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Gino Rago, Storia di una pallottola, Poesia inedita, Prima e seconda versione, Il Polittico come struttura instabile aperta, Editoriale n. 9 de Il Mangiaparole, Giorgio Linguaglossa

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È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
1a stesura

Gino Rago

Storia di una pallottola

La volontà di fare di sé stessi un fuoco. Una rivoltella.
Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
Daniil Charms a distanza di chilometri

sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
«Forse è’ un alieno sulla mia testa o uno starnuto dal Cremlino…»

La pallotola entra in un monolocale, si ficca in un’altra pistola.
Parte il colpo. Scoppia il cuore di Vladimir Majakovskij.

La pallottola-dei-poeti fuoriesce dalla spalla,
Lascia la stanza:«Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa,

Non mi fermano né il tempo né lo spazio
Né le forze di attrazione della terra e della luna».

Torino. Agosto. 1950. La pallottola-dei-poeti rompe i vetri
Di una camera dell’albergo Roma.

Cerca un’altra tempia.O un altro cuore. Afa. Nemmeno un’anima in giro:
«Tardi, troppo tardi…»
[…]
Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.
Sulla copertina dei Dialoghi con Leucò:« Perdono a tutti e a tutti chiedo Perdono… Non fate troppi pettegolezzi».

La Stampa. Prima pagina. Morto-suicida-Cesare-Pavese.
La pallottola lascia di corsa la camera dell’albergo.

Ha fatto in tempo a leggere su un foglietto non visto da nessuno:
T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

Un agente della STASI ruba i due foglietti.
Con il primo treno parte da Torino in direzione di Berlino Est…

*
2 stesura

Storia di una pallottola

Una rivoltella.
Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
Daniil Charms a distanza di chilometri

sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
«Il miagolio di un gatto o uno starnuto dal Cremlino?»

La pallottola fa ingresso in un monolocale, entra nel tamburo
del revolver col manico di avorio di Madame Colasson.

Parte il colpo. Colpisce al cuore Vladimir Majakovskij.
poi la pallottola fuoriesce dalla spalla, va in giro per un po’,

lascia la stanza: «Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa».
Entra nel boudoir di Madame Altighieri

E colpisce alle spalle il generale d’Aubrey
in partenza per la guerra di Crimea.

Torino. Agosto. 1950. La pallottola rompe i vetri
di una camera dell’albergo di Roma.

«È tardi, troppo tardi…».
Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.

Una copia dei “Dialoghi con Leucò”. Sulla copertina c’è scritto:
«Non fate troppi pettegolezzi».

Prima pagina de “La Stampa”. «Morto suicida Cesare Pavese».
Lascia di corsa la camera dell’albergo.

Ha letto su un foglietto non visto da nessuno:
T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

Un agente della STASI ruba i due foglietti.
Con il primo treno parte da Torino

in direzione di Berlino Est… cerca al telefono
il Signor Cogito. «È in casa Cogito?».

«No, non è in casa. È uscito».
E allora cambia strategia. Si reca ad Istanbul.

Sull’Orient Express incontra Madame Altighieri,
si innamora della duchessa e la uccide con un colpo

di pugnale alle spalle…

Ma non è questo quello che volevo raccontare,
era un’altra storia, che però ho dimenticato…

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Nella prima versione appare chiaro che inseguivo troppo “il significato” e questo procedere può diventare una gabbia, un freno inibitore alla libertà completa della nostra immaginazione.
Nella seconda versione, grazie anche alla approfondita lettura dell’Editoriale di Giorgio Linguaglossa per il prossimo numero della Rivista “Il Mangiaparole”, rimuovendo il condizionamento dell’inseguimento del “significato” a tutti i costi, l’inedito ha guadagnato in libertà ed entra nello scenario Madame Colasson che capovolge, anzi stravolge la storia della morte di Vladimir Majakovskij: non più suicidio, ma omicidio (non importa se omicidio volontario o involontario) commesso da Madame Colasson. Il regime bolscevico ha nascosto a lungo questa verità? Sulla morte di Majakovskij ha diffuso un’altra notizia falsa fra le tantissime notizie false di regime? E chi si meraviglia delle tantissime “bugie di Stato” adoperate sia dai regimi totalitari sia dalle democrazie occidentali? Allora anche lo stratagemma, tipico di una poesia della NOE, di stravolgere una storia radicata nel tempo e nella memoria collettiva ‘inventando’ un’altra storia al posto della precedente è un gesto di coraggio estetico e dunque è anche un fatto etico, eticamente lecito,
perché tutti noi d’accordo con Brodskij sappiamo che “l’Estetica viene prima dell’etica”.
Accanto a Madame Colasson agiscono, per proprio conto, ma nello stesso tessuto poetico, come nel teatrino siciliano dei ‘pupi’ con i fili tirati da un unico puparo, anche Madame Altighieri la quale, con un salto acrobatico spaziotemporale, spara al Genarale d’Aubray sullo sfondo della Guerra in Crimea, per poi saltare a Torino nel 1950, un altro tempo, un altro luogo…con un agente della STASI, (i cui tentacoli come sapevano tutti erano in grado di arrivare su chiunque e dappertutto, che forse deve redigere un rapporto al Signor Cogito), che a sua volta sopprime Madame Altighieri ma con un pugnale per non far troppo rumore perché viaggiano pugnalatore e pugnalata sullo stesso treno, il treno più elegante ed esclusivo del vecchio Novecento europeo (assassinio sull’Orient Express…). Per noi la scrittura non è lineare, consequenziale, perché non crediamo nel tempo premoderno né nei tempi moderni o postmoderni o ipermoderni, lo stesso dicasi per lo spazio.
Perché?
La risposta è anche qui, nella parte finale dell’Editoriale scritto da Giorgio Linguaglossa per il n.9 del trimestrale cartaceo Il Mangiaparole, perché:
“il «polittico» è un sistema instabile che fa di questa instabilità un punto di forza. Mi sembra una ragione sufficiente”.

Giorgio Linguaglossa

caro Gino,

La poesia NOE è nient’altro che una «rappresentazione prospettica», una rappresentazione priva di funziona simbolica. La prospettiva come forma simbolica (1924) di Erwin Panofsky è una utilissima guida perché ci mostra come funzione simbolica e rappresentazione siano legate da un cordone ombelicale che è dato dal linguaggio. Ma mentre le opere del passato erano portatrici di una funzione simbolica, le opere moderne, a cominciare da Brillo box di Warhol, non sono provviste di alcuna funzione simbolica, sono dei dati, dei fatti, dei ready made. Invece, la tua poesia, di Intini, di Mario Gabriele, di Giuseppe Talìa per fare qualche nome di poeta che è maturato nell’officina della NOE, è priva di funzione simbolica, sembra la registrazione di dati di fatto, di elenchi statistici, elenchi cronachistici. In più, qui si ha una molteplicità di prospettive che convergono e divergono verso nessun fuoco, nessun centro prospettico, le linee ortogonali non portano ad alcun centro che non sia eccentrico, spostato, traslato; inoltre lo sguardo che guarda è diventato diplopico, diffratto, distratto.

