Ewa Tagher, polittico, Interferenza, Le mie poesie sono errori di manifattura, Commento di Giorgio Linguaglossa, L’Io non è più padrone in casa propria

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Ewa Tagher, trapezista presso il circo di Lubiana (occasionalmente si occupa anche di riassettare le gabbie dei leoni e dei dromedari). Spesso viene inviata dalla famiglia Dzjwiek, proprietaria del circo, alla ricerca di curiosità esotiche e fenomeni da baraccone.

Ewa Tagher
Intento poetico

ho raccolto residui di cuoio, di cui si è sbarazzato il mastro calzolaio dopo aver sapientemente realizzato un paio di mocassini. I pezzetti di pellame sono bizzarri da rielaborare, sfuggono a qualsivoglia volontà di dar loro una nuova forma: ognuno ha già caratteristiche proprie. Nessuno è simile o uguale all’altro. Perciò mi sono limitata a collezionarli e a provare a dar loro un’identità. Di certo vi è che nessuno di loro ha dignità di diventare calzatura: qualcuno è uno scarto di lavorazione, un altro è un tentativo venuto male, un altro ancora semplicemente un errore. Le mie poesie sono errori di manifattura.

Ewa Tagher Brigida Gullo dagherrotip

Ewa Tagher

Le mie poesie sono errori di manifattura

INTERFERENZA 1

“Campo 1 chiama Campo 2
… Campo 1 chiama Campo 2”

Anni a giocare a nascondino con i figli.
Sorry, l’indirizzo di posta non è più valido.

D. “Cosa ha provato nel momento della sua dipartita?”
R. “Qualche turbolenza. Poi un atterraggio perfetto.

“Campo 1 chiama Campo 2
Mi senti Campo 2?”

ANN. “Scambio una famiglia felice con un turacciolo di rosè”
fa eco Salmace, ancora avvinghiata a Ermafrodito.

“Qui Campo 2, ti sento forte e chiaro!”
una fetta d’anguria contro l’eclissi di sole.

Chi ha invertito i gemelli? Una ninfa, passata col rosso.
Non è un caso, che i biglietti in prima fila imparino subito a parlare.

“Pronto Campo 2, occorrono generi di prima necessità!”
La vicina si affaccia e accarezza la ringhiera. Poi fa visita al selciato.

D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?”
R. “ Lasciare sempre libere le vie di fuga”.

Il rumore di sottofondo somiglia alla facciata di Villa Chigi.
Sofonisba Anguissola imita spudoratamente la Abramovic.

“Qui Campo 1. Abbiamo solo merletti e altre oscenità. Arrangiatevi.”
“… dateci almeno uno spago per rifinire le cuciture del vascello fantasma!”

D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?
R. “Sono libere le vie di fuga?!”

N.B. Attenzione all’utilizzo di lampade a forfait.
L’abuso potrebbe ridurre l’importo calorico del film.

SCRIPT 1

PPP Angelo accasciato sulla tomba di Emelyn Story.
Totale di Mnemosine che reca in mano le istruzioni per la defunta.

Mn.“ Quando sarai giunta negli inferi, non accontentarti
di bere alla prima fonte, ma cerca l’acqua degli iniziati”.

SCENA 1. Interno giorno. Sala da pranzo apparecchiata.
CORREZIONE. Sala da pranzo con tavolo a tre gambe, spoglio.

E.Story: “Son figlio della Greve e del Cielo stellato,
di sete son riarso e mi sento morire: ma datemi presto
la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosine”.*

SCENA 2. NOTTE. Dai vicoli dietro la Basilica di Massenzio,
odore di cenere, effetto fumo, a tratti luci strobo.

Dalla regia fanno notare che l’ultimo piano sequenza
ha portato la produzione sull’orlo del fallimento.

Mn. (FUORI SCENA) “Sono stanca di questa pagliacciata,
datemi un copione sull’archeologia del domani.”

