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Carlo Livia, Poesie da La prigione celeste, Progetto Cultura, 2020 pp. 140 € 12 Presentazione di Marina Petrillo, Il sogno del viaggiatore nel multiverso

Marino Iotti Acrilico 3

Marino Iotti, Anime gemelle, 2016, 103 x 90, olio su tela

 

In questo libro di Carlo Livia, La prigione celeste, si palesa a traccia il Sogno dell’eterno viaggiatore nel multiverso. Approda a variazioni infinite, sconosciuto alla destinazione intrapresa. Il vaticinio lo accompagna tra voci diuturne interferenti ogni piano di realtà.

“Sono nel sogno sbagliato
perdo pensieri e cado
nell’universo che è la mia zona morta
no sono la mente del Dio oscurato dal programma
sguardo frantumato in miriadi di occhi che si allontanano
o la colpa di esistere nel cuore-tabernacolo
dell’ombra-fanciulla che simula l’essere

Segni di smisurata grandezza attraversano menti artificiali in cui il sacro intercede per sua stessa ammissione. Angeli ribelli rivelati alla luciferina costernazione dell’anima ai primordi dell’essere. Lo sterminio di dei, estingue forse l’antico oracolo in sillabario posto a codice supremo. Non appaiono antefatti alla Realtà. Si sprigionano apocalissi in quotidiana afasia della memoria. Il ricordo dell’Eden tramortisce la coscienza in “bagagli di cenere” e “angeli disossati”.
Nel luogo ove tutto è possibile, l’incesto magnifica l’estremo atto del perdersi. Corridoi bui in cui solo la Madre “varcherà l’istante che fugge. Senza tramonto”.
L’Evento immobile, il signore rotto del tempo, ansima nell’azzurrità del male, assenza di bene. Ieratiche figure, Purgatorio del possibile, attraversano scene morte di un palcoscenico. Teatro dell’assurdo, Beckett atteso tra camere mortuarie del pensiero, luogo in cui gli interrogativi rimandano a metamorfiche assenze. Una piazza ri-creata da anima estatica , sovraesposta all’astratto. Il normale balugina tra scaglie di visioni quotidiane perse allo sguardo. Dickinson esiliata nella regale arte del Nulla Poetico disidratato a merce sacra invenduta . Pandemia celeste declinata a prigione.
“L’assenza divina, sospirando si scopre fanciulla”. L’inquietudine non deterge il trauma, ripetuto in unica liturgia. Spoliazione dall’innocenza, tardiva, non salvifica, poiché nella coniazione di singole parole rivive il dramma di Sisifo. Infinito. “L’ultima volta, ma per sempre”.

Ogni frase è antitesi della precedente. Un rito impossibile e complesso, coitus interruptus dell’umano ingegno. Architettura dell’invisibile volta allo spasmo.
Non lascia tregua il respiro. Si resta desti, insomnia costante visitata da entità, come in un “quadro da cui esce la morte all’indietro”. Tonfo. Ipotesi di vita relegata a supposizione.
Se l’onirico, sottratto al suo martirio , è scenario da cui la morte esce all’indietro, istante cosmico denudato a evento della realtà, ogni accadimento trasfigura in liturgia del Presente. Ad esso prossimi e sconfinanti, in pastorale bulimica viviamo l’anarchia delle schiere celesti. Pietra d’angolo scartata e ricomposta in avversa Gerusalemme , popolata da Angeli caduti, rarefatta stella foriera di destini non del tutto umani.

Se mi baci l’angelo furioso scuote
i sigilli falsi della notte

Se mi trascini nella feritoia celeste
il profumo dell’abisso fa impazzire
gli oscuri guardiani dell’alba

Costringe a sonnambulia, la visione continuamente imposta. “Arancia Meccanica” dell’inconscio: l’uni-multi verso scorre su nastro immortale. Ogni evento sottende al silenzio e l’amore, frantuma in psicosi.
Devianza, il volo dei Cherubini, tra guardiani della soglia, trickster, posti a sigillo di Chronos.
L’amplesso fulgido di anime indecise sul restare o continuare ad amare. Non v’è traccia evidente dell’umano, eppure permane un lascito, dopo l’eternità del gesto.
Luci sacrileghe interconnesse al processo duale: sesso o castità.