La tua «poesia-polittico» può essere ragguagliata ad una matassa, ad un groviglio. Tu ti limiti ad aggrovigliare i fili, li intrecci gli uni con gli altri e tiri fuori il percorso degli umani all’interno di un labirinto. La tua è una «poesia-labirinto», uno spiegel-spiel. I tuoi personaggi sono gli eroi, prosaici, del nostro tempo, vivono in un sonno sonnambolico, tra chiaroveggenza e inconscio, guidati e sballottati come sono dalla Storia (Achamoth) e dalle loro pulsioni inconsce (Von Karajan, la Signora Schmitz, Joseph il pacifista, Madame Colasson); c’è «poi Madame Tedio, il tempo,[che] sbroglia le carte» e sdipana i destini individuali; c’è l’intellettuale, il Signor L., il quale denuncia la Grande mistificazione dell’Occidente: che l’«Ulisse è un bugiardo inglese». Questo Signor L. mi piace, è una sorta di Baudrillard per antonomasia, l’intellettuale che ci mette in guardia contro la mitologizzazione di certi prototipi umani come Ulisse, progenitore e prototipo del politico imperialista che avrà discendenti di tutto riguardo ai giorni più vicini a noi, da Giulio Cesare a Napoleone e giù fino ai pazzi sanguinari Hitler, Mussolini, Stalin, Pol Pot, etc.

La tua «poesia-polittico» è un esempio mirabile di come si possa oggi scrivere una poesia moderna, appassionata e dis-patica, raffreddata e ibernata, patetica e algida, serissima e ilare. Una poesia che, finita la lettura ci lascia sgomenti e ammirati.

 

Giorgio Linguaglossa

Editoriale n. 9 (rivista di poesia e contemporaneistica “Il Mangiaparole”)

L’ermeneutica segna lo spostamento del baricentro della trattazione dai problemi del senso verso i problemi del referente. In conformità con questa impostazione concettuale, tutta la poesia del secondo novecento e di questi ultimi anni ha perseguito il medesimo obiettivo: ha fatto una ricerca del senso impiegando un linguaggio referenziale.
L’equivoco verteva e verte sul fatto che si è considerato il discorso poetico come equivalente, nella sua funzione, al discorso ordinario, senza capire che il linguaggio ordinario si limita a «servire» gli oggetti che rispondono ai nostri interessi sociali, il nostro interesse sociale è limitato al controllo e alla manipolazione degli oggetti nella vita quotidiana, ma la funzione del linguaggio poetico non può essere «servente» degli oggetti, questa sarebbe una grave miscomprensione della sua natura specifica e ci porterebbe fuori strada.

Il discorso poetico lascia in libertà la nostra appartenenza al mondo della vita e al mondo della vita quotidiana, lascia-dirsi, lascia che vengano messe delle parentesi tra il pensiero e il linguaggio, tra il linguaggio e il linguaggio, lascia alla parola il compito di dire ciò che il linguaggio ordinario non può dire. Quello che così si lascia dire è ciò che Paul Ricoeur chiama la referenza di secondo grado, la referenza sganciata dal rapporto di controllo e di dominio degli oggetti e del mondo.

Il discorso poetico della nuova ontologia estetica, comporta (in modi vari e con diverse sensibilità linguistiche), l’abolizione del linguaggio descrittivo-informativo. Ciò potrebbe far pensare alla famosa «funzione poetica» di Jakobson, ad un concetto di linguaggio poetico che rinvii soltanto a se stesso, ma la NOE ha compiuto un decisivo passo in avanti: è proprio tale abolizione che costituisce la condizione positiva affinché venga liberata una possibilità più profonda per attingere un referenza soggiacente, una referenza di secondo e terzo grado che coglie il mondo non più al livello degli oggetti manipolabili, ma ad un livello che Husserl designava con l’espressione Lebenswelt e Heidegger con In-der-Welt-Sein.

Se osserviamo la struttura delle poesie della nuova ontologia estetica, ci accorgiamo che è lei, la struttura, che decide la disposizione, la frammentazione, la dislocazione e la cucitura degli enunciati: il loro ordine disordinato, o il loro disordine organizzato, il disallineamento degli enunciati e l’eterogeneità degli stessi, la loro natura disparatissima di varia provenienza di ordine culturale, in una parola: è la struttura che dispone della libertà o illibertà degli enunciati e delle immagini.

Un aneddoto di distrazione esistenziale

Un giorno uscii con due calzini diversi, uno blu e uno avana. Me ne accorsi quando fui in metropolitana accavallando le gambe. Davanti a me era seduta una signora vistosa, con permanente, biondizzata e profumata la quale puntò gli occhi sui miei due calzini. Ecco, mi accorsi allora che avevo messo i calzini invertiti. Avevo infranto una consuetudine condivisa inconsapevolmente dalla generalità attirando l’attenzione della bella signora. Così, un giorno, consapevolmente, uscii di casa con ai piedi due scarpe diverse, un mocassino testa di moro con la frangia e una scarpa con i lacci nera con in più due calzini di colore e di foggia diversi. Presi di nuovo la Metro e accavallai le gambe. Il risultato fu che tutti gli utenti della metro mi guardarono le gambe e i piedi. Ecco, non avevo fatto nulla di particolare, ma avevo infranto lo “schermo” di una condivisione sociale accettata inconsapevolmente da tutti. Penso che la poesia debba avere il coraggio di fare questo: di infrangere il conformismo di un linguaggio informativo, performativo, referenziale. E, per fare questo occorre una notevole dose di distrazione continuativa.
Una distrazione esistenziale radicale può aiutare.

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line lombradelleparole.wordpress.com”.

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Lettera di Tallia a Germanico e risposta, Poesie, riflessioni, citazioni di Giorgio Agamben, Gigi Roggero, Giuseppe Talìa, Giorgio Linguaglossa, Francesco Paolo Intini

Foto Statua volto romano

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Giuseppe Talìa

Tallia a Germanico

L’oracolo di Delfi mi ha parlato. Mi ha detto che io
Sono il filosofo e tu sei il poeta. Mi ha sorpreso.

Apollo figlio di Apelle, fece una palla di pelle di pollo…
Ricorda sempre – dice la Pizia – le viscere dell’aruspicina.

Dunque io filosofo e tu poeta. E chi l’avrebbe mai detto!
-Su ciò che non si può parlare si deve tacere. Ora mi spiego
Il mio lungo silenzio.

E se dunque non so, come realmente non so, perché l’Oracolo
Dice che io sono il filosofo e tu il poeta? I grandi problemi.

Ecco. La neve. La neve, tra gli altri, è un grande problema.
La neve non cade più, né più si scioglie al sole. Sparita.

Sparita come sparite le correlazioni: neve come cotone;
Il silenzio della neve; bianca come la neve; il fiocco vagabondo.

Parole in estinzione. Parole già estinte. Parole svanite.
Che fortuna, caro Germanico, la tua, di essere poeta.

(Tallia)

*

Leggo solo ora la stanza n. 13. Mi viene in mente
il percorso che ogni mattina abitualmente faccio
per andare a lavoro.

Attraverso la passerella Fortini sul Mungnone.
Incontro qualche Chichibbio e in primavera qualche gru.
Arrivo a Piazza della Libertà. Passo sotto l’arco
di Porta San Gallo, saluto Rolandino da Canossa.
Lungo via Palestrina l’organo del traffico suona il Magnificat.
A pochi passi da Piazza San Marco, l’ascensore mi porta
al terzo piano. Entro nell’enigma.

Giorgio Linguaglossa

Germanico a Tallia

caro Tallia,

ti devo confessare che mi è accaduto un fatto strano.