(APPLAUSI CLAQUE)

* iscrizione su lamina orfica di Hipponion (IV secolo a.C.)
Mn. = Mnemosine

Giorgio Linguaglossa
«L’Io non è più padrone in casa propria»
(Osip Mandel’stam)

Per chi l’abbia dimenticato, da questa frase di Osip Mandel’stam nasce negli anni Dieci l’acmeismo russo come reazione al «laboratorio di impagliatura» del simbolismo. Ecco, io penso che da questa frase di Ewa Tagher: «Le mie poesie sono errori di manifattura», nasce la nuova ontologia estetica come reazione al «laboratorio di impagliatura» della poesia italiana di oggi.
Errori di manifattura, errori di cucitura, pellami scuciti che il «maestro calzolaio» ricuce e riadatta alla «nuova calzatura» conferendole nuova «identità». Mi sembra che la «trapezista presso il circo di Lubiana» abbia compreso perfettamente qual sia oggi la posta in palio, qui c’è di mezzo il ribaltamento del tavolo di gioco su cui ha sonnecchiato la poesia italiana delle ultime decadi, il cambio di paradigma, una nuova fenomenologia estetica adatta ai nuovi tempi del sovranismo, del populismo e delle DemoKrature. In una parola: la nuova poesia che nasce dalle ceneri del modernismo europeo. La poesia di Ewa Tagher si popola di «oggetti bizzarri» che denotano «l’alterità intima del soggetto», la de-soggettivazione del soggetto e la de-oggettualizzazione dell’oggetto. «L’io non è più padrone in casa propria» ed ha deciso di uscire a prendere un po’ d’aria fresca e a passeggiare per le strade affollate di Lubiana.

La Crisi del Soggetto

ha avuto qualche conseguenza sulla poesia italiana delle ultime decadi? Questo è il problema. Io penso di no. La crisi del soggetto non è stata recepita dalla poesia italiana del tardo novecento che continua ad avallare un modello normativo monadico ormai del tutto invalido ed inidoneo alla rappresentazione del simbolico della nostra epoca.

Il «cogito ergo sum» di Cartesio viene rovesciato da Lacan nel monito «penso dove non sono, dunque sono dove non penso». Il diffondersi di questa concettualizzazione non-lineare della rappresentazione avrà eco in tuta la produzione culturale del Novecento. La rivoluzione copernicana cominciata da Freud prosegue rivelando un profilo modellato dai segni del registro Simbolico. La divergenza tra il Reale e il Simbolico escogitata da Lacan è uno dei concetti che sono restati alieni alla poesia italiana del secondo novecento. Un vuoto di ricezione culturale che ha contribuito alla provincializzazione della poesia italiana. Lacan mette al centro della sua indagine le intuizioni della linguistica, ibrida psicoanalisi e strutturalismo, per sottolineare la priorità logica del significante nella vita psichica, aprendo così, di fatto, ad un intenso dibattito nella scena intellettuale europea del secondo novecento, ma la poesia italiana si dimostrerà incapace di apertura culturale e preferirà soggiornare pigramente a ridosso della direttrice della poesia epigonica ed epifanica promossa a pieni voti da Contini, quando già la poetica epifanica di matrice continiana era in via di esaurimento.

«L’Io non è più padrone in casa propria»

L’aveva già scritto Osip Mandel’stam nel saggio Sull’interlocutore, degli anni Dieci del novecento. L’ombra dell’inconscio si allunga definitivamente sul mito della Ragione. Lapsus, sogni e atti mancati giungono a interrompere la continuità dell’Io e a mettere in discussione l’integrità monadica della sua sostanza. L’arte del novecento accuserà il colpo. In specie, la pittura e la cinematografia, saranno pronte a recepire questa gigantesca problematica, in particolare la non linearità temporale e spaziale di ogni forma di rappresentazione artistica. È mia opinione che la poesia italiana sia rimasta attardata e invischiata negli scogli della monadicità dell’io e del discorso dell’io panottico e plenipontenziario. Disincagliarla da questi scogli dovrà essere il primo obiettivo della nuova poesia se vorrà sopravvivere come genere artistico negli anni futuri.

Dentrificare il Fuori e Fuorificare il Dentro

La nuova poesia dovrà prestare attenzione alla necessità di Dentrificare il Fuori e Fuorificare il Dentro, individuare una struttura frastica e topologica che consenta questa complessa operazione, che trova il suo corrispondente analogico nel concetto lacaniano di extimité.

