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Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023, Poesie kitchen, La foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé

Marie Laure Colasson Les choses de la vie
[Marie Laure Colasson, Collage, foto e acrilico, 20×30, 2020]
La foto di due anonime gambe con calze rosse tratta da un manifesto strappato e desfoliato. La foto, ritoccata con colori in acrilico, è diventata un’opera «ibrida», «ultronea», astigmatica, daltonica, anedonica, inabitata e inabitabile, né pittura, né collage, né fotografia ma tutte queste cose assieme e nessuna cosa. Un manufatto senza identità è quello che meglio contraddistingue l’arte di oggi e l’uomo del contemporaneo che si limita a frequentare il tempo ma non lo abita, che frequenta lo spazio ma è un senza-spazio, che frequenta una fisionomia ma non possiede una identità, che è un senza-luogo, un senza-utopia, un atopos, un atomo che presto scomparirà nel nulla che si porta dentro di sé… Ecco perché la migliore arte contemporanea è un senza-identità che rammenta una identità scaduta, come un medicinale scaduto, come un reato caduto in prescrizione che non è più perseguibile; l’arte di oggi rappresenta un androide che un tempo lontano era purtuttavia un umano, un mortale che aveva un destino… Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale potevaentrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) delladecisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia.
(g.l.)

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Gli esseri umani posti in determinate condizioni storiche percepiscono una certa rarefazione, un assottigliamento delle essenze, delle cose, quello che Heidegger chiama il nulla (Nichts) nel quale è immerso l’EsserCi, in questa particolare condizione avviene una dis-proprietà, una Uberwindung, una Gelassenheit, la poesia acquista una sorta di tonalità di fondo (Grundstimmung), una particolarità dell’essere-nel-mondo, uno stato emotivo proprio. Il “nulla” (Nichts) sarebbe il vero motore non visibile della poesia che avviene allorquando il poeta va oltre l’ente, eccede l’ente. È essenziale che l’autore faccia un passo indietro rispetto alle parole, le parole se verranno, verranno da sé, saranno loro a guidare l’autore. E con ciò l’autore sottoscrive la fine della sua autorialità. La «nuova poesia» reca il contrassegno della fine della autorialità, del soggetto plenipotenziario e della pratica discorsiva fondata sull’io.
Se leggiamo la prima strofa di una poesia di Marie Laure Colasson scritta prima del suo incontro con la poetry kitchen, nel 2019, ci troviamo di fronte ad una serie di tocchi da pittrice, ad un quasi impressionismo post-lirico, ma il passo successivo verso la poetry kitchen è stato subitaneo, perché era già inscritto nell’ordine del giorno. È importante questo mettere a raffronto una poesia pre-kitchen con una poesia kitchen, si avverte che è intervenuto un Evento imprevisto e imprevedibile, e il linguaggio è saltato via da tutte le pareti con tutti i suoi bulloni e chiodi che lo tenevano malamente malfermo. (g.l.)

Marie Laure Colasson

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel

Tanti tocchi che introducono ad una tonalità emotiva, ad un concerto di suoni e di parole che non hanno alcun rapporto tra di essi, ma che, tutti assieme costituiscono una «questità di cose», quella cosa complessificata che conforma una Grundstimmung, una tonalità emotiva di fondo. Ed è appunto questa la caratteristica della nuova poesia. In realtà questo «Nulla» è pieno di cose, di momenti, di esperienze, di sensazioni, di cose di cui non sapevamo di sapere.

Promenade nocturne 10 collage 30 × 40cm 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

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Marie Laure Colasson
(da Les choses de la vie, 2022, trad. di Edith Dzieduszycka)

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres

“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour

Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………

L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane

Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d‘enfants “

Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet

Miss vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable

Rullio di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte cavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Cambiano secondo le ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

Promenade notturna 9 collage 30x40

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

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E adesso una poesia kitchen inedita del 2022

2.

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[Umwelt fait en 2004, durée 1 h et 6 mn coreografie Maguy Marin
musique Denis Mariotte pour le Festival Equilibrio 2022]

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Panneaux miroir et six personnages
son musical assourdissant répétitif
infernal le souffle du vent entre les panneaux

Fragments du tourbillon de la vie
une pomme croquée à pleines dents
un sandwich dévoré
une serpillière esclave de la propreté
une defécation de 3 pantalons abaissés
des lampes électriques qui fouillent le sol
des fesses de femmes éclairées à cru
de dos 3 chadors orangés
des bretelles de salopettes que l’on replace
des sacs poubelle
les couronnes du pouvoir
des chapeaux pour toutes saisons
des robes insolentes unisexes rouges jaunes blanches
des disputes des viols
des actes amoureux sexuels
des déchets jetés sur scene

Le tout le peu le rien
les mâchoires grincent

2.

Pannelli a specchio e sei personaggi
suono musicale assordante ripetitivo
infernale il soffio del vento fra i pannelli

Frammenti del tourbillon della vita
una mela morsicata a trentadue denti
un sandwich divorato
uno strofinaccio schiavo della pulizia
una defecazione di 3 pantaloni abbassati
delle lampade elettriche che frugano il suolo
delle chiappe di donne illuminate a crudo
di schiena 3 chador color arancia
delle bretelle di salopette che si aggiustano
dei sacchi di immondizia
le corone del potere
dei cappelli per tutte le stagioni
dei vestiti insolenti unisex rossi gialli bianchi
delle dispute degli stupri
degli atti amorosi sessuali
dei rifiuti gettati sulla scena

Il tutto il poco il niente
le mascelle digrignano

Promenade notturna 8 40x40 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, Promenade nocturne, collage, 30×40, 2023

6.

“Le concret – dit la blanche geisha –
c’est d’utiliser un parapluie
lorsqu’il pleut sous les peupliers au printemps”

Eredia qui savourait un hamburger d’insectes
répondit: “ou bien du gel dans chaque artère
mais également l’intelligence qui tombe dans une poussette d’enfant”

Les têtes d’abricots se foutent totalement
du bleu et du vert lorsque l’orage éclate”
répliqua Madame Green en fumant sa cigarette électronique

Le noir de Londres simulation vêtue de son contraire
prétendit “qu’au Musée Grévin l’on trouve
des phénomènes inanimés comme un piano liquide
des porte-jartelles de lézards en mutation
des masques qui se soufflent le nez sans faire de bruit”

“Et l’abstrait?! demande Bellmer
la réponse resta suspendue avec des poupées
démembrées au centre du temple de
Ramsès II où aboyait Kandinsky

6.

“Il concreto – dice la bianca geisha
è di utilizzare un ombrello
a primavera quando piove sotto i pioppi!

Eredia che assaporava un hamburger d’insetti
rispose: “oppure del gel in ogni arteria
ma egualmente l’intelligenza che cade in una carrozzella per bambini”

“Le teste d’albicocca se ne fottono totalmente
del blu e del verde quando scoppia il temporale”
replicò Madame Green fumando la sua sigaretta elettronica

Il nero di Londra simulazione vestita del suo contrario
pretese “che al Museo Grévin si trovano
dei fenomeni inanimati come un piano liquido
di giarrettiere di lucertole mutanti
maschere che si soffiano il naso senza rumore”

“E l’astratto?! chiede Bellmer
la risposta restò sospesa con delle bambole
smembrate al centro del tempio di
Ramses II dove abbaiava Kandinsky

(inediti, da Nuove poesie, 2023)

Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen, nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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La lingua della poesia, la lingua che resta ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde, Perché ciò che si perde è di Dio, Stralci di Giorgio Agamben, Carlo Salzani, Giorgio Linguaglossa, L’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica, “l’animale che ha il linguaggio”, Il feticismo della merce, il gioco, il giocattolo, Il tema della frattura metafisica fra significante e significato, Il linguaggio poetico liofilizzato e de-politicizzato di oggi, Poesia kitsch di Pavel Řezníček, Guido Galdini, Francesco Paolo Intini

gerhard-richter-Ulrike Meinhof, 1977 foto

Gerhard Richter, Ulrike Meinhof, foto, 1977
[Una lingua che sembra non avere più nulla da dire e che, tuttavia, ostinatamente resta e resiste e da cui non possiamo separarci? Vorrei rispondere: è la poesia. Che cos’è, infatti, la poesia, se non ciò che resta della lingua dopo che ne sono state disattivate una a una le normali funzioni comunicative e informative?] (G. Agamben) [l’uomo è l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto, la lingua è l’indistruttibile che può essere continuamente distrutta] (g.l.)

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Scrive Carlo Salzani:

«La filosofia di Agamben potrebbe essere meglio rubricata (se proprio si ha bisogno di etichette) come una critica integrale dell’ontologia dell’Occidente. Allo stesso modo, la sua proposta politica, la pars construens del suo progetto, risulta incomprensibile (e anche per questo ha ricevuto tanti attacchi) se non la si pensa all’interno di questo ambito: una nuova politica (data l’insormontabile crisi della vecchia) è possibile solo attraverso una nuova ontologia. Nello stesso ambito dobbiamo anche inserire le analisi dell’estetica (o, meglio, dell’arte), della letteratura, dell’etica e del linguaggio: la questione, per Agamben, è sempre una questione di quello che Aristotele chiamava prote philosophia, “filosofia prima”. Un’importanza centrale assume in questo senso l’analisi del linguaggio, giacché l’uomo è, come vuole la celebre definizione aristotelica,“l’animale che ha il linguaggio”, ma questa definizione non può essere presa e accettata acriticamente, dev’essere, anzi, problematizzata, analizzata e indagata al di là dei suoi presupposti metafisici.

Questa è la preoccupazione costante e inaggirabile che Agamben metterà esplicitamente al centro di ogni sua elaborazione, giacché dalla risposta che la civiltà occidentale ogni volta darà alla domanda “Cosa significa avere il linguaggio?”non dipende solo lo status della linguistica e delle scienze ingenerale, o dell’arte e della letteratura, ma quello della definizione stessa di “umano”, e quindi della vita, dell’etica e della politica. Inscindibile da queste questioni è quella del tempo e della storia, ed è anch’essa una questione che, in modo coerente e sostanzialmente invariato, informa ogni singola opera di Agamben. Vivere e agire, e cioè l’etica e la politica, avvengono solo nel tempo e a partire dal tempo, per cui la critica dell’ontologia occidentale significa anche e innanzi tutto una critica dell’idea di tempo e di storia che da questa ontologia deriva e che, allo stesso tempo, a essa dà forma. La proposta di una nuova ontologia significherà allora la proposta di una nuova idea di tempo e di storia, di una nuova esperienza del vivere e dell’agire nel tempo.

Questo modo apre uno spazio all’“epifania dell’inafferrabile” (S 13). L’“appropriazione” che l’intenzione accidiosa/ malinconica concede è “fantasmagorica”, ma proprio in quanto tale essa apre uno spazio all’“esistenza dell’irreale” e delimita una scena in cui “l’io può entrare in rapporto con esso e tentare un’appropriazione che nessun processo potrebbe pareggiare e nessuna perdita insidiare” (S 26). Una “nuova dimensione” è in questo modo aperta, un “intermediario luogo epifanico” (S 32) che mette l’uomo in contatto con un mondo, quello in cui desiderio e oggetto interagiscono, da cui dipende la sua felicità. La stessa struttura è individuata nella seconda “stanza”, la più benjaminiana perché tratta temi e autori classici delle ricerche dell’ultimo Benjamin nei “Passages” di Parigi e nel libro su Baudelaire (il feticismo della merce, Freud, Marx, Baudelaire, il dandy, il giocattolo), anche se il debito rimane implicito e “senza virgolette”.

Qui il rapporto tra conoscenza, desiderio e oggetto è cercato nel modello del “feticcio”, dalla sua analisi freudiana come “presenza di un’assenza”, al “feticismo della merce” individuato da Marx nello sdoppiamento tra valore d’uso e valore di scambio, che rende la merce inafferrabile e fantasmagorica. Il passo al di là di questa frattura è individuato nella rivoluzione poetica di Baudelaire (un Baudelaire molto benjaminiano), che all’invadenza della merce oppose la mercificazione assoluta dell’opera d’arte, nella quale il processo di feticizzazione è “spinto fino al punto da annullare la realtà stessa della merce in quanto tale” (S 51). Facendo dell’opera il veicolo stesso dell’inafferrabile, Baudelaire assegna all’arte il compito di appropriarsi dell’irrealtà e, come il dandy, insegna la possibilità di un nuovo rapporto con le cose che vada oltre il valore d’uso e il valore di scambio. Portando fino alle sue estreme conseguenze il principio della perdita e dello spossessamento di sé, il dandy e la poesia moderna oppongono all’accumulazione capitalistica del valore di scambio e al godimento del valore d’uso del marxismo “la possibilità di un nuovo rapporto con le cose: l’appropriazione dell’irrealtà” (S 59).

La terza “stanza”, che ricostruisce la teoria del fantasma nella lirica tardo-stilnovista, non solo è la più estesa, ma occupa il posto centrale della ricerca in quanto ne costituisce il modello. È anche la “stanza” in cui l’influenza del metodo warburghiano è più evidente ed esplicita (e ad Aby Warburg, tra gli altri, è dedicata). Quella che viene qui ricostruita, mediante una lunga, minuziosa ed estremamente erudita analisi della teoria della sensazione medioevale, è la relazione tra amore e immagine: secondo la psicologia medioevale, gli oggetti sensibili imprimono nei sensi la loro forma e quest’impressione (chiamata “fantasma”) è ricevuta dalla fantasia, che la conserva anche in assenza dell’oggetto. Questo “fantasma” costituisce una sorta di intermediario fra l’anima e la materia e permette così di spiegare tutti gli influssi fra il corporeo e l’incorporeo, compreso l’amore: “L’oggetto dell’amore è infatti un fantasma, ma questo fantasma è uno ‘spirito’, inserito, come tale, in un circolo pneumatico in cui si aboliscono e si confondono i confini fra l’esterno e l’interno, il corporeo e l’incorporeo, il desiderio e il suo oggetto” (S 128).

L’amore è in quanto tale “fantasmatico”, cioè irreale, e, come l’accidia/ malinconia, nel suo fissarsi sull’inaccessibilità del suo oggetto esso è “patologico”, è la “malattia mortale” dell’immaginazione. È con gli stilnovisti che questo processo riceve una“nobilitazione soteriologica”: nel linguaggio poetico (esemplificato soprattutto dalla teorizzazione di Dante) inteso come dettato d’amore, gli stilnovisti cercano di colmare la frattura metafisica fra visibile e invisibile, corporeo e incorporeo, apparire ed essere. Eros e poesia sono qui legati e coinvolti in una comune appartenenza che scuote la distinzione semantica tra significante e significato e che concilia la frattura fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto: “il fantasma genera il desiderio, il desiderio si traduce in parole e la parola delimita uno spazio in cui diventa possibile l’appropriazione di ciò che non potrebbe altrimenti essere né appropriato né goduto” (S 153). Il tema della frattura metafisica fra significante e significato è analizzato a fondo nell’ultima “stanza”, che presenta una critica della semiologia moderna. La dualità del manifestante e della cosa manifestata che costituisce il segno rispecchia la“frattura originale della presenza”: “tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare” (S 160-61). La nozione semiotica del segno come unità espressiva di significante (S) e significato (s) rimuove e occulta la frattura originale, e quest’oblio metafisico si manifesta nella barriera (/)del grafo che indica il segno: S/s. Non interrogandosi sul senso di questa barriera, di questa divisione/differenza, la metafisica occidentale (di cui la semiologia moderna rappresenta il momento culminante e l’impasse) copre l’abisso spalancato fra il significante e il significato; essa non è quindi che “l’oblio della differenza originaria tra significante e significato” (S 63).

In questo senso, la strutturazione metafisica del significare nella semiologia rende il fatto linguistico qualcosa di “impossibile”,mostra (nella barriera /) l’impossibilità del segno di prodursi nella pienezza della presenza. Il progetto della decostruzione di Derrida ha messo a nudo, per Agamben, l’eredità metafisica della semiologia moderna, ha posto l’accento su e ha svelato la frattura originaria, ma far venire alla luce il fondamento negativo della metafisica non significa superarla, e la decostruzione qui si è fermata. Una “semiologia liberata” che voglia “far segno” verso un nuovo modello del significare, verso “un dire che non ‘nasconda’ né ‘riveli’, ma ‘significhi’ la stessa giuntura […] insignificabile fra la presenza e l’assenza, il significante e il significato” (S 165), dovrebbe portare lo sguardo proprio su questa barriera, su questa “articolazione invisibile” che indichi la strada per quello che Eraclito chiamava “armonia”, e cioè una stazione “giusta” nella presenza.

[contemporaneo]

La sconnessione e l’inattualità conferiscono alla contemporaneità la struttura dell’“urgenza”: la contemporaneità “è, nel tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma” (NU 26), e lo fa mettendo in relazione i tempi, l’arcaico con il moderno, l’origine con il presente. 

“Nietzsche situa […] la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. (NU 20)

“Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente” (NU 23)

per eccellenza” è quindi il tempo messianico, il “tempo di ora”che trasforma e mobilita il tempo come esigenza di compimento. Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di“citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra,acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora. (NU 31)
Agamben, nella sua opera, ha diretto uno sguardo impietoso sulle tenebre del nostro presente e ha cercato di “illuminarle”e di rispondere alla loro sfida mettendole in relazione con gli altri tempi. E, se proprio di “attualità” si deve parlare, allora l’attualità del pensiero di Agamben sta proprio in questo: nell’aver fatto del presente il “tempo” della propria opera».

da C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, il melangolo, 2013 pp. 178, € 14
SALZANI-Agamben 03-10_opuscula 08/10/13 12:39 Pagina 177 Continua a leggere

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Giorgio Agamben, Il luogo ateologico della poesia, di Giuseppe Zuccarino, L’oggetto perduto e la nuova lingua, La poesia e l’industria culturale, Due poesie di Mallarmé, nuova traduzione

Giorgio Agamben in giacca chiara

G. Agamben

Giuseppe Zuccarino 

Il luogo ateologico della poesia.

Agamben e Mallarmé L’oggetto perduto e la nuova lingua

Giorgio Agamben ha talvolta dedicato dei saggi ai simbolisti francesi dell’Ottocento1, benché mai, specificamente, a Mallarmé. Questo non significa che il filosofo attribuisca al poeta una minore importanza, anzi i frequenti e significativi rimandi agli scritti mallarmeani che si incontrano nei suoi libri dimostrano l’esatto contrario. Tuttavia, dato che si tratta di passaggi brevi e allusivi, per poterli comprendere in maniera adeguata occorrerà cercare di contestualizzarli meglio e, per così dire, sciogliere le abbreviazioni. Già in uno dei primi volumi di Agamben, Stanze, emerge il ruolo determinante che egli assegna a Mallarmé nello sviluppo della poesia moderna. Quest’ultima viene posta a confronto non con la produzione degli antichi, ma con la lirica medioevale. A giudizio del filosofo, nella poesia amorosa in lingua d’oc e d’oïl, così come nei testi dei siciliani e degli stilnovisti, si realizza qualcosa di raro e ammirevole: «Il vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio, apre infatti uno spazio in cui il segno poetico appare come l’unico asilo offerto al compimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia»2 .

In tale perfetta circolarità, la lirica amorosa del Medioevo «celebra, forse per l’ultima volta nella storia della poesia occidentale, il suo gioioso e inesausto “unimento spirituale” col proprio oggetto d’amore»3 Dopo questa riuscita eccezionale, si direbbe che, a parere di Agamben, il miracolo non abbia potuto ripetersi. Tuttavia almeno un aspetto di esso si è conservato nella lirica dei secoli successivi: «Se si volesse cercare, sulla traccia esemplare di Spitzer, un trait éternel della poesia romanza, è certo che proprio questo nesso potrebbe fornire il paradigma capace di spiegare tanto il trobar clus, come “tendenza specificamente romanza verso la forma preziosa”, che l’analoga tensione della poesia romanza verso un’autosufficienza e un’assolutezza del testo poetico»4 .

Agamben sembra incline a vedere nel passaggio dai poeti medioevali a quelli moderni (esemplificati da Mallarmé) un cambiamento di segno, dal positivo al negativo, dall’appagamento alla perdita: «Nel corso di un processo storico che ha in Petrarca e in Mallarmé le sue tappe emblematiche, questa essenziale tensione testuale della poesia romanza sposterà il suo centro dal desiderio al lutto e Eros cederà a Thanatos il suo impossibile oggetto d’amore per recuperarlo, attraverso una funebre e sottile strategia, come oggetto perduto, mentre il poema diventa il luogo di un’assenza che trae però da quest’assenza la sua specifica autorità. La “rosa” nella cui quête si sorregge il poema di Jean de Meung, diventa così l’absente de tout bouquet che esalta nel testo la sua disparition vibratoire per il lutto di un desiderio imprigionato come un “cigno” nel “ghiaccio” del proprio spossessamento»5 .

Come si vede, il discorso è complesso, anche perché contiene vari riferimenti impliciti. Il filosofo instaura un raffronto, per contrasto, fra i testi mallarmeani e un capolavoro del tredicesimo secolo, il Roman de la Rose, vasta opera allegorica al termine della quale, dopo aver superato molti ostacoli, il protagonista perviene a ciò cui aspirava, ossia a cogliere il metaforico fiore, «rosier et rose, flor et fuelle»6 . Nel poeta ottocentesco, invece, il fiore si smaterializza, per effetto della scissione fra significante e referente, fra idea e oggetto reale: «A che scopo la meraviglia di trasporre un fatto di natura nella sua quasi sparizione vibratoria, secondo il gioco della parola, se non perché ne emani, senza il fastidio di un vicino o concreto richiamo, la nozione pura? Io dico: un fiore! e, fuori dall’oblio in cui la mia voce relega ogni contorno, in quanto cosa diversa dai calici noti, musicalmente si leva, idea autentica e soave, l’assente da ogni mazzo»7 . Certo, qui viene meno il sogno di una perfetta coincidenza fra parola e cosa, ma la perdita è compensata da qualcos’altro. Spetta infatti al poeta sottrarre i vocaboli all’uso ordinario e conferire loro, all’interno del verso, non soltanto un’intensa musicalità ma addirittura una nuova vita: «Al contrario di una funzione di numerario facile e rappresentativo, al modo in cui lo tratta a priori la folla, il dire, innanzitutto sogno e canto, ritrova nel Poeta, per costitutiva necessità di un’arte consacrata alle finzioni, la propria virtualità. Il verso, che da molti vocaboli rifà una parola totale, nuova, estranea alla lingua e come incantatoria, perfeziona quest’isolamento della parola […] e causa a voi la sorpresa di non aver mai udito un certo frammento ordinario di discorso, nello stesso momento in cui la reminiscenza dell’oggetto nominato si immerge in una nuova atmosfera»8 .

mallarme_nadarL’idea, sostenuta da Agamben, che in Mallarmé il desiderio ceda il posto al lutto ed Eros a Thanatos appare eccessiva e opinabile. Infatti, benché il poeta francese abbia scritto dei  celebri  tombeaux, il tema dell’erotismo è ben presente nelle sue opere9.  Il filosofo, tuttavia, preferisce insistere su un presunto blocco del desiderio, e lo fa chiamando in causa tramite allusioni un celebre sonetto nel quale Mallarmé evoca l’immagine di un cigno rimasto intrappolato, con le zampe e le ali, in un lago di ghiaccio10. Nondimeno in altri testi il poeta esalta, all’opposto, la scioltezza del gesto, quale si manifesta ad esempio nella danza e nel mimo. Poiché si tratta di argomenti che sono cari ad Agamben, egli non manca di richiamare tali testi, sia pure fuggevolmente. Così ricorda che «Mallarmé, osservando danzare la Loïe Fuller, poteva scrivere che essa era come “la sorgente inesauribile di se stessa”», oppure che «nel mimo, i gesti rivolti agli scopi più familiari sono esibiti come tali, e perciò, tenuti in sospeso “entre le désir et son accomplissement, la perpétration et son souvenir”, in quello che Mallarmé chiama un milieu pur» 11. Tutto dipende dunque dagli scritti del poeta che, di volta in volta, si sceglie di prendere in considerazione, e dal modo in cui li si interpreta.

1 Cfr. G. Agamben, Baudelaire o la merce assoluta, in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, pp. 49-54, e, su Paul Valéry, L’Io, l’occhio, la voce, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 90-106.
2 La «gioi che mai non fina», in Stanze, cit., pp. 151-152.
3 Ibid., pp. 154-155. Cfr. Dante: «Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata» (Convivio, III, II, Milano, Garzanti, 1980, p. 145).
4 La «gioi che mai non fina», cit., p. 154. Cfr. Leo Spitzer, L’interpretazione linguistica delle opere letterarie (1928), in Critica stilistica e semantica storica, tr. it. Bari, Laterza, 1954; 1975, pp. 46-72 (l’espressione citata è a p. 66).
5 La «gioi che mai non fina», cit., p. 154.
6 Guillaume de Lorris – Jean de Meun, Le Roman de la Rose, Paris, Garnier-Flammarion, 1974, p. 573 (tr. it. Il Romanzo della Rosa, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 386).
7 Stéphane Mallarmé, Crise de vers, in Divagations, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1998- 2003 (d’ora in poi abbreviato in Œ. C.), vol. II, p. 213 (tr. it. Crisi di verso, in Divagazioni, in Opere. Poemi in prosa e opera critica, Milano, Lerici, 1963, p. 258; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
8 Ibidem.
9 Per un’ampia disamina delle tematiche mallarmeane si rinvia al classico studio di Jean-Pierre Richard, L’univers imaginaire de Mallarmé, Paris, Éditions du Seuil, 1961.
10 Cfr. Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, in Poésies, in Œ. C., vol. I, pp. 36-37 (tr. it. Il vergine, il vivace e il bell’oggi, in Poesie, Milano, Feltrinelli, 1966; 1980, pp. 141-143).
11 Le citazioni agambeniane sono tratte rispettivamente da Al di là dell’azione, in Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, p. 135, e Note sul gesto, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 52. Esse a loro volta rinviano, ma senza indicarne il titolo, a due scritti mallarmeani: Autre étude de danse, in Divagations, in Œ. C., vol. II, pp. 174- 178 (tr. it. Altro studio di danza, in Divagazioni, cit., pp. 215-216) e Mimique, ibid., pp. 178-179 (tr. it. Mimica, in Divagazioni, cit., p. 217).

 il canto dei grilli

Spesso Agamben si sofferma su passi poco noti di Mallarmé. Ciò avviene ad esempio nel caso di una lettera in cui il poeta si confida con un amico, Eugène Lefébure, citando dapprima alcuni versi tratti da un sonetto baudelairiano, Bohémiens en voyage: «Dal fondo della sua tana sabbiosa, il grillo, / guardandoli passare [gli zingari], rafforza la sua canzone; / Cibele, che li ama, aumenta la verzura»12. Poi Mallarmé collega l’espressione che concerne il frinire degli insetti a un’esperienza personale: «Conoscevo unicamente il grillo inglese, dolce e caricaturista: solo ieri, in mezzo alle giovani spighe, ho ascoltato questa voce sacra della terra ingenua, già meno scissa di quella dell’uccello, […] ma soprattutto assai più una rispetto a quella di una donna, che camminava e cantava davanti a me, e la cui voce sembrava lasciar trasparire le mille morti in cui vibrava – e compenetrata di Nulla! Tutta la felicità che la natura possiede per il fatto di non essere scissa in materia e spirito si manifestava in quel suono unico del grillo!»13.

Senza riportare il brano per esteso, Agamben si riferisce ad esso perché vi trova una conferma di ciò che pensa riguardo a una delle caratteristiche che più differenziano l’uomo dalle altre specie: «Gli animali, infatti, non sono privi di linguaggio; al contrario, essi sono sempre e assolutamente lingua, in essi la voix sacrée de la terre ingenue – che Mallarmé, ascoltandola nel canto di un grillo, oppone come une e non-décomposée alla voce umana – non conosce interruzioni né fratture. Gli animali non entrano nella lingua: sono sempre già in essa. L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, scinde questa lingua una e si pone come colui che, per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io. Per questo, se la lingua è veramente la natura dell’uomo […] ed essere natura significa essere sempre già nella lingua – allora la natura dell’uomo è scissa in modo originale, perché l’infanzia introduce in essa la discontinuità e la differenza fra lingua e discorso. Ed è su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano»14.

L’uomo, infatti, a differenza degli altri animali, non può limitarsi a far uso della propria eredità genetica, ma ha bisogno di ricevere anche un’eredità culturale, il cui aspetto più importante è costituito dal linguaggio:

«A differenza di quanto avviene nella maggior parte delle specie animali (e di quanto Bentley e Hoy hanno recentemente dimostrato per il canto dei grilli, nel quale possiamo dunque veramente vedere, con Mallarmé, la voix une et non décomposée della natura), il linguaggio umano non è integralmente iscritto nel codice genetico. […] È un fatto di cui non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza per la comprensione della struttura del linguaggio umano, che, se il bambino non è esposto ad atti di parola nel periodo compreso fra i due e i dodici anni, la sua possibilità di acquisire il linguaggio è definitivamente compromessa. Contrariamente a quanto affermato da un’antica tradizione, l’uomo non è, da questo punto di vista, l’“animale che ha il linguaggio”, ma, piuttosto, l’animale che ne è privo e deve, perciò, riceverlo dal di fuori»15.

Come si vede, l’osservazione di Mallarmé viene presa estremamente sul serio dal filosofo, che trova in essa uno spunto atto a individuare un elemento specifico dell’essere umano. Occorre accennare a un altro testo nel quale Agamben, pur non richiamandosi al poeta francese, torna a parlare del canto dei grilli. Si tratta di una serie di frammenti, nei quali le idee già esposte in Infanzia e storia vengono riformulate con un tono quasi letterario. Ecco l’incipit: «Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci animali.

Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono, che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali»16. Tuttavia questa carenza si accompagna a una preziosa possibilità, quella del pensiero: «Pensare, nel linguaggio, noi lo possiamo solo perché il linguaggio è e non è la nostra voce. […] (Il grillo – è chiaro – non può pensare nel suo frinito.) […] Pensare, noi lo possiamo solo se il linguaggio non è la nostra voce, solo se in esso misuriamo fino in fondo – non c’è, in verità, fondo – la nostra afonia»17. L’uomo è dunque affascinato dalla voce animale proprio perché resta separato da essa, ma tale privazione gli consente di – o lo obbliga a – pensare. La passeggiata del filosofo in mezzo alla natura costituisce dunque un incontro mancato, o meglio riuscito proprio in quanto mancato: «Camminiamo nel bosco: a un tratto sentiamo un frullo d’ali o d’erba smossa. Una fagianella spicca il volo e appena la vediamo sparire fra i rami, un istrice s’interna nella macchia più folta, sgrigiolano le foglie arse su cui rotola la serpe. Non l’incontro, ma questa fuga di bestie invisibili è il pensiero»18. Noi umani possiamo parlare, persino cantare (come la donna evocata da Mallarmé nella lettera), e tuttavia la nostra voce è divisa, non una come quella degli animali, e reca al proprio interno le tracce della morte: è dunque, secondo le parole del poeta, «compenetrata di Nulla».

12 Charles Baudelaire, Bohémiens en voyage, in Les fleurs du mal, in Œuvres complètes, vol. I, Paris, Gallimard, 1975, p. 18 (tr. it. Zingari in viaggio, in I fiori del male, Milano, Rizzoli, 1980; 2001, p. 95).
13 Lettera a Eugène Lefébure del 27 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 721.
14 G. Agamben, Infanzia e storia, in Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1978, pp. 50-51.
15 Ibid., p. 56. Il testo scientifico è il seguente: David Bentley – Ronald Hoy, The neurobiology of cricket song, in «Scientific American», 231, 1974, pp. 34-44. La definizione dell’uomo in quanto «unico animale che abbia la favella» è di Aristotele (Politica, I, 1253a, tr. it. Milano, Rizzoli, 2002, p. 77) e viene citata spesso nei libri agambeniani.
16 G. Agamben, La fine del pensiero. La fin de la pensée, Paris, Le Nouveau Commerce, 1982 (senza numerazione di pagina).
17 Ibidem.
18 Ibidem.

 La Musa moderna

Uno dei problemi che Agamben si pone, in rapporto alla poesia degli ultimi secoli – di cui Mallarmé costituisce per lui una figura emblematica – è quello che concerne il ruolo dell’ispirazione. Per chiarirlo, anche in questo caso il filosofo prende spunto da una riflessione sul passato: «Tutta la letteratura del Medioevo è, infatti, impegnata in una quête del libro e dell’anteriorità della parola che deve legittimare l’opera letteraria. […] V’è un’eccezione notevole e significativa: il grande canto cortese dei trovatori provenzali, quel trobar clus che si richiude su se stesso e non rimanda ad alcuna parole anteriore, riuscendo così a porre il nulla come propria sorgente: “Farai un vers de dreyt nien”, “Farò un verso dal puro niente”, recita il primo verso della canzone più enigmatica di Guglielmo IX. Non è possibile qui trattare tematicamente quest’argomento. Val  la pena però almeno ricordare il problema fondamentale dell’ispirazione, che ne consegue direttamente. Le Muse, Beatrice, Laura, Délie, tutti questi nomi non designano forse quell’origine assente della parola letteraria che – una volta compiutosi il passaggio dalla cultura orale alla scrittura – diviene problematica per il poeta? Avviene persino che, al termine di un itinerario i cui punti estremi sono Dante e Mallarmé, il poeta si trovi costretto a proclamare la morte di Beatrice e l’abolizione del luogo originario della parola. Può perfino darsi che egli non possa fondare la sua parola se non su tale abolizione: è questo il gesto di Mallarmé che afferma: “La Destruction fut ma Béatrice”»19.

La frase mallarmeana si legge in una lettera in cui il poeta spiega il modo in cui procede: «Io non ho creato la mia Opera che per eliminazione, e ogni verità acquisita nasceva solo dalla perdita di un’impressione che, dopo aver scintillato, si era consumata e mi consentiva, grazie alla sue tenebre liberate, di avanzare più in profondità nella sensazione delle Tenebre Assolute. La Distruzione fu la mia Beatrice»20. Dunque il lirico moderno deve accettare di addentrarsi nel buio, senza più una voce che possa fargli da guida e dettargli i versi che andrà a comporre. O meglio, se un’ispiratrice gli resta, è proprio la sensazione che scrivere sia impossibile: «Musa moderna dell’Impotenza, che da molto tempo mi vieti il tesoro familiare dei Ritmi, e mi condanni (amabile supplizio) a non far altro che rileggere […] i maestri inaccessibili la cui bellezza mi fa disperare; mia nemica, e tuttavia mia incantatrice dalle perfide pozioni e dalle malinconiche ebbrezze, io ti dedico, come una burla o – chi lo sa? – come un pegno d’amore, queste poche righe della mia vita scritte nelle ore clementi in cui non mi ispiravi l’odio per la creazione e lo sterile amore del nulla»21.

Per comprendere come l’assenza di ispirazione possa fungere ancora, paradossalmente, da fonte di ispirazione, da Musa a cui resta possibile rivolgersi, occorre risalire indietro nel tempo, fino a quegli scrittori del Romanticismo tedesco che hanno posto le basi teoriche per gran parte della cultura moderna. Ad essi e ai concetti da loro elaborati, come quello di ironia, Agamben dedica molta attenzione nelle sue prime opere. In una di esse, spiega che «i romantici, riflettendo su questa condizione dell’artista che ha fatto in sé l’esperienza dell’infinita trascendenza del principio artistico, avevano chiamato ironia la facoltà attraverso la quale egli si strappa al mondo delle contingenze e corrisponde a quell’esperienza nella coscienza della propria assoluta superiorità su ogni contenuto»22. Ciò parrebbe esaltante anziché deprimente, ma comporta di fatto gravi conseguenze: «Ironia significa che l’arte doveva diventare oggetto a se stessa e, non trovando più vera serietà in un contenuto qualsiasi, poteva d’ora in poi soltanto rappresentare la potenza negatrice dell’io poetico […].

Hegel si era già reso conto di questa vocazione distruttrice dell’ironia […]; ma aveva anche compreso che, nel suo processo distruttivo, l’ironia non poteva arrestarsi al mondo esterno e doveva fatalmente rivolgere contro se stessa la propria negazione»23. Da ciò deriva un mutamento dell’idea di opera, per cui quest’ultima si configura ormai, in certo modo, come irrealizzabile, perlomeno nella sua pienezza. «Benn osserva giustamente nel suo saggio sui Problemi del lirismo (1951), che tutti i poeti moderni, da Poe a Mallarmé fino a Valéry e a Pound, sembrano portare al processo della creazione lo stesso interesse che essi portano all’opera […]. L’origine di questo fenomeno si trova probabilmente nelle teorie di Schlegel e di Solger sulla cosiddetta “ironia romantica”, che si fondava appunto sull’assunzione della superiorità dell’artista (cioè, del processo creativo) rispetto alla sua opera e conduceva a una sorta di costante riferimento negativo fra l’espressione e l’inespresso»24.

Un altro aspetto del medesimo fenomeno consiste nella frequente rinuncia, da parte di scrittori e artisti, a giungere all’opera compiuta: «Schlegel, a cui si deve la profetica affermazione che “molte opere degli antichi sono divenute frammenti, mentre molte opere dei moderni lo sono al loro nascere”, pensava, come Novalis, che ogni opera finita fosse necessariamente soggetta a un limite cui solo il frammento poteva sfuggire. È superfluo ricordare che, in questo senso, quasi tutte le poesie moderne, da Mallarmé in poi, sono dei frammenti, in quanto rimandano a qualcosa (il poema assoluto) che non può mai essere evocato integralmente, ma solo reso presente attraverso la sua negazione»25.

In effetti, nel presentare ai lettori la raccolta delle sue Poésies, che include alcuni fra i componimenti più eccelsi della lirica moderna, Mallarmé definisce i testi, in tono riduttivo, come semplici «studi in vista di meglio, come si prova la punta della penna prima di mettersi all’opera»26. E analogamente, nell’introdurre il volume Divagations, ne parla come di «un libro di quelli che non amo, dispersi e privi di architettura»27. Tutto dunque è per lui soltanto provvisorio, incompleto, difettoso, mentre l’opera, quella vera, è assente, resta sempre a venire. In un certo senso, non esiste neppure più il soggetto che dovrebbe scriverla; il poeta, infatti, ha reso noto a un amico quanto segue: «Io sono ora impersonale e non più lo Stéphane che hai conosciuto – bensì un’attitudine che l’Universo Spirituale ha a vedersi e a svilupparsi, attraverso ciò che fu io»28.

Chiarisce Agamben: «È nella poesia che deve necessariamente giocarsi ogni tentativo di abolire e scavalcare l’Io. Secondo una tradizione che è consustanziale alla poesia occidentale, colui che parla nella poesia non è, infatti, il soggetto del linguaggio, ma un altro, che lo si chiami Musa, Dio, Amore, Beatrice. La poesia ha, cioè, da sempre fatto dell’alienazione la condizione normale dell’atto di parola: essa è un discorso in cui Io non parla, ma riceve da altrove la sua parola (parola “ispirata”, in cui lo spirito, il “soffio” viene direttamente al linguaggio). Mallarmé […] aveva cercato di spingere all’estremo questa abolizione dell’Io nella scrittura poetica; ma ciò che, in questo modo, egli aveva trovato al di là del soggetto dell’enunciazione non era altro che la lingua stessa. L’operazione distruttrice della Musa (“La Destruction fut ma Béatrice”) porta alla parola la lingua stessa»29.

L’inno esploso

Difficilmente Agamben avrebbe potuto passare sotto silenzio un’opera singolare come Un coup de dés jamais n’abolira le hasard. Ricordiamo che il poemetto, edito dapprima in rivista nel 1897, è stato poi rielaborato dall’autore ed è apparso postumo, come volume autonomo, nel 1914-30. Si tratta di un testo breve, che costituisce però, letteralmente, qualcosa di mai visto in precedenza. Infatti le parole sono composte (nel senso tipografico del termine) in caratteri di grandezza diversa e, a seconda dei casi, in tondo, in corsivo, in maiuscolo o in grassetto. Inoltre, cosa ancor più singolare, non si presentano nella forma dei normali versi, bensì in sequenze (spesso costituite da un solo vocabolo) sparse sulle doppie pagine del libro. Parliamo di doppie pagine perché quelle pari e dispari vengono trattate come se formassero ogni volta un’unica grande superficie, e vanno dunque lette e osservate assieme. Si tratta di un esperimento per certi aspetti assimilabile all’ambito che più tardi, nella seconda metà del Novecento, verrà etichettato come «poesia concreta» o «poesia visuale»31. In realtà, Mallarmé anticipa anche le ricerche della poesia fonetica, perché, come spiega, «da questo impiego a nudo del pensiero con ritiri, prolungamenti, fughe, o dal suo disegno stesso, risulta, per chi voglia leggere ad alta voce, una partitura», in quanto «la differenza dei caratteri di stampa fra il motivo preponderante, uno secondario e altri adiacenti, detta la propria importanza all’emissione orale»32. Questi aspetti «modernistici» del Coup de dés non sembrano però interessare ad Agamben, che all’opposto inserisce l’opera, pur così originale, in una tradizione poetica fra le più antiche, 30 quella dell’inno.

Scrive infatti: «L’isolamento innico della parola ha trovato nella poesia moderna il suo esito estremo in Mallarmé. Mallarmé ha durevolmente sigillato la poesia francese affidando un’intenzione genuinamente innica a un’inaudita esasperazione della harmonía austērá. Questa disarticola e spezza a tal punto la struttura metrica del poema, che esso esplode letteralmente in una manciata di nomi slegati e disseminati sul foglio. Isolate in una “vibratile sospensione” dal loro contesto sintattico, le parole, restituite al loro statuto di nomina sacra, si esibiscono ora […] come ciò che nella lingua tenacemente resiste al discorso del senso. Questa esplosione innica del poema è il Coup de dés. In questa irrecitabile dossologia, il poeta, con un gesto insieme iniziatico ed epilogante, ha costituito la lirica moderna come liturgia ateologica»33. Ciò che colpisce il filosofo, nel testo mallarmeano, è dunque la compresenza del tono solenne, caratteristico dell’inno, e di una frantumazione che investe l’unità metrica del verso, dando luogo a versicoli composti sovente da un’unica parola. Può trattarsi di un sostantivo, di un aggettivo, di un pronome, di un avverbio, di una preposizione, mai però di un nome proprio.

Non è a quest’ultimo, infatti, che Agamben allude quando parla di «nomi» nel Coup de dés, bensì ai vocaboli isolati. A suo avviso, a definire l’harmonía austērá, o connessione aspra, «non è tanto la paratassi, quanto il fatto che in essa le singole parole (o alcune di esse) tendono a isolarsi dal loro contesto semantico fino a costituire una sorta di unità autonoma (Mallarmé aveva parlato nello stesso senso di un isolement de la parole, il cui esito estremo è il Coup de dés)»34, testo in cui si perviene alla «disseminazione dei segni sul candore allibito della pagina»35. Pure in un’intervista il filosofo si pronuncia nello stesso senso, e dopo aver ricordato «le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento volte, anche solo una particella: aber, che significa “ma”)», aggiunge: «Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase ma al nome»36.

L’assenza del nome proprio, e a fortiori del nome divino, è solo uno dei fattori che confermano l’idea del filosofo secondo cui il poemetto mallarmeano va inteso in senso ateologico. I vasti spazi bianchi presenti nei fogli del Coup de dés fanno apparire le parole scritte come se fossero disperse, al pari di stelle nel cielo notturno. Ed era proprio questa l’impressione che aveva ricevuto Paul Valéry quando Mallarmé gli aveva concesso di osservare le bozze dell’opera. A Valéry, il Coup de dés era apparso come il tentativo, riuscito, «di elevare finalmente una pagina alla potenza del cielo stellato»37. Ma si tratta di un cielo vuoto di ogni presenza trascendente, perché da tempo Mallarmé ha portato a termine con successo la «lotta terribile con quel vecchio e malvagio piumaggio – abbattuto, per fortuna –, Dio»38. Quindi l’operazione linguistica e stilistica attuata nel poemetto non aspira a celebrare nulla se non i vocaboli stessi che lo compongono, e non lascia «dietro di sé che uno spazio vuoto, in cui veramente, secondo le parole di Mallarmé, rien n’aura eu lieu que le lieu»39.

 Il Libro e il rituale delle letture

Agli occhi del poeta di fine Ottocento, la religione tradizionale può apparire superflua anche perché alcune delle funzioni da essa svolte in passato vengono ora assunte dall’arte. Agamben nota appunto che, «di pari passo al processo che, con la prima apparizione dell’industria culturale, respinge i seguaci dell’arte pura verso i margini della produzione sociale, artisti e poeti (basti, per questi ultimi, fare il nome di Mallarmé) cominciano a guardare alla loro pratica come alla celebrazione di una liturgia – liturgia nel senso proprio del termine, in quanto comporta tanto una dimensione soteriologica, in quanto sembra essere in questione la salvezza spirituale dell’artista, quanto una dimensione performativa, in cui l’attività creativa assume la forma di un vero e proprio rituale, svincolato da ogni significato sociale ed efficace per il semplice fatto di essere celebrato»40. In campo letterario, il nuovo culto si configura, per Mallarmé, come una «religione del Libro», diversa ovviamente da quelle incentrate sulla Torah, la Bibbia cristiana o il Corano. Mentre infatti i vari monoteismi pongono i testi sacri come base e origine delle rispettive fedi, per il poeta francese questo rapporto si rovescia, poiché il Libro costituisce la conclusione di un processo, ideale o storico che sia:

«Una proposizione che emana da me – così, diversamente, citata a mio elogio o per biasimo – […] vuole che tutto, al mondo, esista per far capo a un libro»41.

Quale specie di opera sia il Libro supremo e totale, Mallarmé lo spiega in una celebre lettera indirizzata a Paul Verlaine, nella quale fa capire chiaramente che egli si propone di realizzarlo, almeno in parte: «Ho sempre sognato e tentato altra cosa, con una pazienza da alchimista […] Cosa? è difficile dirlo: un libro, semplicemente, in parecchi tomi, un libro che sia un libro, architettonico e premeditato, e non una raccolta di ispirazioni casuali, fossero pure meravigliose…  Andrò più oltre e dirò: il Libro, persuaso 40 che in fondo non ve n’è che uno, tentato a sua insaputa da chiunque abbia scritto, persino i Genî.

La spiegazione orfica della Terra, che costituisce il solo dovere del poeta e il gioco letterario per eccellenza: poiché il ritmo stesso del libro, allora impersonale e vivo fin nella sua paginazione, si giustappone alle equazioni di questo sogno, o Ode. Ecco, caro amico, la confessione del mio vizio, messo a nudo, vizio che mille volte ho respinto, con la mente martoriata o stanca, ma esso mi possiede e forse riuscirò, non a fare quest’opera nel suo insieme (bisognerebbe essere non so chi per riuscirci!), ma a mostrarne un frammento eseguito, a farne scintillare in un tratto l’autenticità gloriosa, indicando il resto tutt’intero, per il quale non basta una vita»42. Se già aver concepito l’idea di un simile Libro può sembrare, a seconda dei punti di vista, ammirevole o folle, non meno spiazzante è il fatto che, tra le carte lasciate dal poeta alla sua morte, sono stati ritrovati 258 fogli di appunti preparatori per quest’opera. Essi sono stati pubblicati una prima volta nel 1957 da Jacques Scherer e poi riediti nel 1998 da Bertrand Marchal in una versione filologicamente più accurata43.

Agamben, in un suo saggio, ricorda che Mallarmé aveva inseguito «per tutta la vita il progetto di un libro assoluto, in cui il caso […] doveva essere eliminato punto per punto a tutti i livelli del processo letterario. Era necessario, per questo, eliminare innanzitutto l’autore, poiché “l’opera pura implica la sparizione elocutoria del poeta”. Occorreva, poi, abolire il caso dalle parole, perché ognuna di esse risulta dall’unione contingente di un suono e di un senso. In che modo? Includendo gli elementi casuali in un insieme necessario e più vasto: innanzitutto il verso, che “di molti vocaboli fa una parola totale, nuova ed estranea alla lingua” e poi, in un progressivo crescendo, la pagina, costituita […] come una nuova unità poetica in una visione simultanea, che include i bianchi e le parole disseminate su di essa. E, infine, il “libro” inteso non più come un oggetto materiale leggibile, ma come un dramma, un mistero teatrale o un’operazione virtuale che coincide col mondo»44. Programma quanto mai ambizioso, ma proprio per questo impossibile da realizzare. Se si prende in esame il materiale superstite, ci si trova di fronte a qualcosa di inatteso: non si tratta dei frammenti di un’opera poetica incompiuta, bensì di «una serie di foglietti illeggibili, colmi di segni, parole, cifre, calcoli, punti, grafemi. Il manoscritto […] è, infatti, per metà un guazzabuglio di calcoli impervi, fatti di moltiplicazioni, somme ed equazioni e, per l’altra metà, una serie di “istruzioni per l’uso”, tanto meticolose quanto ineseguibili»45.

Va detto che Agamben esagera quando insiste sull’incomprensibilità delle carte mallarmeane, poiché da esse, a ben vedere, le intenzioni di fondo dell’autore emergono con una certa chiarezza46. Si sa ad esempio che nell’opera sarebbero stati utilizzati generi poetici diversi, come viene suggerito dai frequenti richiami alle forme del Dramma, del Mistero, del Teatro, dell’Inno. Il teatro merita una particolare attenzione, perché spesso Mallarmé ne ha sottolineato l’importanza e lo stretto rapporto con l’idea di Libro. Così in un’occasione ha asserito: «Io credo che la Letteratura, ripresa alla propria fonte che è l’Arte e la Scienza, ci fornirà un Teatro, le cui rappresentazioni costituiranno il vero culto moderno; un Libro, spiegazione dell’uomo sufficiente ai nostri più bei sogni»47. Se molti dei fogli relativi al Livre vertono sull’aspetto fisico che l’opera dovrà assumere e sui modi della sua pubblicazione e vendita, parecchi altri ipotizzano una forma di fruizione diversa da quella tradizionale, cioè una serie di letture pubbliche che avrebbero dovuto essere paragonabili a un’azione teatrale o a una cerimonia.

Agamben non manca di accennarvi: 44 «Sembra che Mallarmé pensasse a una sorta di performance o balletto, in cui 24 lettori-spettatori avrebbero letto 24 fogli disposti ogni volta in un ordine diverso»48. In effetti, non è esattamente così: Bertrand Marchal spiega che le letture, nelle intenzioni di Mallarmé, richiedono «uno spazio strettamente regolato e uno scenario minimale: un sipario, un mobile di lacca nei cui scaffali sono disposti i fogli, e le sedie per il pubblico»49. È vero che gli spettatori sono ventiquattro, al pari dei fogli (da intendersi però come plichi di sedici pagine) utilizzati in ogni seduta, ma a svolgere il ruolo di lettore è un venticinquesimo partecipante, ossia il poeta stesso. Egli si presenta non nelle vesti di autore dei testi, perché il Libro dev’essere rigorosamente anonimo, bensì in quelle di semplice «operatore», il cui ruolo consiste nel mostrare che «l’opera è essenzialmente mobile, si presta a manipolazioni, combinazioni e confronti»50.

Come si vede, quello mallarmeano è un progetto originale e di vasta portata, che però non ha trovato alcuna attuazione pratica. Lo conosciamo solo per via di qualche accenno nelle lettere e per l’insieme degli appunti, a volte enigmatici, che ci sono rimasti. Si tratta dunque, se si vuole, di un fallimento, perché – dice Agamben – «il “colpo di dadi” del “libro” che ha preteso di identificarsi col mondo elimina il caso soltanto a patto di far esplodere il libro-mondo in una palingenesi essa stessa necessariamente casuale»51. E tuttavia, pur senza sopravvalutare dei fogli che di certo non costituiscono (né sostituiscono) l’opera non scritta, sarebbe erroneo ritenerli trascurabili, poiché il loro valore sta proprio nell’essere la testimonianza di un sogno irrealizzabile. In tal senso, aveva ragione un amico di Agamben, Italo Calvino, quando diceva: «Sono sempre stato affascinato dal fatto che Mallarmé, che nei suoi versi era riuscito a dare un’impareggiabile forma cristallina al nulla, abbia dedicato gli ultimi anni della sua vita al progetto d’un libro assoluto come fine ultimo 48 dell’universo»52. Il grande narratore motivava così il fascino suscitato in lui da quest’idea del poeta francese: «L’eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d’attività, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione. Solo se poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione»53.

da http://philosophykitchen.com/2019/09/il-luogo-ateologico-della-poesia-agamben-e-mallarme/

19 L’origine e l’oblio. Su Victor Segalen, in La potenza del pensiero, cit., pp. 198-199. Cfr. Guilhem de Peitieu, Farai un vers de dreit nien, in AA. VV., La poesia dell’antica Provenza, vol. I, tr. it. Milano, Guanda, 1984, pp. 70-73. L’allusione a Délie rimanda a un’opera del poeta cinquecentesco Maurice Scève: Délie. Objet de plus haute vertu (Paris, Gallimard, 1984).
20 Lettera a Eugène Lefébure del 27 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 717.
21 Symphonie littéraire, in Dossier de «Divagations», in Œ. C., vol. II, p. 281.
22 G. Agamben, Un nulla che annienta se stesso, in L’uomo senza contenuto, Milano, Rizzoli, 1970, p. 89.
23 Ibid., pp. 89-90. Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, tr. it. Torino, Einaudi, 1967; 1976, pp. 75-81 e 182-183.
24 Beau Brummell o l’appropriazione dell’irrealtà, in Stanze, cit., p. 63. Cfr. Gottfried Benn, Problemi della lirica, in Lo smalto sul nulla, tr. it. Milano, Adelphi, 1992, pp. 266-302 (in particolare p. 268).
25 Freud o l’oggetto assente, in Stanze, cit., pp. 40-41. La frase riportata da Agamben si legge in Friedrich Schlegel, Frammenti dall’«Athenaeum», in Frammenti critici e poetici, tr. it. Torino, Einaudi, 1998, p. 33.
26 Bibliographie, in Poésies, in Œ. C., vol. I, p. 46.
27 Premessa senza titolo a Divagations, in Œ. C., vol. II, p. 82 (tr. it. in Divagazioni, cit., p. 3).
28 Lettera a Henri Cazalis del 14 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 714.
29 L’Io, l’occhio, la voce, cit., pp. 101-102.
Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, in Œ. C., vol. I, pp. 363-387 (tr. it. in Igitur – Un colpo di dadi, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 157-177).
31 Cfr. in proposito Vincenzo Accame, Il segno poetico, Milano, Edizioni d’Arte Zarathustra – Spirali, 1981, e AA. VV., Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, Milano, Mazzotta, 2002.
32 Observation relative au poème «Un coup de dés jamais n’abolira le hasard», in Œ. C., vol. I, p. 391 (tr. it. in Igitur – Un colpo di dadi, cit., p. 132).
 (a 33 G. Agamben, Oikonomia. Il Regno e la Gloria, in Homo sacer, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 601. 34 G. Agamben, Il torso orfico della poesia, in Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 113. 35 L’antielegia di Patrizia Cavalli, ibid., p. 162.
36 Giorgio Agamben: «Il vero Karma dell’Occidente», intervista di Chiara Valerio, in «La Repubblica», 27 agosto 2017.
37 P. Valéry, Le Coup de dés. Lettre au Directeur des «Marges», in Variété, in Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard, 1957; 1997, p. 626 (tr. it. Il Coup de dés. Lettera al direttore di «Les Marges», in Mallarmé, Bologna, Il cavaliere azzurro, 1984, p. 48).
38 Lettera a Henri Cazalis del 14 maggio 1867, in Œ. C., vol. I, p. 714.
39 La fine del poema, in Categorie italiane, cit., p. 142. L’espressione «niente avrà avuto luogo tranne il luogo» si legge in Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, cit., pp. 384-385 (tr. it. pp. 174-175).
  1. Agamben, Archeologia dell’opera d’arte, in Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, Vicenza, Neri Pozza, 2017, pp. 23-24. 41 Le Livre, instrument spirituel, in Divagations, in Œ. C., vol. II, p. 224 (tr. it. Il libro, strumento spirituale, in Divagazioni, cit., p. 274).
42 Lettera a Paul Verlaine del 16 novembre 1885, in Œ. C., vol. I, p. 788.
43 Cfr. J. Scherer, Le «Livre» de Mallarmé, Paris, Gallimard, 1957 e Notes en vue du «Livre», in Œ. C., vol. I, pp. 547-626 e 945-1060.
  1. Agamben, Dal libro allo schermo. Il prima e il dopo del libro, in Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 102-103. Le frasi mallarmeane qui richiamate provengono da Crise de vers, cit., pp. 211 e 213 (tr. it. pp. 256 e 258). 45 Dal libro allo schermo, cit., p. 103.
46 Cfr. in proposito la Notice di B. Marchal in Œ. C., vol. I, pp. 1372-1383.
47 Sur le théâtre et le livre, in Réponses à des enquêtes, in Œ. C., vol. II, p. 657.
Dal libro allo schermo, cit., p. 103.
49 B. Marchal, Notice, cit., p. 1379.
50 Ibidem.
51 Dal libro allo schermo, cit., p. 103.
BIBLIOGRAFIA AA. VV.,
Alfabeto in sogno. Dal carme figurato alla poesia concreta, Milano, Mazzotta, 2002. ACCAME, Vincenzo, Il segno poetico, Milano, Edizioni d’Arte Zarathustra – Spirali, 1981. AGAMBEN, Giorgio, Un nulla che annienta se stesso, in L’uomo senza contenuto, Milano, Rizzoli, 1970, pp. 83-93.
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AGAMBEN, Giorgio, Baudelaire o la merce assoluta, in Stanze, cit., pp. 49-54. AGAMBEN, Beau Brummell o l’appropriazione dell’irrealtà, in Stanze, cit., pp. 55-64.
AGAMBEN, Giorgio, La «gioi che mai non fina», in Stanze, cit., pp. 146-155.
AGAMBEN, Giorgio, G. Agamben, Infanzia e storia, in Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1978, pp. 3-62. 52 I. Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane, in Saggi, vol. I, Milano, Mondadori, 1995, p. 723. 53 Ibid., pp. 722-723.
 AGAMBEN, Giorgio, La fine del pensiero. La fin de la pensée, Paris, Le Nouveau Commerce, 1982. AGAMBEN, Giorgio, Note sul gesto, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 45-53.
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AGAMBEN, Giorgio, L’origine e l’oblio. Su Victor Segalen, in La potenza del pensiero, cit., pp. 191-204.
AGAMBEN, Giorgio, Il torso orfico della poesia, in Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 111-119.
AGAMBEN, Giorgio, La fine del poema, in Categorie italiane, cit., pp. 138-144. AGAMBEN, Giorgio, L’antielegia di Patrizia Cavalli, in Categorie italiane, cit., pp. 161-163. AGAMBEN, Giorgio, Dal libro allo schermo. Il prima e il dopo del libro, in Il fuoco e il racconto, Roma, Nottetempo, 2014, pp. 87-112.
AGAMBEN, Giorgio, Archeologia dell’opera d’arte, in Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, Vicenza, Neri Pozza, 2017, pp. 7-28.
AGAMBEN, Giorgio, Al di là dell’azione, in Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, Torino, Bollati Boringhieri, 2017, pp. 100-139.
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.

mallarme ritratto di Edouard Manet

da Poésies (1899).

Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx,
L’Angoisse, ce minuit, soutient, lampadophore,
Maint rêve vespéral brûlé par le Phénix
Que ne recueille pas de cinéraire amphore

Sur les crédences, au salon vide : nul ptyx,
Aboli bibelot d’inanité sonore,
(Car le Maître est allé puiser des pleurs au Styx
Avec ce seul objet dont le Néant s’honore.)

Mais proche la croisée au nord vacante, un or
Agonise selon peut-être le décor
Des licornes ruant du feu contre une nixe,

Elle, défunte nue en le miroir, encor
Que, dans l’oubli fermé par le cadre, se fixe
De scintillations sitôt le septuor.

*

Le sue pure unghie in alzando le loro onici
L’Angoscia, stanotte, sostiene, lampadofora,
Regge sogni vesperali arsi dalla Fenice
Che non raccoglie da cineraria anfora

Sulle credenze, nella sala vuota, nessuna ptice,
Abolito balocco d’inanità sonora,
(Poiché il Maestro attinge i pianti dello Stige
Con questo solo oggetto di cui il Nulla s’onora).

Ma accanto alla vetrata aperta a nord, un oro
Agonizza secondo forse il decoro
Di liocorni che scalciano fuoco a un’ondina.

Ella, defunta nuda allo specchio, ancor
Che nell’oblio chiuso da una cornice, fissa
Di scintillii subito il settimo.

*

Rien, cette écume, vierge vers
À ne désigner que la coupe ;
Telle loin se noie une troupe
De sirènes mainte à l’envers.

Nous naviguons, ô mes divers
Amis, moi déjà sur la poupe
Vous l’avant fastueux qui coupe
Le flot de foudres et d’hivers ;

Une ivresse belle m’engage
Sans craindre même son tangage
De porter debout ce salut

Solitude, récif, étoile
À n’importe ce qui valut
Le blanc souci de notre toile.

*

Nulla, questa schiuma, vergine verso
Non designa che la coppa;
Tale lontana si affoga una truppa
Di sirene, il dorso all’inverso.

Noi navighiamo, o miei diversi
Amici, io già sulla poppa
Voi la prua fastosa che taglia
Il flutto di folgori e d’inverni;

Un’ebbrezza bella m’ingaggia
Senza temere punto il suo beccheggio
Di porre in piedi il saluto

Solitudine, scoglio, stella
A non importa ciò che valse
La bianca cura della nostra tela.

(traduzioni di Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)

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Marie Laure Colasson, poesie inedite da Elle fumait un demon vert, con una Glossa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Abstract_gris

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea

Marie Laure Colasson

dedico questa mia poesia ad Ágota Kristóf dalla mia raccolta inedita

En chute libre

14.

Eredia regard mélancolique
le balcon du deuxième étage
un amour réduit en cendres

Dante et Delacroix jouant aux échecs
se partagent l’enfer

Les chaises encordées
dans leur chute l’une après l’autre
remontent la pente

Akram Khan gestes saccadés insecte prisonnier prodigieuse toupie
immersion dans des méandres inextricables

La pluie en trombes
des annelides grouillant sur la pierre

La Contesse Bellocchio
villa palladienne
entourée de jeunes artistes
laisse tomber bagues et diamants

Sébastien tout habillé chapeau melon
sort de l’eau en tumulte
Elisa portable à la main photo et fou rire

*

Eredia sguardo malinconico
il balcone del secondo piano
un amore ridotto in cenere

Dante e Delacroix giocano a scacchi
si dividono l’inferno

Le sedie legate con la corda
nella loro caduta l’una dopo l’altra
risalgono la china

Akram Khan gesti a scatti insetto prigioniero prodigiosa trottola
immersione dentro meandri inestricabili

La pioggia battente
anellidi brulicanti sulla pietra

La Contessa Bellocchio
villa palladiana
circondata di giovani artisti
lascia cadere anelli e diamanti

Sebastiano tutto vestito bombetta
esce dall’acqua in tumulto
Elisa cellulare in mano foto e risata a crepapelle

Marie Laure Colasson Abstract_13

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

15.

Eredia
tête océanique aux écoutes
erratiquement persécutée
misophonie

Découpage collage papiers savoureux
” oublions les choses ne considérons que les rapports ”
Braque révolution artistique

Après – guerre en Russie
Lya la grande gigue du front
étouffe Pachka enfant
séquelles de traumatismes d’ exactions

Zaza dans son lit
nicopactch sur la fesse rêve d’une course effrénée
sort du lit course effrénée dans le vide
contre la penderie son visage fracassé

Petit fauteuil Louis 16
velours grenat boiseries blanches
étroite assise pour un arrière train volumineux

Biarritz G 7
tour d’ivoire des foutus politiques
manifestations manifestations
………manifestations

Miso Misein misandre
délaissée isolement revanche

Un toit d’ardoises
deux pigeons ramiers au ventre rose
roucoulements battements d’ailes

Abrahim pleure
dans les sables mouvants de son oreiller

*

Eredia
testa oceanica in ascolto
erraticamente perseguitata
misofonia

Découpage collage carte saporite
“dimentichiamo le cose
consideriamo soltanto i rapporti”
Braque rivoluzione artistica

Dopo guerra in Russia
Lya la spilungona del fronte
soffoca Pachka bambino
sequele di traumatismi di atrocità

Zaza nel suo letto
nicopatch sulla chiappa sogna una corsa sfrenata
si alza dal letto corsa sfrenata nel vuoto
contro l’armadio il suo volto fracassato

Poltroncina Luigi XVI
velluto granata boiserie blanche
seduta stretta per un sedere voluminoso

Biarritz G 7
torre d’avorio dei fottuti politici
manifestazioni manifestazioni manifestazioni

Miso… Misein… misandria
trascurata isolamento rivincita

Un tetto di ardesia
due colombacci dal ventre rosa
tubare battiti d’ali

Abrahim piange
nelle sabbie mobili del suo cuscino

Marie Laure Colasson Abstract_2

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

17.

Perles en boucles d’oreilles en colliers
ruban dans les cheveux un large chapeau rouge
habits ornés d’hermine
billets doux lèvres entrouvertes
futilités terrestres les femmes de Vermeer

Bancs pelouses l’une dessine l’autre écrit
jardin du Luxembourg

Caste vulnérable
tout juste onze ans jeune fille indienne sans dote
soumise à une cerémonie nuptiale avec la divinité

Elisa ses guerriers de passage très sage
“le temp perdu ne se rattrape plus”

De branche en branche moineaux sautillants
un numero d’équilibre

Construction de l’espace des formes des couleurs
pur élixir artisanal
le reste du monde annulé

*

Perle orecchini collane
nastri nei capelli un largo cappello rosso
vestiti ornati d’ermellino
biglietti d’amore labbra socchiuse
futilità terrestre le donne di Vermeer

Panchine prati l’una disegna l’altra scrive
jardin du Luxembourg

Casta vulnerabile
undici anni ragazza indiana senza dote
costretta a una cerimonia nuziale con la divinità

Elisa e i suoi guerrieri di passaggio molto saggia
“il tempo perso non si riacciuffa più”

Di ramo in ramo passerotti saltellanti
un numero da equilibrista

Costruzione dello spazio delle forme dei colori
puro elisir artigianale
cancellato il resto del mondo

Marie Laure Colasson Abstract_11

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

18.

Les yeux fouillaient et farfouillaient
de droite à gauche
de gauche à droite
une mobilité affollante

Un jour la nuit
le tourbillont de Gustav Malher symphonie n° 1 “Le Titan”
sous les feux de la scène elle danse
elle danse à l’unisson elle danse
présence magnétique

La chaleur a flétri le bouquet de freesia
il n’en reste que la fragrance souvenir parfumé

Répétitions
calcul du temps pour changements de costumes
Rita bombarde les danseuses avec sa Nikon
la saine sueur du corps et de l’esprit en éveil… combat

Allongée la tête bandée les bras sanglés
sous appareillage clignotant de différentes couleurs
elle gémit… mourir sous torture… civilization

*

I suoi occhi frugavano e rovistavano
da destra a sinistra
da sinistra a destra
una mobilità spaventosa

Un giorno la notte
il turbine di Gustav Malher sinfonia n° uno “Il Titano”
sotto i fuochi della scena lei balla
lei balla all’unisono lei balla
presenza magnetica

Il caldo ha fatto appassire il mazzo di fresie
non ne resta che la fragranza ricordo profumato

Ripetizioni
calcolo del tempo per i cambi di costumi
Rita bombarda le ballerine con la sua Nikon
il sano sudore del corpo e dello spirito in allerta… combattimento

Sdraiata la testa fasciata le braccia allacciate
sotto un macchinario lampeggiante di vari colori
geme… morire sotto tortura… civilizzazione

[Trad. di M.L. Colasson e G. Linguaglossa]

Marie Laure Colasson Abstract_11

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Scrive Adorno in Teoria estetica: «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».

E Marie Laure Colasson :

“ oublions les choses ne considérons que les rapports ”.

Il senso di questa poesia lo si coglie se si pensa il «polittico» non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e fluttuante ma come un essere poliedrico che solo il discorso poetico può intuire, percepire e cogliere. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliniana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura in senso ontologico come un esercizio dell’abitare il mondo mediante il quale è possibile costruire e narrare un’identità fondata sul senso dell’appartenenza alla terra, al fine di corrispondere alla domanda sul senso del mondo e su noi stessi che ci troviamo nel mondo. Il «progetto poetico» (dichtende) della verità, che si pone in opera, non avviene nel vago e nell’indistinto, ma si svolge per l’umanità storica, nell’apertura di ciò in cui l’Esserci è di già gettato in quanto storico, e quindi un mondo di relazioni, vale a dire la terra e per un popolo storico la sua terra.
La terra per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso, che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente», talché la produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1

Il soggettivismo moderno ha frainteso l’idea di creatività, perché l’ha intesa come l’atto di genio di un «soggetto sovrano», mentre, al contrario, «l’instaurazione della verità è instaurazione non solo nel senso di libera donazione, ma anche nel senso di fondamento che fonda».

L’orientamento della nuova poesia e del nuovo romanzo è antisoggettivistico, e la «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione ontologica di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il «polittico» come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità, compossibilità di contraddittorietà. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento. Scrive Walter Benjamin:

«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente
temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2

La forma-poesia prescelta è il «polittico», così anche nella sua pittura la Colasson segue la forma-astratta come collegamento inferenziale delle cose, che è il luogo dove abitare in modo spaesante i linguaggi figurativo e poetico. Nei suoi «polittici» Marie Laure Colasson entra da subito nelle linee interne delle cose, illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo del nostro mondo, il quale si dà, lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fonosimbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico cessa di essere un discorso identitario di una identità e diventa discorso plurale della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.

1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
2 2 W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516

Marie Laure Colasson Libri in volo

Marie Laure Colasson, La chute

Lao Tzu scrive:

«La via è vuota, ma usandola, non si riempie».

C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano.

In tal modo, la poesia eleva alla estrema potenza il linguaggio: nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto.

Ma sovrano assoluto che regna in modo assoluto sulla soggettività, sull’io. Soltanto quando l’io si fa da parte, quando si depotenzia, la poesia può esercitare il suo potere dispositivo sulle parole.
Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa.

In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz o di Ágota Kristóf fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica). Entra da subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come essere nel mondo.

La linea interna delle cose è ben più importante della linea esterna di esse.

Penso che Ágota Kristóf sia riuscita in modo mirabile nel duplice compito di estraniarsi da se stessa e di estraniarsi dalla propria lingua adottando una lingua straniera, il francese, e scrivendo in quella lingua straniera. Possiamo dire che anche Marie Laure Colasson ha adottato il francese in modo straniante, è tornata al francese di ritorno dall’italiano, il che è un modo tutto particolare di stare nella propria lingua madre.
È un lavoro su se stessi che consiglio a tutti gli aspiranti poeti, migliaia e decine di migliaia, ma lo consiglio in specie ai poeti laureati i quali credono di scrivere nella loro bella lingua, quando invece la lingua fugge a gambe levate dalle loro persone.

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Poesia scritta a sei mani – Una poesia di Giuseppe Talia, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Commenti di Giorgio Mannacio, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero e altri – Uno stralcio sul frammento di Alessandro Alfieri

Aldo_Moro,_Pier_Paolo_Pasolini_-_Venezia_1964

Aldo Moro e P.P. Pasolini, Venezia, 1964

Giuseppe Talia
6 settembre 2018 alle 18:07

Presumo un apriscatole usato fino all’alba
che gira nelle mani

e non affonda. Le macchie
hanno un calibro distinto.

Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.

[Potessi farei un pingback di questi versi di Mauro Pierno]

 

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 8:38

Ripubblico qui uno stralcio di un articolo già pubblicato nell’ottobre del 2017 che inquadra il «frammento» dal punto di vista filosofico. 

Scrive Alessandro Alfieri sul n. 28 della rivista Aperture del 2012:

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.
Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.
[…]
(Per Walter Benjamin) il filosofo, o come era solito dire lui, lo “storico materialista”, il critico o anche l’artista, deve puntare il suo sguardo su oggetti apparentemente non degni di attenzione, deve farsi “pescatore di perle” per concentrarsi però sugli stracci, sugli elementi trascurati dagli accademismi ufficiali, sui frammenti dispersi e abbandonati ai margini delle strade e cacciati dalle teorie rigorose. Benjamin interpreta perciò frammenti, e il luogo privilegiato dove a dominare sono frammenti è proprio la metropoli moderna, con le vetrine dei suoi passages e le sue luci a gas, capaci di investire il passante con choc percettivi continui.
Le nostre metropoli, che proprio negli anni in cui scrive Benjamin stavano assumendo la fisionomia e l’assetto di quelle che sono diventate oggi, si caratterizzano per la velocizzazione inaudita dei ritmi di vita, dove a venire sacrificata è l’esperienza effettiva di ognuno di noi può fare del mondo, della realtà e dell’altro. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti, che alla “contemplazione” ha sostituito la “fruizione distratta” (…) Tale dimensione è in Benjamin sinonimo di rivoluzione: possibilità di riscatto da parte delle masse
[…]
In Benjamin distrazione e attività non sono in contraddizione: i fenomeni che sembrano costringere ciascuno, per volontà del capitalismo, all’omogeneizzazione e alla passività generalizzata, sono gli stessi che possono condurre l’uomo alla sua tanto sospirata rivincita e affermazione. I frammenti sono perciò da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto ovvero il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la struttura saggistica su determinati argomenti e autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, riferimenti, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico.
Qui assume un ruolo essenziale il concetto di “immagine dialettica” dominante proprio nei Passages; l’immagine dialettica, che si oppone all’epochè fenomenologica, vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione, anzi, è la stessa immagine che, affinché possa sopravvivere, pretende di essere messa in rapporto ad altro. È nell’immagine dialettica che temporalità ed eternità si fondono insieme, passato e presente si amalgamano:

“Non è che il presente getti la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio”.1]

Cogliere nel turbinio incessante e frenetico della modernità dei momenti di stasi improvvisi, delle “epifanie di senso”, capaci di illuminare di una luce differente ciò che invece ci sfugge repentinamente nella vita quotidiana dominata dalle regole del consumo: questo è il compito del filosofo dialettico e del critico della cultura; fissare lo sguardo sui frammenti per farne delle immagini dialettiche che rivelino i processi che li hanno determinati, le loro intenzionalità profonde, i loro valori allegorici e le opportunità che da esse si sprigionano.
[…]
Ontologicamente, ed anche da un punto di vista logico-semantico, l’immagine può dire qualcosa, ha un senso e può comunicare con noi solo perché è da subito a contatto con altre immagini, in rapporto di identità o differenza con esse. D’altronde, è la conoscenza stessa che opera in questa maniera, affidandosi alla “relazione” e non alla “cosa in sé”. Per comprendere questo punto, torniamo a Nietzsche: “Le proprietà di una cosa sono effetti su altre ‘cose’; se si immagina di eliminare le altre ‘cose’, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’è una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna ‘cosa in sé’”.2]
L’immagine rinvia continuamente a ciò che è altro da sé, slitta il suo senso ad un’altra immagine che rimanda a sua volta ad altre innumerevoli immagini. In questo terreno multiforme e frammentato, in assenza di un punto centrale e statico, la riflessione è demandata continuamente al suo passo successivo; questo processo consente al pensiero di vivere, di non esaurirsi in una risposta conclusiva, e di tenersi aperto all’indeterminato.

1] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2007, p. 516
2] F. Nietzsche, La volontà di potenza Bompiani, Milano, 2005, p. 308

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 9:34

A proposito di una poesia scritta a 6 mani

Qualche tempo fa, sulle pagine dei Commenti di questa rivista è stato fatto un esperimento molto interessante, è stata creata una poesia a sei mani a partire da un verso lasciato lì per caso da un commentatore. Ecco, io vorrei sottolineare questo evento perché ne è uscita fuori una poesia non riconoscibile. Imprevista e imprevedibile. Finalmente, è stato creato un qualcosa che nessuno di noi si aspettava.
Ecco la poesia composta da frammenti a 6 mani, da Ubaldo De Robertis, Antonella Zagaroli, Flavio Almerighi, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppina Di Leo. Beh, che ve ne pare? Non sarà una «bella poesia» nel senso tradizionale del termine, ma almeno c’è della elettricità dentro. Qualcosa che vibra.
.
Come la luce passerà su quel vetro o si rifletterà.
M’è dolce leggere ascoltando e vedendo.
Mi raccomando: acqua in bocca!
glu glu glu
In principio non sembrò un problema.
Betta cavalcava la pinna dello squalo
sembrando compiaciuta.
Tre squali bianchi nuotano nella vasca.
Brillano i bambini sul vetro dei bicchieri.
Manca sempre l’oliva, disse lo squalo.
Ignari
suonano con tutte le acque

.

Giuseppe Talia
4 settembre 2018 alle 18:30

.       . A Petr Král

Non c’è alcun dubbio, me lo ha detto lui.
E lui chi è? E’ l’albero. Ma non so con quale
parte dell’albero ho parlato: radici, tronco,
rami, foglie, fiori, frutto o con le cime?
Chi o cosa mi ha parlato? E chi o cosa
dell’albero mi ha risposto che non vi è dubbio?
Buon compleanno.

Gino Rago
4 settembre 2018 alle 18:42 Continua a leggere

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Per il 91mo compleanno di Alfredo de Palchi – Omaggio della redazione – Gli oggetti e le cose nella poesia di Alfredo de Palchi con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Otto poesie da Foemina tellus, del 2010 

 

Alfredo de Palchi, Gerard Malanga e Rita

Alfredo de Palchi con Gerard Malaga, 2017, New York

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York. Ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale. Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; II edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus Novi Ligure (AL): Edizioni Joker, 2010. Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a far tradurre e pubblicare in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane. Nel 2016 pubblica Nihil (Milano, Stampa9) e nel 2017 Estetica dell’equilibrio (Mimesis Hebenon).

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Gli oggetti fantasmati e le cose internalizzate nella poesia di Alfredo de Palchi

  Ieri ho scritto:

«Gentile Inchierchia, Le rispondo con una poesia di un maestro in ombra della poesia italiana: Alfredo de Palchi (1926) tratta da Foemina tellus, Ed Joker, 2010 p. 30

per il mio compleanno di errori

Martedì 10 dicembre 1926
l’anagrafe è un deposito di ceneri
dove venerdì 13
per la seconda volta
io, carta da bollo o da gioco,
urlo al mondo la truffa
fino alla fine della finalità

là che aspetta di segregarmi
al reticolato di denti sgretolati

(13 dicembre 2006)

 L’ho copiata perché, caro Inchierchia, questa è una poesia davvero sgraziata, disgraziata, cacofonica, smodata, smoderata, urticante, rabbiosa, cocciuta, irriducibile e riottosa alle mode della bella scrittura e della scrittura bene educata che purtroppo si fa da molto tempo in Italia. Questa per me è poesia».

   Si dice spesso che l’evento principiale è il silenzio, ma si tratta di un errore, in verità noi non percepiamo mai il silenzio, semmai percepiamo il linguaggio delle «cose», il linguaggio del fantasma delle «cose» e dei «luoghi», il rumore delle «cose», il rumore delle «parole». Ma il silenzio è cosa diversa dal rumore (inteso come ciò che precede il linguaggio) ed è privo di significazione. Il voler fare silenzio è una forzatura, un atto di bellico misticismo, è una imprecisione terminologica. A rigore, l’uomo non potrebbe sopravvivere nel silenzio, il silenzio lo dissolverebbe. Il silenzio (da non confondere con il vuoto), ovvero, l’assenza di suoni, non esiste. In realtà, le cose parlano e ci parlano, parlano sempre, e non possono che parlare in continuazione. Occorre essere addestrati ad ascoltarle. L’uomo parla in continuazione anche quando si trova nella più aspra delle solitudini. Così, il vento ci parla quando passa attraverso le foglie di un bosco, quando incontra degli ostacoli; la pioggia ci parla quando trascorre attraverso l’atmosfera e incontra degli oggetti, e così via… il mare «fragoroso» ci parla attraverso il suo incontro scontro con la terraferma e gli scogli… è l’incontro con le cose, con gli ostacoli, che fa parlare le «cose», senza incontro scontro non ci può essere né linguaggio né la parola, e neanche il silenzio. Linguaggio e parola possono prendere vita soltanto attraverso l’incontro scontro tra gli uomini e le cose, tra silenzio e rumore che il linguaggio umano decodifica e reinterpreta.

Strilli De Palchi poesia regolare composta nel 21mo secolo

[citazioni da Estetica dell’equilibrio (2017) di A. de Palchi, grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Sono le «cose» collegate in un insieme

  che fanno sì che siano esse a parlareIl poeta deve soltanto porsi in posizione di ascolto. L’ascolto recepisce i suoni, le parole, il rumore. Il silenzio è un altro modo di essere del linguaggio: quando il linguaggio diventa silenzioso. L’ascolto predispone il linguaggio a formarsi, e il formarsi del linguaggio significa predisporre il silenzio all’interno del linguaggio. In questo caso si può parlare propriamente del silenzio del linguaggio quale sua custodia segreta. Il poeta abita questa custodia segreta. Ma anche tutti gli uomini abitano questa custodia segreta nei loro commerci quotidiani.

  Non è una prerogativa del poeta quella di abitare il silenzio delle parole, chiunque può attingere il silenzio delle parole attraverso la lettura di una poesia. Il silenzio abita il linguaggio; l’uomo abita il linguaggio, ovvero, il silenzio delle cose, la loro lingua segreta. Un poeta con la sua poesia si deve limitare a far parlare il silenzio, il rumore delle «cose», far parlare le cose, far parlare il linguaggio delle «cose». Tutto il resto è assolutamente secondario. Il dire in poesia è questo dire che sta dentro le cose, non quello che è fuori.

  Scrivere poesia nella età contingenza e dell’incertezza significa adottare uno stile ultroneo, in bilico sulla pesantezza e sulla leggerezza delle «cose». Una condizione esistenziale legata alla stazione dell’io, che è nient’altro che una istanza proiettiva, che pesca nelle profondità dell’inconscio e proietta sulla superficie della coscienza i propri geroglifici… ma c’è una «cosa» misteriosa che sta all’esterno del soggetto e dentro il soggetto, quella «Cosa» (Das Ding) che sta contemporaneamente dentro e fuori, che consiste nella sua estimità, nel suo essere, per Lacan «entfremdet» – alienato – «estraneo a me pur stando al centro di me», qualcosa tra il familiare e l’estraneo, che sta in bilico tra il detto e il non detto, tra il dentro e il fuori. Una figura di interrogazione interna all’io, dunque, perché le «cose», a ben guardare, sono curve, il mondo è curvo, l’intero universo è curvo, e forse anche il super universo dentro il quale noi ci troviamo è anch’esso curvo. Gli opposti si toccano.

Strilli De Palchi non si cancella nienteIl tempo non si azzera mai

  e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» del discorso poetico. Invece de Palchi frantuma il tempo, vuole abolire la distanza, riunire il tunc al nunc, e allora esorcizza i personaggi (i «bifolchi», i Fabrizio Rinaldi) che settanta anni fa hanno determinato che fosse rinchiuso, in custodia preventiva nelle carceri di Procida e Civitavecchia, per sei anni con l’orribile accusa di omicidio di un partigiano, per il quale fu anche condannato all’ergastolo in primo grado. de Palchi vuole azzerare il tempo ma il tempo non si può azzerare in nessun caso, semmai si ripete, ritorna in forma di fantasmi e di incubi, ritorna con il ritorno del rimosso. Ecco perché de Palchi introduce delle rotture e delle sgraziate gibbosità semantiche nel suo linguaggio poetico,  vampirizza il discorso poetico, lo de-psicologizza perché vuole annientare la distanza, e invece non può che ricadere  nella Jetztzeit, il «tempo-ora» del presente. Ecco la ragione del suo spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, reiterare il medesimo «luogo» e i medesimi personaggi, temporalizzare gli spazi, spazializzare e ripetere il tempo, personalizzare i suoi fantasmi, fantasmare i suoi personaggi, erratizzare il discorso poetico…

  L’evento principe della poesia di Alfredo de Palchi è il ritorno del fantasma. Per questo occorreva uno stile ultroneo, furiosamente erratico e furiosamente gibboso, urticante. È soltanto a queste condizioni che i fantasmi possono incontrare le «cose», possono fondersi con le «cose» e la geografia dei «luoghi» (la «Legnago» fantasmata), quei «luoghi costanti» dove «non c’è misura del tempo», dove brilla «senza fuoco il sole» in «una idea senza fuoco». Continua a leggere

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Paolo Valesio, Poesie del sacro e del mondano, italiano / inglese – La ricerca del senso – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa  traduzioni di Graziella Sidoli e Michael Palma

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Gif: «Ogni meriggio può arrestare il mondo»

Paolo Valesio è nato nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia (1979), La rosa verde (1987), Dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987), Le isole del lago (1990), La campagna dell’Ottantasette (1990), Analogia del mondo (1992, Premio di poesia “Città di San Vito al Tagliamento”), Nightchant (1995), Sonetos profanos y sacros (originale italiano e traduzione spagnola, 1996), Avventure dell’Uomo e del Figlio (1996), Anniversari (1999), Piazza delle preghiere massacrate (1999, Premio “DeltaPOesia” – rappresentato in versione teatrale a Roma e a New York), Dardi (2000), Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo (originale italiano e traduzione inglese, 2002, seconda edizione 2005 – rappresentato in versione teatrale a Forlì e a Venezia), Volano in cento (originale italiano, traduzione spagnola e traduzione inglese, 2002), Il cuore del girasole (2006, Premio “Colli del Tronto”, 2007), Il volto quasi umano (2009) e La mezzanotte di Spoleto (2013). È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan (1978) e Il regno doloroso (1983); di una raccolta di racconti, S’incontrano gli amanti (1993), di una novella, Tradimenti (1994), e di un poema drammatico in nove scene, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato (1993) e a Salerno (1997). Da anni Valesio è impegnato nella scrittura parallela di quattro romanzi diari, ovvero, romanzi quotidiani, che costituiscono una quadrilogia narrativa ancora per la maggior parte inedita (a eccezione di alcune anticipazioni su riviste).

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A beautiful prison once was here…

Se un disperato, che si vuole suicidare, chiede a chi cerca benevolmente di dissuaderlo, quale sia il senso della vita, il salvatore è perduto e non sa nominarne alcuno; appena ci prova, può essere confutato, eco di un consensus omnium, che porterebbe il conforto al suo nocciolo: l’imperatore ha bisogno di soldati. Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione. Tuttavia il contrario, il nichilismo astratto, dovrebbe ammutolire di fronte alla contro domanda: perché vivi tu allora? Il mirare al tutto, calcolare il profitto netto della vita, è appunto la morte, cui la cosiddetta domanda sul senso vuole sfuggire, anche nella misura in cui essa, non avendo altro scampo, si fa entusiasmare dal senso della morte.

(Th. W. Adorno Dialettica negativa trad. it. Einaudi, 1970, p. 340)

Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza

(W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi 1970, p.232)

La storia però non è il terreno per la felicità. Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti.

(Friedrich Hegel)

Ogni felicità è frammento di tutta la felicità, che si nega agli uomini e che essi si negano.

(Th.W. Adorno op. cit. p. 365)

Paolo Valesio

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il «frammento» è il luogo privilegiato in cui si mostra la modernità. Il frammento è la dimora dell’Estraneo. La patria ideale dell’Estraneo è il frammento, ho scritto in altra occasione in un diverso contesto. Era tempo che mi muovevo intorno a questa aporia pensando alla poesia di Paolo Valesio quando, all’improvviso, ho compreso che l’Estraneo che fa ingresso nel «frammento» valesiano, nella sua «gabbia dorata» è nientemeno che «dio», l’innominabile, l’impronunciabile. E allora tutto mi si è fatto chiaro. L’aporia massima è nella profondità del fondamento: la struttura del fondamento è aporetica per eccellenza, ciò significa che detta aporia si riproduce in ogni minimo luogo in cui essa può essere ri-trovata: in ogni minimo dettaglio del quotidiano essa si cela e si svela; a volte si cela, a volte si mostra ammiccando e sottraendosi alla vista, auto negandosi e auto confermandosi. Inspiegabile in quanto incondizionata, l’aporia è la massima espressione del pensiero che pensa l’incondizionato, del pensiero che osa pensare l’Assoluto.

All’improvviso, ho capito: ecco la ragione del disagio di Valesio, ho pensato, a maneggiare l’orizzonte eventico delle parole del «poetico». Ho capito finalmente che la poesia valesiana vuole muoversi fuori dell’orizzonte ontico del «poetico», o meglio, sulla soglia di quell’orizzonte, al confine con un altro orizzonte, nello spazio-tempo di un altro universo privo di spazio-tempo che si rivela tra le parole  del «teologico» e quelle del tempo mondano, in quel limen tra i due orizzonti. Di qui il disagio e l’angoscia del poietes, l’aleatorietà delle parole che si indeboliscono e che Valesio vorrebbe «forti», durature, quel sentirsi sospesi tra una «gabbia dorata» e l’altra, tra una «prigione» e l’altra, senza soluzione di continuità, in quella curvatura degli orizzonti dove «la scimmia del pensiero» si rivela fallace ed effimera, inquieta nella sua impotenza, derisoria nella sua inidoneità a raffigurare l’Assoluto. «Il pasto dell’avvoltoio», poesia compresa ne Il dialogo del falco e dell’avvoltoio del 1987 è uno dei punti più alti della poesia valesiana; non c’è scampo alla vastità del deserto:

Tutta la terra dunque è sconsacrata
da cupidigia di picchetti e pali.
Territorio vien da terrore.

«Gli Dei del passato sono fuggiti e si attendono quelli che verranno», ha scritto Hölderlin. La interrogazione che Paolo Valesio ripete a se stesso in modo ossessivo nelle sue poesie suona così: è ancora possibile fare poesia dopo l’eclissi del sacro e la caducazione dello scenario metafisico, come scrive Carlo Livia? Valesio, come Eliot, si aggrappa alla fede, soltanto la fede può salvarlo dall’abisso che si apre appena al di sotto delle parole. E la fede si porta dietro necessariamente la certezza di un «senso», che la vita abbia un «senso». Di conseguenza, la poesia di Valesio si incarica di cercare questo «senso», di tendergli delle trappole, di scovarlo, di catturarlo.

La poesia di Valesio ruota intorno al terribile quesito se la vita abbia un senso e se ha senso vivere per cercarne il senso. Valesio, da credente, è convinto di sì, e si ribella alla metafisica delle parole del «mondano» ormai incapaci ad attecchire ad una metafisica, quella iperuranica del pagano Platone ma non quella che abita l’éskaton, la prospettiva infuturante degli abitatori del presente. Ma forse, come dice Adorno, «una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione». E qui, attorno a questo punto ruota tutta la ricerca poetica di Paolo Valesio, nel tentativo di rispondere poeticamente a questo quesito senza cadere nel nichilismo di chi semplicemente si limita ad assistere al declinare del senso della vita, di ogni senso. E forse, pur tuttavia anche questo è un senso, per quanto paradossale e contraddittorio esso sia.

testi tratti da Il servo rosso/The Red Servant: poesie scelte 1979 – 2002, puntoacapo Editrice, 2016

.

Da  La rosa verde (1987)

Vedi?
Qui c’era una bella prigione…

La gabbia era dorata era sospesa
e sotto: Terra terra terra, vola!
Una prigione dorata? Magari …
(« la dorata prigione del vizio»,
disse un papa al bambino nell’udienza;
e quel sottile, quell’eretto e bianco
offriva — non già la salvezza
ma la speranza di una nobiltà
a lui plebeo confuso che guardava).
Ma qui non c’è l’oro matto del vizio;
nemmeno l’oro puro della gioia.
È solo la indoratura
della umana ragione.
Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.

Piazza del Duomo, Milano

 

From The green rose (1987)

Do you see?
A beautiful prison once was here…

The cage was gilded and it was suspended
and underneath: Land land land, fly away!
A gilded prison? Would that it were so…
(“the gilded prison of depravity,”
a pope told a little boy at his audience;
and that upright, that pale and slender fellow
was offering – not salvation all at once,
but instead the hope of a nobility
to the boy, a confused plebeian who stared at him).
But here there is not depravity’s mad gold,
nor is there even the pure gold of joy.
There’s only the gilding
of human reason.
The golden crust has all come off by now,
and from between the bars of the rotted cage
the monkey of thought has long since fled away.

Cathedral Square, Milan

[MP]

.

Da Il dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987)

Il pasto dell’avvoltoio

Morire è facile.
Ma essere sepolti: è un’arte filosofica.
Bisogna farsi seppellire
col vestito del dì delle nozze.
Tu riaffermi la linea di una vita
con un solo vestito buono
dallo sposalizio alla terra.
Sperando che così ritroverai –
al taglio decisivo, e sopra l’ultima
lama della luce di coscienza –
i padri dei padri dei tuoi padri.
Le madri dovrebbero
sopravvivere ai figli per poterli
piangere degnamente. Solo esse
esperte in corruzione delicata
in cure morbide
in vizio dolce dei figli,
solo le beneficamente corrotte
sanno fare il corrotto sul cadavere.
Il vestito all’antica è un argine di stoffa.
Ma non è semplice
la vita che così muore.
Troppe radici terrose
s’intralciano a fiore di terra.
Caccia alle nicchie libere,
gara di cadaveri ammonticchiati
che attendono i turni.

Tutta la terra dunque è sconsacrata
da cupidigia di picchetti e pali.
Territorio vien da terrore.
La spada scava terra
poi subito scava il collo.
Dicono i Parsi:
la terra è sacra –
dunque non può essere polluta
dal cadavere;
l’acqua è sacra –
e non può essere
intorbidita da carcasse;
Il fuoco è sacro –
dunque non può esser profanato
bruciando un corpo;
l’aria è sacra –
non può essere offuscata da ceneri.
Quale luogo, allora, al cadavere?
La tomba semovente che preclude
tutti gli elementi, li taglia
fuori dalla sua angusta volta buia:
l’avvoltoio.
A volte ho pensato il contrario:
terra e acqua
fuoco e aria –
sono tutti polluti e bruttati,
nessuno degno più di ospitare
l’unico simulacro di purezza:
il corpo umano.
Ma –
mentre cammino lungo il viale grande
(Bombay ai piedi sotto la collina)
osservando le Torri del Silenzio
comprendo di dover tornare

alla chiara visione dei Parsi:
l’avvoltoio.
Angusti pozzi profondi
torri rovesciate
dentro il ventre dentro la terra.
Là sono gettati i cadaveri.
E su tutte le palme intorno,
gli avvoltoi ristanno.
Grandi, cùprei, calvi,
con i colli incassati tra le spalle.
Gli avvoltoi son filosofi nudi
(mostrano quanto assurdo
sia il filosofo vestito).
Gli avvoltoi sono critici:
prima d’ogni altro membro,
ingoiano gli occhi.
Nel loro stomaco
la morte si purifica,
la ruota si riavvia.

.

From The dialogue between the hawk and the vulture

The Vulture’s Feast

Dying is easy.
But being buried is a philosophic art.
A man ought to be entombed
in his wedding day apparel.
You avow the course of a lifetime
with just one good suit
from wedding to funeral.
With the hope of finding then –
at the decisive breach, and on that final
blade of the light of consciousness –
the fathers of your forefathers’ fathers.
Mothers should outlive
their children so as to properly
mourn them. For only they
understand the subtlety of the passing,
the tender care and
the habits of nourishment of children,
only they, charitably aged,
know how to wail over the body.
The traditional garments are fabric retainers.
Yet it’s not a simple matter
for a life to pass away.
Too many earthen roots
entangle just above ground.
The hunt is on for available nooks,
piles of corpses
waiting their turn.
Earth itself is thus profaned
by greed for posts and stones.
Territory comes from terror.
The spade digging the soil
digs then right into the neck.
The Parsis say:
The earth is sacred –
therefore it cannot be polluted
with cadavers;
the water is sacred –
so it cannot be fouled
with carcasses;
the fire is sacred –
therefore it cannot be profaned
by a burning corpse;
the air is sacred –
it cannot be darkened by ashes.
Where, then, is the place for the dead?
In the self-propelled tomb that rules out
all the elements, that shuts them off
in its narrow black vault:
the vulture.
Sometimes I think the opposite:
earth and water
fire and air –
they are all polluted and soiled,
no longer worthy of hosting
the only simulacrum of purity:
the human body.
Yet –
as I walk along the wide avenue
(Bombay at my feet below the hill)
observing the Towers of Silence
I realize I must return
to the lucid vision of the Parsis:
the vulture.
Narrow deep wells
upturned towers
inside the womb inside the earth.
There, corpses are discarded.
Perched atop the palm trees all around,
the vultures wait.
Large, coppery, bald,
with necks shunted into their shoulders.
The vultures are naked philosophers
(showing how absurd
the robed philosopher is).
The vultures are critics:
before any other part,
they swallow the eyes.
In their viscera
death is purified,
the wheel keeps going round.

[GS]

Da Anniversari (1999)

Il servo rosso

Stamattina ha cavato fuori l’anima.
Era prima del sole
(se non si desta nel vibrar del buio
perde il suo appuntamento con l’alba).
Ha affondato pian piano la mano
dentro la gola
per alcuni minuti: dolore
(gli sembrava di mordersi la gola
con i suoi stessi denti),
e ha posato il minuscolo uomo
rosso come lacca
(era unto di sangue)
sul tavolo; l’ha ripulito,
quasi fosse cornice d’argento,
con un lembo di pelle di camoscio.
Al momento di riporlo,
le mani hanno un poco tremato:
se non avesse più trovato il posto?

25 gennaio, 1995

The Red Servant

This morning he took out his soul.
It was before sunrise
(if he doesn’t wake in the humming of the dark
he misses his appointment with the dawn).
He ever so slowly and gently sank his hand
into his throat
for a few minutes: pain
(he seemed to bite his throat
with his own teeth)
and he placed the tiny little man
red as lacquer
(he was oily with blood)
on the table: he cleaned him up,
rubbing him with a strip of chamois
as if he were a silver picture frame.
But when he put him back,
he felt a bit of a tremor in his hands:
what if he were not to find his place again?

January 25, 1995

[MP]

Da Volano in cento (2002)
Dardo 1

Mi dicono che sei Cristo di dolore
ma per me sei qualcosa come un sole
impassibilmente ardente.

Dardo 1

They say you are a Christ of grief,
yet for me you are something like a sun
forever burning unperturbed.

.
Dardo 2

Ti prego prego prego, prego prego:
portami all’ombra delle tue candele.

Dardo 2

I pray and pray and pray and pray to you:
I beg you take me please
into the shadow of your candles.
Dardo 3

                                         Per Bonnie Müller

Ti regalo la ira mia o Signore
(trasformala in passione non furore)
come in punta di spada s’offre un fiore.

Dardo 3

                                       For Bonnie Müller

I offer you my wrath O Lord
(may you convert it into fire not fury)
as one bestows a flower on a sword’s tip.

.
Dardo 4

                                     Per Graziella Sidoli

Ascoltami se vuoi: la preghiera
è un intraversabile burrone
e da una ad altra sponda ci intendiamo
a cenni perché le parole
si sfilano nel tempo lasciando unica traccia
smorfie su labbra e come
possiamo intrascoltarci?

 

Dardo 4

                                For Graziella Sidoli

Hear me if you wish:
prayer is an uncrossable cliff
and standing on opposite shores
we speak in signs because
words come unthreaded in the wind
leaving a grimace as their sole trace
and how can we
interlace our listening?

.

Dardo 7: Contra Platonem

(Simposio, 203b)

Se Eros nasce dalle furtive nozze
di Povertà e Ingegno in giardino
quale mai dio scugnizzo e fosco
(dio-demone della mia vita)
nasce dal congiungimento
del Silenzio e la nuda dei boschi,
la Nulla?

Dardo 7: Contra Platonem

(Simposium, 203b)

If Eros is born of the furtive nuptials
between Poverty and Wit in the garden,
then what sort of dark urchin god
(demon-deity of my life)
is born of the embracement
of Silence and the naked creature in the woods,
Nothingness herself?

Dardo 8

                               Per Assunta Pelli

C’è chi sotto
lo schiaffo del dolore
socchiude gli occhi e chi grandi li apre.
Lo spirito nei primi
scivola dietro i muri,
nei secondi s’affaccia alla finestra
piano-scostando il vetro delle lacrime.

 

Dardo 8

                               For Assunta Pelli

There are some who
beneath grief’s blows
half-open their eyes
while others open them wide.
The spirit of the former
glides and hides behind walls,
the latter leans over windows
softly sliding the glass of tears.

Dardo 65

Nei rari momenti (ad esempio
nello specchio abbrumato di un motel)
in cui lo sguardo declina
verso il corpo in sua povertà
(defoliato dagli anni) e nudità
intorcigliato intorno all’indifeso
oscuro pene contro
il pallore del ventre
dunque in disperata purità
là dove la miseria
escludendo vergogna
è la modesta via maestra
verso la dignità –
ecco io allora scorgo il corpo di Gesù.

Bloomington, Indiana

Dardo 65

In the rare moments (for instance
in a motel’s misty mirror)
when my glance turns
to the body in all its poverty
(parched by time) and its nudity,
twisted around the defenseless
dark penis lying against
the pallor of the belly
hence in forlorn purity
where misery,
having chased shame,
is the modest high road
towards dignity –
then I catch sight of Jesus’ body.

Bloomington, Indiana

Dardo 97: Discesa

La umiltà invisibile per esser percepita
è costretta a scoscendere un gradino
e adottare il passo claudicante
e i panni-stracci dell’umiliazione.
Chiunque poi l’abbracci
discende un’altra china:
è subito accusato di arroganza.

Dardo 97: Descent

Humbleness invisible is forced
to descend a lower step to be perceived
and it must learn to limp
and wear the ragged cloth of humiliation.
Whoever then will embrace it
descends further down another slope,
and is suddenly accused of arrogance.

.
Dardo 98

Sento a volte una voce di pastora
sull’altra riva del lago – una voce
un po’ roca e velata (è una pastora
che non disdegna il bere e l’abbracciare):
«Fammi morire, che ti voglio bene.»

 

Dardo 98

I hear the voice of a shepherdess sometimes
slightly coarse and veiled, coming
from the other end of the lake
(she does not disdain
drinking and embracing):
«Ravish me, for I do love you so.»
[GS]

Da Ogni meriggio può arrestare il mondo (2002)

 

Sonetto transtiberino 2:
Villa Medici

Ogni vero giardino è un labirinto
ogni sommersa visita è silente
ogni panca è solenne come un plinto
ogni pianta è un cero verde-ardente

ogni coppia si scioglie in vertigine
ogni pozza può risucchiare al fondo
ogni grata è fiorita di rubìgine
ogni meriggio può arrestare il mondo.

Alla volta di un viale l’ha smarrita
ma ne ha sentito il piede sulla ghiaia:
non-morsa-dal-serpente, è riapparita.

Guardano dagli spalti il Muro Torto
sulla soglia di un’umile legnaia:
eretta, lei; e lui, sull’ombra sporto.

Biblioteca Sterling, 17 agosto 2000

Transtiberine Sonnet 2:

Villa Medici

Every true garden is a labyrinth
every underwater call’s a silent scene
every bench sits as solemn as a plinth
every plant’s a candle tipped with firegreen
every couple melts into a vertigo
every pool can swirl down to the depths at will
every grate is blooming with a ruby glow
every afternoon can make the world stand still.
He lost her on an avenue when it turned
but heard her walking on the gravel: then,
unbitten-by-the-serpent, she returned.
From the buttresses they see the Muro Torto, in
the doorway of a very humble woodshed:
she, standing up; he, leaning toward the shade.

Sterling Memorial Library, August 17, 2000

[MP]

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Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

Adam Vaccaro Quale tempo? – Tempo fermo, Tempo reale, Tempo mentale; Quale poesia? l’interazione con l’Altro da sé; La questione del soggetto; temporalità lineare e temporalità ciclica; La comunicazione come comunione; Una percezione non più separata, ma con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro

(Il testo che segue è versione più ampia della relazione svolta in occasione del convegno “Scritture / Realtà, Linguaggi e discipline a confronto” – organizzato dall’Associazione Culturale Milanocosa e tenuto a Milano il 18 e il 19 novembre 2000. Ed è uno dei capitoli della Parte Introduttiva di Ricerche di Adiacenza, Satefi, Milano, 2001)

Forse tutti non desideriamo altro che entrare nella realtà, non rimanere come astronauti persi nell’universo. Forse tutto il lavoro di ognuno e di tutti consiste nel tentare di entrare, nel bene e nel male, nella realtà. Ma già dire così si rischia grosso. Si rischia di riproporre l’errore originario della filosofia occidentale di parlare di doppi: esterno e interno, spirito e corpo, ecc..
Nella nota che accompagnava la prima lettera di proposta di questo convegno, ricorrevo all’immagine della Cacania, inventata da Musil ne L’uomo senza qualità, per contrapporre la realtà prodotta dalle ritualità ufficiali a quella disegnata da ogni forma di espressione, e della poesia in particolare. Parlavo per quest’ultima di tensione utopica, diciamo pure rivoluzionaria, verso possibilità non contemplate dal vestito ufficiale dell’esistente.

Basta forse questo esempio a far saltare in aria ogni partizione di esterno e interno. Qual è l’esterno e quale l’interno? Quale è più falso e astratto? Quale è più reale? Quale è rimasto più presente nella realtà mentale degli uomini, la qualità del ritualismo di Cecco Peppe o la mancanza di qualità (rispetto alla prima) di chi costruisce un universo parallelo e immagina un altro e oltre rispetto all’esistente?
Due forme di realtà compresenti, come quella di ogni soggetto (singolo o collettivo) rispetto al Resto, che in un modo o nell’altro interagiscono e sono ognuna parti di un Tutto, metafisico e irraggiungibile, per cui collocarne una dentro e l’altra fuori è un’operazione astratta e priva di senso.

Ogni identità si costituisce e assume senso, diventa reale, nell’interazione con l’Altro da sé. È anche la tensione profonda di questo convegno. Che tende a suo modo a ripensare “la questione del soggetto”, come dice Francesco Leonetti (1), quale luogo e nodo centrale in cui ricollocare l’Uno, il Tutto e ogni metaforizzazione o categoria mentale; tra le quali quello di realtà.
Leonetti fa riferimento alle ricerche più “recenti della biologia e della neurofisiologia” (2); e richiama (chi ha letto qualcosa di mio sa quanto possa concordare) Francisco Varela, che (con Maturana) ha elaborato la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente; e tra essi si attuano infinite combinazioni temporanee, reali e virtuali al tempo stesso, in rapporto all’intreccio di esperienze che il soggetto va elaborando.
Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale. Ma allora perché è abbastanza anomalo questo stesso convegno, rispetto alla tendenza alla chiusura autoreferenziale di ogni disciplina e soggetto culturale? Chiusura che produce sempre paranoie e forme ideologiche, quale quella per es. della Verità. Questo convegno riprende in qualche modo l’affermazione “La verità non esiste” di Antonio Porta, che distingueva con la fenomenologia di Luciano Anceschi, tra vero e verità, intendendo il primo quale “punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza”, “un punto fermo che però non è definitivo come la verità” (3).

Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad es. quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo.
Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.
C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile lago nero (diciamo pure che è il nostro personale buconero) o come tanti recipienti chiusi (vedi le “giare” di Proust), o un grande tamburo, che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la sua (e la nostra) distruzione. Contiene credo il senso del limite del mito di Orfeo e tante altre immagini a noi più vicine, per es. “l’acqua ferma“ dei laghi mantovani di Gilberto Finzi, materia espressiva de “L’oscura verdità del nero“, che richiama fra l’altro l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce, e in cui la luce può praticare solo fori per lampi precari e fuggevoli. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no.
Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo; ma il termine può essere fuorviante, forse è meglio dire ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Che vuole tacere e muore dalla voglia di parlare. Che vuole custodire, ma anche dire ciò che custodisce. Lo dice (ovvio), a suo modo, se sollecitato ad es. con ritmi adeguati, quali ad es. glossalalìe tipo ambarabà ciccì coccò, tali da far vibrare il grande tappo di pelle che lo ricopre.

In altri termini, nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, che contiene il segreto di tante nostre cose: problemi irresolubili intrecciati a contraddizioni vivificanti: per es. è disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è forse fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra irriducibile, fondante corporalità, materiale e immaginale insieme, in cui i linguaggi ri-diventano cosa; sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso e dei linguaggi …dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.

C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.
È peraltro in tale galassia che troviamo le modalità operative del c.d. tempo reale, riferito con ironia involontaria alla virtualità dei processi informatizzati; che, nel contesto socioeconomico attuale è ridotto, come tutto il resto, a cosa (con senso ben diverso della cosa vista nell’area dominata dall’Es), merce, nel caso di pacchetti di linguaggio da trasferire a tempo zero, per massimizzare la produttività.

È l’area che accoglie come un trionfo la velocità della comunicazione multimodale contemporanea, che combina velocità e quantità e impone spesso, più che un processo di comunicazione, di commutazione: una operatività da semaforo, che si riduce a far passare o no un’informazione. Tali condizioni sono vissute dal corpo e dalle modalità lente dell’area dell’Es come invasione e violenza, che non si ha il tempo di elaborare. Sono temi affrontati nel n°10-11 de “Il Verri” da Giovanni Anceschi, il quale utilizza le osservazioni di “Paul Virilio (l’urbanista francese…dromologo, cioè studioso della velocità)” e aggiunge che nel “corpo, invaso per commutazione, transitano stimolazioni anche massicce…senza interferire veramente con la mente”.

La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali, non diventa mai corpo nel corpo, rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.

Con modalità tendenti alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro.
Se quest’area viene adeguatamente fatta interagire, ci aiuta a capire che dobbiamo porci oltre ogni termine, non solo di mimetismo o di cognitivismo speculare tra mente e mondo, ma anche di ibridazione tra soggetto e Altro, naturale o artificiale che sia. Ci aiuta a capire (anche) che non possiamo più beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, o in esaltazioni percettive e sensitive, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni (compresi quelli di un territorio) non ci trasmettono, contemporaneamente, collegamenti complessi con una (purchessia) visione di idee.

Senza di essa il messaggio non raggiunge un grado minimo di autonomia (4), né riduce il disperato senso di solitudine, cioè di assenza di realtà, in cui siamo; diventa un dono vuoto, più che inutile. Nel messaggio, in ogni messaggio ricevuto (artistico e no), cerchiamo un senso di pieno, di cosa materiale che ci tocca. Un senso che va oltre, sia la funzione salvifica e consolatoria dell’arte, che la sua funzione catartica.
Vogliamo semplicemente vivere e trovare, in particolare nell’oggetto poetico o artistico, il senso di un contatto adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati. Non è che ci si vuole fare carico della salvezza del mondo, ma è inevitabile che l’area mentale del Superìo, se viene fatta interagire, tenda a costruire un atto critico prodotto dallo sguardo verso l’orizzonte sociale, se è vero che “L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico” (5).

Beninteso, ciò non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), intesa come marketing e maquillage cero-ideologico (vedi le statue di cera di gran parte dei politici); vuol dire porsi (almeno!) il problema del vuoto di “progettazione alternativa” (6); da cui forse nasce, proprio in chi vuole esprimere opposizione all’esistente, un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.
Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce a immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica di significati irripetibili; che non è più un soggetto-motore, con pensieri ed emozioni, che opera/genera sui/nei linguaggi, ma è il mezzo che diventa generatore autonomo.
Questa è ciò che si chiama totalizzazione di una parte: il mezzo, il linguaggio, il testo – rimasticando (male) il mezzo è il messaggio di Mc Luhan – non sono più cosa materiale di un soggetto, col quale inventare uno scambio, ma sono il tutto, un simulacro da accogliere supini. È ciò che chiamo ideologia del testo.

Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica indubbiamente ridefinire “a quale semantizzazione ci interessiamo”, rispetto a “l’attuale superficializzazione mediale, dominante” (7).
Per quanto mi riguarda, tendo (come altri più autorevoli di me) a cercare sviluppi rispetto alle “valenze proprie delle discipline innovative del Novecento, psicoanalisi e semiotica” (8); e provo a superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana dei tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva: Io, Es e Superìo.
Le ricerche e le applicazioni su analisi testuali, effettuate e in corso, mi spingono a dire che è solo la compresenza adiacente di questi tre ambiti che può donare all’invenzione una capacità “di rottura innovativa…non meramente ‘formale’” (9).

L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione non più separata, ma con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, che potremmo anche considerare, come dire, momenti di orgasmo mentale. L’identità soggettiva produce realtà, quando costruisce oggetti posti in una contemporaneità mentale (di tipo quantistico perché sono oggetti presenti contemporaneamente in più luoghi mentali), che diventa casa del tempo, cioè spazio fatto di tempo.
Spazio-tempo capace di vedere: “Una casa sperduta là in cima/ alla costa – anni luce/ di distanza”, luogo dalle parti di Casalecchio, in versi inediti di Giuliano Gramigna; o “viali colle ali” di G. Majorino (10). Luoghi mentali, capaci di prendere per la coda i frammenti del caos vitale che ci esalta e ci uccide, riuscendo a sorridergli in faccia o di sottecchi.

Questo luogo anomalo, inventato dall’intreccio adiacente tra le varie aree mentali, è a mio parere anche l’ante-rem, o la condizione intrasoggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere a mettere in comune (come già diceva Antonio Porta), che concepisca quindi la comunicazione come comunione. Per poter cioè sviluppare il massimo livello di comunicazione inter-soggettiva, occorre partire da una realtà di comunione intra-soggettiva. Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale.
Proviamo ora a immaginare una combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo), non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella spesso citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (11). Forma che può avere infinite varianti, a seconda del peso nella struttura di un testo degli elementi riconducibili alle varie galassie. Ad es., in Per quante vite di Marosia Castaldi, troviamo una forma a vortice, prodotta dalla combinazione particolare tra le modalità di linguaggio dell’Es (come la ossessività delle ripetizioni) e il forte peso interno di un’indignazione dell’area etica, che (com)porta il climax solo alla fine.

La realtà (ma non solo) è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale, con una forma di tempo mentale. Tempo piuttosto lungo perché deve elaborare le perdite e i guadagni delle esperienze (12). Questo lavoro di elaborazione mentale adiacente, che tende a coinvolgere tutte le galassie mentali, risponde alla necessità di recuperare tempo mentale per sé (13). È un tempo che può anche essere chiamato otium, ma è tutt’altro che ozioso. Perché costruisce metamorfosi autopoietiche di sé: lavoro del Sé per-sé. E dico lavoro perché modifica qualcosa di fisico, a cominciare da sinapsi inusitate tra neuroni, che forse sono così salvati dalla morte. L’ecosistema mentale in questo tempo resiste concretamente alla morte.
L’ecologia della mente è, per me, questo. È la poesia? Penso di sì. Ma quale poesia?, quella fatta solo di righe spezzate? Penso di no. Non sono solo le ricerche teoriche e artistiche di tutto il ‘900 che hanno mostrato 10, 100 e più forme sotto il nome di poesia. Abbiamo ad es. le intuizioni geniali di un Leopardi o di un Vico che ci parlano di un piano ulteriore, o di strani oggetti come la fisica poetica, o la chimica poetica, ecc.. (vedi paragrafo successivo). Certo, la poesia intesa in tale senso non fa miracoli, non dona e non salva la vita se trova il nulla o un tempo mentale uguale a zero. Ma se trova un lavoro mentale in atto, può essere la migliore medicina contro la depressione, come ha detto recentemente un gruppo di medici inglesi. Per questo, scherzando ma non troppo, dico che la poesia è spietata quanto una banca, che in genere dà soldi solo a chi li ha già.

In definitiva, la poesia e l’arte in genere resistono e sono inesauribili perché, più che utili/inutili, sono indispensabili; in quanto recupero di tempo mentale che consente al soggetto di diventare reale, nel momento in cui costruisce una forma di sé in un determinato linguaggio; forma che ha bisogno di costruire per dare materialità (ritorna la necessità della poesia come cosa) alla virtualità e precarietà dell’autocomposizione soggettiva.
È un lavoro inevitabilmente oppositivo rispetto alla prassi corrente, in cui lo scambio energetico appare al Sè vano, mercificato da un fine dominato da un altro; alienato e subìto dall’operatività della sopravvivenza dell’Io, che è così spinto a dare il meglio di sé nelle peggiori condizioni.
L’Io, da operatore unico, viene a sua volta ridotto (è, credo, la radice reale della c.d. riduzione/scomparsa dell’Io) a imperatore del nulla, se il suo tempo si riduce a un angoscioso vuoto, dopo che è stato reciso il rapporto, sia con la prillazione nelle profondità del lago nero del passato affettivo-inconscio, sia con la tensione etico-progettuale volta al futuro.

Note
1) Francesco Leonetti, “Campo – la ricerca in letteratura, arti, scienze”, N° 12, 1999, p. 286 – Suppl. al N°150 (ott.. ’98) di “L’immaginazione”.
2) Ibidem
3) “Porta”, Luigi Sasso, Firenze 1980.
4) F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura; Torino 1971.
5) Romano Luperini, “Campo” N°12, p.287
6) Francesco Leonetti, ibidem
7) Francesco Leonetti, “Campo”, N° 12, p. 285.
8) Ibidem
9) Ibidem
10) Giancarlo Majorino, Autoantologia, p. 270 – Milano 1999
11) Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994
12) A questo proposito, un piccolo esempio è ricordato da Ernst von Glasersfeld: “a ‘stessizzare’ una localizzazione tattile con una visiva,…il bambino ci mette parecchie settimane per impararlo – e lo impara interpretando certe esperienze SENSOMOTORIE” (Working Papers della Soc. di Cult. M-O, cit.).
13) Potremmo definire il tempo mentale come percezione di attimi d’infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella categoria definita da Platone nel Timeo “immagine mobile dell’eternità”. Il rettiliano e il limbico costituiscono invece forme e luoghi di materializzazione di un tempo fatto di lunghissimi accumuli di tempi esperienziali, ben diverso dunque da quello platonico.

adam vaccaro 4Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano 2001. Diversi i premi e riconoscimenti ed è stato tradotto in spagnolo e in inglese.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra le quali: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

Adam Vaccaro Via Lambro 1
20090 Trezzano S/N (MI) T. 02 93889474 – 347 7104584
Email: adam.vaccaro@tiscali.it

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Mario M. Gabriele POESIE SCELTE da “L’Erba di Stonehenge” (Progetto Cultura, 2016) pp. 90 € 10 con un Commento di Letizia Leone “Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco”; “Il mondo della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista”

mario gabrieleMario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014 e L’erba di Stonehenge (2016). Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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Commento di Letizia Leone

Come collocare nello scenario poetico attuale la poesia lavata da ogni emozione di Mario Gabriele? Questi suoi versi, a dir poco stranianti e sovversivi, tesi a smantellare tutto l’apparato sensistico-sentimentale, biografico-intimistico, allusivo-simbolico post-novecentesco esulano da categorie di appartenenza, canoni o mini-canoni poetici e confinano con esperienze artistiche di matrice neo-concettuale come certi esperimenti di Anish Kapoor, si pensi alla monumentale messa in opera del vuoto delle sue sculture per esempio.
In un certo senso questa è una poesia concettuale, dal forte impianto estetico-filosofico, “metapoesia” come è stata definita e scrittura superficiaria dove “la parola non esplode, non fruga, non le è data la funzione di levarsi in armi di fronte all’oggetto per cercare nel vivo della sua sostanza un nome ambiguo che la riassuma: il linguaggio non è qui violazione di un abisso ma dispiegamento sopra un’intera superficie”: così riferisce Barthes in merito all’opera di Robbe-Grillet, con il quale Gabriele ha sicuramente almeno un punto di contatto fondamentale, la “promozione del visivo”, l’oggettività, la “resistenza ottica” del rappresentato svuotato completamente dal “focolaio di corrispondenze”:

Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I,come Ipèrbato, O,come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

Versi che funzionano come grandi specchi deformanti. Rifrazioni, pulsioni, allucinazioni, Gabriele scherza, si diverte in modo sapiente accumulando sulla superficie specchiante del suo verso i frammenti della Storia, le schegge di un immenso patrimonio letterario e poetico. Ma i “frammenti-citazioni” isolati, strappati alla dialettica del racconto, diventano cassa di risonanza di una Storia che ha perso la sua funzione di magistra vitae, di messaggera dell’antichità dato che, nel momento stesso in cui ne viene negata la funzione pedagogica, smarrisce oltre all’autorevolezza della testimonianza perfino la sua aurea.
Il mondo insensato e indifferenziato della globalizzazione, cloaca immensa di merci e rifiuti non riciclabili, si nega alla possibilità di una narrazione/rappresentazione totalizzante ma si offre, inerte, allo sguardo feticistico del collezionista.
Il frammento è come l’oggetto da collezione di una società “estetizzata” che ha spezzato ogni linea di trasmissibilità con la tradizione e procede per accumulazione seriale.
La collezione infatti privando l’oggetto del suo valore d’uso, lo archivia ed espone dietro una vetrina quale numero di serie in una carrellata ottica di modelli, codici, segni.
Non a caso lo sviluppo del museo è fenomeno della modernità. I grandi poli museali contemporanei sono le nuove cattedrali per la celebrazione di un culto laico in grado di pilotare le “grandi transumanze” del turismo culturale: “Il museo guadagna terreno un po’ allo stesso modo che cresce il deserto: avanza laddove la vita si ritrae e, pirata animato da buone intenzioni, saccheggia i relitti da essa lasciati”. (Jean Clair)
Accumulazione ed enciclopedia si rivelano i termini di un estetismo atemporale ed extraterritoriale: il flusso della versificazione nei testi di Gabriele sembra, in un certo qual modo, ricalcare lo stesso sogno enciclopedico giocato sull’orlo del non-senso di Bouvard et Pécuchet (1881). In una sorta di astrazione le citazioni, quali apparizioni spettrali, assumono la valenza di segni efficaci:

…Bauli aprivano al passato.
Good Morning Mister President! Good Morning Bagdad!
I crani della storia luccicano sotto i campi di baseball,
come le cupole dorate nei giorni dell’ashura.
……………………………………………………
Burano d’arte e di vetro soffiato da guardare in silenzio
Come le stelle di Natale dai balconi dell’Occidente:
…………………………………………………………
L’occhio non andava oltre la grigia muraglia.

Onto mario Gabriele_1

Già Benjamin aveva capito il potere della citazione di “far piazza pulita, di espellere dal contesto e distruggere”, attimo di straniamento, epifania che si avvale di un meccanismo di riciclaggio degli elementi dormienti del passato come nel caso di Gabriele dove entrano in gioco tutti gli ingredienti dell’attualità in totale promiscuità.
E se ormai ci si può parlare solo per citazioni, questo ininterrotto dèjà-vu attiva una significazione secondaria, carica la scrittura di stimoli e irradiazioni atte a sollecitare un continuo feedback, una multistimolazione che richiede la partecipazione attiva del fruitore. I frammenti lanciando appelli al lettore rendono il testo un sistema aperto.
Il frammento-citazione assume il ruolo di simulacro di un nuovo feticismo culturale e promuove una vertigine di superficie dove non ci sono pieghe in cui infilare lo sguardo perché ormai l’azzeramento di ogni metafisica ha liberato l’oggetto da ogni prospettiva illusionistica, da ogni profondità legata alla percezione promuovendo l’immanenza “poliziesca dello sguardo”, il disincantamento radicale, o come direbbe Baudrillard uno “stadio cool e cibernetico che succede alla fase hot e fantasmatica”.
“Effetto di superficie” è stato definito questo stile che si avvicina molto alla tecnica dell’iperrealismo, alla “reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo – pubblicità, foto, ecc. – di medium in medium il reale si volatilizza, diventa allegoria della morte… Il progetto è già di fare il vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia, tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività”.
L’iperrealismo, afferma Lyotard, è al di là della rappresentazione soltanto perché è completamente nella simulazione.
E se l’arte si assume il compito di liberare o straniare lo sguardo sul mondo, è pur vero che da tempo ha prefigurato questa completa “estetizzazione” della vita, una sovraesposizione dove “tutto si duplica in se stesso, anche la realtà quotidiana e banale” e tutto si confonde con l’immaginario, si spettacolarizza.
La seduzione estetica permea ogni aspetto della realtà, la “carrellata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell’atmosfera cieca e brillante dei simulacri”. Iperrealismo come allucinazione estetica della realtà.

Dunque una poesia che modula la crisi della modernità, questa di Mario Gabriele. E che la poesia inoltre non potesse eludere la rivoluzione della fisica Einsteniana non era sfuggito ad Oscar Milosz: “la poesia di domani nascerà dalla trasmutazione scientifica e sociale che si sta compiendo sotto i nostri occhi”. Infatti da quando il pensiero scientifico, forte del principio di Indeterminazione di Heisenberg, ha aperto la via alle “relazioni di incertezza” un profondo cambiamento è intervenuto nell’approccio gnoseologico alla realtà. Se l’io che giudica o contempla costituisce una modificazione dell’oggetto in sé, l’intervento dell’osservatore non è più rilevante nella definizione o rappresentazione dell’oggetto, lo è invece la consapevolezza delle molteplici relazioni, dei molteplici condizionamenti che ad esso ci legano.
Ecco, la poesia di Gabriele parte proprio da questa ridefinizione dei rapporti tra soggetto ed oggetto… Heisenberg è stato molto chiaro in proposito, quando afferma che “per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso”.

Strilli Gabriele2 Mario M. Gabriele da “L’erba di Stonehenge” (2016)

(10)

Il riverbero delle ghirlande sulla tastiera
mise in un angolo il Cantico dei Cantici.
Ci furono sismi e allarmi nel querceto.

Uno schutzmann avvisò i fedeli nel tempio,
e quelli che costruirono palafitte
a due metri dal mare,
si accordarono con il guardiano del faro
bruciando la vita come sterpo.
Allora un sacerdote disse a noi:
-Sacrificate un agnello sull’altare di Dio-,
e chi rimase in città,
salì sui monti con il raccolto del mese.
Sulla scrivania c’erano i libri di Bauman
E l’Urlo di Ginsberg.
Abbiamo ridato corda ai violini,
ricaricati gli orologi,
verniciate le imposte.

Era così soave settembre
A pochi passi dall’autunno,
che neanche il gospel turbò la tristezza
degli amici di Praga e di Vienna.
Non di rado, ma a giorni alterni,
la madre di Joe canta: La vie en rose.

.
(15)

La casa era piena di arredi
come l’aveva lasciata la ragazza Carla.

Miriam curava le piaghe
Con l’erba mèdica e il miele d’acacia,
e ogni volta che tornava al Majestic,
gli amici del club le donavano fiori di pesco
e cioccolato allo sherry.

Angela Adònica è un dolce poema,
ma al n.5 di rue de Pigalle
i bouquinistes regalano coupon
per “Una stagione all’Inferno”.

-Ci sarà pure una dacia
o un ostello a Smolenskoe-,
disse Karima, stanca di inutili attese
e delle storie infantili di Grigorev.

Restavano i colori del Domuspark.
Ma era tutto un tacito andare
per vicoli e strade
senza sbocchi nella fioriera.

Ora nessuno può dire
che ci sia stato un disastro tra noi,
se la vita è sempre stata la stessa
mentre cresceva l’erba
nel cerchio di Stonehenge.

helmut newton modella

helmut newton modella che fuma

(17)

Finita l’aspra contesa
tornammo a Thomas Kinsella
in Un altro settembre,
senza deliri e metafisiche accensioni.
Mister God, da tempo,
non butta più acqua nei pozzi,
lascia stare le cose così come sono.

Un battito d’ala è sempre un battito d’ala,
come la preghiera di suor Evelina
che è un mistico dire.
La luna ha rinunciato a specchiarsi nel mare
lasciando le ombre attaccate alle mani.
Povera Ketty, senza lo sguardo delle mimose!
Ludmilla porterà di sicuro una nuova stagione.
La sarta ha fatto un vestito a punto-croce.
Principessa, è tempo di fermare l’autunno,
restituire agli alberi le foglie cadute.

 

(22)

La speranza giaceva nel cassetto.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera,
lo beviamo al meriggio, al mattino,
lo beviamo la notte,
ai tavolini de la belle Epoque a Parigi.

-Papà modan, papà Modan-, gridava Joelle
al primo allarme nel querceto,
quando scendeva le scale zittendo i suoi cani.

Al Bristol Hotel c’era gente
Venuta ad ascoltare Save the children.

Candy temeva i mesi più della bufera.

Ma questo è un altro dire, Margot,
un altro soffrire,
e so di fiumi che offuscano il cielo
e di gente alla riva che aspetta Godot.

 

helmut newton coppia che fuma

helmut newton coppia che fuma

(23)

Torna aprile sui monti innevati.
Nietzsche, perdute le scarpine,
se ne sta solo nell’aldilà
senza Cristo ed Ezechiele.

Mary nel Getsemani
cerca il pane dell’Ultima Cena.
Ma è dai Crawford che verrà la Pasqua,
quando si parlerà di Cynthia e di Karen,
passate tra le comete.

Proprio come dice padre Arnold
nella messa di fine aprile ai suoi fedeli.

Venerdì di luglio e poche astrazioni nella giornata,
se non fosse per Matisse entrato nella stanza
con il Nasturtiums With The Dance del 1912:
un secolo di croci contorte
e false primavere se mai tu le avessi viste, Dorothy,
dal tuo lettino a Farmerhouse.

.

(24)

Tardiva la tua risposta portò
il ricordo di Srebrenica e Zepa,
riformulando metafore e lessemi.

Il museumshop non era il luogo
per aprire reperti fonici,
fare da ponte ad ogni intruso della realtà,
coordinare le latitudini dei ghiacciai,
senza bussole e fischietti di richiamo,
anche se poi di tutto si può parlare
rifacendo i passi nel deserto,
fino al silenzio di Majakovskij
e “niente pettegolezzi”*
per un passaggio discreto a Novodevicij,
senza avvisi di uccellacci e uccellini.

*Frase scritta da Majakovskij su un foglietto, prima del suicidio.

.
(26)

Questa strada di industrie in disuso
non ha più profumo di alloro e ligustri.

Cacciato dal cielo, un angelo azzurro
Prese alloggio nella casa di Piera.
Ci fu un discorso su lemmi e stilemi:
carcasse di lingua sepolte nel tempo.

Spuntarono fiori nei vasi.
Biorin, uscito da un triste calvario,
si fermò davanti a un quadro di Bruegel,

La notte ci fece uguali.
Tornò Gardel con paso doble e caminito.

Violini accennarono arie discrete.
-È una cosa molto rara-, disse il concertista in prima fila.
-Ma seguiamo lo spartito-.

Nel backstage, accanto a prove di fiato e solfeggi,
tornarono di nuovo le violette di marzo.

 

helmut newton in mostra a Roma part

helmut newton in mostra a Roma, particolare

Glossario

«Uno squilibrio in ragione del quale la letteratura si assume il compito di fare vedere il mondo con occhi nuovi, di “straniare” il nostro sguardo per renderci di nuovo reali e presenti gli oggetti più banali e quotidiani». Significativamente, anche nella teorizzazione di Viktor Sklovskij tale compito viene formulato attraverso una serie di metafore visive.
Il potere dell’immagine viene qui assunto in chiave positiva, liberatoria ancora una volta, eppure…

Il sogno di un’Enciclopedia in un’era che ha perso il senso, e forse la possibilità, di una rappresentazione totalizzante:

Se Il titolo, infatti, come diceva Marcel Duchamp, è una parte fondamentale dell’opera.
Tutto ciò che è scritto è in “carenza di senso” secondo l’eccellente espressione di Levi-Strauss. Ciò non vuol dire che la produzione letteraria sia semplicemente insignificante. Essa è in “carenza di senso”. Non c’è il senso, ma c’è come un sogno del senso. È la perdita incondizionata del linguaggio che comincia. Non si scrive più per questa o quell’altra ragione, ma l’atto di scrivere è gravato dal bisogno di senso, ciò che oggi si chiama la significanza (signifiance). Non la significazione (signification) del linguaggio ma proprio la significanza.[4] [4] BARTHES Roland, Magazine littéraire, n°108, gennaio 1976.

Il citazionismo diventa accessorio citazionistico di una merce letteraria andata a male e stipata in immensi magazzini, una collezione di schegge narrative strappate alla loro funzione narrativa, versi denervati, nuda oggettività antipoetica

Il Capitale costatando che “la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico. 
Poetica dell’ Iperreale.

L’erba di Stonehenge è il libro della deflagrazione….

Giocando con l’immaginazione si potrebbe indovinare la risposta che darebbe Brodskij se gli si sottoponessero alcuni versi di Mario Gabriele “La periferia non è il luogo in cui finisce il mondo, – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta”, naturalmente qui si parla di periferia poetica.

Letizia Leone diwali

Letizia Leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.

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