Bussò un vecchio che diceva di essere
Dio ma non lo fecero entrare
Poi se ne andò ma ci lasciò la sua tristezza nascosta in fondo
Alla musica come una malattia del cielo

Dovevo assolutamente toccare quelle cosce ma non potevo così
Scappai e mi rifugia in mezzo ai libri sacri

Marino Iotti Acrilico 4

Marino Iotti, Ascesa, 2013, 80 per 40, tecnica mista su tavola.

E’ forse una malattia l’Eterno.
Quando si è in altra dimensione, la dualità perviene a poliformia e il punto di osservazione muta, per cui dalla morte si intravvede la vita. Dal sogno, la realtà. Dalla carnalità, l’estasi. Dall’angelo, il demonio.
Metafisica dell’innocenza tra “belle fontane di musica blu”. “Fra cattedrali nude cerco l’istante in cui sono scomparso”.

“La chiara presenza ha una eternità di venti appesa al collo…un polline d’arcangelo svela “il grande amplesso”.
Big bang iniziale ed iniziatico. Pantheon induista in cui muovono divinità assise ai loro troni. Santuario di insoluta trama. Indugiare marcescente verso l’altare del sonnecchiante custode. Alla fine dei giorni, dopo aver a lungo atteso, nulla verrà rivelato oltre la morte. Kafka muove rapido i suoi passi; indugia la lama nelle carni senza attesa della fine. Nella Colonia Penale del ristoro, ogni peccato imprime suo sigillo.

Un’Eternità nuda piange e rabbrividisce nel salone vacillante

Dal mio cuore fioriscono creature dementi
che divorano la madrina del Paradiso;
ora è in un cielo immobile
accanto al trono vuoto

Fiorisce lo spasmo cognitivo volto ad affermare l’insondabile vuoto. Un trono giacente tra le Rose, a di-svelare la Madre divina in assenza del Figlio. Squarcio non tacitato ma nel sempre speso ad interpretare l’assenza di D_o, la Sua Morte.
Nel nome del silenzio che tutto sovrasta, “non si può nascere ma si può restare innocenti “(Missa Romana- Cristina Campo).
“Due mondi. E io vengo dall’altro” (Diario bizantino-Cristina Campo).

Si apre l’ottavo sigillo, in “Lacrime dall’acquasantiera”. L’apice visionario sposa l’Apocalisse di Giovanni.

La Vergine concepì il candore d’un altro universo, ma il
Testimone lo imbrattò di sangue e di dolore

E’ rimando continuo ai Sacri Testi dal luogo in cui il poeta risiede, non identificabile se non per latitudine estrema. Ciò che permane divinizzato, si adegua alla descrizione del momento : “L’estasi ultramarina si perdeva in confutazioni”.

Quando scomparvi la mia ombra divenne divina,
invano

Lo scrivere trasmuta in un atto di innocenza violata, reiterarsi del rito ancestrale dell’incesto con la Grande Madre del Vuoto Assoluto, con l’aspirante incarnazione della necessità adeguata a virtù, mentre una cosmogonia di assoluta imperfezione non tralascia di esistere.

“…il pensiero sfuggito all’ordine” (Valse triste). Carlo Livia ricrea un nuovo impianto, un Teatro dell’Assurdo, divagazione del focus interiore sui temi centrali della sua poetica, amplificati sino alla dissolvenza. Svanisce ogni cosa su palcoscenico mobile, universo scaturito dalla summa di creature metafisiche interroganti e apostatiche.
Di nuovo: cosmogonia trattenuta a stento da un pensiero che inciampa e riproduce sprazzi, tensioni oniriche, figure estinte che interloquiscono con oggetti surreali . Creazione di dei viventi in un Olimpo dell’ombra.
Nella perdurante Ombra, la catabasi è “Madre (che) varcherà l’istante che fugge. Senza tramonto”.