L’extimité è quel “territorio straniero interno” (nelle parole di Freud)  che viene reso da Lacan con il neologismo estimità – termine che include sia esteriorità che intimità – che contrassegna specificatamente l‘ «alterità intima nel soggetto». Il nastro di Möbius, enigmatica figura topologica composta da un solo lato e un solo bordo, diventa metafora dell’extimité, volto a rappresentare la disgregazione dei bordi e dei confini che raffigurano l’umano. Similmente, il concetto bioniano di mente estesa ci invita a pensare a una psiche che si espande «fuori dalla sua calotta cranica», comprendendo relazioni, gruppi, spazi e ambienti. Non a caso secondo Bion gli individui possono agire nelle relazioni delle vere e proprie trasformazioni geometrico-topologiche dei loro vissuti psichici: i materiali mentali vengono proiettati fuori dai confini del corpo – come nelle identificazioni proiettive –e gli spazi possono riempirsi di «oggetti bizzarri», composti allucinatori proiettati nel campo psicofisico. Lo stesso statuto dell’oggetto in Lacan subisce un ribaltamento, facendo crollare il dualismo classico soggetto-oggetto. Infatti, nell’insegnamento dello psicoanalista francese, l’individuo emerge costruendosi attorno a un buco (la mancanza) lasciato dalla perdita della Cosa (Das Ding), il mitico stato di fusionalità primordiale con la madre. Ma questa Cosa perduta lascia una traccia, un resto che si inscrive sotto la forma dell’oggetto piccolo (a), elemento Altro ed esteriore rispetto al soggetto.

18 commenti

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18 risposte a “Ewa Tagher, polittico, Interferenza, Le mie poesie sono errori di manifattura, Commento di Giorgio Linguaglossa, L’Io non è più padrone in casa propria

  1. Alcune considerazioni.

    1) Ewa Tagher maneggia il linguaggio non come un possedimento privato ma come una scorporazione, un non-possedimento;
    2) inoltre, la Tagher, la cui professione è quella di «riassettare le gabbie dei leoni e dei dromedari», sa bene che il mestiere di poeta è ben lontano da quello del domatore di tigri, il poeta deve limitarsi a cogliere il factum loquendi così come sorge, nel momento sorgivo dell’enunciazione.
    3) Infine, apprezzo la struttura domanda-risposta del poemetto e il distico che costringe al massimo l’assiomaticità degli enunciati, elementi questi tipici della nuova ontologia estetica, con scansamento degli attanti pleonastici e degli aggettivi esornativi e decorativi.
    4) Last but not least, mi sembra che la Tagher abbia le idee lucide anche a riguardo a ciò che la poesia deve essere, cioè una archeologia del futuro:

    Mn. (FUORI SCENA) “Sono stanca di questa pagliacciata,
    datemi un copione sull’archeologia del domani.”

    Ex post.
    L’atto estetico coincide con l’atto della polis, quindi è un atto politico. Questo è l’elemento decisivo di questo tipo di scrittura che abbandona per sempre la categoria dicotomica di continiana memoria: monolinguismo e/o plurilinguismo, di provenienza pascoliana; la nuova poesia ripone nel museo delle rigatterie queste antiche categorie estetiche e le sostituisce con la categoria del «discorso poetico» e con la presa d’atto della «fine del modernismo» europeo. Mi chiedo: si può essere più chiari di così?

    Penso, convalidando la posizione di Ewa Tagher, che dobbiamo cominciare a pensare alla poesia come ad una «archeologia del futuro», una «archeologia dell’inappariscente»; non intendo per «inappariscente» una fenomenologia di ciò che non è velato come svelatezza, ma, una vera e propria «archeologia dell’impossibile», di ciò che altrimenti rimarrebbe non-visibile. In fin dei conti è questo lo scopo dell’arte, quello di rendere visibile l’inappariscente.
    Con queste poche righe penso sia chiaro che qui siamo lontanissimi dalle categorie continiane che hanno formato le linee guida della poesia italiana del novecento: linea innica e linea elegiaca. Qui, veramente, occorrono altre categorie.

    Io non so nulla della mia essenza se non vivendo, se non attraverso l’esistenza. Il che equivale a dire che io non so nulla della mia essenza se non tramite l’assenza. L’essenziale è l’assenziale, ciò che non è qui ma che sarà nel futuro. L’essenziale quindi è il progetto della mia vita per il futuro, è la mia vita vista dal punto di vista del futuro.
    Che cosa ci vuole dire Adorno quando scrive: «Non si dà vita vera nella falsa»,1 «La vita è diventata l‟ideologia della propria assenza»?2 Per il pensiero critico dialettico non è criticamente accettabile parlare di «vita» senza affiancare a questa parola i due aggettivi: «vera» e «falsa», perché entrambi sono coessenziali per determinare il grado di essenza della nostra vita. Il concetto di «vita» rimanda sempre alla dialettica tra la «vera vita» e la «falsa vita». L’esistenza è nel mezzo tra questi due poli della «vita», sballottata ora qui e ora là, tra la presenza e l’assenza, tra «falsa coscienza» e «vera coscienza». L’esistenza è incessantemente presa nel vortice di queste contraddizioni insormontabili, le contraddizioni che fondano la dialettica e che la dialettica ripresenta tali e quali ad un grado più alto e profondo del loro svolgimento. È la dialettica dell’immobilità se non intervenisse l’azione a strappare il velo della dialettica e a gettare l’uomo nel futuro del suo progetto di vita. L‟aforisma di Minima moralia che recita Das Ganze ist das Unwahre («il tutto è il falso») è il rovesciamento di un noto passo della Fenomenologia di Hegel: «Il vero è il tutto [Das Wahre ist das Ganze]