In questi ultimi tempi si è accentuato il mio mutismo. Dinanzi a libri (anche ben scritti) di poesia e di narrativa che mi giungono, e che scorro svogliatamente con gli occhi, mi sono accorto che non so che cosa dire, mi sono accorto con sorpresa che non saprei nemmeno dire qualcosa di sensato su di essi.

Come spiegare questo fenomeno? In me è cresciuto il mutismo. Peggio. Non ho più le categorie euristiche con le quali si è soliti leggere quei libri. Le ho perdute. Ho perduto le parole. Non ho più fiducia in QUELLE parole.
Allora ho capito: il mio mutismo segnala il bisogno di un nuovo linguaggio poetico, di un nuovo linguaggio critico e di un nuovo linguaggio civico: segnala l’insorgenza di un potere destituente. Ormai ne devo prendere atto: non sono più capace di utilizzare quel linguaggio pseudo critico fatto di omissioni, adulazioni e di ipocrisie.

Il mutismo della rivolta delle sardine italiane, la loro assenza di richieste, che cosa ci vuole dire?
A mio avviso segnala il destarsi dell’esigenza di un nuovo linguaggio politico e di un nuovo senso civico che, con le categorie agambeniane tradurrei così: il bisogno di una «nuova forma di vita». Le sardine non chiedono al Cesare di terracotta una piattaforma di riforme, ma ben di più, chiedono un rivolgimento del potere costituito e dei rapporti tra il potere e gli elettori, i cittadini non elettori e gli elettori tutti. Se fare richieste al potere di governo è già un modo di riconoscerlo, il mutismo sembrerebbe dirgli: non ho nulla da chiederti perché non ti riconosco, e non te lo dico neanche, perché altrimenti entrerei in relazione con te, ti riconoscerei una qualche forma di legittimità o di rappresentatività.

Allo stesso modo, nel rogo delle automobili, nella devastazione delle strade di Parigi, i gilet gialli non vedono, come pure alcuni famosi filosofi francesi hanno scritto, semplicemente il segno dell’ impotenza e l’opera di un nichilismo puramente distruttivo, ma l’ esercizio di un potere «destituente» che rifiuta le logiche e i mezzi dell’ integrazione delle periferie perché permeati di un razzismo, per così dire, «democratico».

Quella rivolta, dunque, non solo illumina con i lampi dei suoi incendi la crisi dei modelli tradizionali di azione politica ma sarebbe anche l’avvento di un nuovo tipo di esperienza politica.

Dunque, caro Tallia, io, Germanico, qui dall’Urbe, da una domus fuori le mura, mi rivolgo a tutti i cesaricidi nostri compagni d’armi: non deponete le spade, conservatele per un giorno migliore. Che giungerà.
Prima o poi.

(Germanico)

Scrive Gigi Roggero recensendo Non esiste la rivoluzione infelice di Marcello Tarì, DeriveApprodi, 2017, pp. 238:

«Bisogna sempre diffidare di un libro di cui tutti parlano bene. Se uno dice cose che sono gradite a tutti, è perché non ha niente da dire. Bisogna soprattutto diffidare del suo autore, in particolare se dice di essere un intellettuale militante (e già che ci siete, fate che diffidare a priori della categoria di intellettuale militante). Il pensiero rivoluzionario è infatti sempre divisivo: non si parla e si scrive per piacere a tutti, si parla e si scrive per separare gli amici dai nemici, per rischiare un passaggio o un salto in avanti, per spaccare le dannose compatibilità, anche quelle interne alla propria parte. La lingua dell’uomo è una tromba di sedizione, avvertiva Hobbes. La lingua del militante annuncia la guerra, non la pace.»1

1 https://www.commonware.org/index.php/gallery/788-rivoltarsi-alla-storia

Giorgio Agamben: L’uso dei corpi, Neri Pozza, pagg. 208, euro 18
Risvolto.
Con questo libro Giorgio Agamben conclude il progetto Homo sacer che, iniziato nel 1995, ha segnato una nuova direzione nel pensiero contemporaneo. Dopo le indagini archeologiche degli otto volumi precedenti, qui si elaborano e si definiscono le idee e i concetti che hanno guidato la ricerca in un territorio inesplorato, le cui frontiere coincidono con un nuovo uso dei corpi, della tecnica, del paesaggio. Al concetto di azione, che siamo abituati da secoli a collocare al centro della politica, si sostituisce così quello di uso, che rimanda non a un soggetto, ma una forma-di-vita; ai concetti di lavoro e di produzione, si sostituisce quello di inoperosità che non significa inerzia, ma un’attività che disattiva e apre a un nuovo uso le opere dell’economia, del diritto, dell’arte e della religione; al concetto di un potere costituente, attraverso il quale, a partire dalla rivoluzione francese, siamo abituati a pensare i grandi cambiamenti politici, si sostituisce quello di una potenza destituente, che non si lascia mai riassorbire in un potere costituito. E, ogni volta, la definizione dei concetti si intreccia puntualmente all’analisi della forma di vita di alcuni personaggi chiave del pensiero contemporaneo.
Pasolini al Rosati Roma

Moravia e Pasolini seduti al caffè Rosati, Roma, anni sessanta, sembra davvero un altro mondo, gli intellettuali andavano ancora al caffè e discutevano di cose… oggi ci resta l’etere etilico dai lampioni…

Francesco Paolo Intini

Etere etilico dai lampioni 

Paesaggi calmi, la ricerca di un filo spinato.
La luce non si fece attendere e dunque

Alla logica sostituì un balzo sulle spalle.
Perché dovevano allinearsi ai pianeti.

Dopo tutto vendevano merletti per Orione
E i mercati del quartiere erano aperti.

Il ponte spira endecasillabi
Il cobra nel ristorante cinese

e dunque si può operare
il fegato in gangrena.

Il colombo si tiene stretto
al forziere di sterco.

La noia sporge lupi dalla bocca.
Si comincia da Communio (Lux aeterna)

Enzimi guastatori, scampati a Norimberga.
Un melograno secco. Tutankamon tra i rami.

Talpe ammucchiano stelle
lava nelle pupille di corvo.

Gli ossessi con un dente, i malati di spirito
Furono accettati per quanto di geco avessero nelle code.

Gli altri vendevano madri a Caronte
per un appoggio di ventosa sul remo.

Li vedemmo affrontare il colpo di pistola
perché una telecamera sostituisse gli occhi.

Le scene di un colpo alla nuca e Resurrectio
ceduta a un cent.

Pure il sangue di Pasolini si vendeva in barattoli di salsa.
Un grammo della polvere di Ostia andò all’asta.

Si diffuse la notizia di un trend in salita
Per i seminatori di scandalo.

Il tasso di resurrezione salì alle stelle.
L’aids, la mafia, la shoah annichiliti in un lampo della IX sinfonia.

Avrebbero inglobato la mandibola ad uno stalattite
e sacrificato un mammut per la funzione.

Ma non fu facile riscrivere
la distruzione di Hiroshima.

Troppe teste l’una sull’altra e l’ombra
richiedeva il ritorno in Enola

Queste cose la luce non le ha mai fatte
L’esploso di farina si mescola al pensiero

Poter girare scene fino all’Introito
tenersi buono il Dio con Dies irae

Miserere per un giorno.
Nascondergli la tecnologia dell’onnipotenza.

Il miracolo di mettere l’assenza di versi in rima.

Com’è la musicalità delle parole
che comandano coperte e stufe inesistenti?