E’ l’Evento immobile, il signore rotto del tempo

Per analogia, scosso il varco spazio temporale, si entra nell’immobile stasi della visione, come in Böohme, filosofo e mistico luterano, chiamati alla luce di D_o .

E la Madre varcherà l’istante che fugge
Senza tramonto

Il poeta varca ogni soglia. Si smarrisce e fa smarrire il viandante-lettore. Errabondi, si entra in ogni dove, come se tutto tornasse ineluttabilmente su una immagine o creatura- fanciulla angelo madre – in eterno, ma con una deviazione impercettibile che non consente agli eventi , per implacabile traslitterazione, di combaciare mai. Parallasse deviata di decimi di grado che, durante la lettura, incrementano, sino a determinare, nello spazio creatosi, universi paralleli in cui analoghe storie vengono narrate, con personaggi simili ma nominati ex novo in interspazi, sino a divenire irriconoscibili.

In questo tentativo, puramente folle e umile, di entrare, come fanciullo a piedi scalzi, nel limbo della ossessione, lì dove l’umano non scardina il divino e il divino nega l’esistenza all’umano, non si scorge attimo di stasi. Trasumananza, tra parole tronche, frasi de-private della punteggiatura, diluite dal solvente dell’eternità eppure, abbacinate da una invisibilità misteriosa che tradisce l’Impero del Sogno. Libro rosso dell’immaginazione attiva , presentimento del Sé creante
.
Il Sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto indietro (l’amato Kafka, di nuovo).

(Marina Petrillo)

Marino Iotti Acrilico 5

Marino Iotti, Giardino, olio su tela, 2019.Copertina di materia redenta.

da: La Prigione celeste di Carlo Livia

Paradiso artificiale

Ieri hanno portato via l’ultimo corpo, in parte già
trasformato in luce, bianco-musica e celeste-silenzio.
Al suo posto è apparsa la macchina che guarisce il pensiero: il dolore è dissolto dal raggio verde, la paura risucchiata dagli specchi.
Sembra che il sistema abbia raggiunto la perfezione,
eliminando ogni sensazione ed emozione o altro elemento di disturbo, solo onde di piacere nelle menti-ricevitori, che le riflettono all’infinito.

sono nel sogno sbagliato raccolgo i miei occhi e cado
nell’universo che è la mia zona morta
no sono la mente del Dio oscurato dal programma sguardo frantumato in miriadi di occhi che si allontanano o la colpa di esistere nel cuore-tabernacolo
dell’ombra-fanciulla che simula l’essere

attenzione: residuali entità antisistema potrebbero sfuggire al controllo delle barriere di filtraggio e mutazione di campo.
Il rischio maggiore è che, introducendosi nelle fasi ricettive, alterino la qualità dei valori di soddisfazione e riproducano perturbamenti e segnali negativi, superflui e nocivi.

ero la ferita del cielo
ero prigioniero della processione di istanti o di maschere ai piedi della candida peccatrice
nella dogana di lune e sospiri dov’erano gettati tutti i
desidèri
sognavo corpi che erano frutti di cieli lontani

cieli spogliati d’ombre malate di parole parole come squarci d’addio nel pensiero aspettavo poi venne il sonno
un macigno di lacrime fra arcate di nubi e quei passanti finti che gridavano
che la mia testa era senza confini

Sembra che permangano visibili tracce di entità non ancora conformi alla codificazione del sistema; occorre approntare al più presto sistemi di identificazione ed eliminazione
totale, per evitare che producano segnali in grado di interferire con l’attività programmata.