    Th. W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970 e sgg., vol 4 (d‟ora in poi GS seguito dal numero del volume), p.90 [Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1994, p. 87]
    2 Ibid., p. 43 [p. 35].

  2. Giuseppe Gallo

    Afferma Giorgio Linguaglossa, ricordando Bion, che spesso “i materiali mentali degli individui vengono proiettati fuori dai confini del corpo… e gli spazi possono riempirsi di <> e composti allucinatori proiettati nel campo psicofisico…” , mi sembra che questo sia il presupposto del linguaggio di Eva Tagher. La poetessa evidenza nei due componimenti, “Interferenze1” e “Script1”, ciò che è rimasto in lei della nostra comunicazione quotidiana, mettendo in scena ciò che dovrebbe restare (FUORI SCENA) e ripropone dubbi e domande:

    D. “Cosa consiglia a chi ha paura di morire?
    R. “Sono libere le vie di fuga?!”

    Dalla regia fanno notare che l’ultimo piano sequenza
    ha portato la produzione sull’orlo del fallimento.

    Perché anche in questo risiede la questione! Nei nostri interrogativi. Nelle nostre pause di fronte ad eventuali domande. In questi spazi vuoti susseguenti alle parole…
    Leggevo in questi giorni un post di Lucio Mayoor Tosi poneva la questione delle domande in poesia.

    “Il punto di domanda è piuttosto raro in poesia. In poesia le domande sono sempre assertive, e non vi è dubbio che si preferisca la grazia delle risposte. Ma è altrettanto vero che gran parte del mistero – e il fascino – di tante poesie sta nell’apertura che si crea con la domanda; è in quella inguaribile sospensione che si affaccia il vuoto, quindi l’attesa…” ( L.M.Tosi, L’Ombra delle parole, 17 dic. 2019)

    Eva Tagher, trapezista, volteggiando nell’aria, ha cominciato ad assaporare l’attrazione “inguaribile” della sospensione sull’orlo del vuoto…
    Le domande di fondo che ripercorrono i suoi testi sono rivolte
    a tutti. In primo luogo a se stessa. Ecco dove sta il quid di ciò che chiamiamo poesia! È in questa pausa che interroga le inquietudini degli umani e l’impassibilità degli oggetti. Pausa che si scosta dagli sguardi degli spettatori del circo e attende…

    Cosa? Un’immagine! Un’immagine che riporti sulla scena dell’esistenza quello altrove indicibile, imago di un deserto punteggiato da oasi noumeniche. E ciò che colpisce è che nell’attesa di questa immagine Eva Tagher non si straccia le vesti, non lacrima, non grida alla paralisi del dolore, all’innocenza perduta, all’io defraudato da se stesso. No! La sua è una pausa deprivata di suggestione lirica, di qualsiasi compiacimento eufonico e retorico. Da notare la desertificazione aggettivale presente nei suoi testi.
    Ma si può fare poesia con gli scarti, con i residui del cuoio, già trinciato, del mastro calzolaio, come vorrebbe Eva Tagher?
    Abbiamo noi, forse, altro? Grandi ideali? Teorie conclusive? Soluzioni finali? No! Abbiamo solo ideologie già disfatte e una comunicazione mediatica che pullula di schiume e di rifiuti. Abbiamo solo rimasugli, spazzatura e stracci, direbbe Gino Rago, ed è con questi brandelli, tarlati, urticanti e tossici, che dobbiamo confrontarci. Eva Tagher lo ha capito così bene che ne ha fatto un intento programmatico, come ha ribadito Linguaglossa. E allora?
    Allora Eva Tagher, tra un balzo e un controbalzo negli spazi enfiati dei nostri tempi, non può concludere i propri volteggi che atterrando, come tutti noi, sempre e comunque, su un “tappeto di ortiche”!

