Archivi tag: daniele santoro

Intervista a Giorgio Linguaglossa, di Daniele Santoro DOVE VA LA POESIA CONTEMPORANEA?(2009) Risposta: Se guardiamo alla poesia ufficiale, il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all’interno non c’è nulla, proprio nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell’editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un’area che in un libro di critica in corso di stampa definisco “La Nuova Poesia Modernista Italiana”, Poesie scritte dagli Avatar di Raffaele Ciccarone, Mimmo Pugliese, Giorgio Linguaglossa

Intervista a Giorgio Linguaglossa
di Daniele Santoro DOVE VA LA POESIA CONTEMPORANEA?

Giorgio Linguaglossa giacca blu
Ho avuto cattivi maestriÈ stata una buona scuola» (Ich hatte schlechte Lehrer. Das war eine gute Schule) verso di Hans Arnfrid Astel – In foto Giorgio Linguaglossa.

.

Poeta e narratore, Giorgio Linguaglossa esercita da anni, con non minore interesse, una considerevole attività critica, tanto acuta quanto eversiva e dissacratoria; attività che ha trovato in passato il suo organo di “partito” nello storico quadrimestrale “Poiesis”, da lui fondato e diretto dal 1993 al 2005, e che continua tutt’oggi attraverso collaborazioni a diverse riviste letterarie e pubblicazioni varie. Lo fa con la consapevolezza di chi ama la poesia incondizionatamente e non accetta di vederla asservita, come pure accade, a becere logiche di potere editoriale e alle mode del momento, manco fosse un prodotto soggetto a mercificazione. Di qui le sue battaglie, le sue accanite lotte, le sue «azioni di guerriglia e di disturbo delle istituzioni poetico-letterarie, delle loro retrovie come anche delle posizioni di punta delle poetiche egemoni», come scrive in un suo corposo libro dal titolo Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (coedizione Libreria Croce – Scettro del Re, Roma 2003). In occasione della uscita del suo nuovo volume di saggi La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) Roma, EdiLet, 2010, abbiamo pensato di raccogliere direttamente dalla sua voce cosa pensa della poesia e di altrettante interessanti questioni intorno al fare poetico.
(d.s.)

.

1. Consapevole della difficoltà di offrire una risposta breve ed esaustiva, puoi aiutarci a tracciare un quadro della poesia italiana più recente?

Se guardiamo alla «poesia ufficiale», il quadro che ci si presenta è uno spazio bianco: all’interno non c’è nulla, proprio nulla. Se invece guardiamo cosa avviene e cosa è avvenuto fuori dell’editoria ufficiale, allora ci si apre un diverso e più ricco panorama. Innanzitutto, un’area che in un libro di critica in corso di stampa definisco «La Nuova Poesia Modernista Italiana». Un’area poetica che è emersa nel corso degli ultimi venti-trenta anni, quando si è manifestata la crisi e l’esaurimento delle poetiche epigoniche, cioè quelle che facevano capo al post-sperimentalismo e a quella rappresentata dai poeti della seconda linea lombarda, per intenderci, quella del «piccolo canone».

2. Riporto dalla introduzione al tuo Appunti critici (2000) una significativa frase di Hans Magnus Enzenzsberger che può essere intesa come un manifesto del tuo modus operandi: «l’inverso di ogni distruzione della poesia è la costruzione di una poetica nuova». Alla luce di tale affermazione, quale futuro è possibile disegnare per la poesia?

Risposta: Il linguaggio di poeti del Novecento come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini comuni come in Wordsworth ma acquista le caratteristiche di una sofisticatissima colloquialità. Ciò che Yeats rimprovera ad Eliot può essere rivolto contro la sua stessa poesia. La colloquialità e il quotidiano prendono il posto della dimessa prosodia e della mitologia («Eliot has produced his great effect upon his generation because he has described men and women that get out of bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effect by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantic rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty»).

L’arte che oscilla tra iperrealismo e minimalismo è quella che meglio corrisponde alle esigenze di conservazione dell’esistente. Se l’iperrealismo muove dall’assunto che occorra ripristinare uno sguardo quanto più vicino possibile al «reale» mediante un punto di vista asintoticamente prossimo al punto di fuga del campo ottico, il minimalismo, nelle sue varianti consapevole e inconsapevole (cioè, conseguente e inconseguente) assume l’assioma secondo cui ciò che esula dalla lastra fotografica del «reale» non ha ragion d’essere. La limitatezza dello sguardo viene scambiata per limitatezza del «mondo».

