica.

Ci sono epoche caratterizzate dall’attesa, attesa che si verifichino le condizioni affinché una patria metafisica possa sorgere. E questa attesa può anche durare decenni o, addirittura, secoli. In questi interregni temporali la poesia che si farà sarà una poesia priva di patria metafisica, e quindi destinata ad essere perenta, insignificante, ed essere dimenticata.

Ci sono poeti che con il loro lavoro preparatorio, con i loro avamposti creano le condizioni affinché una patria metafisica delle parole possa finalmente trovare luogo. Questo lavoro preparatorio dei poeti non è mai vano, prima o poi arriverà un poeta che raccoglierà i loro sforzi e troverà una patria metafisica presso la quale abitare. Ed entrerà ad abitarvi, condividendone il destino. Perché il destino di un poeta è scritto nella sua patria metafisica e linguistica. Lì, non si può mentire o barare.

Il linguaggio di Maria Rosaria Madonna potrà sorgere soltanto quando il linguaggio di Zanzotto e di Fortini sarà tramontato per sempre. Ma, allo stesso tempo, il linguaggio di Madonna apre le porte e preannuncia la poesia di Mario Gabriele e quella di Gino Rago.

Francesca Dono

da ci tocca nominare il Nulla

/…/

Dall’occhio del ciclone la margarina non mostra prove. Reale il raschiosulle case popolari. La polpa vegetale appanna i tetti e le antenne.Per l’oscurità blu sottosuolo. Tanto sudiciume sfregato contro le finestre. Mr. Crocodile scarta un bambino alla volta. Sono doni-dice-Come caramelle
comprate col bancomat. Un mercoledì ordinario.Peso del tempo.

/…/

apnea dei vestiti. Il quark ha composto rigonfiamenti e pianure. Lunghe notti di letargo.Tutto per far appassire la boa luccicante. Una cazzata cherry pop . Abbandonata a se stessa. Capite l’elemosina? Pungere le orecchie-Signorina Pearl – A misura del foro istantaneo.La luna sbadiglia con i corbezzoli della ruggine.

Dieci minuti.Venticinqueottobreduemiladiciannove. Un rantolo discute con la morte .Musica di frodo.

/…/

zigzag sulla rosa artica/Metà senza petali/L’altra parte discesa al pietrisco/Abbassare la testa e seguire il dorso tremante/ Un’ombra nel nido freddo/

[Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.]

Commento di Giorgio Linguaglossa

Eccellenti composizioni, Francesca Dono, con questi lavori sei entrata a pieno diritto nella nuova ontologia estetica. Certo, nominare il nulla non è affare di poco conto, hai dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali e di automobili digitali che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce in questi tuoi lavori è la disconnessione semantica, sintattica e ontologica del tuo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla, e lo fai con una fragranza asciutta e priva di utopia, priva di progetto. È il tuo account, sono i nuovi avatar ciò di cui tu narri… o meglio, non narri. E, così facendo e disfacendo nomini il nulla. Complimenti.

Tre poesie inedite di Marie Laure Colasson

19.

L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins

Les yeux au ciel bleu
mélodie modulée
piano et violon se répondent
fusion velours des instruments

Corps à corps des échanges des pulsions
eros chimique voluptueux

Les oranges les bruns les rouges s’entrelacent
tranchés de noir
quelques taches de blanc pour une lumière à cru

Les murs des villes
fissures et lézardes enduits couleurs-plastiques
grisailles sanglantes déchirures

*

L’albatro
sospesa stretta forte lei vuole
l’acqua trasparente lo scintillio dei pesci
dei fondali marini

Gli occhi al cielo azzurro
melodia modulata
pianoforte e violini si rispondono
fusione velluti degli strumenti

Corpo a corpo scambi pulsione
eros chimico voluttuoso

Gli aranci i bruni i rossi si intrecciano
trinciati di nero
alcune macchie di bianco per una luce a crudo

I muri della città
fessure crepe intonaci color plastica
grisaglie sanguinanti lacerazioni

20.

La lumière cristalline oeuvre sur son mental
et gaiement son corps exulte

Ler étoiles brodées de quatre lettres
des peuples entiers y participent

Malipiero magicien des sonorités
courtise assidûment Giulietta sur son piano

Une vague brune s’étend au delà des frontières
sans répit l’homme dégueule son venin

Eredia joue à la guerre
tandis que dans ses yeux le monde se renverse

Rupture d’un silence écouté
des miaulements de chats en maraude

Esther court dans l’obscurité
rencontre inattendue d’un espace clos

Una enveloppe cachetée “attenti alle truffe”
contient une escroquerie plus savante

Kantemir Balagov regard pénétrant
sans pitié fait tomber les masques

au sein de ruines de Leningrad

*

La luce cristallina lavora sul suo mentale
e gaiamente il suo corpo esulta

Le stelle ricamate di quattro lettere
di popoli interi vi partecipano

Malipiero mago delle sonorità
corteggia con assiduità Giulietta sul suo piano

Un’onda bruna si propaga al di là delle frontiere
senza sosta l’uomo vomita il suo veleno

Eredia gioca alla guerra
mentre nei suoi occhi il mondo si capovolge

Rottura di un silenzio ascoltato
di miagolii di gatti in sarabanda

Esther corre nell’oscurità
incontro inatteso d’uno spazio chiuso

Una busta sigillata “attenti alle truffe”
contiene una truffa più astuta

Kantemir Balagov sguardo penetrante
senza pietà fa cadere le maschere

nel grembo delle rovine di Leningrado

 

 

21

Le vent fait voler les feuuilles jaunies
ne laissant que l’austère squelette de l’arbre

Laure oublie son sac contenant tout sa vie
ne le retrouve en aucun lieu

Un enfant plus petit que son accordéon
appui sur les touches nacrées

Pietr sandwich eau minérale
plonge dans le vain sens des mots sur son portable

Des poètes aux barbes gourmandes aux pas perdus
sourire amusé de Dostoievski

Sergej en ventriloque déclame
Eeredia n’entrevoit qu’un coeur égratigné

La terre s’ouvre
des hommes murés dans le secret des aurores boréales

Dostoievski retrouve le sac de Laure
feuilles jaunies vains mots fausses barbes accordéon portable

