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Dalla Antologia ‘Voci degli Avatar dagli esopianeti disseminati nel Cosmo’, Voci di Giuseppe Gallo (Gaius Gallus), Alfonso Cataldi (Alf. Galacticus), Giorgio Linguaglossa (Germanico), Tavole di Raffaele Ciccarone e Lucio Mayoor Tosi

Lucio Tosi senza titolo 1 70x70 2024

(Lucio Mayoor Tosi, senza titolo, 70×70, acrilico, 2024)

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Giuseppe Gallo

Caro Lucius Verus,

è vero che sulla stella 3GG-28/7:50,
a volte, germogliano strani fenomeni,
ma decriptare qualcosa
che non ho avuto la possibilità di leggere
è un miracolo!

Forse trattasi di un’interferenza.
O di una collisione tra pensieri.
Un baluginio generato dall’urto di due corpuscoli atomici.

Caro Germanico,
sono felice per te e i tuoi compagni
sfuggiti alla decomposizione per calore.
Uso lo stesso termine “felice”
anche se il suo contenuto mi è oscuro.

Vuoi dire che su Alpha, la tua nuova residenza,
non incombe più alcuna catastrofe?
Leggo… no! Forse ho letto…
chiedo venia se incontro qualche difficoltà
a rimanere ancorato al vostro linguaggio,
che una volta anche sul pianeta terra
esisteva un Eden, dove meli e fichi, papaveri e margherite,
“si aprivano tutti i giorni in tutte le stagioni…”

Non è, caro Germanico,
che hai trasformato un ricordo filogenetico
in un sogno?
Auguro, perciò, a te, gentile amico,
che il tuo sogno continui e che tuoi bagni di sole
non diventino roventi
come la pioggia metallifera alla quale sei già sfuggito una volta.

Qui, dove a me pare di esistere,
i ricordi non hanno né forma né sostanza.
E quello che voi chiamate inconscio è… non è…

(Gaius Gallus)

Alfonso Cataldi

Caro Tallia,

Quella che cerchi credo di averla intravista su un palco in teatro. Una pornostar distesa su corpi alienati che danzavano “Blue collar” al Ballet-ex.

In sottofondo suoni metallici risvegliavano da un analgesico di temporanea bellezza.

«La messa in scena è salva!» si è sentito gridare dietro le quinte. Il patto con i coni da tre euro, però, non è riuscito a decollare in galleria.

L’incombenza della recitazione si è presa gli artefatti di ogni ordine e grado.

Squamata la perlustrazione originaria.

“È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”, chiesero all’Idiota.

«Ma che ci fa una potatura di alloro ad olio su tela?

Ah no, è Gloria! Proviene da una lallazione al fortepiano. Luminosa.» rispose prontamente il principe Miškin.

Ha smesso di lasciare tracce il millepiedi; il basement, senza prospettiva Nevskij, non esiste più.

«La comprensione dell’abiezione umana salverà la bellezza.»

«Tu rendi enormi cose piccole e insignificanti»

lo accusò la ballerina in fuga dalla complicità.
(Alf. Galacticus)

Lucio Mayoor Tosi Paesaggio Mirò 70x70 2024

(Lucio Mayoor Tosi, paesaggio, acrilico, 70×70, 2024)

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Giorgio Linguaglossa

AVVISO a tutti gli abitanti di tutti gli esopianeti:

Il pianeta Google Authenticator è fuoriuscito dalla sua orbita attorno al Sole Nemesis ed è andato a sbattere contro l’esopianeta Substack producendo una protuberanza, ovvero, una montagna alta 140 khilometri
Così, Eni Plenitude ha dovuto dichiarare bancarotta perché lassù ci aveva costruito una città spaziale per lo sfruttamento del tadzio, del polonio e del lettonio
Ho scritto a Scintilla: «Non usare l’ascensore dei ricordi durante l’incendio», la risposta della pittrice è stata: «chiacchiere e tabacchiere di legno non sono accolti al banco del pegno», che non so cosa possa significare, ma non mi sono arreso e le ho replicato con la poesiola di Giuseppe Panetta, in arte, Tallia:

Purple rain, purple rain
Purple rain, purple rain
Purple rain, purple rain
I only wanted to see you
Bathing in the purple rain

Tizyfardwell mi ha telegrafato telepaticamente: «There was an error in the payment transfer. What should I do?»

Io le ho risposto: «I don’t know»

Comunicato a tutti gli abitanti del pianeta Mephisto:

Poesia olografica: ossia, gentificazione di un pianeta disabitato
28 compresse travestite con film
Non aprire le ante del futuro prima di chiudere quelle del passato
La realtà non è altro che una sorta di super-ologramma dove il passato, il presente ed il futuro coesistono simultaneamente
Una poesia olografica, dove tutte le singole parti siano interconnesse con tutte le altre, pur distanti 10 minuti di autobus o 10 miliardi di chilometri
Stop

(Germanico) a noi sconosciuti.

Raffaele Ciccarone acrilico corde di colori 2024

(Raffaele Ciccarone, corde colorate, acrilico, 2024)

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È accaduto che quelle «cose» (quelle parole) hanno traslocato…

Si parlava qualche tempo fa intorno a quella nuova parola, a quei nuovi concetti: «dis-fania», «serendipità», «de-figurazione», «de-localizzazione», «dis-metria», «dis-tassia», «entanglement», «de-territorializzazione» e «riterritorializzazione» del discorso poetico propri della «nuova ontologia estetica». Chiedevo: di che si tratta? Ecco il punto. Come accade una parola «nuova»? Da dove cade? E verso dove cade? E perché cade? Una parola «nuova» indica una cosa «nuova»?, una cosa che prima non esisteva? E se non esisteva è perché nessuno aveva sentito il bisogno che esistesse, nessuno l’aveva cercata, e magari trovata? – In verità, una parola «nuova» viene incontro ad un «nuovo» bisogno, a una «nuova» esigenza. Da Gadamer in poi noi utilizziamo, in modo inconsapevole e irriflesso, un concetto di linguaggio inteso fondamentalmente come dialogo, quale «orizzonte di un’ontologia ermeneutica»; ciò implica che il «nuovo», se è nuovo, non può non inserirsi nell’«orizzonte di un’ontologia ermeneutica» che ricomprenda il «vecchio» in quanto presupposto del «nuovo». Secondo questa concezione ermeneutica non c’è «nuovo» se non c’è il «vecchio», il «nuovo» e il «vecchio» sono le due facce di una stessa moneta. È la forza del «vecchio» che spinge verso il «nuovo», il «nuovo» è una forza oggettiva, che spinge e preme verso il futuro. È il treno ermeneutico che non si può arrestare.
Detto questo, possiamo sostenere che la poesia di oggi indica qualcosa di «nuovo»?, che qualcosa di «nuovo» è avvenuto, magari a nostra e sua insaputa, mentre eravamo distratti, non avevamo fatto caso a certi segnali, a certi accenni, a certi indizi? – Il mondo nel frattempo però è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate.
La «nuova» poesia» indica un atto poeticamente attivo di dis-missione, una piegatura verso la dis-proprietà, una dis-appropriazione, una de-angolazione prospettica rispetto al punto di vista del quotidiano, il lasciar andare a fondo ciò che deve cadere, ciò che fino a un minuto prima ci sembrava importante. E, all’improvviso, ci accorgiamo che tutte quelle «cose» che credevamo importanti e determinanti per la nostra sicurezza, per i nostri valori di cui non potevamo fare a meno, adesso non sono più così importanti, perché è cambiato il metro dei valori, la scala gerarchica entro cui quelle «cose» trovavano il loro luogo.
È accaduto che quelle «cose» (quelle parole) hanno traslocato, hanno cambiato domicilio, e noi non siamo più con esse, presso di esse; perché anche noi nel frattempo abbiamo cambiato domicilio, in quanto siamo sempre alla ricerca di un domicilio più accogliente, di un divano più comodo, di un luogo dove le parole possano attecchire e albergare, perché il vecchio domicilio è stato dismesso, quel domicilio dal quale siamo stati sfrattati e costretti a sgomberarlo e a gettare nella discarica le vecchie masserizie, le vecchie inutili suppellettili, le parole usurate… La dis-appropriazione implica la rinuncia a qualcosa che non ci appartiene più, che non è più nostra proprietà, che qualcosa ci è diventata estranea e non la riconosciamo più. Mediante l’atto mentale della dis-appropriazione possiamo percepire meglio gli «angoli interni» delle cose, diventiamo più leggeri, gettiamo a mare l’ingombrante zavorra delle «cose» per noi non più utili e le lasciamo andare a fondo. Torniamo a respirare. Ci scopriamo più leggeri. Continua a leggere

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Tra Roma e Praga, Antologia di poesia in onore di Angelo Maria Ripellino, GSE Edizioni, 2023, pp. 100 € 16.00 a cura di Kateřina Di Paola Zoufalová, poesie di Antonio Sagredo, Filadelfo Giuliano, Jana Sovová, Marcel Sauer, Kateřina Di Paola Zoufalová

