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Franco Cordelli, A proposito della Antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli – Poesie di Mario M. Gabriele da  Astuccio da cherubino (1978),  a cura di Giorgio Linguaglossa

Una nota personale di Franco Cordelli

L’Antologia Il pubblico della poesia (1975)

 Quante volte ho raccontato questa storia? Temo più d’una. Ma poiché la ripeterò per una ragione oggettiva, la ristampa de Il pubblico della poesia, spero sia l’ultima.

I problemi sono due. Perché sentii la necessità, chiamiamola così, di compilare questa antologia? Perché oggi, a distanza di quasi trent’anni, la si ristampa?

Potrei rispondere in tre modi.

  1. È stata spesso scambiata per una specie di mania la mia ansia classificatoria. Naturalmente si tratta di una faccenda complessa. Se lasciamo che nei nostri cassetti si accumulino carte, biglietti, lettere, “oggetti desueti”, ecc., il giorno in cui ci capiterà di rimetterci le mani, saremo pieni di orrore. Il passato ci invade l’anima come puro feticcio, come non senso. L’archiviazione, la catalogazione sono il minimo consentito, se non per il riscatto di quegli oggetti (che invero sono tutti psichici), per la loro stessa trascendenza. Inutile aggiungere che la poesia – la concentrazione, il distillato di ciò che lentamente si accumula nel fondo di qualcosa – sarebbe il massimo di trascendenza possibile. Che fare quando i propri oggetti sono precisamente le poesie di tutti gli altri, qualcosa che per definizione si situa, di fronte alla coscienza individuale, a metà strada tra la dimenticanza e la luce, di mezzogiorno o di crepuscolo non importa? È da qui che nacque Il pubblico della poesia. Questo fu uno dei primi impulsi.
  1. Nel 1975 il dominio dell’ideologia avanguardista era allo stremo. Ma non lo si capiva affatto. Era anche nel momento di massimo dispiegamento della propria forza. Ho detto forza e non energia. Tutta l’energia s’era volatilizzata. Il senso di soffocamento, di occlusione, era totale. Che cosa avrebbe dovuto fare un giovane che avesse avuto voglia di scrivere? Occorreva che si creasse da sé lo spazio (interiore) per liberarsi da un modello tirannico. Ma crearselo non era facile affatto. Sembrava impossibile. C’era il rischio, supremo, dell’inattualità – o della ripetizione, dell’epigonismo. Deridevamo chi non aveva fatto suo quello che ritengo sia il patrimonio inalienabile dell’avanguardia, e che posso riassumere nel concetto di sorveglianza. Ma i seguaci dei Novissimi ci sembravano irrimediabilmente sterili. Era evidente che non vi sarebbero state altro che soluzioni individuali. Ed era altrettanto evidente che per conseguire queste soluzioni, occorreva combattere due battaglie e non una sola, quella per se stessi, per il bene, e quella contro gli altri, contro il male.
  1. Finora ho parlato di scrivere. Ma c’era anche il problema, assillante e difficile, di pubblicare. Non mi riferisco in questo momento al problema generale della poesia di venire alla luce: complesso per lo meno in tutta la modernità, problema legato alle vicende del mercato e non già a quello del gusto interno alla sfera della poesia. Mi riferisco a questo secondo aspetto, alle oscillazioni del gusto, alle ideologie di volta in volta chiamate a sostegno. Nel 1975 il dominio di un gusto rispetto ad ogni altro era pressoché assoluto. L’antologia Il pubblico della poesia, stampata da un piccolo editore che nasceva (o rinasceva) allora, si proponeva proprio questo: provare a compiere un gesto di forza, contrapporre ad una forza centrale una forza per l’intanto periferica. Di tentativi simili, in quel momento, ce n’erano una quantità incalcolabile, e così, penso, accade adesso. Ma in quel momento, questo gesto per me si caricava di un significato ulteriore, indiretto, personale. Nel 1973 avevo pubblicato il mio primo romanzo, Procida. Non avevo ambizioni smisurate. Avevo, anzi, ambizioni sbagliate, indotte proprio dall’ideologia dominante e che mi proponevo di combattere. Desideravo il riconoscimento (virtuale) non di tutti ma di una parte. Inutile dire: della parte di coloro che consideravo “i miei padri”, gli scrittori e i critici della cosiddetta Neoavanguardia. Il riconoscimento non venne (a ragion veduta: poiché ignoravo quanto m’ero già distaccato da questi padri presunti, e naturalmente mi sarei messo a ridere se avessi potuto sapere che un giorno costoro mi avrebbero accusato d’essere un militante della parte avversa, e proprio il mio compagno d’avventura nella compilazione dell’antologia, accanto a scrittori più giovani, m’avrebbe invece accusato d’essere rimasto fedele alle mie prime ragioni avanguardiste). Come si vede non era, non era ancora, come non è tuttora, un problema di qualità intrinseca del libro che avevo scritto e di quelli che avrei scritto dopo. Era precisamente un problema di lotta per la sopravvivenza, lotta per prodursi uno spazio culturale, lotta per egregiamente dannarsi l’anima. Era, insomma, un problema di “pubblicità per se stessi”.