Comme cendre elle reste suele en secret

*

Il vento fa volare le foglie ingiallite
non lascia che l’austero scheletro dell’albero

Laura dimentica la sua borsa che contiene tutta la sua vita
non la ritrova in alcun luogo

Un bimbo più piccolo della sua fisarmonica
preme sui tasti di madreperla

Pietr sandwich acqua minerale
si tuffa nel senso vano delle parole sul suo cellulare

Poeti dalle barbe golose dai passi perduti
sorriso divertito di Dostoevskij

Sergej ventriloquo déclama
Eredia non vede che un cuore graffiato

La terra si apre
uomini murati nel segreto di aurore boreali

Dostoevskij ritrova la borsa di Laura
foglie ingiallite vane parole false barbe fisarmonica cellulare

Come cenere rimane sola in segreto

Commento

In queste composizioni di Marie Laure Colasson ci troviamo di fronte al dimagrimento e alla essenzializzazione della struttura frastica: dimidiamento degli aggettivi, eliminazione della punteggiatura, adozione del distico, adozione dello stile nominale, precedenza assoluta al sostantivo e al nome proprio, eliminazione delle particelle connettive del discorso, adozione sistematica del salto e della disconnessione sintattica, impiego della peritropè, interruzione sistematica dell’unità frastica. Tutti elementi strutturali di un periodare che punta alla essenzializzazione del discorso poetico. Che sia una poetessa francese, ultima in ordine di tempo pronipote legittima di Mallarmé, ad operare un simile disboscamento degli elementi non essenziali del discorso poetico, non può non colpire. Ciò vuol dire che questa spinta alla essenzializzazione del discorso poetico è un comune sentire che è presente da tempo in tutta Europa, si avverte che c’è un bisogno di alleggerire il discorso poetico di tutti i tropi eliminabili e non strettamente indispensabili. Ed è quello che tenta di fare la nuova ontologia estetica.
Dostoevskij, Eredia, Sergej, Laura, Pietr, Kantemir Balagov etc sono nomi, indicano avatar, account, mittenti spogliati di significazione secondaria e primaria, sono delle icone semantiche che rimandano al nulla dietro di loro, al nulla che sta dietro e davanti al nostro mondo, si indicano azioni disperse avvenute forse per caso, stocasticamente improbabili, quantisticamente irrelate da entanglement.
Così, noi scopriamo con raccapriccio e rammarico che la poesia ha cessato di essere rappresentativa ed è divenuta presentativa. Si presentano le cose, le parole così come esse sono nel nostro mondo: mere etichette, label, notizie di se stesse che ci raccontano in modo indiretto di un mondo colpito da entanglement e da disfania, un linguaggio insieme disfanico e diafanico, disfonico e disforico, distratto, sfrattato dal reale, dematerializzato e de-semantizzato.

L’evento delle cose è la loro semplice presenza, la magia del loro essere qui, accanto a noi, in modo inspiegabile e insondabile. In tal senso, possiamo dire che l’evento giunge alla sua fine, perché finendo, finisce anche la storia dell’essere che quell’evento racchiudeva. Scrive Heidegger: «Il pensiero che si raccoglie nell’evento», «Che cosa si può dire allora? Solo questo: l’Ereignis ereignet», tutto è trasparenza totale, e proprio per questo, oscurità. L’albatro, simbolo un tempo della purezza e del sublime è diventato metro della trasparenza dell’essere e di tutte le cose, ergo, oscurità, segnale muto, segno cieco, cieca diafania:

L’albatros
à bras le corps suspendue elle veut
l’eau transparente les miroitement des poissons
des fonds marins

Se la metafisica è stata caratterizzata dall’oblio dell’essere e dalla sottrazione di ciò che dell’essere è destinale, quel che viene meno ora, quel che si sottrae è «l’eau transparente les miroitement des poissons», è l’oblio dell’oblio, l’oblio di questo ritrarsi dell’evento: il raccogliersi del pensiero nell’evento equivale purtuttavia alla fine di questa storia che abbiamo subito come sottrazione e velamento. Sottrazione e velamento che appartengono alla metafisica come loro limite, si rivelano invece essere proprietà dell’evento stesso, di cui ci appropriamo e ci dispropriamo. Ciò vuol dire che la sottrazione si mostra adesso come la dimensione del velamento stesso, il quale continua ancora a velarsi, solo che adesso il pensiero non vi presta più attenzione, perché viene colto da smemoratezza e dimenticanza. Ciò che è da-pensare, questa diafania universale, giunge alla sua fine, e il pensiero non vi presta più attenzione per quanto possa ben continuare ancora a esistere la metafisica. Perché ormai che qualcosa vi sia nell’«acqua trasparente», non significa che sia essenziale né significativo per noi giunti al termine della storia dell’essere e della sua metafisica, «les miroitement des poissons» suonano alle nostre orecchie come il suono di un oboe sommerso, come il colore delle barriere coralline in via di disfacimento.

Il pensiero post-metafisico che si annuncia in questa poesia indica allora un modo di abitare le cose in via di sbiadimento, quel modo che abdica ad una presa di possesso del mondo da parte dell’io egolalico ma di un possesso spossessante, di una dis-propriazione, di un alleggerimento di ciò che può essere scaricato, un abitare la mondità senza la presunzione di averne la chiave per il suo accesso e la sua processualità.

(Giorgio Linguaglossa)

[Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica è coreografa di danza contemporanea.]

Mauro Pierno

P.P. Potente e preciso.
ma qualche tentennamento rimane.
Nella citazione
la dimenticanza. Il seme attentamente
inoculato può cosi nuocere alla creazione. Deve necessariamente finire. Lode
alla poesia con la scadenza.
Ha breve termine
la sintassi. Un popolo di formiche sfaticate.
Pure colle borsette dondolanti.
In Acheronte a folle.

[Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.]

Una citazione da Mallarmé, “La disdetta” di Marina Petrillo

 “I poeti che vivono d’ira e
beneficienza
Non conoscono il male
di questi dei oscurati,
Li dicono tediosi e senza
intelligenza”

Lucio Mayoor Tosi

Alle poesie NOE di Francesca Dono si accede per balzo, fin dalle prime parole. Nemmeno per un momento si ha l’impressione di un progressivo allontanamento dalla tradizione. Francesca è scaltra – nella negazione del significato. – In “Squarci”, per sue vie anche Edith Dzieduszycka ottiene risultati di questo tipo, di non significazione.
Comincio a familiarizzare con le poesie di Marie Laure Colasson, e mi piacciono, particolarmente se lette in lingua d’origine. Confesso però di non amare tanto il distico se disposto “ad elenco”. Intendiamoci, la mia obiezione è volta all’aspetto strutturale, qui per me a livello piuttosto basico (Le vent, Laure, Un enfant ecc.), e tuttavia nella fattispecie simile a qualcun altro della NOE.
Ringrazio Marina Petrillo per la citazione di Mallarmé. Molto pertinente ai giorni nostri.

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Costantina Donatella Giancaspero DIECI POESIE da Ma da un presagio d’ali (2015) con un Commento impolitico di Sabino Caronia – La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità

Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

Commento impolitico di Sabino Caronia

Nella poesia di Costantina Donatella Giancaspero musica e poesia convergono in una medesima esigenza espressiva. La «voce» sarebbe la traduzione di una tonalità dominante in linguaggio espressivo. Il fraseggio della musica, di cui la poetessa romana è una dotta cultrice, trova un equivalente nella dislocazione sintattica, nei refrain, nelle «riprese». È questa una sensibilità tipica della più aggiornata poesia odierna, basta pensare alla poesia della svedese Frostenson, della bulgara Ekaterina Josifova, della rumena Daniela Crasnaru, o della italofona Katerina Zoufalova. Una analoga attenzione alle possibilità offerte dal metro spezzato o breve è presente anche in altri poeti europei come ad esempio il «basso continuo» che dà il titolo all’ultima raccolta della poetessa catalana Josefa Contijoch.

Si tratta di una comune esigenza espressiva della poesia europea più aggiornata, e la Giancaspero si muove senza dubbio in questa direzione. Ma da un presagio d’ali (Milano, La Vita Felice, 2015), è un libro d’esordio che spicca per essenzialità di dizione lessicale, strutturale e stilistica. La poetessa romana conosce bene gli effetti del ritmo spezzato, le pause, il singhiozzo sincopato e improvviso, l’uso sapiente della “durata”; è di qui che scaturisce quel rigore formale che impronta di sé il lessico portato allo stadio minimale: quell’ “arredo minimo,/ appena sufficiente/ per abitare” (pag. 43). Il proposito dichiarato, è quello di “ rimuovere tutto il superfluo”, di “possedere il nucleo primigenio del cuore”, di andare dritto all’essenza delle «cose» (pag. 55). Leggiamo a pag. 70:

Come per un ripensamento,
come se
– a metà strada,
a una svolta,
a un tratto -,
ti fermasse un ricordo,
ti volti,
riprendi i tuoi passi
dal viale al portone…

E ti solleva
un vortice di scale
fin su,
fino a me, alla gioia
di avermi
– varcata la soglia –
negli occhi,
in fondo al respiro…

L’Amore
ci vuole uniti,
sempre:
al più breve
distacco, trasale,
s’infuria,
ordisce tranelli.
E siamo colti
alla sprovvista,
presi alle spalle,
di petto,
gettati

viso nel viso...

I singoli fraseggi sono impiegati come intermezzi atonali musicali. È una voce emotiva che parla e sussulta tra un verso e l’altro. La voce, è una sostanza atonale, utilizzata, alla maniera d’un Bonnefoy, come un leit-motiv in funzione della durata.

C’è l’asciuttezza d’un Bonnefoy e Morton Feldman. C’è Mallarmé, il suo “sempiterno azzurro”, posto di fronte al poeta che “più non sa agghindare il pensiero stentato”. E c’è Debussy, ma anche la «voce» di Helle Busacca, i suoi spigoli acustici e semantici.

È presente un residuo di linguaggio pascoliano: il «predatore implume» che in Le Memnonidi corre avvolto nella sua «anima azzurra», e ritorna in quel «sussurro d’ali» (p. 36), in quel «presagio d’ali» (p. 92), di cui ci parla la nostra poetessa romana, ma è un Pascoli passato al setaccio della disillusione della poesia post Satura di Montale, transitato tra le perifrasi semantiche della poesia odierna più aggiornata: tra secchezza di dizione e espressione aforistica.

C’è, in filigrana, come in lontananza nostalgica, Mallarmé: oltre che con L’Azur, soprattutto con Les Fénètres , per il motivo del «cielo anteriore», delle «ali senza piume». Come Mallarmé, infatti, la Giancaspero non può fare a meno di deplorare quegli scrittori che hanno abdicato alla loro estasi infantile e hanno perso, come lei dice, «la memoria dell’infanzia» (p. 52).

La Giancaspero procede per rapporti atonali, le «cose» sono nominate con voce quieta, con le parole più naturali, più disadorne; la lirica sembra formata di rapporti tonico-musicali sospesi sulla intertemporalità. Le “poeticissime” parole di Giacomo Leopardi sono diventate quelle più usuali, consumate, tradite dall’eloquio del quotidiano.

Quella della Giancaspero è una poesia della «soglia» e della «intemporalità», dove i pensieri e le azioni si susseguono senza nesso causale in un susseguirsi di sensazioni e di emozioni. Il metro breve e sincopato dà, paradossalmente, una grande stabilità a questa poesia così esile che sembra destinata a scivolare e crollare da un momento all’altro in balia di un alito di vento. La poesia della «soglia» si trova costretta a muoversi in quella sottilissima fettuccia di spazio che non appartiene né al di qua né al di là, una terra di nessuno dove regna una sorta di sospensione del tempo.