In questo quadro problematico il problema del realismo diventa un problema soggettivo. Il «realismo» diventa un problema di «psichismo», con tutto ciò che ne consegue: l’oggettività del mondo scompare… etc. La «progettualità» del minimalismo è una finta e fittizia progettualità, per il minimalismo il mondo diventa una funzione dell’io e l’unità di misura degli oggetti è lo sguardo soggettivo.

Così, sia gli iperrealisti post-sperimentalisti (Giancarlo Majorino, Luigi Ballerini), che gli esistenzialisti milanesi (Maurizio Cucchi, Mario Benedetti, Antonio Riccardi), e i minimalisti (ad es. Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, Franco Marcoaldi), sono accomunati dall’idea dello spazio come «contenitore» di «oggetti linguistici», considerati come entità misurabili e calcolabili a-priori, e quindi spostabili e modificabili. I minimalisti «sanno quante tazze ci sono nel mare». Ma, appunto, questa «ingenuità» della loro poetica fa del minimalismo una poetica ancillare dell’esistente. Il minimalismo non arriva neppure ad immaginare una «ontologia estetica» ma si ferma al di qua degli oggetti e al di qua del reale. In queste condizioni il problema del «realismo» non si pone nemmeno. Anime ingenue e inconseguenti, i minimalisti non sanno veramente che cos’è una «ontologia estetica»: essi procedono a tentoni, con gli occhi bendati, producono migliaia di pagine di finta poesia, di simil-poesia, di spacconate triviali e superficiali, truismi e banalismi. Per quanto riguarda coloro che si esprimono con quelli che definirei una sorta di paralinguaggi come i dialetti, costoro finiscono a dare voce a una gamma di «manichini» i quali parlano un linguaggio che non esiste, un linguaggio fittizio, virtuale, costruito in un laboratorio linguistico separato da un burrone rispetto alla comunità linguistica europea di cui l’esempio più recente è fornito dall’ultimo libro di Franco Loi, Voci d’osteria (Mondadori, 2008). Nel suo genere un capolavoro di gergo iperletterario costruito a tavolino. Un gergo privato, insomma.

Preso atto di ciò, penso che occorra procedere alla costruzione di una «nuova» poetica per andare oltre il riformismo moderato del minimalismo.
Poiché nella tensione verso il reale le «cose» subiscono uno «spostamento», la cosiddetta parallasse, sono «altrove», sono «oltre», ecco allora che un nuovo realismo non può che sorgere da un nuovo concetto dello «sguardo», ovvero, da uno «sguardo stereoscopico e stereometrico» che vada dal particolare al generale, dagli oggetti alle loro metafore. Ecco allora che la «nuova poesia» non può non porsi il problema della «esistenza» degli oggetti allo scoccare della in-tensione significante. Ecco, allora, il precipuo carattere linguistico della tensione semantica (leggi la metafora), quel ponte semantico che rimanda all’urgenza del «reale».

Porre oggi la questione di un realismo integrale è un modo per porre la questione di una uscita dal Novecento, lottare affinché il «nome» si avvicini alla «cosa», chiami, convochi la «cosa».
Porre oggi la questione di un realismo integrale significa risolvere il problema di uno stile integrale che sappia coniugare l’alto e il basso, il sermo humilis e il sublime.

Chiediamoci con molta franchezza: chi è in grado oggi in Italia di esprimersi con il «subtle conversational tone» di Eliot o con la potenza rappresentativa di un Mandel’stam? Come è possibile non vedere i grandi risultati estetici raggiunti dai poeti del «nuovo realismo» come Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Luigi Manzi, Anna Ventura, Roberto Bertoldo, Mario Lunetta? Si tratta di una svista o di un palese atto di misconoscimento?
Mi chiedi: quale futuro per la poesia? Credo che la poesia, quella ufficiale intendo, quella pubblicata dagli editori «a diffusione nazionale», non abbia futuro perché non c’è alcun filtro critico. La poesia-spazzatura dei nostri tempi non ha nessun futuro perché non ha nessun presente.