Pubblicare. Pubblicità per se stessi. Il pubblico della poesia. Si sarebbe mai sfondato il circolo vizioso? Si sarebbe mai usciti dall’altra parte?

Perché ristampare Il pubblico della poesia? Nel 1975 già sapevo che la letteratura, come l’avevo vissuta, assorbita e assimilata negli anni di formazione, era un puro relitto della Storia. Più volte ho indicato nel 1970 l’anno (simbolico) della fine: l’anno dei suicidi di Mishima (morte del romanzo), di Celan (morte della poesia), di Adamov (morte del teatro). Quel tipo di conoscenza non implicava ovviamente la credenza che non si sarebbe più scritto, né che non si sarebbe più dovuto scrivere. Pensavo che era finito un certo modo di scrivere, un certo tipo di rapporto con la letteratura, e della letteratura con il pubblico. Ancora non si sapeva che questo modo era ciò che si chiama il Moderno.

In ogni modo, questo tipo di coscienza – mentre mi induceva ad ogni understatement nei confronti delle ambizioni in assoluto intrinseche a quell’atto tanto naturale quanto di pura hybris che è scrivere una poesia o un romanzo o una commedia – questa coscienza non era così sciagurata da consegnarmi, nudo, alla militanza – alla militanza come scappatoia, uscita di sicurezza, rivincita. La militanza era quello che era, uno strumento – che lasciava intatta ogni nostalgia per ciò che non c’era più.

Naturalmente subentrava il rischio che la militanza, come pura gestualità, come resa all’evento, poco a poco guadagnasse tutto lo spazio, come è successo a tanti scrittori-ideologi. Di giustificazione in giustificazione sarebbe stato facile uscirne con le ossa rotte. Ripeto: indipendentemente dal proprio personale talento e dalle condizioni storiche. Ovvero, giocando come il gatto con il topo, proprio con la debolezza dell’uno (il talento) e la preponderanza delle altre (le condizioni storiche). Di alibi possibili ce ne sono tanti quante le verità: ma la propria verità (cioè la mia) è una sola, ed era allora quella che è oggi: l’idea che sporcarsi le mani fosse necessario, ma che di questo si trattava, d’uno sporcarsi le mani – non bisognava chiamarlo con un altro nome.