Una poesia che fa del dialogo interrotto l’epicentro del proprio essere in permanenza inquieto e impermanente.

L’azzurro, dunque, il colore della distanza nello spazio e nel tempo, della nostalgia del mondo dell’infanzia «polverosa» (altro aggettivo inquietante della Giancaspero) ma anche del disincanto, apparentemente vicino e infinitamente lontano (si pensi al cielo «ironico e spietatamente azzurro» di cui dice Baudelaire in Le Cygne) dal “purissimo azzurro” di leopardiana memoria. “Per me l’azzurro – ha dichiarato in una intervista la poetessa – è simbolo di purezza, di profondità, di limpidezza interiore”. L’azzurro è il colore che contraddistingue questa poesia, in una tavolozza che varia dall’«azzurro ideale» (p. 27) all’«azzurro estremo, impietoso» (p. 33), fino al «corrotto azzurro» (p. 36); dalla «falla d’azzurro» che fora il cielo (p. 45) alla «infinita specchiera del mare» che «t’inazzurra lo sguardo» (p. 86) e all’«azzurro mare» (p. 91) che «s’impenna / in cupo azzurro / d’onde» (p. 93).

da Ma da un presagio d’ali, (2015)

*

Abbiamo voluto
dal principio
un arredo minimo,
appena sufficiente
per abitare, e le pareti
vuote – nulla
a violarne con altra identità
il solitario
rigore –

Scabra nudità
esposta
alla luce sontuosa
del mattino,
spalancata
all’occhio,
che la ripensa
materia purificata,
ne scava
ardui contenuti:

un senso duro
della vita.

*

Ma nulla
di ciò che siamo
si mostra in superficie.
Nulla
ci riporta la mente,
pure se la pieghi
in se stessa, se la tendi
fino all’inverosimile,
a scandagliare
il nucleo più segreto
della propria sostanza,
a indagare,
per i vaporosi fondali
del sogno,
l’intrinseca realtà:
uno schermo
la trattiene
e ci lascia
celati a noi stessi.

Solo di tanto in tanto
– contraddicendo
la dura condizione –
un cretto
s’apre qua e là,
a intervalli:
ne sbucano
neri spessori,
cubitali caratteri
di un primordiale alfabeto,
oscuro cifrario
della nostra essenza.

*

È qui
tra blocchi
di attediati palazzi,
per vie trafelate
d’ansia, più impetuoso
che altrove il vento,
se giunge da Nord
e s’abbatte
a colpi di frusta
tutt’intorno,
in uno strazio
d’imposte sbattute
e vasi franti,
a sfogare così
la collera propria
e quella del dio
che ce lo scaglia contro.

Sebbene previsto,
annunciato
da ogni bollettino
del tempo,
è un soprassalto
il suo accadimento
che ferma il respiro.

Ma tu,
aspro avversario
del dio che lo governa,
catturane più che puoi;
volgi altrove,
a una cima arida
di roccia,
quel delirio dell’aria,
trattienilo
in una morbida vela,
materia palpitante,

sonoro vessillo del cielo.

*

È domani

Eppure è già domani
a quest’ora fonda
della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.

È domani,
e non vale la veglia
ostinata, non servono
i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca
del sonno, dove, ignoti,
già tanti destini si compiono,
questo è l’oggi.

Tra poco la notte sbiadirà
in un brusio di appannati risvegli
e frulli, alle finestre, cinguettii,
di luce in luce più canori,
fino al sole pieno,
puntato sulla città.
E sarà azzurro,
azzurro estremo,
impietoso, nel suo occhio
fermo, astratto dagli occhi,
dissuasi, volti altrove;

perché altrove li volge
questo Tempo acuminato:
dov’è vita ferita che dispera
la vita, nei quotidiani martiri,
nelle morti suicide per dignità
negata, nelle stragi,
ai tribolati confini,
dove affonda il cuore

e la notte
di un altro domani.
*

Ti alzi,
ti sollevi dall’oggetto
che ti accoglie
– disadorna sedia,
impreziosita
dall’impronta che lasci -.
Così,
allo scadere
del tempo insieme
sei
per andare
– la mente
tesa al distacco
svolge
un dipanarsi
obbligato di vie -.

Ancora abbiamo sostato
in un ritaglio di vita,
appena per vedere
la sera
infittirsi alla finestra
– esaltare
il lume sul tavolo,
la luce imprecisa
del tuo occhio
che si stempera nel sonno –
e disfarsi poi,
a un tremito d’alba,
per un raggio che s’insinua
e sfora
e scrolla il mondo.

Volgimi le spalle, ora,
qui, nello spazio
compreso tra la porta
di casa
e il tuo congedo.
Evita
lo sguardo, la stretta,
schiva il bacio.
Scendi giù

c’è scampo
in fondo alle scale.

*

Nel riquadro
di una vitrea prospettiva
il giorno t’assale
con bagliori
di nascente sole:
lo vedi
insediarsi
nel tuo riluttante
risveglio,
innalzarsi
supremo
sul tuo sguardo prono.

E spandersi intorno,
colmare
le trafelate arterie
del mondo,
fino a un corrusco declino,
allorché tu,
con brandelli
di luce
ancora nella gola
e membra dolenti,
affondi il passo

nel tuo serale cammino.

*

Non ti sostiene,
nell’imminente azzerarsi
dell’ora,
l’illusione
di chi spera
che ogni nuovo anno
sarà
migliore del vecchio.

Ma esplode già,
in fondo alla notte,
il fragore degli spari:
una guerra
di petardi e bengala
s’abbatte e rimbomba,
ebbrezza di fuochi
che impazza;

che oltraggia
lontano
abbagliati orizzonti
senz’eco
di crollate macerie,
né di sangue
profuso,
conteso,
in mortali partite.
*

Nell’ora
più solare del giorno,
guardando oltre
lo scenario
della realtà che appare,
verso una prospettiva
certa
e interiore,
una notte sopraggiunge
senza stelle,
come un’ala
scherma la luce,
placa il clamore
diurno
e ci cattura.