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]
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Questo modesto volumetto di poesie costituisce una sorta di “incontro”, forse non del tutto casuale, tra nove poeti, un pittore e una traduttrice che vivono tra l’Italia e la Repubblica Ceca, desiderosi di esprimere un omaggio al grande poeta Angelo Maria Ripellino, studioso, maggiore slavista italiano, eccellente conoscitore e amante della cultura boema, del quale il 4 dicembre 2023 cade il centenario della nascita. È un incontro di poeti voluto da Kateřina Di Paola Zoufalová, Presidente dell’Associazione Praga che da più di 20 anni opera a Roma per promuovere e far conoscere in Italia la cultura ceca, e da Andrea Louis Ballardini, Presidente dell’Associazione Lucerna di Bologna che persegue lo stesso scopo. Tutti gli autori hanno collaborato al volume consapevoli della grande importanza del poeta e studioso Ripellino, che ha contribuito con passione e genialità alla conoscenza della cultura mitteleuropea, e non soltanto in Italia. Tra i libri da lui pubblicati spicca il saggio-romanzo Praga magica, edito da Einaudi nel 1973, che si presenta come una guida alla “capitale magica d’Europa”. Nella sua recensione a quel testo Claudio Magris, noto germanista e anch’egli profondo conoscitore della Mitteleuropa, affermò che «con gusto ardimentoso ed enciclopedico Ripellino passa in rassegna una folla di persone, luoghi, libri, ombre, edifici, relitti, echi e bagliori della civiltà praghese». Elaborare quel saggio fu per A.M. Ripellino anche “terapeutico”. Dopo i drammatici eventi dell’agosto ’68 il visto per la Cecoslovacchia non gli venne più concesso. Non gli restava che sognare di poterci tornare, tanto che scrisse: «Certo che vi ritornerò. In una bettola di Malá Strana, ombre della mia giovinezza, stappate una bottiglia di Mělník. Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi»1 .
Per molti, ricorda l’italianista Alessandro Fo, Ripellino fu fondamentalmente uno slavista con un “debole” per la poesia. Perché in verità la poesia era per Ripellino il cuore e la fonte di ogni sua attività letteraria, anche quando il genere praticato era la saggistica o la corrispondenza giornalistica. Intervistato nel programma Ore 20, curato da Bruno Modugno e trasmesso dalla Rai il 9 marzo 1976, alla provocatoria domanda di Modugno «Perché la poesia oggi? Che c’entra la poesia oggi?», Ripellino, che morirà due anni dopo, rispose: «Io direi questo: che nonostante l’epoca sia così nera, così difficile, piena di falsi teologi, di ladroni, di monatti, la poesia non ha perduto il suo valore, la sua efficacia… Forse l’unica cosa che rimane ancora che possa trasformare il mondo, almeno illusoriamente – un ultimo miracolo che ci resta – è la poesia; anche per questo suo dono di avere gli occhi divaricati, di poter abbracciare diverse cose insieme… questo suo dono dell’analogia, della metafora, larga, che abbraccia l’universo. Ora, in un universo che tende a restringersi nella miseria e nel nulla, la poesia è appunto quest’unica meraviglia che cerca di abbracciarlo e di rendere viva l’unità del mondo» .

1. Ripellino A.M., Praga magica, Einaudi 1973, p. 350.

(Kateřina Di Paola Zoufalová Roma, 17 settembre 2023)

Copertina Tra Roma e Praga (2)Antonio Sagredo

Antonio Sagredo è nato a Brindisi e dal 1968 risiede a Roma. Le sue poesie sono state pubblicate in Spagna, Usa, Italia. A Zaragoza sono state pubblicate sue poesie scelte con il titolo Tortugas, Lola editorial, 1992, e Poemas, Lola editorial, 2001, alcune delle quali sono state riprese nelle riviste “Malvis” e “Turia”. Nel 2015 pubblica l’antologia bilingue Poems, Chelsea Editions di New York; nel 2016 Capricci, GSE, Roma, e nel 2019 La gorgiera e il delirio, Schena editore, Fasano. Ha curato le traduzioni di diversi poeti cechi, tra cui Otokar Březina, Vítězslav Nezval, Zbyněk Hejda, Ladislav Novák e Jiří Kolář, apparse in riviste letterarie italiane: L’ozio, Poesia, Metek e L’ombra delle Parole. In prosa ha pubblicato con GSE Il giardino, nel 2018, e l’Arrabbico, nel 2023.

Kajetanka

Oggi ho sorbito la mia razione
quotidiana di poesia
come un caffè:
aroma erano le parole
zucchero il sapore dei versi.

Ma nel bosco qui accanto
di querce e di betulle
perché i vecchi e le vecchie coi bambini
ogni giorno artigliavano gli alberi?

Sono come sogni appassiti nel tempo,
vetrosi recinti di pietra
che segano querce e betulle.

Ma i bambini frugano nel sottobosco,
i vecchi e le vecchie nel cimitero…
e cercano
e annusano se la prima larva
come la prima vita
si strema come una risacca!

(Praga, fine 1973)

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Camera di Praga

Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,
le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne
vuote… Il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico
e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,
la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede
il negromante a squarciagola: ecco, questo sono gli altari,
dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi profeta!

Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati
e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata
con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,
la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.
Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto
al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.
Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,
capriccio e parvenza di sé stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,
eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa
stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

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Filadelfo Giuliano

Filadelfo Giuliano è nato a Catania. Ha insegnato a lungo materie letterarie a Vicenza. Oggi vive tra Vicenza e la Repubblica Ceca. In italiano ha pubblicato sei raccolte di poesie, l’ultima delle quali nel 2022 con il titolo Un’estate a Moterosso, due raccolte di racconti e due romanzi. Ha tradotto dal ceco La Nuova Europa di Tomáš Garrigue Masaryk, I ragazzi di velluto di Sheila Och, ed Eravamo in cinque di Karel Poláček.

Isole

Perché un uomo ha bisogno di un’Itaca?
Perché fingersi Ulisse e
pretendere, senza darne, fedeltà da Penelope e Calipso?
Ora che ti ho persa
cerco sulle carte il punto dove ti smarristi,
ma quale bussola può darmi oggi
le coordinate della tua assenza?

Attesa

Ti aspetto al caffè Slavia
per una cena in due.
Forse questa mia attesa appartiene al passato,
a una Praga che forse non c’è più.
Il tavolino è vuoto
e il cameriere mi guarda accigliato.
Non sei venuta,
ho visto invece il signor Nezval,
che mi ha detto
che le nostre vite sono come la notte e il giorno.

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Jana Sovová

Jana Sovová (1966) ha studiato prima al liceo di Uničov, poi alla Cattedra di Boemistica presso l’Università Palacký di Olomouc e alle Cattedre di Studi Romanzi presso le Università di Olomouc e di Brno. Dal 1993 vive prevalentemente in Italia, dove lavora come lettrice di lingua e letteratura ceca. Occasionalmente traduce dall’italiano ed è coautrice di tre libri di ceco per stranieri. Nel 2018 la casa editrice Protimluv di Ostrava ha pubblicato la sua raccolta di poesia Příběhy.

Un piano perfetto

Di te qui mi rimane
una devastazione nel cuore,
una coperta stropicciata,
una valigia
e l’impasto della pizza,
da cui tutt’ora esala

l’impeto delle tue forti braccia.
Mi hai lasciata a mezzogiorno,
e posso facilmente dedurre
che la pennichella di quel giorno

te la sei fatta tra le braccia dell’altra.
Ma prima o poi ti metto nel sacco,
ormai ti conosco troppo bene:
in un tuo momento di debolezza,

ti verrà voglia di ricordare i vecchi tempi.
Con gioia ti inviterò a entrare
e, quando meno te l’aspetti,
ti soffocherò senza tante storie

con quella nostra coperta a frange.
Poi ti ricomporrò con dovizia
nella tua valigia nera,

ti seppellirò in un posto fuori mano
e ergerò a monumento
un impasto ben lievitato.
E poiché in fondo sono una brava ragazza,
farò poi sapere alla tua amata
dov’è che potrà andare
a piangerti.

(traduzione di Michele Perrone)

I preparativi

Per il viaggio scegli l’abito migliore
quello meno consumato

e speri che

speri sempre che

Ancora cerchi di aggrapparti
alla superficie liscia delle cose

ma si scivola

si slitta all’indietro

e giù

(traduzione dell’autrice)

Isonzo

Scappo Via da cosa
Scappo Non so
Scappo

(traduzione dell’autrice)

A Věra Holanová

Mi sono accomodata su una sedia a casa Sua,
una visita tardiva la mia,
e noi ci siamo mancate
di qualche decina di anni.

Mi sono accomodata qui e mi viene in mente,
se Lei, Věra, fosse stata presente,
quando il Suo sposo prese a schiaffi
uno di quella lunga fila di coloro
che venivano a osservare da vicino
la clausura del poeta.

Dicono sia stato un gesto galante
in difesa di una bellissima signora,
che era stata colpita dal marito
davanti agli occhi di Vladimír.

Se Lei, Věra, fosse stata lì, presente,
mi viene ancora in mente se avesse una vaga idea
di chi a chi, come e per quale colpa.

E inoltre, Věra, mi perdoni, Le chiedo
come abbia potuto sopportare tutto questo
e cosa abbia provato dentro di sé.

(traduzione di Vincenzo Perrone)

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Marcel Sauer

Marcel Sauer. È nato. Lavora come macchinista spirituale dei treni in ritardo. È allevatore. È precettore di seconda categoria di creature selvagge, un partecipante attivo al programma di fidelizzazione. Gestisce un museo di miniature, ma da molto tempo non riesce più a vedere quanto vi è esposto. È responsabile attivo dell’ufficio vendite di affari indifferibili. Risiede di frequente in altri mondi e spesso opera come diplomatico. Per esempio a Tokio. Per esempio a Roma. Era nella squadra della sala parto quando è venuto alla luce del mondo il programma satirico Česká soda. Ha mantenuto a lungo la capacità di percepire. Ha pubblicato per mezzo di diversi media. Anche su stampa. Per esempio, su Revolver Revue, il supplemento letterario di Respekt, e molti altri ancora. È cintura nera di Ki Aikido.