  3. tiziana antonilli

    I testi di Ewa Tagher sono preziosi, non mi è bastato leggerli una volta, producono godimento razionale e sensuale. Mi piace quello che scrive Giorgio Linguaglossa, l’io si concede una passeggiata lungo le strade di Lubiana. Forse perché ho amato e amo la Slovenia e le sue incantevoli città, forse perché ho studiato la lingua slovena e la cultura slovena, questi testi di Ewa Tagher mi parlano in maniera speciale, mi piacerebbe leggerne altri. Concordo con Linguaglossa, sembra di avvertire una ventata di aria fresca.

  4. gino rago

    Aggiungerei ai commenti lucidi e pertinenti di Giorgio Linguaglossa, Peppino Gallo, Tiziana Antonilli che precedono il mio, una cifra forse centrale in questa ben riuscita proposta poetica di Ewa Tagher (che mi ricorda certi altri tentativi riuscitissimi di un’altra Ewa, Ewa Lipska):lo scontro dialettico-ideologico fra distopia e utopia, scontro che inevitabilmente tira in ballo la necessità di impiego di un certo espressionismo linguistico volto ad esprimere compiutamente le dicotomie lo scontro distopico-utopico scatena.
    Nella dichiarazione di poetica di Ewa Tagher: “Le mie poesie sono errori di manifattura” perché i manufatti poetici derivano dall’assemblaggio di residui, di scarti, di avanzi dal mocassino del calzolaio si suggella irreversibilmente la distanza dai paradigmi poetici del ‘900 e del tardo ‘900. Ewa Tagher adotta due elementi tipicamente NOE: il parlato-dialogo e il porsi e porre domande.
    La chiamerei, come fu soprattutto per materia redenta di Marina Petrillo, e sulla scìa di certi lavori di Lars Gustafsson, di “Estetica della distrazione”.
    E per i fotogrammi che con l’occhio e l’arte del fotografo Ewa Tagher accumula immagine dopo immagine parlerei di “Poetica dell’istante infinito” ovvero l’adozione di quell’attimo in cui oggetti, elementi, persone sono in grado di irradiare una energia luminosa, una luce nella quale si “epifanizzano…”, come se Ewa Tagher dicesse al lettore: “Ho visto-scritto questo, guardalo-leggilo anche tu”, in una ebbrezza di con-divisione del veduto-scritto…

    (gino rago)

    • a proposito della poesia di Ewa Tagher parlerei anche di interferenze e di rumori di fondo che si intercalano e si intrecciano con una struttura elicoidale. Ovviamente vi si trova anche la formula Domanda e Risposta. Un’ottima e originale soluzione.

  5. gino rago

    Presentato al Caffè Letterario Il Mangiaparole di Marco Limiti, Via Manlio Capitolino 7/9, Roma, la sera dell’11 gennaio 2019, il N. 7 del Trimestrale di Poesia, Critica e Contemporaneistica “Il Mangiaparole”

    (Comitato di Redazione: Sabino Caronia, Giuseppe Gallo, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago).

    Art-director: Lucio Mayoor Tosi.

    Estraggo da Il Mangiaparole N. 7 (luglio/settembre 2019)
    la Rubrica la Post@ de “IL MANGIAPAROLE”
    a cura di Gino Rago

    Lettera alla Redazione n. 7
    Di fronte al dilagare di poeti e poetastri che ci sommergono di messaggi e di blog e, purtroppo, anche di carta stampata, mi viene il sospetto che la crisi culturale che viviamo dipende soprattutto dal fatto che la poesia ha perso ogni valore universale, cioè di messaggio rivolto al mondo. Lo vediamo anche dalla struttura dei componimenti: nessuno scrive più poemi (che hanno necessariamente un respiro profondo) ma solo poesiole di pochi versi, quasi dei flash! Quale è il problema secondo voi: è il mondo che è diventato troppo grande per essere compreso oppure è il poeta che si è fatto troppo piccolo e che, egoisticamente, preferisce rivolgersi in modo autoreferenziale a sé stesso?
    (Luigi da Pontremoli)

    Gentile Luigi da Pontremoli,

    di recente sulla rivista on line lombradelleparole.wordpress.com abbiamo proposto ad autori/autrici di versi questa domanda:

    – Quale poesia scrivere dopo la fine della metafisica?