Antologia Poesia contemporanea cop

3. Per un proficuo “rilancio” della poesia, quanto può giovare la riflessione storico-filosofica?

Risposta: Per il minimalismo l’assunto di partenza è che per fare poesia non è necessario avere alcuna idea di poetica, io invece penso che occorra ripartire da una seria riflessione filosofica sul che cosa significa fare oggi poesia in un paese dell’Occidente in pieno post-moderno.

Per un “rilancio” della poesia credo sia necessario procedere alla riforma dell’Università, della Scuola, della Ricerca, della Stampa, della TV. Occorrerebbe una rifondazione della borghesia finanziaria e dello stato di diritto. È un problema complesso.

4. Ricordo al pubblico dei lettori che, tra le tante attività da te svolte, non meno importante è stata quella di traduttore da poeti inglesi, francesi e tedeschi, non ultimo il premio Nobel Milosz; si è trattato di scelte oculate e di autori che hai avvertito essere più congeniali o magari di un rifiuto della poesia italiana delle ultime generazioni? Dunque, quanto è importante il ruolo della traduzione dalle letterature straniere?

Risposta: Ho tradotto alcune poesie di Milosz, in collaborazione con una persona di madre lingua, aiutandomi con la mia scarsa conoscenza del russo e in stato di ipnosi. Le grandi poesie di Milosz sono state per me un corroborante e un tonico dell’intelligenza. Dopo aver letto Milosz guardi alle cose del mondo con un occhio più severo ma anche più comprensivo. E poi occorreva guardare al di là della nostra piccola e provinciale Italia, occorreva guardare al di là delle Alpi. Le traduzioni sono importanti, di più, sono essenziali per ricostruire l’identità della poesia italiana del secondo Novecento che ha perduto la propria fisionomia. La grandissima parte dei poeti inseriti nelle Antologie redazionali e amicali di questi ultimi trenta anni sono prive di valore culturale, anche quelli inseriti nell’Antologia dei Meridiani a cura di Cucchi e Giovanardi sono per lo più indistinguibili gli uni dagli altri.

5. Cosa pensi delle numerose antologie di poesia, pubblicate negli ultimi anni, che pretendono di fare il punto della situazione? qual è la tua personale idea di canone letterario, seppure è lecito assumerne uno?

Risposta: Credo che l’utilità delle antologie pubblicate negli ultimi trent’anni sia prossima allo zero. Non c’è nessun «punto» della situazione. Quello delle antologie degli ultimi quindici anni è stato uno spettacolo squallido: ognuno ha fatto l’antologia a proprio uso e consumo. Per quanto riguarda il cosiddetto «canone letterario», dirò semplicemente che esso è l’assioma della propria primogenitura che il ceto letterario egemone produce. Non c’è nessun «canone», né piccolo né grande, c’è soltanto una grandissima confusione dalla quale emergono soltanto i più furbi e i più attivi nel perseguimento delle alleanze di comodo. Come nella giungla vige la legge della giungla.

Antology How the Troja war ended I don't remember

6. Il tuo nome è legato, come si diceva, alla fondazione e alla codirezione per quasi tredici anni di “Poiesis”, rivista militante tra le pochissime di allora. Cosa ha rappresentato per te quella esperienza? l’averla chiusa è stata un abbassare la guardia, è l’avere voluto riconoscere un fallimento, un inevitabile scacco?

Risposta: Aver chiuso una rivista come «Poiesis» ha coinciso con il prendere atto che la palizzata del conformismo era praticamente infrangibile. Di fatto, ho dovuto prendere atto della mancanza di interlocutori. I più dotati, si defilavano per timidezza, i meno intelligenti, neanche capivano di che cosa si stesse parlando. Chi stava sul ponte di comando delle istituzioni egemoni capiva bene che cosa si stava dicendo ma non gliene importava niente. Sì, posso dire che la fine di «Poiesis» ha segnato una sconfitta, un «inevitabile scacco» come tu dici. Ma mi conforta il pensiero che ci sono sconfitte inevitabili, sconfitte che possono, in un futuro più o meno prossimo, convertirsi in un insperato successo postumo. Del resto, quando ho fondato «Poiesis», nel lontano 1993, non mi ero fatto alcuna illusione sulle possibilità di «bucare» la chiglia del conformismo. Era una sconfitta annunciata.
Non ho mai «abbassato la guardia», né allora né tantomeno intendo farlo adesso: il profilo della mia riflessione critica è rimasto lo stesso, anzi, con il tempo si è affinato. Adesso è più appuntito e preciso. Guardo le cose con maggiore distacco.