Roma I

Come ti chiami, domanda la città
ma subito si volta dall’altra parte
non aspetta
te
non aspetta
la tua risposta
lei sa
che non sarai, tra poco
e che incontrerà tra una settimana, tra anni, tra secoli
altri uomini, altri nomi, altri volti
Scivoleranno per le sue strade
e non saranno

Forse un giorno tornerai
legionario
Forse ti manderanno lungo il fiume
Forse diverrai lupo
Prenderai un respiro e allatterai i trovatelli
Come è giusto che sia

Su uno dei colli
In una delle sere
Su una delle rive
Alzerai la testa
e aprirai le braccia
Ti attaccherai al suo seno
Girerai
per un po’ ne diverrai parte
nel fiume fluttuerai
e ti eclisserai

Così è che va qui
l’orologio da molto si è arreso
il tempo corre solo
da spettacolino a spettacolo
e qualche volta torna
Fermati sbalordito
così è che le piace

Roma II

Siamo stati qui
direi
se non avessi paura di pronunciarlo

Ho vissuto qui
direi
se pensassi che fosse passato

Con te, con tutto questo, con tutti questi

Indivisibilmente carica
la Città sulla collina abbatte il mezzogiorno

Stappa il vino
e ricorda
le sere d’estate che ci sono state, una volta

Un giorno si accende
su ogni semaforo il verde
che non guasta nulla

Roma III

Ci conosceremo?
A volte di più
In qualche modo più a fondo
oltre quei
fugaci intrecci
oltre quelle notti

Sotto la superficie
ci sono altre superfici
sotto il profondo
il profondo più abissale
oltre la visuale
l’orizzonte più lontano

Ci conosceremo
Ci incontreremo ancora
Sarai ancora qui
Io sarò ancora qui
In questo tempo
In questo mondo
Su questo piroettante pianeta

Entrerò in te
e tu farai finta di niente
così ce ne sono già stati
così ce ne saranno

Te lo chiederò
Farai solo una smorfia
Ti toccherò
La prossima volta, forse

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Kateřina Di Paola Zoufalová

Kateřina Di Paola Zoufalová vive a Roma dal 1980, dove all’Università La Sapienza ha studiato Lingue e Letterature Straniere Moderne. In seguito, ha conseguito gli studi post-laurea presso la SISS dell’Università degli Studi Roma Tre, specializzandosi in Didattica delle Lingue Straniere. Ha insegnato lingua e letteratura tedesca presso diversi licei linguistici di Roma e al Centro Ceco Roma ha tenuto corsi di lingua ceca. È socio fondatore dell’Associazione Praga, di cui è Presidente dal 2015. Nel 2010 ha fondato la Scuola Ceca Roma (il premio Gratias Agit 2022) di cui è tuttora direttrice. Nel 2016 le è stata conferita la Medaglia di 2° grado del Ministero dell’Istruzione, della Gioventù e dello Sport della Repubblica Ceca. Traduce poesia ceca in italiano. Con lo pseudonimo di Katerina Sagredo ha pubblicato una raccolta di poesie Variazioni su temi femminili, Petit Atelier, Praga 1992. Si occupa di bilinguismo e ha curato il libro Anime gemelle. Testimonianza sul valore del bilinguismo (ediz. italiana e ceca), GSE, Roma 2023.

Tevere

Ti distendi umile fiume.
Padre di gloria
e di fratelli più grandi

hai dominato tutto il mondo!
I centauri ancora una volta s’accoppiano
nel bosco di Anna Perenna.
E ti insegue Rainer Maria Rilke

per dare il suo biglietto a una baronessa.
Sulle tue rive un poeta sofferente
mi legge in latino i versi
di Orazio Flacco,

e per tanto tormento
s’è scheggiato il cristallo!
Gli angeli dal ponte
agitano furiosi le ali
per inaridire le mie lacrime.
E lancio ai gabbiani,
nelle acque senza requie,
le rose avvizzite
di un amore impossibile.

Loro

si libravano leggeri
celesti e rosa torno la lanterna
che dalla cupola maggiore
versava bagliori su tutta la città,
e ci divora eterna lei
e noi viventi…

Come penetrava il volto
quel putiferio di ali
mentre cadevano in un peccato eccelso…
di trattenere un po’ ancora,
e ancora la vostra mano e il punto,
e la distanza che misura l’ordine!

E m’allontanavo sotto gli archi
gremiti dei lamenti degli infermi,
e mi strappava a carne viva,
con invisibili artigli, la tristezza
di chi non ama abbastanza.

Tutto… tutto e ogni cosa
viene recisa da una vocina,
come da un affilato bisturi!

mammina… mammina… ti aspetto

Epilogo

Marcivano
come tronco senza linfa
le nostre vite
e sconce e incarnate
si mutavano
in radici di melo
inconsapevole.

E sui ghiacciai le ceneri
seminate tra farfalle arse.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea

Il pensiero poetante, l’immaginario, 42 poeti a cura di Fabio Dainotti, Genesi, Torino, 2023, pp. 168 € 16,50 – Lettura di Giorgio Linguaglossa, Dove va la poesia? Mistero della fede.

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Il problema metodologico insito nella stesura di una antologia della poesia contemporanea è molto serio, non si può fare a meno di una idea-guida o di una tematizzazione, generazionale o di poetica o di un gruppo specifico, o di una tematizzazione stilistica. Bene ha fatto il curatore, Fabio Dainotti, ad includere nella sua antologia poeti  di tutte le generazioni a prescindere dalla datazione delle opere di esordio e a prescindere dai recinti generazionali. Possiamo dire che l’antologia abbraccia un arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi.  L’età della rivoluzione operata dai Novissimi il 1961 e della susseguente neoavanguardia fornisce la linea di demarcazione ante-quem che si dà per scontata, dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura dei numero degli addetti ai lavori e delle opere di poesia. Dagli anni settanta si verifica in Italia e in Europa il fenomeno della caduta del tasso tendenziale di problematicità e dell’inflazione delle proposte poetiche che tendono sempre più a collimare con posizioni di poetica personalistiche, con posiziocentrismi e rivalità  tra i piccoli e piccolissimi gruppi di poesia. Accade così che le personalità più influenti, traggono vantaggio da questa gran confusione per consolidare la propria minuscola egemonia. Affiora nella poesia degli ultimi cinquanta anni una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole autorialità; la storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione di singoli autori.

Il criterio guida della antologia sembra essere la individuazione di una frattura radicale avvenuta nella lirica italiana verificatasi intorno agli anni ottanta e novanta del novecento. Verissimo e condivisibile. Una «frattura» dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni  nella struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione e ibridazione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si è riflesso nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Tutti gli autori sembrano scrivere in un linguaggio etero generico. Tutto ciò è verissimo ma ancora troppo generosamente generico. Vengono sì messi nel salvagente dell’oblio gli autori della generazione post-ermetica (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) e viene fornita una ampia ricognizione tra i poeti non inclusi nelle alti attici della poesia ufficiale, tra i quali è incluso anche chi scrive, Edith Dzieduszycka, Luigi Fontanella, Paolo Ruffilli, Eugenio Lucrezi, Vincenzo Guarracino e altri e sarebbe improprio nominarli tutti. Possiamo però apprezzare il lavoro svolto dal curatore il quale si è trovato a dover rendere conto dell’esplosione di un genere indifferenziato e inflazionato come la poesia «post-lirica» degli ultimi cinque decenni con conseguente difficoltà a tracciare un quadro attendibile della situazione storica. Fabio Dainotti non mette le mani avanti con l’argomento posticcio secondo cui tutta la poesia contemporanea è «postuma», come ha scritto in tempi non recenti Giulio Ferroni, ma tenta di tracciare una cartografia, per quanto imperfetta, della situazione storica attuale, che è sempre preferibile piuttosto che lasciare il tentativo inevaso. Merito non secondario del curatore è aver scelto di non includere gli autori «ufficiali», vuoi per disaffezione, vuoi per discredito verso la poesia maggioritaria, e di essersi sporcato le mani, per così dire, pescando nel mare magnum dei poeti che hanno goduto in questi anni di minore visibilità.

Fabio Dainotti Il pensiero poetante cover

A quasi cinquanta anni dalla apparizione della antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, risulta ancora un mistero che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi cinque lustri; Dainotti si limita a prendere atto che le categorie del post-moderno, della «postumità» della poesia, della poesia «post-montaliana» e della poesia di matrice neosperimentale, sono questioni concluse e sembrano oggi argomenti su cui si potrebbe anche trovare un accordo, ma è che al quadro manca sempre qualcosa di essenziale, mancano i perimetri, le delimitazioni, le ragioni di fondo degli accadimenti; l’unico concetto chiaro e distinto è l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida, ma ancora, purtroppo, ondivaga, non perseguita con la determinazione che sarebbe stata necessaria, però, a scriminante delle responsabilità del curatore dobbiamo confessare che ormai è già un miracolo aver delimitato la mappa dei poeti italiani a solo 42 nomi, per completare il quadro sarebbe occorso una gigantesca campionatura della poesia contemporanea e uno studio molto più articolato sugli attori della militanza poetica che nel lavoro di Dainotti non c’è e non ci poteva neanche essere a causa dell’enorme congerie di autori e di testi poetici che galleggiano nel mare esotico del villaggio poetico italiano. Ma Dainotti ci ha provato, a 360 gradi, come dice il nostro Presidente del Consiglio, e a lui va dato atto dell’impegno e delle forze profuse.

Il concetto di poesia che è stata scritta nel novecento come momento lineare ha promosso una forma-poesia nella quale lo spazio e il tempo erano il contenitore dell’io e delle sue vicende private. Oggi è lecito sollevare dubbi e eccezioni a questo concetto e a questa pratica della poiesis. La poesia italiana ha seguito il modello unilineare e cronologico della vita quotidiana, ed è finita dritta nella falsariga del «riconoscibile», nella «rappresentazione» mimetica. Il romanzo ha fruito di una uscita di sicurezza data dai suoi svariati generi e sotto generi: il giallo, il noir, il fantastico, il fantasy, il semi giallo, il quasi fantasy, il gotico, il gotico-fantasy, il giallo-fantasy, il fantasy e basta etc.; la poesia non ha avuto, per ragioni storiche, una altrettanta versatilità di forme e di generi, quindi era più vulnerabile, più esposta, e ne ha pagato le conseguenze.

La poesia del novecento si è trovata di fronte il problema di una «forma-poesia» «riconoscibile» con un linguaggio sempre meno «riconoscibile», con l’«io» posto in un luogo, immobile, e l’«oggetto» posto in un altro luogo, immobile anch’esso; di conseguenza, il discorso lirico si è ridotto ad uno schema, un confronto tra il qui e il là, tra l’io e il suo oggetto, tra l’io e il suo doppio, e il discorso lirico ha assunto una struttura cronologica e lineare. Senza considerare una possibilità che se l’oggetto si sposta, l’io vedrà un altro oggetto che non sarà più l’oggetto dell’attimo precedente; di più, se anche l’io si sposta di un centimetro, vedrà un oggetto nuovo. E così, il discorso lirico o post-lirico si è sviluppato tra queste due postazioni immobili. Un’altra via sarebbe stata in potenza percorribile, con le due posizioni che cambiano il loro luogo nello spazio e nel tempo, come avevano ben intuito Mandel’stam negli anni Dieci e Eliot con The Waste Land del 1922, ma dopo le avanguardie del primo Novecento la forma-poesia è ritornata all’ordine e si è assestata sul modello cronologico e lineare, trascurando il fatto che già Mallarmé aveva distrutto quel modello lineare dimostrando che era una convenzione e null’altro e, come tutte le convenzioni, sarebbe stato preferibile derubricarlo per sondare le possibilità di un’altra e diversa forma-poesia.