Come sono arrivato in fondo a questo precipizio corridoio di domande oscurate
dove sono esposti tutti i miei peccati stella spenta o giuramento tradito trascino pensieri sono bagagli di cenere angeli disossati pendono dalle feritoie da millenni lo stesso luogo di polvere niente più che viva e palpiti
ma la morte è scomparsa o attende fra le porcellane ponte gettato nell’oscurità
tento di raggiungere il mio essere che non sorge e non si estingue
sento l’esterno che non esiste ma ferisce ma non posso sentire l’interno
oceano di fontane spente
sterminio di Dei o di parole allacciate amplesso immobile o folle paradiso paralizzato sogno dell’oscuro Dio scomparso
mani che tentano di forzare la grande serratura celeste dietro cui attende la vergine distesa
che non posso ricordare
È evidente che l’azione di contrasto ha avuto effetto: le tracce di elementi non conformati si fanno sempre più labili ed evanescenti.

lo squarcio, i sogni che sfuggono, e

no, perché quando scompari trascini il peccato per un sentiero scosceso e completamente azzurro,
gridi di aspettare, ma

da quando il tuo regno non è di questo mondo

il tuo sguardo, il profumo del Paradiso,
il silenzio dell’immenso violino che

l’estasi della nuvola sul pendolo del mistero, la veglia delle deliziose lontananze col suo supplizio di corallo,
la tenerezza del crepuscolo appesa al chiavistello
di stelle morte, la visione che aspetta l’ultimo respiro,
il gomitolo delle finestre da
nel freddo della soglia scavata nell’anima

l’attimo resterà

quando risponderai

Marino Iotti Acrilico 2

Marino Iotti, Giardino segreto, olio su tela con inserti polimaterici, 85×135

Sette pause del silenzio in un tempio vuoto

La bambola pazza sferza a sangue la stella che medita.

Il Signore scomparso è una lama di sogno che penetra nel sesso della notte.

Il flauto dell’Enigma perseguita l’universo.

Nella follia degli angeli c’è un incesto di musica
nel peccato del cielo un pianto senza dolore e senza
bambini
nel sonno della folgore un vuoto di pensiero che uccide l’universo.

La nostalgia ammira i suoi gioielli e pensa: il prossimo addio sarà il mio vero amore.

L’ombra del vero si specchia nelle parole e tace a perdifiato.

In piedi sulla grande altalena del Paradiso il mio amore mi chiama, scompare, mi chiama…

Dipinti

Sono una belva dallo sguardo spento. Una belva dipinta sopra una scatola cinese. Una scatola dentro un’altra scatola dentro un’altra… e così all’infinito. Chi può dirlo. Non ho familiari, né simili. La mia specie si è estinta da millenni. Vivo in una pausa del tempo. In fondo alla strada infelice di De Andrè. In quel nero sono stati commessi atroci delitti. Alcuni sono celebri dipinti, e riposano in cielo coi santi. Altri alloggiano in televisione.
Ho un’unica dea, inesistente. Ogni giorno alle tre appare nei miei sogni. Diventa mia figlia, per amarmi. Poi si suicida. Ma non è un incesto. È un groviglio di piccoli santuari in forma di veliero nella tempesta. Per raggiungere la Signora altissima, inappagabile. Nelle sue stanze risuonano peccati e misteri biondi, celesti, terrificanti. Paradisi perduti, irraggiungibili.
È una carezza dorata, interminabile. Annienta senza uccidere. Senza togliersi le vesti. Come la musica che saliva lenta dai tumuli, in guanti di pioggia triste. Mi prese le mani fissandomi con occhi grigio-azzurri. Io sono fatta così, l’inaudito diventa vero- disse. Niente accade per caso, invano.
Invece giunse quell’assenza, quel dolore di ciechi in delirio che riempiva la calura d’estate. Voli murati. Giardini morti, che vagavano senza trovare l’ingresso dell’anima. E diventavano fanciulle crocifisse al sogno scomparso, implacabile. Viaggi effimeri nelle promesse del glicine. Col cielo basso in cui si scompare senza merito, senza seme.
E i padri bianchi ritornavano dal grande mistero senza parlare, coll’armatura di arpe e flauti ferita dalle domande di Kafka. Accecati dalle donne-praterie, chiedevano un altro giorno, un altro nome. L’altare intermedio, protetto dalla macchina vellutata. La siringa di Per sempre.
Se è vero amore il muro della velocità si piega docilmente – dicono. Ma prima bisogna attraversare il pianto della Madrina. La pietà indurita dagli scheletri. I teleschermi vuoti.
La malattia che ci ha diviso.