Le bottiglie voltavano il lato offeso all’ asfalto
Il pavimento si espresse in poetichese

Il suono perfetto della ruggine.
Nervi appesi ai crateri di Bari.

Ci sarebbe stato un getto di noia da un’edicola.
Un altro da un tombino fresco di stampa.


La vita non era tranquilla da benzinaio
Un tale mi puntò la pistola alla gola.

Poi imparai a vendere giornali e a riscaldami
Con banconote sull’esofago.

Capo Giuseppe, svicolò tra i muri
Nacque una colluttazione tra chiese borboniche

Portò le ragioni dei nativi in un tombino aperto
Dentro si scorgevano serpenti di rame e navi verde

La visione del telegrafo fu fatale
Ma non come quella post mortem.

Risalire foibe, prendere tempo, commisurare le forze
All’oro. Non ci sono nemici sul confine.

Cavalli e marce e winchester nessun’ altra memoria
anidride carbonica finalmente e acqua, sterile forse isterica.

(inedito)

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Marie Laure Colasson, Tre poesie dalla raccolta inedita Les choses de la vie, Commento di Giorgio Linguaglossa, Lo spostamento linguistico, la metafora, fa senso, produce senso, Un Appunto di Edith Dzieduszycka

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Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage, Notturno, 30×30, 2010

Giorgio Linguaglossa

Lo spostamento linguistico, la metafora, fa senso, produce senso

 

Riguardo al lavoro sulla somiglianza e sulla sostituzione di una parola con un’altra, come avviene nella poesia della NOE – in particolare nella poesia di Francesco Paolo Intini e in quella di Marie Laure Colasson – dobbiamo fare alcune considerazioni  preliminari sulla natura della metafora per una adeguata valutazione della portata dello spostamento linguistico che caratterizza la procedura di sostituzione delle tessere frastiche.

Occorre sottolineare non soltanto l’aspetto della deviazione linguistica che si ha nella metafora ma anche l’aspetto della innovazione introdotta nel linguaggio. L’innovazione semantica è il prodotto della deviazione lessicale. L’aspetto fondante è dunque l’innovazione semantica, lo spostamento semantico che opera nel funzionamento interno della proposizione come operazione predicativa, grazie alla quale una nuova congruità linguistica è costituita in modo tale che la frase di per sé «produce senso» [makes sense]. Il creatore [maker] di metafore è un artigiano dotato di abilità verbali e immaginative, colui che da una frase insignificante ad un’interpretazione letterale traccia una frase significante per una nuova interpretazione che merita di essere chiamata metaforica perché genera la metafora non soltanto in quanto deviante rispetto alla normale significazione ma in quanto funzionale ad una nuova significazione.

In altre parole, il significato metaforico non risiede soltanto in un contrasto semantico ma anche in un nuovo significato predicativo che emerge dalle rovine del senso letterale, ovvero, dalle rovine del significato. È la rovina del senso, in poesia, che «fa senso», è dalla rovina del significato che sorge un altro significato. La poesia si nutre, vampirescamente, delle rovine del senso e del significato. È questa la sua più profonda natura e il suo telos. Il linguaggio poetico a differenza del linguaggio descrittivo relazionale incide il linguaggio e il reale, non si limita ad indicarlo. Questa incisione è un atto di depotenziamento delle funzioni referenziali del linguaggio e, al contempo, un potenziamento del dispositivo depotenziante. Non si tratta di un gioco di parole, tramite la metafora non si ha impiego del linguaggio, ma è il linguaggio ad esser «piegato» alle esigenze del «senso» [Sinn], piuttosto che a quelle del significato (Bedeutung]; si tratta di una complessa strategia che implica  una sospensione della referenza ordinaria legata al linguaggio descrittivo. La funzione della sospensione o epoché della referenza  ordinaria è la prova migliore sulla validità ontologica del discorso poetico.

C’è una figura che Aristotele chiama metafora per analogia, ovvero la metafora proporzionale: A sta a B come C sta a D. La spada sta ad Ares come lo scudo sta a Dioniso. Quindi possiamo dire: lo scudo di Ares come la spada di Dioniso. Abbiamo qui un permutazione dei termini propri tra due proposizioni. Si introduce una innovazione linguistica mediante un atto di ostensione del linguaggio, che è un lasciar vedere le cose. Le cose vengono alla visibilità tramite la metafora, che è un meccanismo immaginativo che porta le parole alla visibilità della visione. E questa è, propriamente, la proprietà produttiva-innovativa della metafora. Possiamo affermare quindi che ogni nuovo avvicinamento di elementi linguistici lontani semanticamente suscita l’opposizione di tutte le categorizzazioni pregresse che tenderanno ad opporre una resistenza alla innovazione.1

La metafora non è l’enigma ma la soluzione dell’enigma. Una soluzione, certo, enigmatica, per cui le cose lontane sono date per vicine. È qui, nella mutazione caratteristica dell’innovazione semantica, che la somiglianza e quindi l’immaginazione giocano un ruolo decisivo. Ruolo che non può che essere frainteso fintantoché si ha in mente la teoria humiana dell’immagine come impressione debole, ovvero, come un residuo percettivo. Non è compresa meglio la natura della metafora se ci si sposta su un’altra tradizione,  quella secondo la quale l’immaginazione può essere ridotta all’alternanza fra due modalità di associazione, o per contiguità o per somiglianza, come invece è stato assunto da importanti teorici, tra tutti, Jakobson, secondo il quale il processo metaforico è opposto al processo metonimico nello stesso modo in cui la sostituzione di un segno a un altro all’interno di una serie di somiglianze è opposta alla concatenazione fra segni lungo una serie di contiguità. Ciò che dev’essere sottolineato è il modo di funzionamento della somiglianza e della dissimiglianza e quindi dell’immaginazione che sono fattori immanenti, ovvero non estrinseci, al processo predicativo stesso. In altre parole, il lavoro della somiglianza dev’essere appropriato e omogeneo alla deviazione, alla bizzarria e all’impertinenza dell’innovazione semantica. Il problema decisivo è il passaggio dall’incongruenza letterale alla congruenza metaforica fra due aree semantiche diverse e lontane. È come se un mutamento a distanza fra significati accadesse all’interno di una scacchiera dove i giocatori spostano i singoli scacchi. La nuova pertinenza o congruenza propria di una frase metaforica significativa procede dal tipo di prossimità semantica che improvvisamente si ottiene fra termini lontani nonostante, anzi, grazie alla loro distanza. Cose o idee che erano lontane, appaiono ora prossime tramite la congruenza metaforica.

La metafora è una proprietà del linguaggio, una sorta di collante che unisce punti anche distantissimi del linguistico, un meccanismo tipo entanglement o parallasse che presiede alla composizione, al dispiegamento e al funzionamento di ogni lingua umana. Il transfer di significato, non è nient’altro che questo movimento o questo spostamento nella distanza logica, dal lontano al vicino. E questo è il motore proprio di ogni lingua, che consente il rinnovamento della significazione e del linguaggio tramite l’apporto costruente dell’immaginazione. Il transfer di significato, non è nient’altro che questo duplice movimento o questo spostamento nella distanza dei significati, dal lontano al vicino, e dal vicino al lontano.