La poesia del novecento ha ripiegato su una forma-poesia che prevedeva la stazione immobile dell’io, con l’io al centro del mondo attorno al quale ruota la fenomenologia dell’intrapsichico. È stato il modello vincente che ha imposto i suoi binari: l’io di qua e gli oggetti di là, in un costante star-di-fronte. Questo tipo di impostazione ha condotto la poesia italiana inevitabilmente al pendio elegiaco e alla narrativizzazione privatistica, alla esondazione privatistica del privato. Il rapporto tra l’io ed il suo oggetto si è rivelato un dialogo posizionale, posizionato, convenzionato, da risultato sicuro.

(Giorgio Linguaglossa)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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POETRY KITCHEN, Antologia Poetry kitchen 2023, Lettura di Teresa D’Errico, “La poesia kitchen non ha identità alcuna (…) disconosce i concetti di avanguardia e retroguardia”, scrive Marie Laure Colasson, tuttavia, a una lettura attenta, la Poetry kitchen per certi aspetti può ricondursi al modello rivoluzionario avanguardistico-surrealista, pur distaccandosene sia per la mancanza di tensione polemica, di critica radicale contro la tradizione classica, sia per la perdita del carattere orfico-onirico rivelativo che ha caratterizzato buona parte della poesia d’Avanguardia

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Mentre altrove piovono bombe sparano
droni cannoni e altre simili cose
la giraffa spicca il volo supera la muraglia
sotto il rullo di tamburi a sequestrare
il cielo

(Raffaele Ciccarone, “Mentre altrove piovono bombe”, Poetry kitchen, 2023)     

Orazio nell’Ars poetica scriveva: ut pictura poesis. La tradizione ha ritenuto la poesia simile a un quadro, in grado cioè di rappresentare la realtà, e perciò sin dai tempi più remoti è stata sempre dotata di un’intrinseca comprensibilità finalizzata alla trasmissione di un messaggio chiaro e definito. Quella tradizionale si configura perciò come una poesia di “cose” nel senso che – anche quando gli sperimentalismi sono diventati più arditi e acuti –  c’è sempre stato un rapporto diretto tra le parole e le cose, tra l’idea e il linguaggio atto ad esprimerla. Tuttavia il Novecento con il suo carico di irrazionali atrocità culminate nell’Olocausto e nell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, con l’inquietante “banalità del male” commesso da persone ordinarie e ritenute benpensanti, con quella sua inquietante e forse irripetibile atmosfera che Mark Fischer ha definito wird and eerie e che ha reso la distopia un dato di fatto, ebbene il Novecento ha rotto il legame tra le parole e le cose. Quando le “follie di morte”, per usare un’espressione montaliana, hanno dettato tempi e fatti della Storia, mistificando il linguaggio e frantumando ogni orizzonte di senso, quale possibilità comunicativa può ancora essere attribuita alla poesia? Se c’è un vuoto di senso è a quel vuoto che la poesia deve dare voce.

Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus: così Umberto Eco concludeva il suo celebre romanzo Il nome della rosa. Ci restano solo nomi e ogni nome è un flatus vocis che non approda a nessun significato definito e compiuto. È desolazione? È libertà? I poeti non giudicano e non hanno risposte né perciò possono fornirle, però traducono nelle loro scelte lo Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui vivono.

Incontri di suoni, fascinazioni lessicali, accostamenti inediti e inusuali tra nomi, personaggi mitologici, oggetti tratti dalla quotidianità più ordinaria, frantumazione della metrica, scomparsa delle rime, andamento prosastico, assenza di punteggiatura sono i tratti di un modo diverso di fare poesia, come dimostrano gli artisti che nelle due antologie di Poetry Kitchen (la prima pubblicata nel 2022, la seconda nel 2023) hanno raccolto versi ricchi di una dirompente carica di libertà espressiva. Sebbene nell’antologia edita nel 2023, Marie Laure Colasson dichiari apertamente che “la poesia kitchen non ha identità alcuna (…) disconosce i concetti di avanguardia e retroguardia”, tuttavia, a una lettura attenta, la Poetry kitchen per certi aspetti può ricondursi al modello rivoluzionario avanguardistico-surrealista, pur distaccandosene sia per la mancanza di tensione polemica, di critica radicale contro la tradizione classica, sia per la perdita del carattere orfico-onirico-rivelativo che ha caratterizzato buona parte della poesia d’Avanguardia.

Nella Poetry Kitchen non c’è rabbiosa cesura con il passato, piuttosto si assiste a un riuso libero del patrimonio culturale della tradizione, dissezionata, atomizzata e riadattata per dare vita a forme completamente nuove, attraversate da correspondances capaci di avvicinare cose e parole normalmente irrelate ma che la creatività artistica può accostare e che la libertà interpretativa ha il diritto di ricomporre, scorgendovi significati possibili, brandelli di verità nascoste, suggestioni emotive: “la poesia assomiglia a un unicorno vestito da pappagallo” (M.L. Colasson, in Poetry Kitchen 2023, Dichiarazione)

La Poetry kitchen è decostruttiva, slegata dal referente.  Nell’introduzione alla seconda raccolta (2023) G. Linguaglossa osserva che la Poetry kitchen è “un gioco di specchi (…) di fuochi d’artificio (…) una bizarrerie“. 

Locandina Poetry kitchen San Basile 2023

“Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo”, scrive I. Calvino  nell’excipit del Castello dei destini incrociati. E così smembrando sintassi e ritmi, la Poetry kitchen registra lo sfaldamento delle architetture tradizionali ritenute incrollabili,  dà atto della caduta di quelle granitiche cattedrali di certezze e si apre a letture personali, sollecita contributi esegetici che mettano in gioco la creatività di chi legge, intercetta lo sguardo di chi cerca strade non battute dai più. “Il mito è falso, ha narrato il falso”, nota G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) alludendo all’inesorabile crepuscolo degli idoli  cui la tradizione si è illusoriamente aggrappata.

Eppure tra i labirinti delle possibilità sembrano farsi strada alcuni punti fermi.

Si avverte, per esempio nei versi di Raffaele Ciccarone (Poetry kitchen 2022) un acuto rilievo rivolto alla contemporaneità e alle sue derive: “una Olivetti 32 vuole descrivere la storia/ dice di averla tutta nei tasti”. Emerge chiaramente il riferimento alla manipolazione dei fatti storici operata da una sempre più incontrollabile tirannide tecnologica simboleggiata dalla “Olivetti 32”. Si tratta di una sottile denuncia contro l’arroganza di un presente dominato dal prometeico vortice di un’iper-digitalizzazione che reprime ogni tentativo di inversione della rotta: il potere dei “tasti” schiaccia ogni alternativa. Controllati da un invisibile Panopticon viviamo in una dittatura algoritmica, offrendoci spontaneamente alla sovraesposizione, sentendoci erroneamente liberi di esprimerci senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità che sconfina nel controllo. L’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti un regime di sorveglianza digitale: la macchina possiede ormai la storia e “dice di averla tutta nei tasti”. E non c’è scampo: la tirannide tecnologica non lascia spazi vuoti, profana persino gli altari delle chiese:

“il prete perdonava tutti seduto al touch screen”

(F.P. Intini, Poetry kitchen, 2023)

Antologia_poetry_kitchen_2023 Azzurra_web

Con tono amaramente ironico Giorgio Linguaglossa nei suoi componimenti, registra il definitivo tramonto della domanda e del dubbio: “i punti interrogativi si sono ribellati e sono stati sostituiti/ dai punti esclamativi” (Poetry kitchen, 2023). L’età della ricerca, dei perché, dei percorsi anche tortuosi attraverso cui si sperimentava il piacere della conoscenza fatta di curiositas, è finito e con la domanda è per sempre scomparso il tempo dell’ascolto, dell’apertura all’altro da sé. La pretesa dell’assoluta validità delle proprie affermazioni si accampa oggi con la perentorietà propria di chi è pronto a schiacciare il punto di vista altrui. Sono le domande che creano relazioni, dialoghi, attese di risposte, confutazioni, confronti, incontri, possibili convergenze, altrimenti è l’afasia. La scomparsa della domanda come sparizione dell’altro determina una «tribalizzazione» (dizione di Linguaglossa) dei comportamenti: mi confronto solo con chi la pensa come me e chi non è con me è contro di me. Persino l’algoritmo asseconda questa chiusura tribale nelle filter bubble che restringono l’orizzonte delle informazioni a ciò che asseconda i gusti e le preferenze personali. Le conseguenze sono tristi: isolamento intellettuale, riduzione del confronto, polarizzazione delle opinioni e di conseguenza incremento degli scontri a danno del dialogo e del rispetto delle posizioni altrui.

D’altra parte, se, però, mancano gli approdi, è comprensibile l’atto di ribellione dei punti interrogativi: se il verbum non riesce più a dire il verum, la domanda è inutile e la parola può diventare vocabulum, mera vox clamans in deserto con cui “giocare” come i poeti kitchen dimostrano. Quello dell’Essere resta un sogno, forse un desiderio che la storia ha spazzato via e, scrive F.P. Intini, citando i versi di Quasimodo, giace “trafitto da un raggio di Sole”, un Sole che come un dardo ferisce senza ormai illuminare più niente, senza più aura divina. E perciò quella sullo “smarrimento” del mondo contemporaneo resta kafkianamente una “domanda” senza risposta, consegnata all’assurdo: “alla domanda sullo smarrimento, la pratica passò di ufficio in ufficio” (Francesco Paolo Intini, Poetry kitchen, 2023).

Siamo immersi in un caos febbricitante: “il rumore della marmitta fracassa il tetto/il vetro si sbriciola”, (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), quello delle città è un “ruggito” che aliena (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023) e che ricorda, con la sua carica spersonalizzante, la rue assourdissante che rendeva a Baudelaire impossibili i suoi desideri d’incontro e d’amore. E in questa realtà confusa, “in assenza di una scacchiera” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), trasciniamo i nostri giorni, condannati ormai a una politica senza progetti, una politica incapace cioè di suggerire una direzione ai destini di masse travolte da false promesse e ripetuti inganni. “La lunga mano della pubblicità” (F. P. Intini, Poetry kitchen, 2023) condiziona scelte e condotte, colonizza l’immaginario, ha preso il posto della politica nel fornire risposte ai bisogni della gente.