Per un tempo
che cerca scampo
dalla propria definizione,
noi trascorriamo
nella buia consistenza,
ne respiriamo
la segreta fragranza,
finché ci lascia,
ci ricongiunge al giorno
che la disperde
e ci separa.
*

Può darsi
che il vero sia
nello spazio vuoto
tra segno e segno,
nel tempo muto
che attrae
e smorza in sé
tutte le vibrazioni
tra suono e suono.

Può darsi
che sia
nel punto in cui
scompare
ogni riferimento
tangibile di noi,
dove s’interrompe
il filo sommesso
del nostro parlare.

È possibile
che sia
là dove sconfina
dalle cose la materia,
che sia nell’abisso
in cui dilaga,
fuggendo
verso una stasi
eterna di luce.

sabino caronia

sabino caronia

Sabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo (Edizioni Associate, 1995). Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000). Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal». Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009) e la raccolta poetica Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) .

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UN SONETTO di Luis de Gòngora (1582), tradotto da Luigi Fiorentino (1969), Giuseppe Ungaretti (1947), Raffaello Utzeri (2013) in una nuova edizione (EdiLet, 2015). Con una nota introduttiva di Raffaello Utzeri e alcune traduzioni del celebre Sonetto 228

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

EdiLet ha appena pubblicato – dopo “Tutti i Sonetti” di W. Shakespeare – la seconda uscita della collana CLASSICI, diretta dal Prof. Emerico Giachery. Si tratta di una preziosa “Antologia di Sonetti e Poemi” (196 pp., Euro 16) di Luis de Gòngora, tradotti dall’ispanista Luigi Fiorentino (di cui EdiLet ha già riscoperto le poesie, con il volume “Il compiuto discorso”, 2013). L’edizione originaria, ormai introvabile, datava 1970 per i tipi di Ceschina editore, Milano. EdiLet ha provveduto, in collaborazione con la vedova di Fiorentino, Francisca Cruz Rosòn, alla revisione e correzione del testo, che si compone di 32 Sonetti – fra cui il celebre 228Mientras por competir con tu cabello” – e di una nutrita selezione antologica dalla Fàbula de Polifemo y Galatea e dalle Soledades. C’è, ovviamente, il testo a fronte in lingua spagnola. Il paratesto comprende Cronologia, Bibliografia e Note critiche, a cura dello stesso Fiorentino. L’introduzione è di Raffaello Utzeri.

Gongora copertinaArgomentare diffusamente sul barocco letterario spagnolo non sembra indispensabile nel momento in si ripropongono i Sonetos e altri componimenti di Luis de Góngora nella magistrale versione italiana di Luigi Fiorentino, da tempo esaurita nella edizione milanese di Ceschina, datata 1970. Ci sembra infatti che il lavoro del nostro ispanista, accurato e competente quanti altri mai, costituisca per sé una testimonianza di coscienza critica, utile più di un saggio di carattere accademico, completato com’è da un apparato di note in cui ogni osservazione si amplia dal testo al referente poetico generale, il mondo del celeberrimo Autore. La serietà con cui Luigi Fiorentino affronta i problemi del tradurre viene testimoniata già nella sua prima nota: «La traduzione si è sforzata di mantenere la tipica struttura gongorina, conservando dove possibile anche le rime, ma tralasciandole quando per rincorrerle era necessario tradire lo spirito e la lettera dell’originale castigliano o ripiegare su forme arcaiche o termini apocopati».

Nel caso di Góngora, anche una discussione sul significato del barrueco sarebbe piuttosto sterile, dato che don Luis non fu complessivamente barocco, anche se in quello stile, in quella dimensione culturale ed esistenziale fu confinato. Il barocco letterario spagnolo, infatti, si può dire che fu più tipicamente rappresentato da personalità creative distanti e diverse da lui, come M. Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca. In realtà, i suoi confini Góngora li delimitò da sé curando l’eleganza, la precisione, la sonorità, la densità semantica dei suoi componimenti: dire che tutto ciò che è suo sia barocco per definizione sarebbe come voler sottrarre una parte del suo repertorio, soprattutto formale, alla classicità o al classicismo. Si potrebbe infatti audacemente definire Góngora classico per “sostanza” e barocco per “accidente” in quanto visse in, e per, un’epoca in cui le certezze del Rinascimento europeo si stavano lentamente ma decisamente consumando nel manierismo dilagante. Come si sa, il barocco è connotato da insicurezza e incertezza esistenziale. Gli artisti, a contatto con i “poteri forti” venivano per primi interiormente contagiati dall’instabilità politica, economica e sociale che nel secolo diciassettesimo non risparmiò nessun popolo e nessuno stato; poi trasmettevano alla società ragionamenti e valori, dominanti nelle corti e nelle cancellerie, dove conoscevano anche creatività e distruttività. Il Barocco conobbe anche suggestioni emotive. Sul piano psicologico spostava l’attenzione dalla pienezza e stabilità dell’Essere che si manifesta nel molteplice, alla precarietà del mutamento in continuo divenire, che fa apparire il vuoto nei cicli periodici di fenomeni mai uguali a se stessi. La paura del vuoto, quell’ “horror vacui” degli atomi dispersi nell’infinità del cosmo, già ipotizzato in metafora epistemica nel De rerum Natura di Lucrezio, produce il clinamen, la deviazione vorticosa di una reazione caotica: nelle Arti del disegno si manifesta come sovrabbondanza di ornamenti e figure tra linee curve; in poesia riempie la versificazione con sovrabbondanza di aggettivi, iperbati e coloriture. Ma Góngora ne trovò l’antidoto mantenendosi fedele nelle forme, almeno in parte, alla tradizione internazionale.