I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti

Nei versi citati di Marie Laure Colasson abbiamo un esempio significativo di transfer di significato: i «paleontologi» diventano «spogliarelliste» e «pianeti» vengono invasi da «perle». Sarebbe pelonastico andare a cercare in questi versi il significato consolidato  e condiviso dalla comunità dei parlanti, della connessione ad un referente, insomma, ricercare in essi un significato consolidato e condiviso, qui il piano del referente è stato depotenziato e messo in sordina, in secondo piano; viene invece in primo piano il «gioco gratuito» eppur serissimo del linguaggio che procede verso la nuova linguisticità per il tramite del depotenziamento, dell’epoché del linguaggio che si esplica in bizzarrie, deviazioni, permutazioni, scarti, estraneazioni che operano nuove congruenze linguistiche dove viene ad evidenza il ruolo dell’immaginario e del simbolico nel linguaggio.

La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico», un «polittico dismetrico», un «polittico distopico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici,  disarticolazioni e disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo, di ribaltamenti temporali e spaziali, di sovrapposizioni. In questo genere di procedura poetica il testo cessa di essere quella cosa che il critico può solo indagare per consegnarlo, intatto e intonso alla tradizione, esso è piuttosto il «gesto» che, nel testo, esibisce se stesso, la propria gestualità gratuita la quale tradisce un gigantesco gap di memoria. Il «gesto» in realtà dissimula un sottostante difetto di parola. È per il tramite della procedura metaforica che viene alla piena visibilità la solitudine delle parole; strette, costipate a miliardi di miliardi nei campi di concentramento dell’etere del mondo cibernetico amministrato.

Il «polittico» reca con sé i segni della rovina del tempo, della rovina del senso e del significato. Forse, tra cento anni, sopravviverà di essi il loro mero involucro formale, uno scheletro di segni divelti da ogni significato. E questo sarà già tanto.

La vita che ha dimenticato la vita, le parole che hanno dimenticato le parole sono al centro del dispositivo poetico della Colasson. «La vie […] c’est ce qui est capable d’erreur […] La vie aboutit avec l’homme à un vivant qui ne se trouve jamais tout à fait à sa place, à un vivant qui est voué à “errer” et à “se tromper”», ha scritto Foucoault. La poetessa francese riprende da qui, dal vivente-parlante che non si trova mai al suo posto, condannato ad essere sempre fuori luogo, ad errare. Infatti, i personaggi delle poesie della Colasson sono sempre fuori posto, provengono da un altro luogo e si trovano, all’improvviso, deiettati in un luogo del tutto sconosciuto e condannati ad errare.

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

I personaggi avatar che intervengono nelle poesie colassoniane non  hanno più a che fare con le questioni classiche della verità, della soggettività e del fondamento ma con quelle dell’errore e dell’erranza, della finzione e del simulacro, della copia e del manichino. Personaggi-account, personaggi-avatar che costituiscono il modo d’essere più proprio dell’uomo nel mondo contemporaneo.

 

1 Cfr. Paul Ricoeur

https://www.academia.edu/12110000/Tropi_del_pensiero._Retorica_e_filosofia_XVII_2015_I_?email_work_card=view-paper p. 98 «L’assimilazione predicativa coinvolge in tal modo un tipo specifico di tensione, che non è tanto fra un soggetto e un predicato quanto fra incongruenza e congruenza semantica. La visione della somiglianza è la percezione del conflitto fra l’incompatibilità precedente e la nuova compatibilità.La “lontananza” è conservata nella “prossimità”. Vedere il simile significa vedere il medesimo nonostante e mediante il differente. Questa tensione fra identità e differenza caratterizza la struttura logica della somiglianza. L’immaginazione,quindi, è questa abilità di produrre nuovi generi mediante assimilazione e di produrle non al di sopra delle differenze, come nel concetto, ma nonostante e attraverso le differenze. L’immaginazione è questa tappa nella produzione dei generi in cui un’affinità generica non ha raggiunto il livello di ordine e quiete concettuale, ma resta catturata nella guerra fra distanza e prossimità, fra lontananza e vicinanza. In questo senso, possiamo parlare con Gadamer di un fondamento metaforico del pensiero, nella misura in cui la figura del discorso, che chiamiamo “metafora”, ci permette di scorgere il processo generale attraverso il quale produciamo concetti. Perciò nel processo metaforico il movimento verso il genere è arrestato dalla resistenza della differenza e, per così dire, intercettato dalla figura retorica.»

Marie Laure Colasson esistenzialista 2020

[Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari. (Kommerel)]

 Un Appunto di Edith Dzieduszycka

Penso che la poesia di Marie Laure Colasson sia entrata a pieno titolo nella ormai tradizione della Nuova Ontologia Estetica – e capisco che Giorgio si sia interessato sia all’una che all’altra! – Anzi, Marie Laure è quasi l’anticipatrice di questo frammentismo, dato che scrive in questo modo da più di tre decenni, sempre in francese, successivamente tradotto in italiano. Forse un bel giorno scatterà la scintilla, e scriverà come me, direttamente in italiano. Ma non ci credo tanto, è profondamente attaccata alla sua lingua.

Direi che la sua poesia le assomiglia: imprevedibile, colorita, chatoyante, leggera, danzante, scorre in tanti rivoli e strade sorprendenti, e non c’è da stupirsi, conoscendo la sua professione di ballerina e il suo talento artistico (fotografia e collage). Non abborda un tema che subito se ne discosta, una piroetta, un entrechat, lasciando sconcertato il lettore sull’orlo d’un’evidenza, d’una sorpresa, di un bandolo da riafferrare. Il suo mondo è popolato da personaggi numerosi e variegati, appartenente alla letteratura, alla mitologia, alla cronaca, al suo entourage e ai suoi affetti. Li trasporta tutti nella ronda saltellante dei suoi pensieri sempre vigilanti e in allerta.

Bello il verso che piace a Gino Rago:

…il metronomo ritma la polvere della realtà…

e che vorrebbe come titolo della raccolta. Ma penso invece che Les choses de la vie, titolo primordiale basato appunto sulle cose e sui fatti, evidenti e visibili, confrontati ai pensieri nascosti découlant da quelle cose e da quei fatti o luoghi o incontri o reminiscenze, sia quello giusto e corrisponda alle intenzioni di Marie Laure Colasson.

(7 febbraio 2020)

20191201_153308

Marie Laure Colasson, Dissipatio fragmentorum, collage, Notturno, 30×30, 2010

Marie Laure Colasson

Tre mie poesie dalla raccolta inedita Les choses de la vie

Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea.

25.

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant

En flottant reviennent

Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven

Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères

Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses

Les perles se propagent sur les planètes
Astrocinématographique confusionnel

Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha

Eglantine défait sa robe aigue-marine

*

Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo

Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando

Galleggiando tornano

Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven

Tasti di pianoforte ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie

Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale

Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha

Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina

*

26.