Poetry kitchen cover

I poeti antologizzati nei due volumi Poetry kitchen (Tiziana Antonilli, Alfonso Cataldi, Raffaele Ciccarone, Marie Laure Colasson, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Vincenzo Petronelli, Mimmo Pugliese, Gino Rago, Giuseppe Talia, Lucio Mayoor Tosi) con il loro tocco leggero planano sul presente constatandone – senza grevi condanne o nostalgie per stagioni irrevocabili – la palustre immobilità: “la girandola è ferma, il vento assente” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Sembra non esserci più spazio per imprese eroiche, per ambizioni, aspirazioni grandiose: la poesia dà voce allo stato d’animo di chi, nella sua prigione quotidiana, si sente “come un gambero messo in padella che frigge/ e saltella” (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023). Ma forse anche gli eroi del mito sono un inganno e G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) ne rivela il vero volto: Menelao come un uomo qualsiasi, “soffre di eiaculatio praecox”, Clitennestra “posa mezza nuda per il calendario Pirelli” e Menelao, in fondo, è solo un “cornuto”: la tradizione ha mascherato la realtà, ha inventato superbe fole per nascondere l’infinità fragilità dell’umana condizione.

E nell’assuefazione generale al “collasso del simbolico” (G. Linguaglossa, Poetry Kitchen 2023) probabilmente non rimane che “contemplare (…) le acrobazie che un ragazzo fa fare al suo wifi drone” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Ebbene, questo forse oggi resta da fare ai poeti: “giocare” con le parole per “sequestrare il cielo” (R. Ciccarone, Poetry kitchen 2023), perché nonostante tutto è in quelle “acrobazie” della creatività che si nasconde la chiave che aprirà ai giovani le porte del futuro.

“Il genere umano non può sopportare troppa realtà”, osservava T. S. Eliot. Perciò, suggerisce Raffaele Ciccarone, esiste la forza della poesia, per spiccare il volo, per superare la montaliana “muraglia” di un’ingabbiante datità in cui tristemente, scriveva C. Sbarbaro, “tutto quello/ che è, è soltanto quel che è”.

Locandina Festival Poetry kitchen 2023

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Sulla procedura serendipica e sulla de-figurazione,poesie  di Vincenzo Petronelli, da Antologia Poetry kitchen 2023 in corso di stampa, La de-figurazione in opera nella poesia di Vincenzo Petronelli  è una procedura retorica che consente di trascrivere una fraseologia mimetica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, introducendo nel testo proposizioni liberamente dis-locate, s-postate, liberate dalla cogenza del referente, non appropriate quindi non corrispondenti al referente

Promenade nocturne 19 collage acrilico 50x50 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, 50×50 acrilico e collage, 2023

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La serendipità è la procedura per eccellenza dei «nuovi dispositivi poetici» che fanno uso dello spaesamento, della sorpresa, del frammento e del «montaggio», serendipità da intendersi così: che chi cerca qualcosa di non preventivato e scopre sempre altro. La serendipità non è soltanto una intuizione quanto una procedura, un metodo, e anche un tropo. Gli esempi di serendipità sono numerosissimi: la serendipità è diventata parte integrante della ricerca scientifica, oltre che della nostra esperienza di tutti i giorni. Molto spesso entriamo in un supermarket alla ricerca del detersivo e finisce che arraffiamo un mazzo di verdure o un mazzo di ravanelli con supersconto o del radicchio al posto dei finocchi etc., questo comportamento è la riprova che le nostre scelte coscienti sono in realtà suggerite e dettate da ciò che ci perviene dall’inconscio sub specie di pulsioni ossessive, di tic, di lapsus e di abreazioni linguistiche che rifluiscono sui prodotti. Il capitalismo finanziario funziona già da tempo immemorabile sfruttando la procedura serendipica. Anche in ambito scientifico le scoperte più importanti sono avvenute e avvengono mentre si cerca altro: Cristoforo Colombo scopre l’America cercando le Indie, le sorelle Tatin inventano l’omonima torta dimenticando di inserire nel forno l’impasto di base della crostata di mele, l’astronomo Herschel cerca comete e trova il pianeta Urano, la Pfizer invece di una cura contro l’angina pectoris inventa il Viagra. Se anche i poeti o i filosofi o gli artisti sapessero già che cosa cercare, non avrebbero più bisogno di cercarlo. Basterebbe per tutti loro trovare conferme nel già esistente, (come per anni è stato nella poesia italiana e anche europea, da Carducci, Pascoli e D’Annunzio ai giorni nostri, con talune eccezioni come quella montaliana, segnatamente nel passaggio dal simbolismo al modernismo nelle sue prime tre opere, accanto a figure come Eliot, Pound, Proust e Joyce, Svevo, e Pirandello, per la prosa).

È la crisi della Ragione riflessiva quello che la poesia di Vincenzo Petronelli mette in scena, la sua poesia segue il principio della complessificazione delle perifrasi, cioè posta un parola, un sintagma, una fraseologia e seguono le perifrasi e le variazioni delle perifrasi, questa procedura dà una raffigurazione di quell’oggetto lontanissima da ciò che la ragione narrante della vecchia metafisica ci avrebbe fornito. In Vincenzo Petronelli si ha, letteralmente, una de-figurazione e de-localizzazione della riflessività della Ragione narrante. Gli eventi bellici in Ucraina ci rendono edotti delle conseguenze epocali che la crisi della riflessività della Ragione ha causato: Putin voleva fare un boccone dell’Ucraina in pochi giorni e si  è trovato impantanato dopo cinquecento e più giorni in una guerra di attrito con il suo esercito costretto alla difensiva. Putin non sa che le cose sono tutte interconnesse e sconnesse al contempo, si sviluppano secondo la matematica e la geometria di Riemann piuttosto che secondo la geometria euclidea… E invece la poesia italiana a vocazione maggioritaria, imperturbabilmente, continua le sue febbricitanti orazioni soggettoalgiche con il diritto divino della primogenitura dell’io al centro della ragione narrativa.

Con il crollo della coscienza quale luogo privilegiato della riflessività del soggetto legiferante, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel luogo. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. La mancanza di un Principio è diventata una petizione di principio, la disseminazione è diventata il luogo dell’erranza, della dispersione delle tracce, il soggetto stesso è diventato una traccia in continua dispersione. La poesia, il romanzo, le arti figurative, il cinema sono diventati i luoghi dove si racconta ciò che ci narra l’informazione che diventano narrazioni di seconda mano,  narrazione giornalistica di seconda mano della realtà; così l’arte diventa comunicazione del comunicato stampa, in una parola, comunicazione fedifraga della «privacy», delle storie personali, di ciò che ci dice il pensiero empirico diretto dal soggetto plenipotenziario e non più dell’incomunicabile

La Crisi della Ragione è innanzitutto Crisi della coscienza quale luogo deputato, da Descartes in giù, della riflessività, luogo del principiale, luogo nel quale ha origine il logos. il logos della metafisica. Se la coscienza è in crisi è in crisi anche la metafisica quale prodotto della riflessività della coscienza, e le arti non possono che raffigurare, in un modo o nell’altro, la crisi di questa riflessività. È la crisi della riflessività che la poesia di Vincenzo Petronelli mette in scena.

La «defigurazione» o procedura serendipica, è il metodo poetico  adottato da Vincenzo Petronelli. Pensare lo «spazio poetico» oggi significa applicare ai testi la de-figurazione e la dis-locazione in quanto gli spazi interamente de-politicizzati delle società moderne ad economia glocale interamente dipendenti dai pubblicitari e logotecnici, sono caratterizzati dalla de-figurazione e dal disallineamento significazionale.

È il linguaggio pubblicitario che ha fatto crac e impone al linguaggio poetico le sue regole, si tratta di una modificazione del linguaggio che è avvenuta nelle profondità. Oggi la politica estetica la fa la pubblicità. Il discorso poetico che voglia tornare a fare della politica estetica non può fare a meno che ri-appropriarsi delle procedure già adottate in amplissima  misura dal linguaggio pubblicitario e mediatico.

La de-figurazione in opera nella poesia di Vincenzo Petronelli  è una procedura retorica che consente di trascrivere una fraseologia mimetica mediante una de-localizzazione frastica sistematica, introducendo nel testo proposizioni liberamente dis-locate, s-postate, liberate dalla cogenza del referente, non appropriate quindi non corrispondenti al referente; ciò vuol dire che si registra uno scarto del pensiero dal referente che corrisponde alla parola che non gli corrisponde; tra il pensiero e la sua traduzione in parole si stabilisce uno spazio vuoto di significazione, ed è in questo spazio che opera il linguaggio poetico: nello spazio della de-figurazione iconica e della delocalizzazione frastica entro i quali sono inscritte ed operano forze linguistiche e extra linguistiche disgiuntive, contrastive e divisive, come appare chiaro da queste poesie dove l’espressione che mira al referente viene ad essere sostituita da enunciati referendari, cioè in libera uscita espressiva, appunto, referendaria. Il referendum ha sostituito il referente.

La globalizzazione, come sappiamo, è un processo ancipite, glocale, in cui agiscono vettori anche contrastanti ma divergenti: non vi è solo sconfinamento e apertura dei linguaggi al globo, in questo processo macro storico operano anche dinamiche di collocazione e glocalizzazione; ci si muove nel quadro di smottamenti linguistici globali e glocali, uno spazio impensabile fino a qualche tempo fa, ma è in questo spazio che si muovono le forze linguistiche che operano all’interno dei linguaggi: le linee di convergenza e di divergenza tra le varie tradizioni letterarie diventano complessificazioni di una realtà in sé complessa. In questa accezione una «poesia europea» che fa della complessificazione e del dis-allineamento dei linguaggi il proprio motore di ricerca è già in atto nei più sensibili e ricettivi poeti europei, oggi una poesia europea che non  abbia qualche cognizione di questa problematica macro storica dei linguaggi è destinata a fare operazioni epigoniche.  Pensare ancora con le categorie della poesia del novecento: «poesia lirica» e «post-lirica», sperimentalismo e orfismo, linee regionali e linee circondariali sono, permettetemi di dirlo, blablaismi. La globalizzazione e la glocalizzazione sono processi macro storici che non possono non attecchire anche alla forma-poesia, modificandola in profondità al suo interno.