François Clouet

François Clouet

Lo stesso Traduttore nelle note mette in evidenza quante volte il suo Autore prenda le mosse dal Petrarca e dal Tasso. Ma la prova sovrana dell’italianità di Góngora si trova nella struttura stessa del suo sonetto. Un confronto immediato chiarirà tale affermazione.
La rivoluzione culturale causata dall’imperialismo inglese promosso da Elisabetta Tudor modificò anche alcuni parametri letterari. Una dozzina di anni prima che Góngora nascesse nel 1561, Thomas Whyatt aveva introdotto il sonetto, il cui schema fu poi cambiato abolendo il modulo canonico come segue. Sostituiva il noto schema 2 x AB AB (AB BA) + 2 CDE (o poche varianti) con il seguente: AB AB + CD CD + EF EF + GG: tre quartine con rime indipendenti seguite da un distico a rima baciata. Ecco il sonetto pienamente barocco. Con centocinquanta di questi, W. Shakespeare compose un canzoniere non meno profondo di quello del Petrarca, senza curarsi di essere baroque in inglese come in francese. L’autore barocco non si preoccupa della provenienza della formula, ma la ripropone come sfida nella condizione culturale presente e futura. Tutto questo è anche parte della poetica di Góngora; ma il maggior poeta del “siglo de oro” non prediligeva quella forma ormai troppo connotata come tabernacolo del pensiero laico. Essendo religioso, a ventiquattro anni aveva preso gli ordini minori e a cinquantasei fu prete; forse perciò non volle prestare suoi tabernacoli a quel “modus lascivus” che da secoli la Chiesa disapprovava. Nonostante gli apprezzamenti di Cervantes e Lope de Vega, scrisse pochi sonetti, quasi tutti come formalità occasionali, tra i quali: “Alla nascita di Cristo N.S.”; “Sul sepolcro della Duchessa”; “In morte di Donna Guiomar”; e ancora il capolavoro “Alla memoria della morte e dell’inferno” e il finale “Sulla brevità ingannevole della vita”. Già quei titoli riassumono esaurientemente la precarietà di un mondo “secolare” del quale il poeta voleva ma non poteva godere. Con questa modalità Góngora fu perciò sicuramente barocco, restando però classico nel rispetto del canone del sonetto italiano.

Più di qualsiasi racconto critico può però interessare l’esame comparativo di alcune traduzioni dal medesimo corpus. A questo scopo presentiamo il Sonetto 228 a fronte delle versioni di L. Fiorentino e G. Ungaretti, affiancate da un’altra inedita, equidistante da entrambe, qui offerta dal sottoscritto, a scopo di riferimento linguistico contemporaneo nella riscoperta di Góngora.

Gongora

Gongora

Luis de Góngora, 1582

Mientras por competir con tu cabello,
oro bruñido el Sol relumbra en vano,
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente al lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
de el lucente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fué en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente

no sólo en plata o víola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

Luigi Fiorentino, 1969

Mentre per emulare i tuoi capelli
oro brunito il sole splende invano,
mentre scontrosa guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

mentre gli sguardi per carpirle inseguono
tue labbra più che il primo dei garofani,
e mentre il fine collo con disdegno
del lucente cristallo già trionfa,

collo, capelli, labbra e fronte godano
prima che il vanto dell’età dorata,
oro, giglio, garofano, cristallo,

si muti in viola recisa o in argento,
non solo, ma con esso tu in terra,
e in polvere, in fumo, in ombra, in nulla.
Giuseppe Ungaretti, 1947

Finché dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finché negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finché per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finché più dell’avorio, in allegria
sdegnosa luca il tuo gentile collo,

la bocca, e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio
non in troncata viola solo o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.

Raffaello Utzeri, 2013

Finché a competere coi tuoi capelli
risplende, oro brunito, il sole invano
e con dispregio la tua bianca fronte
considera il bel giglio in mezzo al piano,

finché, per coglierlo, ciascun tuo labbro
più che il primo garofano occhi seguono
e il tuo collo gentile in lieto sgarbo
trionfa sullo splendido cristallo,

collo e capelli e labbra e fronte goditi
prima che quel che fu, in tua età dorata,
oro e cristallo splendido e garofano

e giglio, muti in viola sradicata
o argento, e inoltre tu congiunta in quello
in terra, in fumo, polvere, ombra: in nulla.

Sembra quindi superfluo inoltrarsi nelle solite considerazioni critiche di circostanza: i testi parlano da soli, ciascuno trasportando nel tempo la propria datazione, che non coincide precisamente con la sua data. Bisognerà ricordare che tradurre significa non solo amare ma, in parte almeno, anche tradire. Spesso è l’ambivalenza dell’animo umano, che ogni traduttore impersona nell’ambiente che lo informa e lo forma, quella che forse, più della competenza linguistica, determina scelte lessicali e sintagmatiche. Sembra ancora ieri, e in letteratura può essere anche mezzo secolo, quando le traduzioni si dividevano in “brutte fedeli” e “belle infedeli”. Accreditiamo a L. Fiorentino di aver superato quel pregiudizio, ironico ma non troppo, di molti critici suoi contemporanei, grazie alla sua rara competenza sorretta da un equilibrio poetico che lo ha sempre sostenuto.
venezia 4Le due Soledad primera e Soledad segunda del 1613-14 sono poemi quasi lirici ciascuno di quasi mille versi, prevalentemente endecasillabi e settenari. Fiorentino ne ha tradotto meno della metà, privilegiando le parti più significative. L’argomento è piuttosto tenue, un giovane naufrago accolto da un gruppo di pastori è pretesto per divagazioni su temi naturalistici e mitologici. Sono pezzi di bravura per la complessità sintagmatica e la leziosità immaginativa, quasi una sfida dell’intelligenza al codice linguistico.
Molto simile, la Fabula de Polifemo y Galatea contemporanea delle Soledades, ma in ottave ariostesche, cioè di struttura italiana: AB AB AB CC. Anche qui la maestria nella versificazione suscitò ammirazione; il culto del gongorismo fu poi chiamato cultismo. Ma incontrò anche forti resistenze con qualche condanna per la oziosità dei temi e il deprecato modo sensuale nella scrittura di un religioso. Lope de Vega, che aveva lodato i Sonetos, divenne, per onestà intellettuale, un avversario di Góngora: forse anche per questo c’è chi lo antepone a lui come simbolo del secolo d’oro.
L’interesse che suscitano le versioni testuali di Luigi Fiorentino, ciascuna nell’ambito metodologico che il traduttore dichiara, consiste nel fatto che la traduzione non può non essere in sé operazione di esperienza barocca. Nei testi qui presentati, le due lingue sono sorelle, ma non per questo si può fare copia conforme in lingua italiana di una scrittura spagnola. Immaginiamo i risultati di traduzioni da lingue molto distanti dalla nostra, come l’arabo, il giapponese, l’urdu. In questi casi l’unica difesa del traduttore sarebbe produrre una versione più esplicativa che interpretativa: così la “brutta fedele” potrebbe interessare più della “bella infedele”.
Comunque, Goethe sosteneva che la poesia è sempre traducibile. Intendeva dire forse che è anche giustamente tradibile? Teniamo presente questa eventualità, utile almeno in quanto provocatoriamente dissacrante; tutto sommato sembra un’affermazione poco classica, poco romantica, ma forse non poco barocca.