Eredia trouve dans son sac crocodile une chaise
recherche du DNA

Larbi entre dans les parenthèses
présence du vide

Ciseaux et couteaux à l’horizon
un mocassin met son profil sur facebook

Mac Cormack ferme les interstices
tactique stratégie sans bureaucratie

Un nez regarde la chaise
un pied bat un rythme infernal

Les objets dansent avec frénésie
les condamnés réclament le silence

Orgie grotesque
vols planés de chaises ciseaux couteaux mocassins

Larbi s’assied dans le vide

*

Eredia trova nella sua borsetta coccodrillo una sedia
ricerca del DNA

Larbi entra nelle parentesi
presenza del vuoto

Forbici e coltelli all’orizzonte
un mocassino mette il suo profilo su facebook

Mac Cormack chiude gli interstizi
tattica strategia senza burocrazia

Un naso guarda la sedia
un piede batte un ritmo infernale

Gli oggetti ballano freneticamente
i condannati reclamano il silenzio

Orgia grottesca
voli planati di sedie forbici coltelli mocassini

Larbi si siede nel vuoto

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Edith de Hody Dzieduszycka POESIE da Cellule (Passigli Editori, 2014) “La questione del senso della vita”  “Unheimlich, il perturbante” “Un punto omega”; “Il treno che porta i deportati nei campi di sterminio nazisti” – Commento di Luigi Celi

cinema fotogramma

fotogramma film anni Settanta

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015,Trivella, Genesi, 2015, Come se niente fosse Fermenti, 2016; La parola alle parole Progetto Cultura, 2016. Dieci sue poesie sono state pubblicate nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016, pp. 352 € 18.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

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Commento di Luigi Celi

Cellule, di Edith Dzieduszycka, edito da Passigli, prefato da Stefano Gallo e Franҫois Sauteron, è un testo di poesie e un campo memoriale in cui, nota Sauteron, “non è necessario introdursi con effrazione”. Tuttavia nella sua scarna limpidezza, con versificazione verticale, dura, icastica, a cui non pone rimedio iconico l’enjambement, il testo scolpisce nel marmo delle pagine la drammaticità dell’esperienza, dominato, com’è, a monte, dal ricordo della morte del padre a Mauthausen, da quello della madre imprigionata e, certo, dal lutto per la perdita del marito. L’opera trascende l’esperienza del poeta e ci coinvolge. Ferite non rimarginabili partono dall’infanzia e governano, per freudiana “coazione a ripetere”, l’insistita rivisitazione allegorica del trauma, in uno sguardo sbarrato sulla storia e sul mondo. “L’ora del bivio” (p.63) è l’evento temuto e sempre rievocato della Weltanschauung di Edith – prospettiva e Ground luttuoso di ogni sua esperienza di relazione – crudamente comunicato con “Voglia di raccontarsi e desiderio di nascondere” (p.87). “Ianus” è “il doppio gemello obliquo” che crea maschere e trasparenze” (ivi), e come ogni double è Unheimlich, perturbante.

A partire da questo nucleo esperienziale e proiettivo, mnesicamente luttuoso, ma ambivalente nel suo porsi positivamente all’origine della scrittura, la poesia mostra il suo scenario tragico così che ogni elaborazione, ogni tentativo di convincersi del contrario è nuova trafittura dell’anima che fa sanguinare. Parlare della tragedia, a proposito di Cellule, non è andare fuori tema, ma cogliere il perno di tutta l’opera, la sorgente e la foce della versificazione. Tutto converge ad alimentare l’esperienza traumatica e quest’ultima, a sua volta, sta alla radice inconscia della tragedia. Parleremo dunque del tragico, perché non si può intendere questo libro se non si riflette sul tragico e perché, nella cultura contemporanea se ne è persa consapevolezza storica e filosofica. La poesia tragica e il teatro greco hanno posto alcuni cardini al tragico: uno è Ananke, la Necessità. Ananke non può essere oggetto di preghiera, perché non muta, essa governa uomini e dei. L’altro cardine è l’invidia degli dei per la felicità dei “mortali”; ancor più è castigo ineludibile la morte violenta e il dolore per la tracotanza (ybris) di coloro che “non stanno ai limiti”. La letteratura moderna, tranne in alcune eccezioni altissime – penso tra tutte all’opera di Shakespeare – non ha quasi mai inteso riproporre il tragico, se non nel “corpo cavernoso” del grottesco, gli ha preferito la commedia, e ancor più la parodia.

Oggi assistiamo alla volgarizzazione del tragico nel noir di cassetta, nel cinema horror, o all’insensata tracimazione di violenze esibite dalla televisione e dal cinema. In tutto ciò manca la Coscienza e il Pensiero del tragico. La poesia e i poeti come la Dzieduszycka possono farci recuperare questa coscienza, costringerci a riflettere. Se nel mondo greco il tragico ha fondo metafisico, nell’orizzonte ebraico cristiano, se pensiamo all’inferno, la tragedia è trasferita nell’eternità di Dio. Dove infatti starebbe l’inferno se tutto è in Dio?, “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”(Atti degli Apost. 17,28), e se fuori dalla sua volontà ogni esistente cade nel nulla da cui deriva? Tuttavia il Dio creatore, onnipotente e onnisciente, non prova invidia, è un Dio d’amore e di giustizia. Per la Cabbalàh luriana la creazione nasce dal volontario ritrarsi di Dio, il Tzimtzum; Dio, così facendo, fa il vuoto e da quel nulla crea. L’esistenza degli enti è ex nihilo e anche la libertà dell’uomo è possibile grazie al Tzimtzum. Ma è l’abuso della libertà, il tradimento del suo intrinseco tendere al bene, che rende fattibile il peccato e il male; anche questo è tragico, che il bene della libertà possa comportare il suo rovesciamento assoluto…  “Per invidia del diavolo, la morte è entrata nel mondo – scrive il libro della “Sapienza” -; Dio ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap. 2,23-24).

La questione del senso della vita – oscillante “tra un punto interrogativo/ e un altro punto interrogativo” (p. 117), scrive Edith – è ricorrente quando ci imbattiamo nel male. Si impongono da sé le domande: perché il male? Il mondo è creato da un Dio buono e onnipotente, o da un “regista/ oscuro/inafferrabile (…)/ dalla sua torva regia”? (p. 21). Qui ritroviamo un’eco Cartesiana: il “dio malvagio”, metodologicamente ipotizzato da Descartes nel “dubbio iperbolico”, che comporta la riflessione metafisica sull’idea di Dio da parte del filosofo e che lo conduce a rovesciare il dubbio nella certezza del Cogito, per cui Dio diviene il garante della Ragione matematizzante. Invece Edith canta il tormento metafisico dell’uomo tout court che “Si stupisce di non sapere/ si arrabbia di non capire/ piange/ si sente abbandonato/ perché Dio/ perché?”(p. 55). Il mondo è prodotto da un’evoluzione casuale, “antico giuoco/ sempre ricominciato/ duro cieco” (p. 37).

foto di Gianni Berengo GardinCi chiediamo se il suo andare per tentativi, per orrori ed errori non ci lasci sospesi su un baratro di sofferenza, per dirla con Leopardi e Schopenhauer, e quindi ci obbliga a tendere a “un punto omega”, a un porto di salvezza. Come è stato possibile l’ordine planetario, l’equilibrio dinamico che lo governa e che pur è innegabile, o la fisiologia dei corpi naturali e umani, a cui la stessa patologia ci riporta? Come è possibile l’uomo stesso, la civiltà, la cultura, la bellezza, l’aspirazione al bene, alla giustizia, in un mondo incivile, disumano, brutto, ingiusto? La contraddizione ci insidia, ma non ci impedisce di pensare, di operare, di lottare, di soffrire della nostra impotenza: “nudi/ patetici/ ci depone/ il mare/ su scogli inospitali… nel freddo gridiamo” (p. 23). il “grido” e le incalzanti domande coincidono con altre che riguardano sempre più radicalmente il “chi siamo noi, da dove veniamo, dove andiamo”. La crisi della metafisica, a partire dall’illuminismo, ha “gettato” l’uomo nel Dasein, ne ha fatto “un esser-ci per la morte”. L’esistenza dunque è soglia spalancata sull’abisso, sul nulla. Gli “dei sono fuggiti”, diceva Hölderlin; “Dio è morto”, gli fa eco Nietzsche; l’Essere, che non sia ridotto all’ente, come nella metafisica, secondo Heidegger, è obliterato.