7. In un tempo impaziente come il nostro qual è il futuro della poesia?

Risposta: Questo libro è venuto alla luce in un tempo impaziente, un tempo in cui il discorso poetico è rimasto irrimediabilmente indietro rispetto alla velocità di riproduzione e rinnovamento dei linguaggi mediatici. Ciò che in un tempo lontano era una attività di «avanguardia» è oggi diventata una attività di numismatici che collezionano monete fuori corso. L’emancipazione dalla letteratura borghese non è avvenuta e, forse, mai più avverrà; gli dèi sono tramontati e dio è scomparso, e probabilmente è meglio che le cose siano andate così. Nel frattempo la poesia si è mutata in discorso poetico. Qualcosa di determinante nel suo DNA si è mutato irreversibilmente. Qui non si tratta di indicare come perduta l’«innocenza» della scrittura poetica (ammesso e non concesso che sia mai stata innocente), e neanche l’ipercriticismo (anch’esso una diversa modalità di confezionamento dell’«innocenza»). Ciò che un tempo apparteneva alla profondità adesso pertiene alla superficie, ciò che un tempo corrispondeva alla fenomenologia di apparenza ed essenza, adesso pertiene ad una dimensione unica che comprende e giustappone superficie e profondità, durata (dell’opera d’arte) e suo carattere transeunte, periclitante, effimero. Davvero, non c’è alcun dramma nella scomparsa della poesia, che è stata sostituita dai paralinguaggi degli addetti ai lavori. Ci inoltriamo sempre di più in un mondo virtuale ed effimero e non vedo perché la poesia non debba situarsi entro questo contesto culturale come meglio le aggrada e meglio la soddisfi. Alla «coscienza infelice» di Hölderlin e di Leopardi fino al primo Montale è subentrata la coscienza felice della piena integrazione della società globale.

Giorgio_Linguaglossa_cover_Dopo_Il_Novecento

8. Fare poesia è un modo per parlare e per sentire con tutti i sensi e in molti sensi. Fare poesia è darsi il tempo di ascoltare il proprio respiro. C’è un modo “diverso” di fare poesia tra Nord e Sud? Oppure la poesia è uguale a tutte le latitudini, dalla Sicilia alle Alpi?

Risposta: In questo articolo di Giovanni Raboni che risale al 1969 scritto in occasione di una analisi della poesia di Daria Menicanti, abbiamo la prima acuta diagnosi critica della nuova situazione della poesia italiana. Si prende atto che il campo della poesia è un rettangolo di gioco aperto alle più svariate correnti.

«Diciamo la verità: il linguaggio della tradizione, recente o remota, è uno spazio sperimentabile come qualunque altro – non meno, suppongo, dell’alfabetismo dei mass media o dei sussulti linguistici della cibernetica. Sperimentabile, voglio dire, ai fini espressivi, di recupero o di straniamento o di critica: senza alcuna preventiva garanzia d’efficacia, è ovvio, ma senza preclusioni specifiche. Non c’è davvero bisogno d’aderire alla teorizzazione del falsetto per riconoscere che si può operare dentro – e sopra, e persino “contro” – un linguaggio anche senza usargli violenze vistose, e che, d’altra parte, si può “inventare” anche un linguaggio che c’è già

D’ora in avanti, si afferma la convinzione secondo cui il linguaggio poetico è diventato una zona franca, esentasse, una sorta di svizzera e il linguaggio della tradizione un «campo aperto» alle incursioni di abili rivisitazioni: un mix di sperimentalismi e di orfismi «privati»; uno sperimentalismo «personale», «libero», «esentasse», privo di una procedura sperimentabile, orientabile e verificabile; uno sperimentalismo non più verificabile né falsificabile, come dovrebbe essere ogni procedura scientifica, ma uno sperimentalismo gratuito che sconfina nell’arbitrio, una procedura di riscrittura libera, ilare, gioiosa, giocosa, parodica, umoristica; una procedura di investigazione del quotidiano libera, ilare, gioiosa, parodica, umoristica; si diffonde la convinzione che la scrittura poetica non sia altro che il prodotto di una riscrittura continua, di un rifacimento perpetuo dei medesimi topoi, che nulla di nuovo c’è da dire perché non c’è nulla di nuovo che valga la pena di esser detto e scritto. In questa situazione di disillusione, di scetticismo di massa e di illusione di libertà creativa di massa, accade che aumentano a dismisura le possibilità della scrittura poetica e aumenta vertiginosamente il numero degli aspiranti poeti. Altro che «parlare e sentire con tutti i sensi»! I pessimi odierni epigoni di Zanzotto, Giudici e Pasolini fanno una poesia cosiddetta del «quotidiano» ma non hanno la minima idea di che cosa sia il «quotidiano» e come parlarne in poesia.