È impellente pensare la ri-concettualizzazione del paradigma del politico e del poetico, è viva l’esigenza di fuoriuscire da quelle formule dicotomiche che hanno caratterizzato la poesia del novecento: lo schema classico: avanguardia-retroguardia, poesia lirica poesia post-lirica; siamo andati oltre: occorre ri-concettualizzare e ri-fondamentalizzare il campo di forze denominato «poesia» come un «campo aperto» dove si confrontano e si combattono linee di forza fino a ieri sconosciute, linee di forza linguistiche ed extra linguistiche che richiedono la adozione di un «Nuovo Paradigma» che metta definitivamente nel cassetto dei numismatici la forma-poesia dell’io panopticon della poesia lirica e anti-lirica, avanguardia-retroguardia; da Montale a Fortini è tutto un arco di pensiero poetico che occorre dismettere per ri-fondare una nuova Ragione dello spazio poetico. Dopo Fortini e Mario Lunetta, gli ultimi poeti pensanti del novecento, la poesia italiana è rimasta orfana di un poeta critico in grado di orientare le categorie del pensiero poetico. Quello che oggi occorre fare con urgenza è riprendere a riparametrare e ri-concettualizzare le forme del pensiero poetico, anche perché dopo Fortini, la resa dei conti stilistica del «poetico» è rimasta in sospeso e attende ancora una soluzione.

(Giorgio Linguaglossa)

Vincenzo Petronelli volto

Vincenzo Petronelli nasce a Barletta l’8 novembre del 1970, si laurea in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, e vive ad Erba in provincia di Como. Dopo un primo percorso post-laurea che lo ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale negli stessi comparti, oltreché in quello musicale, attualmente gestisce un’attività di consulenza aziendale nel campo della comunicazione, del marketing internazionale e dell’export.  È impegnato in diversi progetti letterari (sul fronte della poesia e della narrativa) e di storytelling sportivo, musicale e cinematografico e come autore di testi per programmi televisivi e spettacoli teatrali e prosegue nel suo impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia sul versante storico-antropologico, occupandosi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare, la cultura di massa, la storia delle religioni; è attivo nell’ambito della divulgazione e come storyteller in vari settori legati ai suoi interessi (fra storia e scienze sociali, musica, cinema, letteratura), nell’organizzazione di eventi e festival culturali in diversi settori (musica, letteratura, teatro, divulgazione) e come promoter musicale. È inoltre redattore per il blog letterario internazionale lombradelleparole.wordpress.com e collaboro con le riviste Il Mangiaparolee Mescalina” occupandosi di musica, poesia e del rapporto tra poesia e scienze sociali. Dal 2018 infine è presidente dell’associazione letteraria Ammin Acarya sita in Como. Alcuni suoi scritti sono comparsi nelle antologie IPOET edita nel 2017 ed “Il Segreto delle Fragole” edita nel 2018 entrambe a cura dell’editore Lietocolle, Mai la Parola rimane sola edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como, nella rivista on line “L’Ombra delle Parole

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Antologia_poetry_kitchen_2023 Azzurra_web

Poesie di Vincenzo Petronelli da Antologia Poetry kitchen 2023

Ombre rosse

Nell’outlet Salarium, non c’erano più le tuniche Versace invendute dell’anno prima,
ma solo un’imitazione in oriente factam.
“Ah, signora Cornelia: mala tempora currunt, fare shopping oggi è un lusso: ma adda venì.
Potrebbe dire a Tiberio di interessarsi per il mio redditus civitas?”

Quinto Orazio Flacco bloccato in treno dalle proteste NoTav:
non riuscirà ad essere puntuale per l’inizio del suo reading presso il circolo Pickwick.
Compare una notifica nel suo laptop Pentium: internet conexio requiratur
mentre cerca di ascoltare Golden Brown.

Giovanni Gerbi in fuga in maglia rosa sul monte Mc Kinlay bevendo vino rosso:
gira voce che abbia due giorni di vantaggio sul secondo, l’ingegner Filini.

Nella cassapanca Luigi XVI, Ilse ha trovato lettere dal fondo del mare
ed una cartolina firmata da Bombay. “Oggi è un giorno buono: i bambini non brillano nel buio”

I mercanti di Bosnia ascoltano Offebanch, sotto il piombo del Monte Igman.
Vecchi transistor, pistoni a gas, ferri per calze. “Hai fatto buona pesca, pescatore?”.

Nelle campagne del Canavese, giovani uteri pronti per partorire nuove braccia,
ballando al ritmo di polka.
“Non come le ragazze di oggi, strumenti del demonio!”

Pitagora ha progettato il ponte sullo Stretto: dovrebbero farcela in 333,33 anni periodici.

Lella e Franca cadono dal motorino impennando sotto gli occhi dei ragazzi:
There lived a lady by the North Sea shore; two daughters were the babes she bore.1

Al tramonto i ragazzi della borghesia interrompono lo studio per una tazza di cioccolato
presso l’Antico Caffè Folchini. “Mi spiace, ma da oggi è in vigore il green pass”.
No booster, no party. Continua a leggere

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Donatella Bisutti,  Antologia, Sciamano (Poesie 1985-2020) Delta 3 edizioni, gennaio 2021, pp. 278 € 20, Dalla storicità forte alla storicità debole di oggi, La poesia italiana tra la fine della prima e l’inizio della seconda Repubblica, Nota ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, Prose poetiche da Inganno ottico del 1985

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Di recente, parlando della poesia dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho  indicato le generazioni venute dopo-Fortini come i titolari di una «minore consapevolezza storica e stilistica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Sì, è vero, non sono stato esauriente con quella mia frase, cercherò di spiegarmi: dirò che la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore» in quanto non più saldata alla tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere diseducato nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, afferrare questo nodo ci consente di acquisire consapevolezza storica della «debole storicità» delle generazioni che sono venute dopo il 1994. Ci sono ovviamente anch’io tra coloro che hanno sostato a lungo in una «condizione di debole storicità», anch’io, nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», come tutti, nessuno escluso. Spero così di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio.

Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di accingersi ad una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale.  Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo possiamo intuire da questa Antologia di Donatella Bisutti che raccoglie le poesie del fulminante esordio della poetessa, Inganno ottico (1985) dal 1985 al 1999 e un folto gruppo di inediti che vanno dal 1985 al 2020, dal titolo, Sciamano.

Lo statuto di fine della poiesis

Lo spazio espressivo di questa itinerario poetico è indicativo di questo statuto di fine della poiesis . La poesia italiana a cavallo tra i due millenni un giorno sarà studiata come una tipica epoca di transizione, e le poche opere che rimarranno verranno ricondotte nella trama di quella crisi auto immunitaria della debole democrazia italiana che ha il suo contrappunto nel letterario nella disgregazione della forma-poesia. Questo risulta chiaro con il senno di poi, a distanza di quattro lustri dagli anni ottanta quando fa la sua comparsa la raccolta d’esordio di Donatella Bisutti, Inganno ottico del 1985. La distanza che intercorre tra l’opera di esordio e la raccolta inedita che compare in questo volume, Sciamano, può essere interpretata come la narrazione della destabilizzazione e  della crisi identitaria dell’io poetico, che fa da contralto alla crisi identitaria della democrazia parlamentare italiana che è sfociata nella seconda repubblica, con la susseguente de-politicizzazione che ne è seguita ed è ancora in corso.

In questi decenni è divenuto sempre più chiaro che il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò ha comportato, per i poeti più vigili, una presa di consapevolezza che quella metafisica non era più utilizzabile ed  ha costretto ad andare al fondo della crisi. È il caso di Donatella Bisutti, sempre oscillante tra il sacro e il profano, tra il poetico e il prosastico, costretta ad adottare un linguaggio sempre più profano e profanato dalla civiltà della sovrapproduzione di merci e dell’informazione militante. La poetessa milanese ha raccolto quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con questi relitti che ha edificato la sua poiesis.

I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura di modelli, di costrittività, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi, dismetterlo. La Bisutti comprende questa problematica, la affronta con il pensiero che occorre una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.

Donatella Bisutti

La questione del linguaggio.

Un tempo si pensava che porre la questione del linguaggio fosse una cosa che riguardasse l’attivismo di ciascun autore, che il linguaggio era un corpo, erano dei «materiali» nei quali si poteva entrare a piacimento con gli strumenti chirurgici offerti gratis dalla nuova scolastica che era data dallo sperimentalismo, intendo qui con il termine sperimentalismo anche tantissima parte di ciò che veniva volgarizzato anche dalle posizioni conservatrici: l’orfismo con le sue adiacenze, riflesso speculare di una poiesis  positivizzata. Quando invece il linguaggio è una pre-condizione, una pre-supposizione che postula se stesso. Un paradosso. Una pre-condizione che postula il nulla prima di esso è una condizione nient’affatto raccomandabile, ed anche spiacevole, si resta senza corrimani, punti d’appoggio, riferimenti. È che bisogna entrare in un altro ordine di idee: il fatto che non si può pensare di scrivere poesia se non sulla pre-comprensione della crisi che avvolge il linguaggio e il soggetto del linguaggio, che la crisi del soggetto lirico è la crisi del suo linguaggio, che non c’è un soggetto lirico prima, e poi il suo linguaggio, equivoco nel quale sono caduti molti poeti di questi ultimi decenni.

Come ha scritto Gino Rago in un suo recente intervento sull’Ombra: “La poesia italiana ha perduto, per ragioni storiche, lo spazio espressivo integrale consolidato della forma-poesia tradizionale, ha perduto fiducia nelle credenziali di un «modello» o «canone»”. Precisazione pertinente e inequivocabile. La perdita di esemplarità del «modello» era già evidente nell’opera di esordio della Bisutti, Inganno ottico (1985) che era tutta concentrata sulla crisi dell’io. Alla fine degli anni novanta quella crisi non è più un «inganno ottico» ma si rivelerà in tutta la sua portata: un problema ontologico,  assiologico, di opzione di quale linguaggio adottare e di un nuovo modello di anthropos prima ancora che di poesia. La Bisutti porrà nei testi ultimi di Sciamano (2020) il binomio Silenzio-Assoluto, di qui la sua poesia della interrogazione.