Quest’ultimo filosofo si pone la domanda: “perché i poeti?”, e risponde che il valore della poesia consiste nel rendere possibile la domanda fondamentale sull’Essere, e ancor più nell’evocarlo, in contrasto al Ge-stell, all’imposizione della tecnica, e con ciò essa sola, il “pensiero poetante” riapre i “sentieri interrotti” dalla metafisica occidentale. … A meno che…, potremmo aggiungere noi, con la psicoanalisi – e ciò riguarda da vicino la poesia di Edith  – la ferita traumatica, non consenta più il Denken, il pensare autentico, né di scrivere poesia, come sosteneva Adorno, e tanto meno, nel “dopo Auschwitz – con Primo Levi – di “credere in Dio”…, e l’uroboros, il drago, il grande serpente si morde la coda e diviene protagonista. È questa la posizione tragica di Edith Dzieduszycka. Il suo canto e il suo grido, come quelli di Paul Celan, si dibattono nella “tetra tela”, ne “fili vischiosi” del “ragno invisibile” (p. 65), in una elaborazione coercitiva del lutto. Cambia pelle, Edith, come cambia pelle il serpente, ma non cambia la sostanza, il corpo doloroso della cosa. Edith depone “numerose/ le cellule morte della sua scorza”, nel “nascondiglio” segreto, nella “camera oscura”, nel “labirinto” dei propri versi (p. 31), ma l’uroboros, il drago,  l’ossessione traumatica che governa l’inconscio e la coscienza, ritorna su se stesso, “nel cerchio imperfetto” la cattura tra le sue spire, la rende tragicamente un tutt’uno con la coscienza lacerata del mondo.

Dalla “breccia” del cerchio si coglie solo “un azzurro vuoto”, fugge”ogni linfa” finché “giace/ solitaria/ una carcassa pallida” (p. 103). La vita è dunque per Edith quel “viaggio” infernale (p. 65 e p. 121-123), quel “percorso” (p. 69 e p. 121) e “traversata” (p. 121) che è un “cercare la chiave/ di porte/ sempre chiuse” (p. 57), in cui “non ci è dato scegliere” o sperare salvezza, “una porta miraggio” (p. 137), per quanto “Si protesero tutti/ verso un sogno/ un’idea di salvezza” (p. 139). Emblematica icona è il treno, nel bellissimo lungo testo poematico che inizia a p. 121, testo metaforico che ha grande forza rappresentativa. Il treno che porta i deportati nei campi di sterminio nazisti è simbolo della vita di ognuno, del “viaggio” senza destinazione e perché. Il linguaggio di Edith, in queste poesie, è quanto mai puntuto e tagliente, come si addice ad una rappresentazione dal vivo della sofferenza mortale dei deportati. Non riesco, perciò, a non rivisitare la domanda dell’Inno a Zeus dell’Agamennone di Eschilo, “soffrire per comprendere”, e a non chiedermi se essa sia riportabile alla ossimoricità del dolore e dell’orrore che abita questa raccolta. Come per Omero nell’Iliade, per Edith, l’”accecamento che rende insensati”, non è più “punizione della colpa”, ma è, come per il filosofo Paul Ricoeur, “la colpa stessa” e “l’origine della colpa”.

Edith Dzieduszycka da Cellule (2014)

Se da qualche parte
lontano
nascosto dalle nubi
qualche regista

oscuro
inafferrabile
contempla la scena ove
mosse dai fili inestricabili

della sua torva regia
effimere
vagano
strane marionette

forse si sta pentendo
del capriccio improvviso
che dando loro alito
ha socchiuso le porte

del recinto nel quale
prigioniere ancor
ancor inoffensive
ma pronte a muoversi

minacciose
frementi
aspettano
della recita l’ora.

.
*

.
Piangenti
fradici
fendenti aria e luce
senza fior
né pugnale

né memoria futura
della mano amica che
d’un taglio pietoso
la nostra barca
libera

nudi
patetici
ci depone
il mare
su scogli inospitali

isole brulicanti ove
a bocca aperta
polmoni dispiegati
nel freddo
gridiamo.

.
*

.
Lavagne immacolate

sulle quali all’istante
terreno vergine
violato subito

calano cifre lettere
s’incollano etichette
s’attaccano piastrine

si tracciano confini
s’infilano divise
volano volantini

a milioni si spargono
per non capirsi
parole

consumate dal tempo
che di nuovo
belanti nudi patetici

al niente ci riconsegna.
*
Ad ognuno
subito

il suo bagaglio
nascondiglio
camera oscura
ripostiglio segreto
labirinto solitario

dove a poco a poco
deporre
numerose
le cellule morte
della sua scorza

incrostazioni
scarti
peccati
rifiuti
altri residui

del suo terrestre corso
che senza quei pozzi fondi
ove poterli buttare
sprofonderebbe
sotto un peso

di grave densità
d’intensa gravità.

bello Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the 1

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the

A miei figli
Pesci rosa e lisci
senza lische né scaglie
nel mio grembo guizzati
una notte di luna

pinne minute dita
bussando all’improvviso
alle tese pareti
della conca profonda

alghe del mio giardino
seminate in segreto
tale dono imprevisto
all’ombra del mio seno

viaggiatori diretti
ormai senza ritorno
a varcare il Cap Horn
di mari sconosciuti

al tocco di primavera
a mezzanotte estiva
con forza proiettati
voi foste nella luce

fuori dall’antro chioccia
con grida lacrime
nel sangue d’una madre
e del mare il sale

a voi soli ormai
la sbarra
il timone
la bussola
le stelle

per una scia unica
solitaria avventura
dell’ancora da lama
reciso il cordame.

*

Gli amanti d’una volta
hanno la schiena stanca
dal peso di tanti abbracci
sospesi ai fili
tesi
della memoria

spalla contro spalla
in silenzio
lentamente
camminano
su sentieri segreti
paralleli

qualche volta
raramente
si girano
sorpresi
sfogliano degli album
sfiorano delle foto

non eravamo male
ci piacevamo tanto
sulle ombre tenue
di bersagli trasparenti
hanno occhi rovesciati
gli amanti d’una volta.

.
*

Cera molle sulla quale
non scriveranno più
tiepido tra di loro
s’insinua il silenzio

vaga distesa bigia
ove ondeggia
fragile
un’ombra di tenerezza

filamenti perlati
ancora sulle pelle
luccicano
tracce d’antichi giuochi

s’inarcano le bocche
quando strascicano
torpide gocce
parole anodine

e si scava il solco
ove s’interranno
brandelli
nebbia leggera

sudario di ore colte
ai giardini d’estate.