La convinzione secondo cui il linguaggio poetico sia «uno spazio sperimentabile come qualunque altro», e per di più gratuito, a disposizione di tutti come la manna dal cielo, è stata, bisogna riconoscerlo, una grande infatuazione collettiva e una grande mistificazione di massa. La corresponsabilità è presto detta: ad iniziare dal più grande poeta italiano del Novecento, Montale con Satura (1971), per proseguire con Pasolini con Trasumanar e organizzar (1971), fino a Zanzotto già con Dietro il paesaggio (1951) e La Beltà (1968) e Giovanni Giudici con La vita in versi (1965), forniscono la sponda teorica e l’esempio fattuale di una poesia che accetta la visione dell’ordinamento borghese del mercato delle idee (le idee dell’iperuranio del mondo mediatico, un certo concetto acritico di «quotidiano», e di «privato», un certo concetto di utilizzare in poesia gli «oggetti» in modo acritico, come se fosse possibile versarli da un contenitore all’altro quasi fossero vasi comunicanti).

La poesia diventa marginale e marginalizzata, abbandona l’impegno «alto» e si auto confina nella investigazione del «quotidiano», del «privato», del «paesaggio». Manca del tutto l’idea di «progetto». Inizia in quegli anni, per la poesia italiana, un pendio declinante che non avrà termine, che va a bucare il Novecento e giunge ai giorni nostri.
Certo che c’è un modo diverso di fare poesia tra Nord e Sud; la latitudine così come la longitudine, cambiano il profilo di una lingua, cambiano la sensibilità. La marginalizzazione della «Linea meridionale» diventa un fatto compiuto: basti pensare a poeti del calibro di Luigi Compagnone, Stefano D’Arrigo, Sebastiano Addamo, Gesualdo Bufalino (tanto per restare nel Sud negli anni Ottanta), Mario Lunetta, i quali vengono espunti dalla storia della poesia italiana con la complicità del conformismo della critica letteraria, sempre più inesistente ed evanescente.
Con gli anni Ottanta e Novanta si consuma la definitiva subordinazione della poesia meridionale all’egemonia del parametro stilistico maggioritario. Continua a leggere

18 commenti

Archiviato in critica della poesia, intervista

Per una Carta Poetica del Sud, Manifesto del Post-meridionalismo Il 16 aprile, a Roma la presentazione della Antologia “Il rumore delle parole.  Poeti del Sud” (EdiLet, 2015) interventi di Letizia Leone e Giorgio Linguaglossa

Antologia Il rumore delle parole (2)La Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), nel quadro della attivita’ di promozione oltre a quella di rappresentanza e consulenziale, ha ospitato lo scorso 16 aprile la presentazione, presso la sede romana di piazza Augusto Imperatore, della Antologia «Il rumore delle parole. Poeti del Sud» (2015), per i tipi di EdiLet, a cura di Giorgio Linguaglossa.