    Alla questione posta nessuna/nessuno ha risposto. La mancata risposta è dovuta, io penso, al fatto che nessun autore di oggi si è rivolto questa domanda. Ciascuno si limita a fare quello che può: poesia corporale, poesia dell’io, poesia da talkshow, chatpoetry, poesia da rubinetto aperto, performance, etc. È ovvio che tutta questa roba non ha niente a che vedere con la poesia, ed è altrettanto ovvio che oggi si scrive una «poesia» sproblematizzata, tutt’al più si fa descrizione di un oggetto senza che si siano poste le questioni fondamentali della nostra esistenza, si tende a scrivere per bisogno corporale, fisiologico. Ma scrivere poesia non è affatto a parer mio un bisogno fisiologico come il mangiare, il bere o il gioco.
    È un’altra cosa, penso.

    Si è fatta e si fa poesia per linee esterne alle cose, come ad esempio in questa poesia di Roberto Carifi, da Amore d’autunno, Guanda Editore, 1998. Leggiamo.

    Grazie per la parola
    che ancora accendi nel mio cuore,
    per quel raggio che dal bene
    hai ricevuto in dono
    e che nel mio abbandono
    lasci che nasca
    come fosse grano in un deserto,
    per quella tua bellezza,
    per l’orma divina del tuo sguardo,
    per quella tua dolcezza che vorrei baciare
    come si bacia l’innocenza,
    inginocchiato davanti alla tua anima
    quando una lieve ombra
    la lascia affiorare sulla carne,
    per quello che chiami il tuo peccato,
    per il tremore che turba la tua voce
    quando mi dici l’indicibile
    e lasci l’impronta dell’amore
    in questo cuore arato.

    Ecco, questa è una poesia tutta pensata e vissuta lungo le linee esterne delle cose. Innanzitutto, la positura del poeta che ringrazia:«Grazie per la parola», dando per scontato ciò che scontato non è, cioè che la «parola» sia realmente avvenuta; e poi il tono da salmodia, di preghiera, con quel tanto di sottofondo di compiacimento dell’autore per essere stato visitato dalla Musa. Si tratta di una descrizione, ripeto, per linee esterne delle cose: la «parola» ricevuta per grazia et amore dei, il piano fonosimbolico che è della preghiera, più vicina alla liturgia religiosa che alla forma-poesia del Novecento. Infine, tutto quel parlare a vanvera tanto per colpire il lettore con parole altolocate: «bellezza», «anima», «peccato», «indicibile», «dolcezza», «innocenza», «abbandono», «baciare», «bene», «dono», «amore»… Tutto un repertorio di luoghi comuni del poeta buono che ha avuto in «dono» la «parola».
    È chiaro che qui siamo davanti all’ego dell’autore che deborda dagli argini dell’io «inginocchiato davanti alla tua anima» e invade il mondo con il proprio « cuore arato»…

    E ciò perché da anni autori/autrici di versi non si pongono le grandi domande, non si misurano con i temi del logos, del tempo interno, della metafora cinetica, del rapporto immagine/parola, del cerchio del dicibile, né si confrontano con la poetica dell’archeologo, dell’estetica della distrazione, della poesia come luogo di incontro di meditazioni attive e altro e altro ancora. Al di fuori di queste grandi questioni che versi vuoi che possano scrivere se non quelli dell’autoreferenzialità del proprio ego posto narcisisticamente al centro del mondo?

    (gino rago)

  6. Complimenti a Ewa Tagher. Ho apprezzato ogni balzo, da una fune all’altra. E mi sono anche divertito.
    Lo so, non è un gran commento, ma queste poesie non si possono sempre facilmente commentare. Mancano gli strumenti.

  7. Ewa Tagher

    Cari amici,
    grazie per aver fatto posto ai miei scarti. I miei lavori nascono da interferenze continue che affollano il pensiero lucido e mettono in discussione il senso del sè e dell’altro. Il continuo pormi domande, in fondo, non è altro che creare un’interferenza di pensiero, un continuo cortocircuito, volto all’annullamento del pensiero dell’Io. E’ solo in questa dimensione, che i materiali di risulta trovano la loro giusta collocazione, quando l’Io si fa da parte, si rivestono di dignità. La NOE e il mirabile lavoro di ricerca portato avanti sull’Ombra, hanno fatto da detonatore al mio atto di scrittura.
    “Il luogo dove siamo diretti
    non ci comprende.
    Conversiamo in lingue false”
    Ewa Lipska