.
*

Si erige una porta
e stupita
la carne
ricorda oceani
e fiumi dilaganti

quando lontano
tremano
dormienti superficie
sulle quali ostinato
vibra un soprasalto

sopra pianure arse
dal vento abbandonate
si allungano solchi
che nessun soffio
attizza

spiraglio ora socchiuso
avanza un’ombra
fredda
a coprire il rumore
d’un convoglio in partenza

cacciando a tastoni
nel sonno prossimo
sfumature e contorni
in quell’attesa grave
sull’orizzonte spento.

cinema mani

Si stupisce di non sapere
si arrabbia di non capire
piange
si sente abbandonato
perché Dio
perché?

equilibrista
senza bilanciere
cammina
sopra stretti sentieri
per strade sconosciute
tra fondi precipizi

così s’inventa
cordami
parapetti
versetti
litanie
ai quali aggrapparsi

dèi a lui somiglianti
dai molteplici volti
d’amore
di perdono
divinità voraci
di offerte mai sazie

a tratti si rivolta
più spesso si rassegna
impotente e rinuncia
a cercare la chiave
di porte
sempre chiuse.

.
*

.
L’ora del bivio

la sapremo riconoscere
incolore
sornione
quando più numerose
sono le cose
che non c’importano
di quelle seducenti che
un tempo ci turbavano?

l’ora del bivio

la sentiremo suonare
prima impercettibile
leggera un soffio appena
espirato al quadrante
dell’orologio infallibile
tocco ben presto stridulo
imperioso richiamo
alle nostre carcasse
tremolanti e grigie?

.
*

.
Nell’intrico tracciato
fra gli squarci
sugli infimi raggi
vibranti di rugiada
si ferma
il nostro viaggio

insensibili ciechi
insetti derisori
dai sussulti mortali quando
rinserra la mossa minima
lungo fili vischiosi
la rete che ci avvolge

paziente immobile
nascosto in un angolo
il ragno
invisibile
di quel lauto festino
assapora l’attesa

presto potrà saggiare
la preda tant’agognata
pronta a soccombere
nella trappola tesa
dalla sua tetra tela.

Edith Dzieduszycka La parola Cop

Sulla riva dei tuoi sogni
approda una galera
vele estenuate
dopo lontani viaggi

d’una linea imprecisa
tra orizzonti e sensi
leggera
scivola
e scava una faglia
se poca la difesa

sprofonda tra le ossa
lungo canali oscuri
perigliosi e profondi
che percepisci appena
nella penombra blu
della sua scia tomba.
Edith Dzieduszycka Come_se_niente_fosse_
Archi sospesi
d’un ponte imprevedibile
frecce sparpagliate
dall’ignoto percorso

impreviste banali
temute forse sperate
alcune scadenza
sulla schiena dei giorni

a cavallina giocano

pulci insopportabili che
che sulla pelle lasciano
il rigonfio osceno
di un avido morso

e fedeli punteggiano
la strana partizione
da ampia sinfonia
a mesto ritornello.

.
*

.
Voglia di raccontarsi
desiderio di nascondere
dilemma senza risposta
alle intime mosse
della nostra essenza

Janus
figura d’ombra
come l’altra di luce
doppio gemello obliquo
sparso quanto segreto

maschere trasparenze
per celare ferite
che alla luce
libere
si tenta di guarire

duri blocchi di lacrime
che diamanti aguzzi
si tenta di tagliare
e regalare a chi
li saprà cogliere.

Alterna oscillazione
fuga
sottomissione
resa o
rifiuto

a meta strada pendolo
d’un incerto orologio
sul quadrante del quale
si contano febbrili
alcune ore nude

mentre senza più voce
straziate tacciono
le loro sorelle
sull’altra riva
andate.
*

Edith  Dzieduszycka  cinque-cinq

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Nel cerchio imperfetto
s’è aperta una breccia
e gli occhi interiori hanno mosso
lo sguardo verso un azzurro
vuoto
vibrante di silenzio

da quella faglia
lenta
a poco a poco
sono fuggite

la scorza
e poi la linfa
fuggite nella penombra
ove giace
solitaria
una carcassa pallida.

.
*

.
Futuro
presente
soprattutto
passato
degli antenoi nati
eterna trinità

dovrebbe pure
la mia anima
– ma si è rifiutata –
di qualche briciola
il ricordo
serbare

perché
senza memoria
né coscienza di sé
un giorno non un altro
scattò la mia scintilla
da uno strano niente

anime senza vita
prima di noi andate
avete forse scoperto
in quale dove sta
il raccordo celato
il passaggio segreto?
Edith Dzieduszycka cop Cellule
Si dibatte
l’io mio
si gira
e rigira

nel cavo più profondo
dell’introvabile letto
che lo stringe e trattiene
qual fodero la spada

vorrebbe volar via
verso verdi contrade
senz’odio
né memoria

ove leggero stendersi
e librarsi sereno
al di là delle ruote
dei roghi delle forche.

.
*

.
Del più o meno breve intervallo
tra un punto interrogativo
e un altro punto interrogativo

qual è il più bizzarro
l’intervallo
nostra strana presenza?

la nostra lunga assenza
passata e
futura?

ad intervalli me lo chiedo
ma fino alla fine del giorno
ostinato rimane

il punto interrogativo.

.
*

Viaggio
percorso
traversata
la vita
nel tempo epoca
nello spazio luogo

non ci è dato scegliere

neonati incoscienti
saliamo o piuttosto
veniamo accatastati
sul treno che ad un punto
arbitrario o no
arriva
ci si ferma davanti
in quel momento
nella stazione
di quella contrada

entriamo nello scompartimento
e scopriamo compagni
di viaggio che come noi
si trovano lì
in quel momento
su quel treno
fermato in quella stazione
non li possiamo scegliere
come neanche loro

ci dobbiamo conformare a
lingue credi usanze
che ci hanno lasciato
i tanti saliti prima
e già scesi ieri
o tempo fa
lingue credi usanze
che diventano nostri
ci sembrano ovvi
gli unici possibili

ci stupiamo perfino se altri
saliti in stazioni più lontane
precedenti o successive
non li condividono
se si conformano e adottano
lingue credi usanze
che ci sembrano strani

spesso vogliamo imporre i nostri
spesso pretendono
altri d’imporci i loro
il viaggio allora diventa terribile
succedono scontri
il treno costeggia precipizi
penetra dentro buie gallerie
dalla lunghezza imprevedibile

a volte si ferma nella neve
lanciando sbuffi di fumo
che appestano il cielo
numerosi quelli buttati giù
lungo le scarpate
che non si rialzano

altri tentano di riparare
ingranaggi e scambi
il treno allora riparte
verso altre stazioni
sempre ignote
nessuno sa gli orari
non ci sono cartelli
né destinazione
né tempi di percorrenza
possiamo soltanto dal finestrino
guardare il paesaggio
che davanti agli occhi si srotola
sempre uguale eppur diverso
desolato o splendido

possiamo anche chiudere gli occhi
per non vedere più
ma il paesaggio sfila lo stesso
e il treno ci porta
insieme nella notte
verso quello che
senza pensarci
senza capirlo
flusso inarrestabile
siamo soliti chiamare
caso o destino.

luigi celi

luigi celi

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, (Scettro del Re, 2000); I versi dell’Azzurro Scavato (2003); Il Doppio Sguardo (2007); Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line).

È del 2014 un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa Progetto Cultura, 2016

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su Hebenon, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (2002; La nuova poesia modernista italiana (Edilet, 2010); Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, (Scettro del Re, 2002); Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo (2007). Hanno scritto di lui tra gli altri: Domenico Alvino, Lea Canducci, Antonio Coppola, Philippe Démeron, Luigi Fontanella, Piera Mattei, Roberto Pagan, Gino Rago, Arnaldo Zambardi. Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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