Sono intervenuti il curatore della Antologia e la poetessa romana Letizia Leone. Linguaglossa ha illustrato l’opera precisando che l’Antologia non può ritenersi ultimata ed esaustiva in questa prima edizione. La particolarità, secondo Linguaglossa, dei Poeti del Sud, rispetto, per esempio, alla cosiddetta Scuola lombarda o ad altri indirizzi, risiede nella varietà degli stili. Nel delineare i lineamenti geostorici della poesia italiana e nel tracciare i vari periodi di «egemonia letteraria» fra Milano, Firenze, Roma che nel corso del Novecento si sono succeduti, il curatore dell’antologia ha notato come nel Sud operino poeti vitali che si muovono secondo modalità non concordate, libere da interessi editoriali o di uffici stampa. È una poesia che non si rende immediatamente «riconoscibile» e dove ciascun poeta ha una sua precisa «identità stilistica». Il critico ha proseguito accennando alla attuale «stagnazione del panorama editoriale»  per via delle cointeressenze che attraversano il mondo dell’editoria le cui coordinate editoriali sono dettate dagli Uffici stampa. Cesare Pavese o Vittorio Sereni si muovevano in un diverso assetto editoriale e culturale, non avrebbero mai accettato una situazione come quella odierna. I criteri di selezione dell’Antologia sono stati altri, si sono individuati gli autori in base a  criteri meramente estetici.
Sia Letizia Leone che Giorgio Linguaglossa hanno poi inquadrato la poesia del Sud, come anche quella del Nord nell’ambito della crisi dell’ontologia che è avvenuta nel tardo Novecento.

Altra categoria entrata in crisi, a detta dei presentatori, è la categoria del «nuovo». La poesia è piuttosto da considerarsi come un evento (Ereignis) che capita nel tempo e nello spazio e che si situa nell’intersezione tra due coordinate, che abita un preciso punto dello spazio, del tempo e della storia; una volta avvenuto, l’evento cambia la dimensione, si aprono nuove e inedite prospettive. I critici si sono soffermati su un punto in particolare che contraddistingue la poesia del nostro tempo: gli autori dell’Antologia non si pongono più come seguaci di una ideologia, di un canone, di un modo di scrittura ma aderiscono ad una visione centrifuga e periferica assieme, assumono punti di vista assai distanti gli uni dagli altri e stili di scrittura assai differenti.
Altro elemento invariante rilevato dai critici è  che nessuno degli Autori presenti nella Antologia può esser considerato un epigono del minimalismo italiano così come si è configurato negli ultimi decenni del Novecento. In tale accezione gli stilemi del minimalismo sono stati assunti e fusi insieme ad esperienze stilistiche e culturali le più diverse. Sia Linguaglossa che Letizia Leone hanno sottolineato gli sforzi degli Autori di procedere verso un diverso modo di convocare le cose e gli oggetti in poesia, insomma, di chiamare le cose col proprio nome anche se in poesia non è poi così scontato che i risultati estetici seguano meccanicisticamente alle premesse, il nodo centrale è che le parole vanno messe dentro una qualche tradizione linguistica e stilistica, hanno vita soltanto in una tradizione ma laddove questa manca o accusa un periodo di «latenza», anche la poesia che si tenterà di fare accuserà il colpo; ma se la poesia diventa consapevole di questo nesso storico-estetico, allora la poesia del Sud potrà assumere in tale orizzonte culturale un ruolo significativo e propulsivo.

Letizia Leone ha infine definito interessante e valido il discorso sul rapporto poesia filosofia riportato nell’introduzione al volume in questione, ed ha accennato alla connessione interna tra i due poli. In tal senso Linguaglossa, ha detto la Leone, conferma la sua vocazione militante, una sorta di rabdomante alla ricerca delle falde poetiche (del Sud).
La Leone ha poi accennato alla lucidità ermeneutica e di diagnosi indispensabile per mettersi sulle tracce di quel sentiero della Linea meridionale di poesia individuata negli anni Cinquanta da Contini, Quasimodo, Gatto… da una terra appenninica da cui si va in esilio, una terra di emigrati e sradicati, da Scotellaro a Calogero.
Quasimodo auspicava una Carta poetica del sud nel 1953, cosa interessante per testare la distanza da una situazione odierna che vede autori meridionali del Novecento come Bufalino Sciascia Ortese Serao spesso dimenticati dai programmi scolastici, con danni inestimabili verso un ingente patrimonio spirituale e artistico del nostro paese.
L’articolazione  geodetica e geopoetica,  sia la latitudine che la longitudine, “colloca” il linguaggio poetico (Brodskij) nell’ambito della storia e contribuisce a cambiare la Lingua e il linguaggio poetico.
Oggi il Sud si è smarcato dal periferico, evidenza il dinamismo fra centro e periferia anche se questo movimento tellurico era stato già intravisto con chiarezza da Pasolini per il quale la periferia romana sfociava nel terzo mondo.