  8. il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
    volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
    può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
    che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia

    (Vincenzo Vitiello)

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/14/dibattito-a-piu-voci-non-la-poesia-e-in-crisi-ma-la-crisi-e-in-poesia-alcune-questioni-di-ontologia-estetica-la-questione-montale-pasolini-alla-ricerca-di-una-lingua-poetica-tomas-transtromer/comment-page-1/#comment-19295

  9. gino rago

    Un nuovo tentativo di polittico in distici

    Gino Rago
    Il Signor L. scambia lo sgabello per un trono

    Brodskij a un giovane poeta:
    «Bisognerebbe avere la mano sinistra

    Su Omero, la Bibbia, Dante,
    I classici Greci e Latini

    Prima di impugnare la penna con la destra…
    L’invito vale anche per i mancini».
    […]
    Il Signor L. scambia lo sgabello per un trono:
    «E’ un trono vero, non è uno sgabello…

    E’ il trono della Regina-dei-cartoni
    a Via Marsala-Stazione-Termini…

    Ma qui non c’è un come.
    Non ci sono né un dove né un quando.

    Il significante qui non ha significato.
    Le parole non sono più in nessun contesto».

    Il Signor L.: «Mia Regina-dei-cartoni-a-Via-Marsala,
    Quale per te è il senso della vita…?»

    «Passare il tempo…En attendant Godot.
    Ma ieri non è arrivato, oggi non arriva …»
    […]
    Una foglia nuova su un albero.
    Vladimiro a Estragone:

    «Avresti dovuto essere un poeta».
    «Lo sono stato. Si vede, no?

    Non vedi gli stracci?
    Le mie parole sono state stracci».
    […]
    Religione-Arte-Poesia. Registri entanglati.
    Mescolamenti di silenzi e pause.

    Citazioni di teologia. Turpiloqui.
    Fili metafisici. Intermittenze ….»
    […]
    Morandi fa la corte alla Regina-dei-cartoni.
    A Via Marsala brocche, bottiglie,tazze.

    Il Signor L. di nascosto prega per un’ombra.
    La Regina-dei-cartoni-a-Via Marsala:

    «La vita …? Passer le temp
    En attendant Godot».
    […]
    Viale Ostiense. Una finestra. Una musica.
    Luigi Nono, forse.

    Un coro, una voce di soprano:
    «Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz.

    Il canto dell’arrivo. Il canto di Lili Tofler.
    Il canto della sopravvivenza».

    Una colonna di fumo verso Piramide Cestia,
    Una nuvola, tenebre per i carnefici,

    In fondo luce, salvezza dei sommersi.
    […]
    Beckett rimprovera Proust:
    « La tua memoria involontaria…

    Uccidi la Morte se uccidi il Tempo».
    Una stella sulla strada.

    Il Signor L. verso la grande casa tra gli aranci:
    «Chi sei?»

    «Flamurt, non sono più schiavo di Roma sulla trireme …
    Ho liberato me stesso dal dubbio.

    Gli schiavi sono al bar di Via Galvani…»
    Ewa Tagher fotografa un mocassino,

    Galleggia sul Tevere,
    Verso il mare racconta la sua storia.
    […]
    Tornare alla Origine.
    Al mito-poesia,

    Non al mito-in-poesia.

    (gino rago)

  10. Ewa Tagher

    Leggo l’Ombra da due anni e mezzo, quando ai margini di un’estate passata sulle spiagge della mia terra, Giuseppe Gallo mi invitò alla lettura. La prima impressione fu quella di essere risucchiata da un buco nero, una dimensione sconosciuta che non poteva che esercitare attrazione e timore.
    Non è stato facile comprendere subito la NOE, ma è stato inevitabile, perché nello stato di cose in cui ci troviamo a navigare, nel periodo storico e culturale che stiamo vivendo, è altrettanto impossibile non inciampare in stracci e rifiuti, le nostre strade, solo apparentemente d’asfalto liscio, altro non sono che acciottolati, vicoli aguzzi, ai lati solo cumuli di macerie. La NOE è stata la mia lente d’ingrandimento, la mia Lonely Planet del contemporaneo.

  11. Consiglio vivamente a chi non lo avesse visto, per i dialoghi soprattutto:

  12. Giuseppe Gallo

    Ewa Tagher ormai ha preso il volo. Noi che apparteniamo alla razza di chi è rimasto a terra non possiamo far altro che ammirarla, come suggerisce Tosi, mentre balza “da una fune all’altra”.