(Raffaello Utzeri)

Luis De Góngora (Cordoba, 11 luglio 1561-Cordoba 23 maggio 1627), poeta e drammaturgo del Siglo de Oro, è il massimo esponente della corrente letteraria conosciuta come “culteranesimo” e, per sua stessa influenza, “gongorismo”. Avviatosi fin da ragazzo alla carriera ecclesiastica (nel 1585 fu nominato economo della cattedrale di Cordoba e prese gli ordini maggiori), ebbe difficoltà con i superiori per la sua attività letteraria: tra i capi d’imputazione con cui l’arcivescovo Pacheco lo accusò di malcostume, c’era anche il fatto di scrivere poesie. Góngora rimase inedito per tutta la vita: le sue opere passavano di mano in mano manoscritte, suscitando polemiche. Era un poeta incontentabile e difficile: aspirava a «fare poco non per molti», elaborando composizioni di alto livello retorico, in equilibrio fra tensioni opposte, irte di concetti e cultismi, di elusioni e allusioni che le rendevano oscuro esercizio per menti erudite, a mo’ di enigmi da decifrare, benché godibilissime sul piano musicale. Con Góngora l’estetica barocca sperimenta le potenzialità multisensoriali e simboliche della parola, aprendosi alla modernità senza rompere i rapporti con la tradizione classica, petrarchesca e classicistica rinascimentale. La novità dell’autore delle Soledades verrà apprezzata pienamente nel ‘900, quando il sentire poetico avrà le giuste affinità per entrarvi in consonanza. Non a caso la cosiddetta generazione del ’27 (Lorca, Guillén, Salinas, Alberti, Alonso, etc.) lo prenderà a modello, riscoprendolo e traducendolo proprio a partire dal terzo centenario della morte.

Luigi Fiorentino (Mazara del Vallo, 13 febbraio 1913-Trieste, 2 agosto 1981) è stato scrittore, poeta, saggista e traduttore. Autore di oltre venti opere originali (poesia, narrativa, critica letteraria) e di numerose traduzioni dalla letteratura spagnola e francese (tra cui Gongora, Chenier, Mallarmé, e classici come il Cid), ha suscitato l’interesse critico, fra gli altri, di Francesco Flora, Enrico Falqui, Paul Fort e Juan Ramòn Jimenez. Dopo le esperienze traumatiche della seconda guerra mondiale, che lo videro nei panni di ufficiale di artiglieria e di internato I. M. I., si è stabilito a Siena dove, nel 1946, ha fondato la rivista «Ausonia». Ha diretto a Siena la casa editrice Maia e ha insegnato storia della letteratura italiana presso la Scuola di Lingua e Cultura Italiana per Stranieri. Successivamente ha insegnato lingua e letteratura spagnola e letteratura ibero-americana presso le Università degli Studi di Siena, Arezzo e Trieste. Di Fiorentino nel 2013 per EdiLet è uscita, a cura di Raffaello Utzeri, l’antologia poetica Il compiuto discorso.

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  Alfonso Berardinelli “AVVISO AL FATTO: SE LA COLLANA DI POESIE MONDADORI CHIUDE È PERCHÉ NON CI SONO PIÙ POETI PUBBLICABILI”  “Se Lo Specchio chiude, insomma, qualche ragione c’è” – con un Commento di Giorgio Linguaglossa: “siamo arrivati allo stadio zero della poesia”;

la Poesia è nuda

la Poesia è nuda

da Il Foglio 15 luglio 2015

Che succede? Il Fatto quotidiano è un giornale a cui piace mettere lo stile cinico al servizio dell’etica pubblica. Quando parla di poesia, però, si intenerisce. In un articolo di Pietrangelo Buttafuoco (9 luglio 2015), che ne riprendeva uno di Alessandro Zaccuri uscito in precedenza su Avvenire, si parla di licenziamento (scandaloso?) del dirigente Antonio Riccardi dalla Mondadori, nonché della paventata chiusura della più famosa collana italiana di poesia, denominata Lo Specchio. Sì, proprio quella in cui noi liceali di mezzo secolo fa leggevamo Ungaretti, Montale, i lirici greci e Catullo tradotto da Quasimodo, e più tardi Auden e Paul Celan, Zanzotto, Giudici, Ted Hughes, Denise Levertov, Iosif Brodskij…

 Che Lo Specchio abbia avuto grandi meriti lo si sa, lo si dovrebbe sapere. Ma è anche abbastanza risaputo che da venti o trent’anni le sue scelte poetiche italiane sono molto o troppo discutibili, fino a privare la collana del suo antico prestigio.
Il titolo dato all’articolo di Buttafuoco invece che allarmare fa un po’ ridere: “Che Mondadori è se rinuncia alla poesia?”. Non è che la Mondadori rinunci ora alla poesia, ci aveva già rinunciato da tempo, infilando nella sua collana una crescente zavorra di poeti “cosiddetti”…

 No, mi sto sbagliando. Di poeti da pubblicare in Italia non ce ne sono poi molti. O meglio, ce n’è un tale mostruoso e informe numero che il difetto, ormai, non può essere imputato a questa o quella collana (anche se…!). Il difetto è nel fatto che si creino collane di poesia, dedicate, intendo, esclusivamente alla poesia. Meglio sarebbe mescolare poesia e prosa. Una volta aperta una collana di poesia bisogna poi riempirla. Con che cosa? Con quello che c’è.