Nello stesso tempo, ha continuato Letizia Leone, ci sono autori come Albino Pierro che non vogliono centralizzarsi, altri fanno, anche a Nord, del dialetto la propria isola nel rifondare la propria stilistica.
Se siamo nella post-storia, nell’epoca dello svuotamento ideologico, forse è lecito  parlare di post-meridionalismo, per questi poeti, lontani dalle poetiche del vissuto, dal mito di una poesia che abita il mito o di quella che ricerca una impossibile innocenza perduta.
In questo contesto storico che dista anni luce dalla linea meridionale degli anni Cinquanta, sia Letizia Leone che  Linguaglossa si sono soffermati sul rapporto tra scrittura e il territorio, individuando la forza di questi Autori nell’aver digerito lo scandalo della storia, quello dell’essere poeta oggi, di non sapere più a chi si rivolga la scrittura poetica. Così, la figura del poeta è ragguagliabile a quella di un esiliato, il poeta è un de-territorializzato, de-istituisce più che istituire qualcosa, s-fonda più che fondare quella cosa che chiamiamo la Lingua poetica; gli Autori accomunati nell’Antologia sembrano voler quantomeno invertire questa tendenza, vogliono recuperare l’esercizio del pensiero, sentono di abitare un senso della storia dove la parola poetica è dolore della mancanza della parola; a tal proposito la Leone ricorda Quasimodo il quale ricordava che la nascita di un poeta è sempre un atto di disordine.
Al termine della presentazione critica è seguito il reading degli Autori presenti in sala: Gino Rago, Daniele Santoro, Silvana Palazzo,  Marisa Papa Ruggiero, Michele Arcangelo Firinu, Marco Onofrio, Raffaello Utzeri, Giulia Perroni.

A.F.

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Silvana Palazzo

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Michele Firinu

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Marco Onofrio

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Daniele Santoro

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile Raffaello Utzeri

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile giorgio Linguaglossa Letizia Leone

Fuis 16 aprile Gino Rago

Fuis 16 aprile Gino Rago

fuis 16 aprile  Giulia Perroni

fuis 16 aprile Giulia Perroni

5 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, critica della poesia

Daniele Santoro AUTOANTOLOGIA con inediti – Con uno scritto critico di Giorgio Linguaglossa

Socrate salva Alcibiade, battaglia di Potidea

Socrate salva Alcibiade, battaglia di Potidea

 Daniele Santoro è nato nel 1972 a Salerno, dove si è laureato in Lettere classiche, e vive a Roma dove insegna. Suoi testi poetici e di critica sono stati pubblicati in varie riviste, tra cui «Studi Danteschi», «Erba d’Arno», «Sincronie», «Gradiva. International Journal of Italian Poetry», «Caffè Michelangiolo», «La Mosca di Milano», «Il Monte Analogo», «Italian Poetry Review». Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Diario del disertore alle Termopili (Nuova Frontiera, Salerno, 2006); Sulla strada per Leobschütz (La Vita Felice, Milano, 2012).

*

Annibale Barca

Annibale Barca

Un autore della generazione degli anni Settanta, il salernitano Daniele Santoro, parte dall’assunto che il referente esiste; ma c’è una differenza tra il reale «esterno» al linguaggio e quello «interno», e la referenzialità del linguaggio dinanzi al cosiddetto «reale» non è cosa così scontata come il senno sproblematizzato ci vorrebbe far intendere. Dopo Frege, Saussure, Derrida e Lacan sappiamo che la catena dei significanti si è autonomizzata in rapporto ai significati: di qui «l’arbitrarietà del segno». Il fondamento non garantisce più alcun vincolo del nesso referenziale: parliamo dello scarto del rapporto significante-significato: il