Della Antologia della Bisutti mi vorrei soffermare su alcune prose dell’opera d’esordio che mi sembrano significative della crisi di cui abbiamo discusso. A rileggere queste prose della poetessa milanese comprendiamo ciò che negli anni ottanta non era ancora ben visibile: il linguaggio poetico stava diventando uno spazio polivalente, interscambiabile, sostanzialmente narrativo, e quindi opaco, nell’ambito del quale non si dava più alcuna esperienza epifanica, e che  non restava che narrare la caotica dimensione degli spazi interscambiabili dei linguaggi neutri e neutralizzati, narrare il rumore (o il silenzio) che sta dentro e dietro la parola rumorosa e tra le parole come  il solo modo per iscrivere le tracce  della soggettività nel linguaggio. L’opera d’esordio di Donatella Bisutti è uno dei primissimi reperti di questo processo epocale che poi malauguratamente sfocerà, deteriorandosi, nel minimalismo degli anni ottanta e novanta e nel privatismo esasperato di tanta poesia di oggi. Ecco come si esprime Donatella Bisutti rispondendo ad alcune domande di Michele Bordoni: « fin da bambina, e moltissimi anni prima di scoprire la meravigliosa Trilogia della conoscenza  di Julian Blaga in cui si spiega perché il Mistero deve essere affermato come un dogma, e di leggere e tradurre Edmond Jabès che con il suo sterminato Livre des questions testimonia della necessità di porre domande piuttosto che attendersi risposte, io istintivamente non volevo che venisse svelato il mistero. Sentivo il bisogno, la necessità del mistero. Nei miei giochi infantili, in cui si facevano “magie”, non volevo scoprire che queste magie erano solo trucchi, anche quando sarebbe stato facile farlo, volevo serbare intatta la loro potenzialità fantastica. Non volevo essere furba, volevo essere ingenua. La furbizia non è una caratteristica della Via. Non è nemmeno una scorciatoia. Ulisse nei miei versi è un eroe della domanda, non un maestro dell’inganno.» (Intervista, 2021)

Donatella Bisutti, da Inganno ottico (1985)

Inganno ottico

Se fissi un punto, quello soltanto, e su di esso ti concentri intensamente, ciò che lo circonda, fosse pure un orizzonte sterminato, diventerà semplice cornice di quel punto. Se continui a fissarlo concentrando su di esso tutta la forza del tuo sguardo, insensibilmente anche la cornice intorno sparirà e quel punto solo rimarrà davanti ai tuoi occhi, sempre più luminoso anche se su di esso non cade alcuna luce. Sarai preso allora da amore sempre più intenso per quel punto, che è unico, finché sarai capace di vedere il mondo intero contenuto in esso. Allora sarai pronto per l’ultima ineffabile rivelazione perché il tuo sguardo si farà confuso e non riuscirai più a fissarlo: non vedrai più nulla di nitido davanti a te, non vedrai più nulla.

In coperta (da un quadro di Hopper)

Due uomini in coperta, uno avvolto in un plaid – l’altro chino in avanti, col cannocchiale. Il mare: rigide increspature che si allontanano. L’uomo col cannocchiale potrà scoprire solo un punto di fuga più remoto: non c’è quindi differenza fra lui e l’altro che sdraiato si abbandona a questa sottrazione operata sul mondo circostante. Cosi la realtà e il tempo si allontanano da noi in una corsa senza fine: il loro espandersi è un sottrarsi, mentre la nostra imbarcazione si avvicina alla meta. Continua a leggere

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Franco Cordelli, A proposito della Antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli – Poesie di Mario M. Gabriele da  Astuccio da cherubino (1978),  a cura di Giorgio Linguaglossa

Una nota personale di Franco Cordelli

L’Antologia Il pubblico della poesia (1975)

 Quante volte ho raccontato questa storia? Temo più d’una. Ma poiché la ripeterò per una ragione oggettiva, la ristampa de Il pubblico della poesia, spero sia l’ultima.

I problemi sono due. Perché sentii la necessità, chiamiamola così, di compilare questa antologia? Perché oggi, a distanza di quasi trent’anni, la si ristampa?

Potrei rispondere in tre modi.

  1. È stata spesso scambiata per una specie di mania la mia ansia classificatoria. Naturalmente si tratta di una faccenda complessa. Se lasciamo che nei nostri cassetti si accumulino carte, biglietti, lettere, “oggetti desueti”, ecc., il giorno in cui ci capiterà di rimetterci le mani, saremo pieni di orrore. Il passato ci invade l’anima come puro feticcio, come non senso. L’archiviazione, la catalogazione sono il minimo consentito, se non per il riscatto di quegli oggetti (che invero sono tutti psichici), per la loro stessa trascendenza. Inutile aggiungere che la poesia – la concentrazione, il distillato di ciò che lentamente si accumula nel fondo di qualcosa – sarebbe il massimo di trascendenza possibile. Che fare quando i propri oggetti sono precisamente le poesie di tutti gli altri, qualcosa che per definizione si situa, di fronte alla coscienza individuale, a metà strada tra la dimenticanza e la luce, di mezzogiorno o di crepuscolo non importa? È da qui che nacque Il pubblico della poesia. Questo fu uno dei primi impulsi.
  1. Nel 1975 il dominio dell’ideologia avanguardista era allo stremo. Ma non lo si capiva affatto. Era anche nel momento di massimo dispiegamento della propria forza. Ho detto forza e non energia. Tutta l’energia s’era volatilizzata. Il senso di soffocamento, di occlusione, era totale. Che cosa avrebbe dovuto fare un giovane che avesse avuto voglia di scrivere? Occorreva che si creasse da sé lo spazio (interiore) per liberarsi da un modello tirannico. Ma crearselo non era facile affatto. Sembrava impossibile. C’era il rischio, supremo, dell’inattualità – o della ripetizione, dell’epigonismo. Deridevamo chi non aveva fatto suo quello che ritengo sia il patrimonio inalienabile dell’avanguardia, e che posso riassumere nel concetto di sorveglianza. Ma i seguaci dei Novissimi ci sembravano irrimediabilmente sterili. Era evidente che non vi sarebbero state altro che soluzioni individuali. Ed era altrettanto evidente che per conseguire queste soluzioni, occorreva combattere due battaglie e non una sola, quella per se stessi, per il bene, e quella contro gli altri, contro il male.
  1. Finora ho parlato di scrivere. Ma c’era anche il problema, assillante e difficile, di pubblicare. Non mi riferisco in questo momento al problema generale della poesia di venire alla luce: complesso per lo meno in tutta la modernità, problema legato alle vicende del mercato e non già a quello del gusto interno alla sfera della poesia. Mi riferisco a questo secondo aspetto, alle oscillazioni del gusto, alle ideologie di volta in volta chiamate a sostegno. Nel 1975 il dominio di un gusto rispetto ad ogni altro era pressoché assoluto. L’antologia Il pubblico della poesia, stampata da un piccolo editore che nasceva (o rinasceva) allora, si proponeva proprio questo: provare a compiere un gesto di forza, contrapporre ad una forza centrale una forza per l’intanto periferica. Di tentativi simili, in quel momento, ce n’erano una quantità incalcolabile, e così, penso, accade adesso. Ma in quel momento, questo gesto per me si caricava di un significato ulteriore, indiretto, personale. Nel 1973 avevo pubblicato il mio primo romanzo, Procida. Non avevo ambizioni smisurate. Avevo, anzi, ambizioni sbagliate, indotte proprio dall’ideologia dominante e che mi proponevo di combattere. Desideravo il riconoscimento (virtuale) non di tutti ma di una parte. Inutile dire: della parte di coloro che consideravo “i miei padri”, gli scrittori e i critici della cosiddetta Neoavanguardia. Il riconoscimento non venne (a ragion veduta: poiché ignoravo quanto m’ero già distaccato da questi padri presunti, e naturalmente mi sarei messo a ridere se avessi potuto sapere che un giorno costoro mi avrebbero accusato d’essere un militante della parte avversa, e proprio il mio compagno d’avventura nella compilazione dell’antologia, accanto a scrittori più giovani, m’avrebbe invece accusato d’essere rimasto fedele alle mie prime ragioni avanguardiste). Come si vede non era, non era ancora, come non è tuttora, un problema di qualità intrinseca del libro che avevo scritto e di quelli che avrei scritto dopo. Era precisamente un problema di lotta per la sopravvivenza, lotta per prodursi uno spazio culturale, lotta per egregiamente dannarsi l’anima. Era, insomma, un problema di “pubblicità per se stessi”.

Pubblicare. Pubblicità per se stessi. Il pubblico della poesia. Si sarebbe mai sfondato il circolo vizioso? Si sarebbe mai usciti dall’altra parte?

Perché ristampare Il pubblico della poesia? Nel 1975 già sapevo che la letteratura, come l’avevo vissuta, assorbita e assimilata negli anni di formazione, era un puro relitto della Storia. Più volte ho indicato nel 1970 l’anno (simbolico) della fine: l’anno dei suicidi di Mishima (morte del romanzo), di Celan (morte della poesia), di Adamov (morte del teatro). Quel tipo di conoscenza non implicava ovviamente la credenza che non si sarebbe più scritto, né che non si sarebbe più dovuto scrivere. Pensavo che era finito un certo modo di scrivere, un certo tipo di rapporto con la letteratura, e della letteratura con il pubblico. Ancora non si sapeva che questo modo era ciò che si chiama il Moderno.

In ogni modo, questo tipo di coscienza – mentre mi induceva ad ogni understatement nei confronti delle ambizioni in assoluto intrinseche a quell’atto tanto naturale quanto di pura hybris che è scrivere una poesia o un romanzo o una commedia – questa coscienza non era così sciagurata da consegnarmi, nudo, alla militanza – alla militanza come scappatoia, uscita di sicurezza, rivincita. La militanza era quello che era, uno strumento – che lasciava intatta ogni nostalgia per ciò che non c’era più.

Naturalmente subentrava il rischio che la militanza, come pura gestualità, come resa all’evento, poco a poco guadagnasse tutto lo spazio, come è successo a tanti scrittori-ideologi. Di giustificazione in giustificazione sarebbe stato facile uscirne con le ossa rotte. Ripeto: indipendentemente dal proprio personale talento e dalle condizioni storiche. Ovvero, giocando come il gatto con il topo, proprio con la debolezza dell’uno (il talento) e la preponderanza delle altre (le condizioni storiche). Di alibi possibili ce ne sono tanti quante le verità: ma la propria verità (cioè la mia) è una sola, ed era allora quella che è oggi: l’idea che sporcarsi le mani fosse necessario, ma che di questo si trattava, d’uno sporcarsi le mani – non bisognava chiamarlo con un altro nome.

Nel 1975 era necessario. Oggi lo è altrettanto? E si può ripetere ciò che era solo un gesto? Tra l’altro, esso non si è manifestato in quanto conoscitivo: l’avanguardia come momento militante del moderno, la militanza come salute (e malattia) o malattia (e salute) della gioventù, ma anche in quanto boomerang: il ruolo di burattinaio, o di demiurgo, trasferito dall’arte alla vita ha forse alleggerito il senso di colpa togliendogli la sua forma, consumandone i margini? A me pare che, al contrario, lo abbia suffragato, come controprova, o accresciuto – come la vita accresce l’arte, ne testimonia, non meno di quanto l’arte accresce la vita e ne certifica, o compila, il senso. Ma qui entra in scena un paradosso della Storia, chiamiamolo così, un po’ pomposamente. Le diverse esperienze e gli opposti caratteri hanno diviso le strade dei due curatori, rimasti a guardarsi sempre (così credo), ma da lontano. Allora, trent’anni fa, credo d’essere stato io a trascinare Berardinelli nell’avventura. Egli in principio era, se non ricordo male, piuttosto riluttante. Ora la guida è lui, lui è il vero giudice, io della poesia sono diventato un lettore distratto, nella poesia non vedo più la figura d’un’emancipazione “politica”. Perché accade questo? Perché oggi lui è la guida e io mi lascio trascinare? Per Berardinelli non so. Il nodo tra poesia e militanza forse non s’è mai sciolto: a suo modo sente il problema della “giustizia poetica” in modo più cocente di quanto non lo sento io – che ho elaborato frattanto una mia personale teodicea. Io, in questa teodicea, accetto con letizia il contrappasso. Ma, alla letizia, vorrei aggiungere una glossa. All’improvviso, mi sono riconosciuto, come persona che si è formata nel 1968, una caratura tutta speciale, o meglio, forse, un ghigno. Mi sono riconosciuto tardivamente come intrinseco a quel simbolo, parte di esso, riflettendo sulle esperienze, così diverse dalle mie, di persone che avevano fatto tutt’altro che scrivere. Penso a chi fu protagonista fino al 1978, ai terroristi (di famiglia operaia) che non si sono mai pentiti, ma anche a chi fu protagonista dopo, nel quindicennio socialista. Tutti costoro non ignorano i propri errori e la natura di essi, non ignorano cioè il male. Eppure, rimangono ad essi, agli errori, e a ciò che ne stabilisce la natura, diciamo il male, assurdamente, demoniacamente fedeli. È in questo senso, e solo per questa affinità culturale, o generazionale, che non posso sottrarmi alla proposta di ripubblicare l’antologia di trent’anni fa, che di quel tempo è un piccolo riflesso.

Post scriptum.

Confrontato con la nostra antologia, il panorama della poesia italiana contemporanea è migliorato o, viceversa, peggiorato? E poi: la poesia è come la sinistra sempre in crisi, sempre in via di rifondazione? Eccetera. Forse a causa del fatto d’essere diventato un lettore occasionale, ritengo che questo panorama sia migliorato. Non vedendoli più, non incontrandoli, non essendo offuscato dalle loro persone, in genere lamentose, o litigiose, ovvero posto nudo e crudo di fronte ai libri, codesti libri sfolgorano. Tra coloro che non compaiono, o non comparirono, ne Il pubblico della poesia, o che rispetto a quell’epoca sono maturati in modo inequivocabile: Cosimo Ortesta, Iolanda Insana, Anna Cascella, Elio Pecora. Ma poi: Patrizia Valduga, Gianni D’Elia, Marco Palladini, Mario Santagostini (uno dei miei preferiti). Tra i più giovani aggiungo: Riccardo Held, Gilberto Sacerdoti (che però dieci anni fa sembrava più robusto), Alba Donati (uno degli esordi più originali), Paolo Jacuzzi, Umberto Fiori, Fernando Acitelli, Plinio Perilli (questi ultimi due, al contrario di quanto ho detto prima, mi piacciono come persone), Luca Archibugi (a giudicare dai manoscritti), Claudio Damiani, Paolo Febbraro (altro eccellente esordio), Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco, Silvia Bre, Marco Ceriani. In assoluto, il poeta che mi ha più impressionato (ma sono costretto a riferirmi a una lettura dal vivo in un festival) è Enzo Di Mauro. Mi piaceva anche prima, al tempo di Notturna, l’esordio. Ma il suo mutamento, ascoltandolo, mi apparve impressionante. Alessandro Fo non lo conosco, i suoi libri non si trovano.

In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano. Continua a leggere

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Poesia dell’Avvenire? di Giorgio Linguaglossa – L’Antologia Il pubblico della poesia del 1975 – Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica – Una intervista del 1979 ad Alfonso Berardinelli – Berardinelli: a proposito della ristampa della Antologia Il pubblico della poesia con l’editore Castelvecchi 

FOTO POETI POLITTICOGiorgio Linguaglossa

Anni Cinquanta-Settanta – La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’Avvenire

Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Novecento», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una Poesia del prossimo futuro se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Novecento», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.

«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che metta in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, qualcosa che ci induca a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’«impensato»? Che cos’è l’«impensato»?

Mi sorge un dubbio: che idea abbiamo della poesia del Novecento? Come possiamo immaginare la poesia del «Presente» e del «Futuro» se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di «Ieri»? Che cosa è stata la storia d’Italia del primo Novecento? E del secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quale poesia portare nella scialuppa di Pegaso e quale invece abbandonare? Che cosa pensiamo di questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?

Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose. Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che portiamo con noi, e su ciò che dobbiamo abbandonare alle tarme.

 

Dino Campana, Pier Paolo Pasolini

Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica

È proprio negli anni Cinquanta che l’unità metrica, o meglio, la metricità endecasillabica di matrice ermetica e pascoliana, entra in crisi irreversibile. La crisi si prolunga durante tutti gli anni Sessanta, aggravandosi durante gli anni Settanta, senza che venisse riformulata una «piattaforma» metrica, lessicale e stilistica dalla quale ripartire. In un certo senso, il linguaggio poetico italiano accusa il colpo della crisi, non trova vie di uscita, si ritira sulla difensiva, diventa un linguaggio di nicchia, austera e nobile quanto si vuole, ma di nicchia. I tentativi del tardo Bertolucci con La capanna indiana (1951 e 1955) e La camera da letto (1984  e 1988) e di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), saranno gli ultimi tentativi di una civiltà stilistica matura ma in via di esaurimento. Dopo di essa bisognerà fare i conti con la invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica. Indubbiamente, il proto sperimentalismo effrattivo di Alfredo de Palchi (Sessioni con l’analista è del 1967), sarà il solo, insieme a quello distantissimo di Ennio Flaiano, a circumnavigare la crisi e a presentarsi nella nuova situazione letteraria con un vestito linguistico stilisticamente riconoscibile. Flaiano mette in opera una superfetazione dei luoghi comuni del linguaggio letterario e dei linguaggi pubblicitari, de Palchi una poesia che ruota attorno al proprio centro simbolico. Per la poesia depalchiana parlare ancora di unità metrica diventa davvero problematico. L’unità metrica pascoliana si è esaurita, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1957). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana cercherà altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni formali e linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato sarà lo smarrimento, da parte della poesia italiana di qualsiasi omogeneità metrica, con il conseguente fenomeno di apertura a forme di metricità diffuse. Dagli anni Settanta in poi saltano tutti gli schemi stabiliti. Le istituzioni letterarie scelgono di cavalcare la tigre. Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà, il risultato terminale dello sperimentalismo, e Montale nel 1971 Satura, il mattone iniziale della nuova metricità diffusa. Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.

Resisterà ancora qualcuno che pensa in termini di unità metrica stabile. C’è ancora chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Ma si tratta di aspetti secondari di epigonismo che esploderanno nel decennio degli anni Settanta.

 

Ubaldo de Robertis, Giuseppe Talia

l’Antologia Il pubblico della poesia del 1975

Nel 1975 Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli danno alle stampe la Antologia Il pubblico della poesia che fotografava una situazione di entropia della poesia. Ci si avviava ad una pratica di massa della poesia. Ci si accorse all’improvviso che il numero dei poeti era cresciuto in maniera esponenziale, arrivava a numeri ipertrofici. Si era in presenza di un nuovo costume letterario: la teatralizzazione della poesia, la visibilità e l’auto promozione pubblicitaria.

Tra i poeti di allora, riconosciamo: Dario Bellezza, Dacia Maraini, Patrizia Cavalli, Elio Pecora, Eros Alesi, Adriano Spatola, Sebastiano Vassalli, Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Renzo Paris, Valentino Zeichen, Nico Orengo, Vivian Lamarque, Giorgio Manacorda, Milo De Angelis, Paolo Prestigiacomo, Maurizio Cucchi, Attilio Lolini, Franco Montesanti, Gregorio Scalise.

Un questionario di dieci domande era rivolto ai poeti. Le risposte non brillavano se non per noia perché gli intervistati cercavano la battuta intelligente, dare risposte originali alle domande più semplici. L’Antologia era divisa nelle seguenti sezioni “Lo scrivere non fa sangue fa acqua”; “La gente guarda e tace, entra al supermercato”; “Si racconta nelle mille e una notte, nel capitolo della leggerezza”; “Come credersi autori?

Così Berardinelli in una intervista del 1979 pubblicata su “Il Messaggero” stigmatizzava questo nuovo costume letterario:

«Molte delle cose scritte allora sono diventate oggi luoghi comuni, però le intuizioni fondamentali si sono dimostrate giuste. La deriva, lo smembramento hanno finito per occupare l’intero decennio ’70. Compivamo l’esplorazione di un continente sommerso e non era facile formulare ipotesi chiare e univoche per il futuro. Tuttora se si dovesse fare un consuntivo della letteratura italiana del decennio ci si troverebbe di fronte una materia molto fluida, caotica, spesso inafferrabile. Insomma niente in comune con i due o tre decenni immediatamente precedenti. La perdita d’identità dei giovani scrittori e la labilità dei confini del cosiddetto spazio letterario mi sembrano perduranti». Continua a leggere

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