    Zona gaming 24

    Per la nostra doppia, tripla faccia
    che struccante è possibile?

    La bottiglia dell’olio nell’angolo in ombra.
    Gli occhi a macerare nella scatola cranica.

    Lilli non ha più volto. I denti sui sampietrini.
    La bocca aperta nel grido di ciò che sei stato.

    Una memoria liquida ingorga gli ingranaggi.
    La notte ospitata da anguille e delfini.

    Zona gaming
    …c’è sempre una spada sulla frontiera.

    Puntavi all’assenza del prossimo passo
    piegando gli occhi nel vuoto di sabbia.

    Ti sei accorta che veniamo
    da un brevissimo viaggio intorno al nulla?

    Non ci sono più bambole da travestire.
    Forse bisogna essiccare qualche parola.

    Zona gaming
    … si amavano le strade…

    “Se vuoi tre giorni, puoi comprarli” (D. Laferrière)
    Il tempo si sconta dentro un lampo laser.

    Siamo sul sentiero di chi piange per un robot.
    I gatti di plastica soffice.

    I cagnolini elettronici scodinzolano
    tra le gambe delle bambole sexy.

    Altre escrescenze carnose e piumate.
    Il mondo nuovo sulla memory card.

    Zona gaming
    …cos’è questa? Realtà?

    (Giuseppe Gallo)

  13. La visita.

    E’ passato di qui un momento Tranströmer.
    Gli ho chiesto una poesia da leggere.

    Gli ho raccontato del baccano che sento.
    So leggere. E’ solo disgiunta anomalia

    del giro addormentato in grembo al nulla
    che porta via, gli ho detto.

    (May gen 2019)

  14. Detonare con una semplice aggiunta di succo di limone, il resto una pausa, la quarta parete

    insieme alle Cassandre immobili.
    Semplici inquilini rimessi nelle loro

    stanze ammobiliate, con le teste
    accanto, sedute impagliate,

    divenendo jingle,
    un prurito fastidioso nelle parti intime.

    Grazie OMBRA

  15. Infondo la poesia è la forma esatta della provocazione. La forma pura della provocazione.

    “Zona gaming”

    Abbracci.Grazie OMBRA.

  16. https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/01/28/ewa-tagher-polittico-interferenza-le-mie-poesie-sono-errori-di-manifattura-commento-di-giorgio-linguaglossa-lio-non-e-piu-padrone-in-casa-propria/comment-page-1/#comment-62796
    Adesso l’Elefante s’è fermato.

    Quello che mi colpisce e mi sorprende leggendo innumerevoli prefazioncelle dei libri di poesia editi è l’assenza totale di inquadramento storico critico e stilistico, nonché l’assenza totale della messa a fuoco della Crisi e delle cause della crisi della poesia italiana. Questa cautela, anzi, direi questa ipocrisia profonda tradisce nella sostanza la paura, anzi, la non-volontà di dire qualcosa che possa suonare come una nota stonata.

    L’elefante sta bene in salotto, rompe le suppellettili, fracassa i piatti di porcellana e i bicchieri di cristallo, ma tant’è, si fa finta di non vederlo, così si può sempre dire che non c’è nessun elefante, che i bicchieri sono a posto, le teche di cristallo anche, le suppellettili anche, che la poesia italiana gode di buona, anzi, ottima salute, che non c’è niente da cambiare, che la poesia da Omero ad oggi non è cambiata granché, che da quando mondo è mondo la poesia è sempre stata in crisi… ed altre quisquilie consimili. A me qualche volta mi dicono persino che la butto in filosofia, come dire che il mio filosofese è il riparo perché non ho niente da dire. Ed è vero, non ho niente da dire dei compitini poetici che si redigono oggi.

    Come dire. A me sembra che la poesia italiana che si fabbrica in giro non abbia veramente nulla da dire perché evita accuratamente e con tutte le proprie forze di vedere l’elefante che passeggia in salotto e con la sua proboscide fracassa tutto ciò che c’è da fracassare.
    Ma, paradossalmente, adesso l’elefante si è fermato, è rimasto disoccupato perché non c’è più niente da fracassare, perché è già stato fracassato tutto.

  17. Ora la lettera è in mano al censore. Egli accende la lampada.
    Le mie parole scattano alla luce come scimmie su una grata,
    si scuotono, si fermano e mostrano i denti!
    (T. Tranströmer)

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