Temistocle

Temistocle

garante del fondamento (l’«io») ha cessato di essere il fondatore. La fondazione a priori di quel rapporto ha fatto fiasco. Il processo di significazione della poesia di Daniele Santoro adotta la categoria della dis-locazione del referente, parla di un «oggetto» lontano per parlare dell’«oggetto» del presente. Il soggetto diventa un luogo ermeneutico del significato di un «oggetto» lontano (nel tempo e nello spazio). Così, dare la parola ai morituri deportati nei campi di sterminio nazisti è un modo come un altro per far parlare l’impossibile, l’inaudito, un «oggetto» lontano per meglio parlare dell’«oggetto» presente. È un modo intelligente per mettere implicitamente in panni derisori la scena, il palcoscenico della finzione della poesia che ruota attorno alla pagliacceria dell’«io»: quale oggetto? Che cos’è l’oggetto? E perché proprio quell’oggetto che ruota come un pianeta attorno al sole dell’«io»? Il discorso poetico di Daniele Santoro restituisce la parola a coloro che sono stati interdetti, rimuove la lapide di una rimozione storica per restituire un «significato» alla storia degli uomini. È un discorso poetico liberale, nel senso che vuole liberare gli uomini dalla schiavitù della menzogna, per restituirli alla loro libertà: il discorso poetico diventa così una indagine sul «senso» del nostro divenire e sul «senso» di ciò che siamo diventati, sulla coscienza attuale dell’inautenticità generale. È un microscopio sulla identità dell’«oggetto». Perché e in che modo si costruisce un «valore»? Che significato ha la falsa coscienza di ciò che l’ideologia di una civiltà ha descritto come norma valoriale? Diario del disertore alle Termopili (2007) è un breve diario scritto in fretta da un disertore alla battaglia delle Termopili che commenta la falsa retorica e il falso racconto della storica battaglia avvenuta duemilaecinquecento anni fa tra spartani e persiani. È il discorso sulla «verità» il vero obiettivo del poeta salernitano, ripristinare la «verità» su eventi accaduti in un tempo lontano per guardare il mondo d’oggi. La seconda opera Sulla strada per Leobschütz (2012), ci consegna i discorsi dei (e sui) reietti, le vittime dell’Olocausto, come se fossero stati presi dal vivo mediante un registratore nascosto negli hangar:

daniele santoro Copertina

voi non sapete un uomo che significhi / sfinito, sfilare nudo a passo militare / il piede congelato nel suo zoccolo di legno / malgrado la diarrea gli coli per le cosce / o gli dolorino i testicoli per un edema da digiuno // sfilare invece, addirittura correre / quando sarà il suo turno, non dimenticare / di togliersi il berretto, non guardarlo in faccia

*

dillo che sei un filosofo, un intellettuale / e che sai a menadito Platone, Plotino, Porfirio / e che hai insegnato ad Heidelberg, a Friburgo. / La tua chiara presenza al campo ci lusinga / un corno, Professore, un fico secco /
delle tue irrefragabili elucubrazioni. / è bene che tu faccia un po’ esperienza / della realtà del mondo, di cosa lo governa / e di che è veramente fatta l’immanenza. / più convincente qui dei tuoi filosofami è il nerbo / di bue che stringe l’SS nelle mani / e il logos fa tremare, il nous, il nomos / e manda la tua metafisica a riposo.

daniele santoro

daniele santoro

 Se il senso della poesia manca, manca la poesia il suo bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione del significato. La poesia esprime il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia della « nuova generazione» è appunto ricostruire una relazione tra il significato e il significante, ma in termini del tutto diversi rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nel tardo Novecento.
In un mondo in cui i rapporti umani sono diventati un problema tra gli esseri riprodotti come talismani magici e ridotti a vasi incomunicanti di un messaggio che è stato soppresso dalla prassi telemediatica, resta il problema di come sproblematizzare il problematico, e di come problematizzare ciò che è stato falsamente sproblematizzato; di come liberare le emozioni dalla cella dell’«io» che racchiude l’inautenticità generale del mondo dell’omogeneizzazione linguistica.*

*da Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) EdiLet, Roma, 2013 Societa Editrice Fiorentina pp. 150 € 14

Sileno copia romana di Lisippo

Sileno copia romana di Lisippo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inediti da Triumphus feritatis

 

Aiace Oilèo

Aiace Oilèo violentò Cassandra
nel tempio del Palladio, sull’altare
così sfogò l’ebbrezza, il
fascino della conquista, rise
smodatamente rise, bestemmiò di cuore.
Poi delirante ancora imbambolata
in spalle se la mise, la mostrava
fenomeno da baraccone ai suoi soldati;
insomma consentì che ne abusassero
compreso il re Agamennone che se ne innamorò;
per questo Aiace lo prendeva in giro. Continua a leggere

2 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea