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EUR-Roma “Nuvola” di Fuksas, Domenica 10 dicembre, ore 17.00 Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen, Cambiare nome alla Poesia per cambiare la Poesia? Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Riflessioni di Francesco Paolo Intini, Marie Laure Colasson, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

La_macchia_arancione_50x50 acrilico 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 50×50 cm, 2023

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EUR-Roma “Nuvola” di Fuksas
Domenica 10 dicembre, ore 17.00 Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen

Cambiare nome alla Poesia per cambiare la Poesia?

Intervengono
Marie Laure Colasson, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa
Tiziana Antonilli, Gino Rago, Giuseppe Gallo
con Reading degli autori della Poetry kitchen

Francesco Paolo Intini

15 ottobre 2023 alle 9:02

Cari

Penso che il vuoto sia prima di tutto prodotto dalla società in cui muoviamo i nostri passi. Negli ultimi tempi si sono succeduti tre grossi avvenimenti che hanno svuotato la realtà storica di tutto ciò che si poteva considerare accadere nel senso di un progresso per l’intera umanità. Covid, guerra Russia\Ucraina e per ultimo l’epilogo della guerra perenne per il diritto di un popolo all’esistenza tra Palestina e Israele.

Le implicazioni e le estensioni di questi fatti e principi sono sotto gli occhi di tutti e minano da una parte la credibilità della scienza di rappresentarsi come l’unica arma capace di lavorare in favore della conservazione della specie e dall’altra la fiducia in valori universali capaci di contrastare la legge del più forte.

Che altro rimane?

Beh, il senso di tutto questo è quello di una tendenza allo svuotamento generalizzato di valori compensato da una disponibilità di tecnologia e di merci in crescita esponenziale su tutti i fronti.

Non c’è da meravigliarsi se a questo vi corrisponda un vuoto nel significato delle parole con le quali intendevamo gli altri e non c’è da meravigliarsi se all’interno di questo in cui conserviamo le merci e la tecnologia che le produce, le stesse aleggiano come fossero particelle estremamente rarefatte in cerca di qualcosa su cui poggiare.

Io credo che ci sia nelle parole, nel come le vedo nascere ed interagire con le altre per fare un verso, qualcosa che non assomiglia ad un bisogno di senso. Le vedo mentre dirottano le possibilità di significato verso il non senso, lo sberleffo, il derisorio, la caricatura, lo sfottò. Le vedo distruggere qualcosa che potrebbe risultare gradevole ad un orecchio abituato alla dolcezza del suono, del ritmo, della commozione etc.

Sono parole che prendono spunto da ciò con cui vengono a contatto e cioè l’enormità del prodotto che chiamiamo merci per sabotarle, dissiparle e togliersi di dosso l’odore di denaro a costo di non farsi voler bene per il senso negato anche solo all’ultimo istante, all’ultima virgola.

Non è dunque una parola destinata a riscuotere facilmente like, approvazione, comprensione e successo. Specialmente nella composizione apparirà sempre precaria, malaticcia, clownesca, sul punto di fallire, togliersi il trucco e ricadere su sé stessa.

Roba da RSA dirà qualcuno, magari qualche ex amico allontanatosi perché inorridito dalle conseguenze a cui è arrivata la sua stessa creatura. Ma che c’è da meravigliarsi?

Tutto ciò che penso è che nell’attraversare il vuoto le parole risentano di un minor grado di attrazione da parte di altre parole e vengano fuori, per ciascuna di esse, possibilità inesplorate, sfaccettature che aprono tunnel e passaggi segreti evidenziabili solo quando sono allo stato di nudità assoluta.

La loro riaggregazione è un fatto inspiegabile con le normali leggi della sintassi poetica. Forse cercano qualcosa per poter essere riportate nel mondo macroscopico ma nessuno sa quando la tempesta che collassa i valori cesserà.

Un caro saluto

La macchia blu, acrilico, 20x20, 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 50×50 cm, 2023

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Giorgio Linguaglossa

16 ottobre 2023 alle 7:55

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Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale fa a meno di ogni atteggiamento critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare, è una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani…

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Diceva Umberto Eco in una famosa intervista :

«…un giorno Balestrini (e non so se fossi il primo con cui ne parlava, ma eravamo in una tavola calda vicino a Brera), mi ha detto che il momento era venuto di ispirarsi al Gruppo 47 tedesco, e di riunire tante persone che vivevano di una temperie comune, per leggersi a vicenda i propri testi, ciascuno parlando male anzitutto dell’altro – poi, se avanzava tempo, degli altri, quelli che secondo noi intendevano la letteratura come “consolazione” e non come provocazione. Mi ricordo che Balestrini mi avea detto “faremo morire di rabbia un sacco di gente”. Ebbene sembrava una spacconata, ma ha funzionato.

Perché il Gruppo 63 che si riuniva a Palermo senza, all’inizio, strombazzare troppo l’iniziativa, e – se ci pensiamo bene – facendosi i fatti suoi, doveva fare arrabbiare tanta gente?

Per capire questa storia occorre fare un passo indietro a ricordare cosa fosse la società letteraria italiana (indipendentemente dalle posizioni ideologiche) verso la fine degli anni cinquanta. Si trattava di una società che era vissuta in difesa e in mutuo sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime – dico che non si allineavano quanto a scelte stilistiche, indipendentemente dalle convinzioni e persino dalle viltà politiche di molti – erano a mala pena tollerati. Si riunivano in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata.

[…]

Ma quello che ancor più aveva irritato la società letteraria non era stata la posizione che diremmo “politica” del Gruppo. Era stata una diversa disposizione al dialogo e al confronto. Ho parlato di una società letteraria confinata nei propri luoghi deputati, e impegnata per ragioni storiche di sopravvivenza a proteggere i propri membri e a mantenere intatto l’unico suo capitale, la idea sacrale del poeta e dell’uomo di cultura. Era una generazione che poteva conoscere il dissenso, ma lo consumava attraverso un mutuo ignorarsi delle varie conventicole, e preferiva la malignità sussurrata al bar alla stroncatura su un pubblico elzeviro. Per così dire era una generazione abituata a lavare i panni sporchi in famiglia.

Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia aveva bene fissato le caratteristiche di questi movimenti. Erano: attivismo (fascino dell’avventura, gratuità del fine), antagonismo (si agisce contro qualcosa o qualcuno), nichilismo (si fa tabula rasa dei valori tradizionali), culto della giovinezza (la Querelle des ancien set des modernes), ludicità (arte come gioco), prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda (violenta imposizione del proprio modello a esclusione di tutti gli altri), rivoluzionarismo e terrorismo (in senso culturale) e infine agonismo, nel senso di senso agonico dell’olocausto, capacità di suicidio al momento giusto, e gusto della propria catastrofe.

Invece lo sperimentalismo è devozione all’opera singola. L’avanguardia agita una poetica, rinunciando per amor suo alle opere, e produce piuttosto manifesti, mentre lo sperimentalismo produce l’opera e solo da essa estrae o permette poi che si estragga una poetica. Lo sperimentalismo tende a una provocazione interna al circuito dell’intertestualità, l’avanguardia a una provocazione esterna, nel corpo sociale. Quando Piero Manzoni produceva una tela bianca faceva dello sperimentalismo, quando vendeva ai musei una scatoletta con merda d’artista faceva della provocazione avanguardistica.»*

* https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/02/21/ricordando-umberto-eco-il-gruppo-63-quarantanni-dopo-prolusione-tenuta-a-bologna-per-il-quarantennale-del-gruppo-63-8-5-2003-1-eco-gruppo-63-2003-da-www-umbertoeco-it/

Marie Laure Colasson

16 ottobre 2023 alle 13:03

È vero, qualcuno, leggi la poetry kitchen, ha smobilitato il discorso poetico del Grande Labirinto della narratività, lo ha decostruito, lo decostruisce di continuo, mostra la fatuità di quel linguaggio. Nessuno oggi fa più un discorso poetico, ognuno se lo fa per se stesso e se lo cuoce e se lo deglutisce con un bel Campari. Invece, il bello della modalità kitchen (o infantile) è che ciascuno può pescare nella propria soggettività (evanescente) quello che vuole, al contrario dei poeti elegiaco-narrativi che partono da qui: In principio era il Verbo, per poi affidarsi alle virtù balsamiche della soggettività salvatrice e ricreatrice alla Vivian Lamarque.

Questa poesia [del post precedente, n.d.r] di Francesco Paolo Intini è felice, perché scritta con un linguaggio che ha la libertà immaginativa tipica dei bambini, sembra scritta durante un terremoto del 9° grado della scala Mercalli. Ma sì, noi tutti facciamo poesia ma senza prenderci più sul serio, della seriosità dei poeti elegiaci e degli adulti che parlano la Lingua del Labirinto elegiaco, si fa poesia perché è un nulla di nulla e non conta nulla, perché «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger). Almeno questo lo possiamo dire, senza innaffiarci di «sublime» e senza le furbizie degli elegiaci.

Intini riesce formidabile quando adotta il principio di Lacan:

«Io mi identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto». Intini ha la peculiare e rarissima capacità di perdersi nel linguaggio fino a non trovare più la via di uscita dal Grande Labirinto della narratività, ma non demorde, continua a cercare la via di uscita e sbatte la testa di continuo contro il muro del linguaggio. Quello che noi leggiamo sono le cicatrici sulla testa di Intini.

La Macchia all'angolo, 2023

Marie Laure Colasson, la macchia, acrilico, 25×25 cm, 2023

Giuseppe Talìa

17 ottobre 2023 alle 16:38

Ricordo di aver commentato in precedenza la poesia di Intini, “Spyke di fine settembre”, rimanendo molto colpito proprio dal distico iniziale, “Accadde all’inizio che…”, un lampo improvviso scuote l’immobilità e a cui segue il tuono dell’indeterminatezza e delle aporie che costellano l’intero testo di Intini, a partire proprio dal verso “il nulla sopravvisse nelle scatolette di tonno./Gnam!” Un sovvertimento, una metonimia, dove contenuto e contenitore vengono sovvertiti come le stesse attese. Se ricordiamo la famosa frase “apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno”, allora capiamo il rumore prodotto da chi mangia e la comodità del triclinio dove le parole passano ai fatti e diventano poltrone e sofà. Solitamente, Intini infarcisce i suoi distici con una o più metafore, in questa lirica salta all’occhio immediatamente la metafora del cibo e degli organi fisici ad esso, il cibo, collegati. Come un giocoliere, un saltimbanco, il poeta Intini riesce collegare i distici con un tropo comune ma nascosto, non dichiarato immediatamente, una riduzione del significato in una sineddoche inferenziale, come nell’esempio di seguito:

– Che c’è di buono in France?
Il parrucchiere di Gay-Lussac trasmette la notizia al dentista di Biden:
– Qui i secoli non hanno vita facile, spesso perdono la testa e si avvitano allo zero assoluto.
Ma poi rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.
Il potere si conserva in bottiglie di pelati.

Dov’è la sineddoche in questo esempio? Qual è l’elemento nascosto, sostituito? Alla luce della metafora del cibo, i denti appaiono senza apparire, sono “secoli” che “rinascono smaglianti nella bocca di un novantenne.”
L’ironia in questo gruppo di versi è pungente e si concretizza nella domanda su la bonne cuisine française, altra sostituzione per completare il tavolo dei commensali, Macron, Biden Putin (?) E l’Italia, come viene rappresentata se non con il luoghi comuni sovvertiti ? « Rospo all’amatriciana, Andreotti. »
Il lauto pasto del « potere » si conclude con il brindisi finale :

L’endecasillabo stravinse dappertutto
Mentre la rima divenne primo ministro.

Chi pensa che la poesia kitchen non abbia in sé anche le corde della denuncia globale dovrebbe ricredersi ri-leggendo i versi di Intini. Se si prestasse attenzione, ad esempio, alla decostruzione del mito attraverso le aporie di Giorgio Linguaglossa, – “Quindi il mito è falso. Dice il falso” – cercando di non avere sotto gli occhi la scheda di lettura editoriale, si capirebbe meglio la portata unica in Italia della poetry kitchen.

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Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia

Charles Simic, Poesie, Il mondo non finisce, The world doesn’t end, La storia è un libro di ricette, I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina, traduzione, Intervista e una glossa a cura di Giorgio Linguaglossa, La macchia di Marie Laure Colasson, acrilico su legno 30×30 cm. 2020

Marie Laure Colasson Struttura ignea 30x30 2021Marie Laure Colasson, Macchia, 30×30 cm acrilico, 2020

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La macchia è la «materia-immagine» della disintegrazione, l’idea della de-figurazione stessa del soggetto e dell’oggetto nel testo, tanto che a realizzare opere di de-figurazione attraverso una lingua-corpo è stato anche il già Antonin Artaud, in testi e disegni dove la de-figurazione non è una banale lacerazione sanguinante né un puro e semplice annientamento della figura. Al contrario, essa è la forza di destabilizzazione che intacca la figura, la forza che mette la figura in movimento e le imprime una rotazione vertiginosa, un ilinx, che è la risposta alla percezione che vede germinare sciami di corpuscoli e striature laddove dovrebbe esistere un solo volto, una sola riconoscibile figura. Ci sono in atto delle forze, invisibili alla percezione quotidiana, che minano alle fondamenta la figuralità della immagine e la distorcono in macchia abnorme. Si tratta delle forze storiche della de-figurazione che agiscono nel profondo dell’inconscio del capitalismo cognitivo e dell’inconscio di ogni individuo, esse sono in azione da un bel pezzo, sono le forze della de-valorizzazione e della de-figurazione.

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«La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi.
I filosofi quelli che scrivono il menu.
I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori.
Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina»
(Charles Simic)

Charles Simic

The world doesn’t end (Il mondo non finisce)

Part I

We were so poor I had to take the place of the bait in the mousetrap. All alone in the cellar, I could hear them pacing upstairs, tossing and turning in their beds. “These are dark and evil days,” the mouse told me as he nibbled my ear. Years passed. My mother wore a cat-fur collar which she stroked until its sparks lit up the cellar.

*

The flies in the Arctic Circle all come from my sleepless nights. This is how they travel: The wind takes them from butcher to butcher; then the cows’ tails get busy at milking time.

At night in the northern woods they listen to the moose, the lion…  The summer there is so brief, they barely have time to count their legs.

“Brave as a postage stamp crossing the ocean,” they drone and sigh, and already it’s time to make snowballs, the little gray ones with stones in them.

Parte I

Eravamo così poveri che ho dovuto prendere il posto dell’esca nella trappola per topi. Tutto solo in cantina, li sentivo camminare su e giù per le scale, rigirandosi e rigirandosi nei loro letti. “Questi sono giorni bui e malvagi”, mi disse il topo mentre mi mordicchiava l’orecchio. Passarono gli anni. Mia madre portava un collare di pelliccia di gatto che accarezzava finché le sue scintille non illuminavano la cantina.

*

Le mosche nel Circolo Polare Artico provengono tutte dalle mie notti insonni. Ecco come viaggiano: il vento li porta da macellaio in macellaio; poi le code delle mucche si danno da fare al momento della mungitura.

Di notte nei boschi del nord ascoltano l’alce, il leone… Lì l’estate è così breve che hanno appena il tempo di contare le gambe.

“Coraggioso come un francobollo che attraversa l’oceano”, borbottano e sospirano, ed è già ora di fare le palle di neve, quelle piccole grigie con i sassi dentro.

Part II

A poem about sitting on a New York rooftop on a chill autumn evening, drinking red wine, surrounded by tall buildings, the little kids running dangerously to the edge, the beautiful girl everyone’s secretly in love with sitting by herself. She will die young but we don’t know that yet. She has a hole in her black stocking, big toe showing, toe painted red…And the skyscrapers… in the failing light… like new Chaldeans, pythonesses, Cassandras…because of their many blind windows.

*

Dear Friedrich, the world’s still false, cruel and beautiful…

Earlier tonight, I watched the Chinese laundryman, who doesn’t read or write our language, turn the pages of a book left behind by a costumer in a hurry. That made me happy. I wanted it to be a dreambook, or a volume of foolishly sentimental verses, but I didn’t look closely.

It’s almost midnight now, and his light is still on. He has a daughter who brings him dinner, who wears short skirts and walk with long strides. She’s late, very late, so he has stopped ironing and watches the street.

If not for the two of us, there’d be only spiders hanging their webs between the street lights and the dark trees.

*

The dead man steps down from the scaffold. He holds his bloody head under his arm.

The apple trees are in flower. He’s making his way to the village tavern with everybody watching. There, he takes a seat at one of the tables and orders two beers, one for him and one for his head. My mother wipes her hands on her apron and serves him.

It’s so quiet in the world. One can hear the old river, which in its confusion forgets and flows backwards.

*

My guardian angel is afraid of the dark. He pretends he’s not, sends me ahead, tells me he’ll be along in a moment. Pretty soon I can’t see a thing. “This must be the darkest corner of heaven,’ someone whispers behind my back. It turns out her guardian angel is missing too. “It’s an outrage,” I tell her. “The dirty little cowards leaving us alone,” she whispers. And of course, for all we know, I might be a hundred years old already, and she’s just a sleepy little girl with glasses.

*

Once I knew, then I forgot. It was as if I had fallen asleep in a field only to discover at waking that a grove of trees had grown up around me.

“Doubt nothing, believe everything,” was my friends idea of metaphysics, although his brother ran away with his wife. He still bought her a rose every day, sat in the empty house for the next twenty years talking to her about the weather.

I was already dozing off in the shade, dreaming that the rustling trees were my many selves explaining themselves all at the same time so that I could not make out a single word. My life was a beautiful mystery on the verge of understanding, always on the verge! Think of it!

My friend’s empty house with every one of its windows lit. The dark trees multiplying all around it.

Parte II

Una poesia circa il sedersi su un tetto di New York in una fredda sera d’autunno, mentre beviamo vino rosso, circondato da edifici alti, i bambini che corrono pericolosamente al limite, la bella ragazza di cui tutti sono segretamente innamorati seduti da sola. Morirà giovane, ma non lo sappiamo ancora. Ha un buco nella calza nera, l’alluce in vista, la punta dipinta di rosso… E i grattacieli… nella luce fioca… come nuovi caldei, pitone, cassandre… a causa delle loro numerose finestre cieche.

*

Caro Friedrich, il mondo è ancora falso, crudele e bello…

Stanotte ho visto il lavandaio cinese, che non legge né scrive la nostra lingua, girare le pagine di un libro lasciato da un cliente in fretta e furia. Questo mi ha reso felice. Volevo che fosse un libro dei sogni, o un volume di versi stupidamente sentimentali, ma non ho guardato da vicino.

È quasi mezzanotte ormai e la sua luce è ancora accesa. Ha una figlia che gli porta la cena, che indossa gonne corte e cammina a grandi falcate. È in ritardo, molto in ritardo, quindi ha smesso di stirare e guarda la strada.

Se non fosse per noi due, ci sarebbero solo ragni che appendono le loro tele tra i lampioni e gli alberi scuri.

*

Il morto scende dal patibolo. Tiene la testa insanguinata sotto il braccio.

I meli sono in fiore. Si sta dirigendo verso la taverna del villaggio con tutti a guardare. Lì si siede a uno dei tavoli e ordina due birre, una per lui e una per la testa. Mia madre si asciuga le mani sul grembiule e lo serve.
È così tranquillo nel mondo. Si può sentire il vecchio fiume che nella sua confusione dimentica e scorre all’indietro.

*

Il mio angelo custode ha paura del buio. Fa finta di no, mi manda avanti, mi dice che arriverà tra un momento. Ben presto non riesco a vedere nulla. “Questo deve essere l’angolo più buio del paradiso”, sussurra qualcuno alle mie spalle. Si scopre che anche il suo angelo custode è scomparso. “È un oltraggio”, le dico. “I piccoli sporchi codardi che ci lasciano soli”, sussurra. E ovviamente, per quanto ne sappiamo, potrei avere già cent’anni, e lei è solo una bambina assonnata con gli occhiali.

*

Una volta che lo sapevo, poi l’ho dimenticato. Era come se mi fossi addormentato in un campo solo per scoprire al risveglio che un boschetto di alberi era cresciuto intorno a me.

“Non dubitare, credi a tutto”, era l’idea della metafisica dei miei amici, anche se suo fratello era scappato con sua moglie. Le comprava ancora una rosa ogni giorno, rimase seduto nella casa vuota per i successivi vent’anni a parlarle del tempo.

Stavo già sonnecchiando all’ombra, sognando che gli alberi fruscianti erano i miei tanti io che si spiegavano tutti insieme in modo da non riuscire a distinguere una sola parola. La mia vita era un bellissimo mistero sul punto di capire, sempre sull’orlo! Pensaci!

La casa vuota del mio amico con tutte le finestre illuminate. Gli alberi scuri che si moltiplicano tutt’intorno.

Part III

The time of minor poets is coming. Good-by Whitman, Dickinson, Frost. Welcome you whose fame will never reach beyond your closest family, and perhaps one or two good friends gathered after dinner over a jug of fierce red wine… while the children are falling asleep and complaining about the noise you’re making as you rummage through the closets for your old poems, afraid your wife might’ve thrown them out with last spring’s cleaning.

It’s snowing, says someone who has peeked into the dark night, and then he, too, turns toward you as you prepare yourself to read, in a manner somewhat theatrical and with a face turning red, the long rambling love poem whose final stanza (unknown to you) is hopelessly missing.

After Aleksandar Ristović

O the great God of Theory, he’s just a pencil stub, a chewed stub with a worn eraser at the end of a huge scribble.

Parte III

Il tempo dei poeti minori sta arrivando. Arrivederci Whitman, Dickinson, Frost. Ti diamo il benvenuto la cui fama non andrà mai oltre la tua famiglia più vicina, e forse uno o due buoni amici si sono riuniti dopo cena davanti a una brocca di vino rosso feroce… mentre i bambini si addormentano e si lamentano del rumore che fai mentre frughi nel armadi per le tue vecchie poesie, temendo che tua moglie possa averle buttate via con le pulizie della scorsa primavera.

Nevica, dice qualcuno che ha sbirciato nella notte oscura, e poi anche lui si volta verso di te mentre ti prepari a leggere, in maniera un po’ teatrale e con il viso che diventa rosso, la lunga e sconclusionata poesia d’amore la cui strofa finale (a te sconosciuto) manca irrimediabilmente.

Dopo Aleksandar Ristović

O il grande Dio della teoria, è solo un mozzicone di matita, un mozzicone masticato con una gomma consumata alla fine di un enorme scarabocchio.

Aforismi

da Il mostro ama il suo labirinto, Monster Loves His Labyrinth 2008

Dove il conformismo è considerato un ideale, la poesia non è la benvenuta.

Faccio parte di quella minoranza che si rifiuta di far parte di qualsiasi minoranza ufficialmente definita.

Gli orrori del nostro tempo ci faranno provare nostalgia di quelli del passato. Non credo in Dio, però evito di aprire l’ombrello in casa.

I nostri ricchi sono più bravi a rubare dei nostri ladri comuni.

Il miglior argomento a favore del vino, del tabacco, del sesso e dei discorsi a vanvera consiste nel fatto che ogni maggioranza cosiddetta morale li condanna.

Il nazionalismo è amore per l’odore della nostra merda collettiva.

Il poeta vede quello che il filosofo pensa.

L’ambizione segreta di ogni opera letteraria è quella di obbligare dèi e diavoli ad accorgersi di lei.

L’utopia: una sostanziosa torta al cioccolato protetta dalle mosche sotto una campana di vetro.

La bellezza di un attimo fuggente è eterna.

La gentilezza di un essere umano verso un altro in tempi di odio e violenza di massa merita maggior rispetto delle prediche di tutte le chiese dall’inizio del tempo.

La stupidità sta conoscendo un revival nazionale. Basta accendere la TV per vedere il suo largo bonario sorriso.

Le fotografie ci mostrano quello che non abbiamo le parole per dire.

Notte d’autunno fredda e ventosa. Sull’angolo, una barbona parla con Dio; lui, come al solito, non ha niente da dire.

Qualunque cosa è uno specchio, a guardarla abbastanza a lungo.

Qualunque ideologia o fede che non sia insaporita dall’odio non ha alcuna possibilità di successo popolare. Per essere veri credenti bisogna essere campioni d’odio.

Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera: «Il mio dolore è più grande del tuo».

Tra la verità che si sente dire e la verità che si vede, preferisco la verità silenziosa di ciò che viene visto

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Charles Simic è nato a Belgrado nel 1938. Nel 1990 è stato insignito del premio Nobel. Dal 1953 risiede negli Stati Uniti, dove insegna Letteratura inglese all’università del New Hampshire. Nel 1967 è apparsa la sua prima raccolta di poesie, What the Grass Says. Da allora ha pubblicato un cospicuo numero di opere fra cui ricordiamo Prose Poems (1990), che gli è valso il Premio Pulitzer, e Jackstraws (1999), insignito dal «New York Times» del titolo di «Notable Book of the Year». Ha tradotto in inglese poeti serbi, croati, macedoni, sloveni, francesi.

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In una intervista Simic dichiara:

“A pagina uno del mio libro dei sogni/ è sempre sera/ in un paese occupato./ L’ora prima del coprifuoco./ Una cittadina di provincia./ Le case tutte al buio./ I negozi sventrati”. Ricordi certo non nostalgici. Quando aveva tre anni giocava alla guerra come tutti i ragazzini quando all’improvviso fu sbalzato da una bomba tedesca; “Le mie agenzie di viaggio sono state Hitler e Stalin” ha dichiarato, caustico, parlando del suo arrivo in America. “I tedeschi e gli alleati mi bombardavano a turno, mentre giocavo, sul pavimento della mia stanza, con la mia collezione di soldatini”. Un’immagine che è finita in una sua poesia: “Giocavamo alla guerra durante la guerra,/ Margaret. I soldatini erano molto richiesti,/il tipo in terracotta./ Quelli di piombo finivano sciolti a far pallottole,/ immagino”. Humor balcanico?

Domanda:

A proposito della lingua serba, lei spesso racconta un aneddoto divertente e surreale. Di quando, con suo zio Boris, mentre discutevate animatamente in un bar americano, una signora si è avvicinata per chiedere in che lingua parlavate. E voi…

Risposta:

“Noi abbiamo risposto che eravamo gli unici due superstiti di una tribù di africani bianchi, che parlava una lingua ormai estinta. Ci ha creduto. Gli americani del resto hanno un’idea molto vaga della geografia mondiale, nonché della storia, quindi sono sempre tentato di prenderli in giro. Una volta – ero su un treno che attraversava l’Ohio – ho raccontato a una giovane donna che ero un principe russo in esilio, e le ho descritto, minuziosamente, tutti i palazzi che possedeva un tempo la mia famiglia. Lei era incantata”.

charles simic photo

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
(Vincenzo Vitiello)

Glossa di Giorgio Linguaglossa

Non sorprende che Charles Simic, poeta intellettualissimo ma che ama presentarsi al pubblico come illetterato, se non trasandato, abbia sostenuto che «il vero poeta è specializzato in una sorta di metafisica della camera da letto e della cucina» e che il poeta è «il mistico della padella e dei piedi rosa del [suo] amore». Il suo gusto per i dettagli è legato all’apprezzamento per la semplicità e la brevità della poesia che non deve mai superare per lunghezza una pagina e non più di sedici versi. «I musicisti blues sanno che poche note giustamente posizionate toccano l’anima, e anche i poeti lirici». Simic, da poeta post-lirico, si è espresso anche mediante la metafora culinaria: «L’idea è che è possibile preparare piatti sorprendentemente gustosi con gli ingredienti più semplici». Alcuni dei migliori cuochi lo hanno osannato. Escoffier ha preso come motto la sua frase «Faites simple», un’ingiunzione che è anche un principio compositivo.
La dizione e la sintassi sono quelle dell’inglese di base. Si legge sulla sovracoperta di un suo libro che «il suo lavoro è apparso in traduzione in tutto il mondo». Un altro retro di copertina ci dice che il libro «evocherà una varietà di ambientazioni e immagini… [e] soggetti», ma in realtà le sue poesie trattano una serie di motivi strettamente correlati: l’oscurità, i senzatetto, impiegati, cinesi, slums, edifici vuoti e fatiscenti, macelli, pompe funebri, cimiteri… È la varia umanità del capitalismo che popola le sue poesie, senza etichette, senza sovraesposizioni ideologiche né retorica, il lessico ed il tono sono crudi, diretti, come se si dovessero dire cose impellenti ma non importanti.

La poesia è una forma d’arte anteriore alla alfabetizzazione. Nelle civiltà pre-letterate, la poesia era impiegata come mezzo di registrazione di storia orale, narrazione, ovvero, poesia epica. Le svariate forme di espressione presso le società moderne sono sempre state trattate tramite la prosa. Il Ramayana, un poema epico in sanscrito, fu probabilmente scritto nel 3 ° secolo a.C. in un linguaggio descritto da William Jones come “più perfetto del latino, più abbondante del greco e più squisitamente raffinato di entrambi.” La poesia nasce e si sviluppa con la liturgia presso le civiltà arcaiche pre-letterarie, in quanto la natura formale della poesia la rende più facile da ricordare sotto forma di incantesimi sacerdotali o di profezie. La maggior parte delle scritture sacre in tutte le antiche civiltà sono rese tramite la poesia piuttosto che tramite la prosa.
Dispositivi retorici come similitudine e metafora sono frequentemente utilizzate in poesia fin dai tempi più antichi. Infatti, Aristotele scrisse nella sua Poetica che “la cosa più grande in assoluto è quella di essere un maestro della metafora”. Tuttavia, in particolare dopo l’ascesa del modernismo, alcuni poeti hanno optato per l’uso ridotto di questi dispositivi, preferendo piuttosto di tentare la presentazione diretta delle cose e delle esperienze. Altri poeti del XX e XXI secolo, tuttavia, in particolare i surrealisti, hanno spinto i dispositivi retorici ai loro limiti, facendo uso frequente di catacresi.
Non mi meraviglia dunque che un poeta del tardo modernismo come Charles Simic utilizzi il verso libero come strumento chirurgico per veicolare il suo peculiarissimo parlato misto a perifrasi gnomiche nel bel mezzo della forma-racconto; in tal modo rivitalizza la forma-racconto della poesia. È paradossale ma vero che oggi la poesia nelle civiltà tecnologicamente evolute se vuole sopravvivere a se stessa debba riprodurre in qualche modo le forme di espressione delle antiche civiltà pre-letterarie. La forma-racconto in poesia aveva già mostrato tutti i suoi limiti ne La ragazza Carla (1959) di Pagliarani, il lungo poema narrativo con epicentro la dattilografa Carla alla lunga mostra tutti i suoi punti deboli. La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi non può fare a meno di riappropriarsi delle forme di espressione del parlato, con annesso tutto il bagaglio de il colloquiale, il soliloquio, il monologo, il dialogo, il non detto, i pensieri inespressi, i retro pensieri, il linguaggio dell’inconscio.
La forma-poesia della più evoluta poesia di oggi è questa di cui stiamo parlando.

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