Nel 1975 era necessario. Oggi lo è altrettanto? E si può ripetere ciò che era solo un gesto? Tra l’altro, esso non si è manifestato in quanto conoscitivo: l’avanguardia come momento militante del moderno, la militanza come salute (e malattia) o malattia (e salute) della gioventù, ma anche in quanto boomerang: il ruolo di burattinaio, o di demiurgo, trasferito dall’arte alla vita ha forse alleggerito il senso di colpa togliendogli la sua forma, consumandone i margini? A me pare che, al contrario, lo abbia suffragato, come controprova, o accresciuto – come la vita accresce l’arte, ne testimonia, non meno di quanto l’arte accresce la vita e ne certifica, o compila, il senso. Ma qui entra in scena un paradosso della Storia, chiamiamolo così, un po’ pomposamente. Le diverse esperienze e gli opposti caratteri hanno diviso le strade dei due curatori, rimasti a guardarsi sempre (così credo), ma da lontano. Allora, trent’anni fa, credo d’essere stato io a trascinare Berardinelli nell’avventura. Egli in principio era, se non ricordo male, piuttosto riluttante. Ora la guida è lui, lui è il vero giudice, io della poesia sono diventato un lettore distratto, nella poesia non vedo più la figura d’un’emancipazione “politica”. Perché accade questo? Perché oggi lui è la guida e io mi lascio trascinare? Per Berardinelli non so. Il nodo tra poesia e militanza forse non s’è mai sciolto: a suo modo sente il problema della “giustizia poetica” in modo più cocente di quanto non lo sento io – che ho elaborato frattanto una mia personale teodicea. Io, in questa teodicea, accetto con letizia il contrappasso. Ma, alla letizia, vorrei aggiungere una glossa. All’improvviso, mi sono riconosciuto, come persona che si è formata nel 1968, una caratura tutta speciale, o meglio, forse, un ghigno. Mi sono riconosciuto tardivamente come intrinseco a quel simbolo, parte di esso, riflettendo sulle esperienze, così diverse dalle mie, di persone che avevano fatto tutt’altro che scrivere. Penso a chi fu protagonista fino al 1978, ai terroristi (di famiglia operaia) che non si sono mai pentiti, ma anche a chi fu protagonista dopo, nel quindicennio socialista. Tutti costoro non ignorano i propri errori e la natura di essi, non ignorano cioè il male. Eppure, rimangono ad essi, agli errori, e a ciò che ne stabilisce la natura, diciamo il male, assurdamente, demoniacamente fedeli. È in questo senso, e solo per questa affinità culturale, o generazionale, che non posso sottrarmi alla proposta di ripubblicare l’antologia di trent’anni fa, che di quel tempo è un piccolo riflesso.

Post scriptum.

Confrontato con la nostra antologia, il panorama della poesia italiana contemporanea è migliorato o, viceversa, peggiorato? E poi: la poesia è come la sinistra sempre in crisi, sempre in via di rifondazione? Eccetera. Forse a causa del fatto d’essere diventato un lettore occasionale, ritengo che questo panorama sia migliorato. Non vedendoli più, non incontrandoli, non essendo offuscato dalle loro persone, in genere lamentose, o litigiose, ovvero posto nudo e crudo di fronte ai libri, codesti libri sfolgorano. Tra coloro che non compaiono, o non comparirono, ne Il pubblico della poesia, o che rispetto a quell’epoca sono maturati in modo inequivocabile: Cosimo Ortesta, Iolanda Insana, Anna Cascella, Elio Pecora. Ma poi: Patrizia Valduga, Gianni D’Elia, Marco Palladini, Mario Santagostini (uno dei miei preferiti). Tra i più giovani aggiungo: Riccardo Held, Gilberto Sacerdoti (che però dieci anni fa sembrava più robusto), Alba Donati (uno degli esordi più originali), Paolo Jacuzzi, Umberto Fiori, Fernando Acitelli, Plinio Perilli (questi ultimi due, al contrario di quanto ho detto prima, mi piacciono come persone), Luca Archibugi (a giudicare dai manoscritti), Claudio Damiani, Paolo Febbraro (altro eccellente esordio), Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco, Silvia Bre, Marco Ceriani. In assoluto, il poeta che mi ha più impressionato (ma sono costretto a riferirmi a una lettura dal vivo in un festival) è Enzo Di Mauro. Mi piaceva anche prima, al tempo di Notturna, l’esordio. Ma il suo mutamento, ascoltandolo, mi apparve impressionante. Alessandro Fo non lo conosco, i suoi libri non si trovano.

In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano. Continua a leggere

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Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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