 Di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta. Non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita le grandi, medie e minime collane che esistono. E’ ovvio, è inevitabile che si pubblichi semplicemente quello che c’è, procedendo secondo ben noti opportunismi (tanto la critica di poesia beve tutto oppure tace): prima viene l’amico, poi l’amico dell’amico, poi quello che si mette al tuo servizio, prima ancora quello che ha potere, o quello che insiste e non demorde, quello che se non lo pubblichi si inalbera, quello che poi te la farà pagare, quello che minaccia il suicidio…

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Che la poesia non abbia mercato (se non eccezionalmente) dovrebbe essere un dato acquisito da ogni editore che conosca l’abc del suo mestiere. E’ così vero che mezzo secolo fa un poeta non ingenuo come il tedesco Enzensberger, in uno dei suoi fondamentali saggi, teorizzò la poesia come “antimerce”. Una tale teoria non era nata allora e non doveva essere presa troppo alla leggera: perché messa in mani stupide, diventa una teoria stupida. Quando Enzensberger parlò di poesia come antimerce erano anni in cui il mercato veniva visto come una bestia nera da ogni scrittore che si rispettasse e che volesse essere accolto negli esclusivi circoli di élite.

 Negli anni Sessanta ormai quella teoria aveva cominciato però a invecchiare: invece che come un fatto editoriale, la non facile vendibilità della poesia fu intesa come un programma letterario e diventò illeggibilità: poesia scritta per non essere letta, un vuoto riempito di parole. Solo che fra invendibilità e illeggibilità c’è una differenza. E’ la differenza che la neoavanguardia, per esistere come eterna provocazione, doveva fare finta di non capire. Il poeta tedesco aveva parlato di antimerce per mettere le mani avanti, ma scrisse le sue opere poetiche distinguendo bene fra il loro “valore d’uso” (possibilità di leggerle) e “valore di scambio” (vendibilità). Enzensberger in effetti è uno dei poeti europei più leggibili di fine Novecento.

Qui sorge un problema. Cosa vuol dire essere leggibili? Rimbaud e Mallarmé non è facile leggerli, ma non sono certo illeggibili. Richiedono un’intensificazione, una focalizzazione dell’atto di leggere. Chiedono di essere riletti. Invece leggere o rileggere molta poesia delle neoavanguardie è impossibile perché è inutile. Leggi e non sai che cosa c’è da leggere. Rileggi e non fai nessun passo avanti. Se nella rilettura non succede niente di nuovo e di fruttuoso, questa esperienza diventa retroattiva: dimostra che anche leggere è stato inutile.

 Accanto all’articolo di Buttafuoco, il Fatto pubblica un’intervista ad Andrea Cortellessa, il quale si occupa anche della evidente impreparazione del professor Asor Rosa in materia di letteratura attuale (vedi il suo “Scrittori e popolo / Scrittori e massa”). Questa impreparazione (oltre a moventi di cortigianeria editoriale) porta Asor Rosa a occuparsi quasi esclusivamente di autori Einaudi, casa editrice alla quale lo vediamo aggrappato da decenni con tutte le sue forze. Ma Cortellessa condivide con il professore un’idea che a me pare bizzarra, o che più precisamente è una fede: la poesia, poiché non ha mercato, sarebbe secondo loro migliore e più onesta della narrativa. Macché, non è così. E’ mediamente peggio della narrativa, proprio perché non ha mercato, non ha lettori. E un’arte senza pubblico (come la pittura) marcisce su se stessa, si autodistrugge immaginandosi libera e incontaminata. Per scrivere un romanzo o anche un mediocre romanzetto ci vuole un minimo di tecnica artigianale. Per scrivere il novanta per cento delle poesie italiane che circolano oggi, perfino antologizzate e commentate dai nuovi accademici, non ci vuole nessuna qualità, se non forse un po’ di specifica astuzia, dato che risultano essere niente e non si capisce, letteralmente non si capisce, come abbiano trovato qualcuno disposto a scriverle.

 Se Lo Specchio Mondadori chiude, insomma, qualche ragione c’è.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa, 2010

Commento di Giorgio Linguaglossa

È ovvio che condivido in pieno il giudizio di Alfonso Berardinelli, mi sembra ineccepibile. Mi sembra ineccepibile la valutazione di Berardinelli secondo il quale negli ultimi 30 anni le scelte editoriali dello Specchio siano state «quantomeno discutibili», e lo sono state, a mio avviso, perché non si è fatta più ricerca dei testi migliori, si è preferito rinunciare a ricerche lunghe e laboriose per preferire la scorciatoia della pubblicazione degli “amici” e dei sodali. Di questo passo, l’appiattimento qualitativo ha finito per deteriorare tutto il comparto della «poesia» e i lettori (intendo per lettori quei coraggiosi che acquistavano libri di poesia) si sono assottigliati fino a scomparire del tutto.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa, 2008

Non voglio fare una facile polemica, anzi il mio cordoglio è vero e sincero, per una collana (lo Specchio) che probabilmente chiuderà per assenza di utenti, ma è pur vero che quando un manager fallisce lo si cambia, questo almeno è il metodo adottato nei sistemi a economia capitalistica, può darsi che un altro manager-poeta riesca dove il precedente aveva fallito, e quindi è naturale che la proprietà editoriale cambi strategia e uomini. E non avrei nulla da eccepire neanche se la proprietà editoriale decidesse di sopprimere la collana un tempo prestigiosa de Lo Specchio se considerasse ormai il comparto in perdita irrimediabile. Una azienda in perdita e un prodotto privo di utenti, sono una contraddizione in termini.

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

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