Marino Iotti Acrilico 1

Diario, 1996, 150×100, olio su tela

Ad ogni costo

Il tuono morbido spalancò il sogno. Una costola della morte. Varcò lo squarcio e cadde nell’insonnia dell’altro universo.
Una stanza troppo pallida in un’alba malata d’ardesia. Dappertutto c’era quel sesso malato che doveva morire ad ogni costo. E la creatura trasparente, che bruciava cantando.
La sposa era un dolore di flauto. Perseguitava l’universo.
Io aspettavo qualche goccia del suo amore, rinchiuso nell’animale spento. Ma lei era una fotografia lontana: “malinconia sul lungofiume”.
Legato alla colonna di pianto, vedevo passare i tempi missionari. Le comunicande nude, che copiavano la mia follia. Allontanandosi, mi uccidevano lentamente, senza fine.
Tutti si erano gettati nell’aldilà. Solo io esitavo, nell’oscuro cespuglio femminile. Stringevo l’ultimo cielo, la malattia di Schubert.
Ero un violoncello celibe, folle, senza memoria. Gridavo nella folla del mercato: “Lei è così in alto! Come avete potuto uccidere il suo amore? Non sentite questo gelo che cresce? Non vi terrorizza il suo silenzio? Il suo pensiero immobile nell’uragano morto?”
Chitarra bambina (dall’addio delizioso, da cui è appena fuggita la morte): “Se il naufragio ricorda il suo primo nome, se solo un bacio apre il tabernacolo, se il vertice del terrore è la fonte battesimale, se la Dea ha spigoli e farmaci, se l’Eterno ha un angolo rotto, se…”
Davvero credevate di esistere?
Il fatto increscioso è deceduto un’ora fa, fra le cosce supreme!

Evento (nel diaframma)
Il giglio cade alla velocità del prete
Oscurato
Oscurato fino al grido o al germoglio
Lei guarda in alto per rivedere il primo bacio
Il viale proibito ricresce
Nella musica che abolisce il corpo
Poi tutti si strappano l’anima
Per mangiare
Ma lei resta ammanettata al roseo dell’oriente
In quel cielo sonda le mie delizie
L’amore trapassa
“ Se fuori è fango, dentro è l’immacolata spoliazione “ – dice lo Spettro, fatto plastica dalla furia verginale.
Ma il destino si rinchiude nello specchio che annienta i velluti, senza esistere.
Entro nella femmina triste. È un tempo obliquo, matrigno, diserbato. Cresce e consuma i rami del sogno.
Ci sono troppe stelle. La casa morta. Il sole-falco. Il ragno supremo, che sposta l’universo.
Sale nel pensiero-serpente, spogliando paradisi, uragani.
L’uomo esce dall’ombra e si ferma in mezzo alla scena. La macchina pazza esce dalla sua testa, cresce e lo schiaccia ( lui muore e rinasce nel fotogramma oscurato).
Voce fuori scena (abissale, risorta a stento):
“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.

Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.
La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

*

Alla gemella prima luce, Carlo Livia, 

Marina Petrillo

da: materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura, 2019

Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.
Limen rivelato in distillio di tempo
a calco di ignoto cammino.
Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
imene dei molti inganni.
Ad ombra di me indossai il sudario
abitando la solitudine degli Esseri Primi.

da: L’amore trapassa, tratto da Evento (nel diaframma) di Carlo Livia

“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio
che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro
di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.

La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

Nell’ignoto spazio, ogni cosa è componimento. Interludio vittorioso, dell’insolito tramestio manto, quando sogni trapassano l’imene della notte. Oracolare lento sovrapposto allo sbiadire del verbo incolume al sacro involucro. Parestesia, immobile insetto di cristallina forma; dubbio volatile insorto a universo sconoscente l’interludio dei mondi. Stabilisce ritmo il ricordo di sé su una sedia accidiosa alla calma dell’estate. Non riconosce stagione il limbo: lento catturarsi all’istante.
Aspira alla completezza, misterioso, il tramestio dell’io nel perdurante gesto di una Età dell‘Oro. Turbinante forma accesa tra diapason avvertiti in fessurante linea tramortita dal gelido stridio del risveglio.

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010,  con Progetto Cultura, La prigione celeste 2020.

Marino Iotti nasce a Reggio Emilia nel 1954, e ancora giovanissimo dà inizio a un percorso pittorico che arriverà ad interessare autori come Achille Bonito OlivaClaudio CerritelliFrancesca BaboniGiuseppe BertiMarinella PaderniMassimo Mussini e Sandro Parmiggiani. Apprende le basi tecniche frequentando i corsi che il Prof. Giulio Soriani teneva alla Piccola Accademia di Regina Pacis, e successivamente con lo scultore Ugo Sterpini.

Nel 1978 inizia la sua attività espositiva a Scandiano (RE) con “Studio aperto”, uno studio/galleria che voleva essere punto di incontro e confronto tra gli artisti. Anche se sempre più affascinato dalla pittura aniconica, Iotti dedica una parte dei primi anni Ottanta allo studio della pittura italiana del Novecento. Numerosi sono i ritratti dipinti, dalla forte impronta psicologica, ispirandosi ad artisti come Casorati, Funi, Sironi. Studio che consente all’artista di rafforzare le proprie capacità tecniche. Ma è con artisti come Graham Sutherland e Giacometti, che avviene il graduale passaggio ad un linguaggio dapprima simbolico (con temi quali l’ecologia e l’orrore per la guerra) per passare poi ad una pittura astratto/informale.

Immagine

L’incessante ricerca è il dato che caratterizza tutta l’opera di Marino Iotti; una ricerca continua, mai forzata e sempre in divenire, uno studio appassionato dei sottili equilibri che il colore ed il segno possono ancora trasmettere.

Nell’ultimo decennio inizia la collaborazione con la Saletta Galaverni di Reggio Emilia, dove presenta due personali nel 2004 e nel 2009, e con la Galleria Nickel di Seebruck in Germania, dove espone nel 2002 e nel 2004 più altre mostre collettive.

Altre mostre significative: nel 2002 “Infinite Voci” nella Rocca di Scandiano; nel 2005 “Quel nulla di inesauribile segreto” Chiesa della Madonna a Cast Sotto; nel 2007 “Racconti interiori” Spazio Tadini di Milano; nel 2008 “Nel segno della Natura” Sede del Parco nazionale dello Stelvio – Prato allo Stelvio (Bz); nel 2011 ” Risonanze del Visibile” Chiostri di San Domenico Reggio Emilia, “La complessità del frammento” Galleria Meridiana, Pietrasanta – “Scartches” Galleria Marelia, Bergamo; nel 2012, “90 artisti per una bandiera” Chiostri di San Domenico Reggio Emilia, Palazzo Ducale di Modena, Complesso del Vittoriano, Roma 2013; nel 2014 Triennale di Roma, Galleria 13, Reggio Emilia.

Nel corso degli anni, Marino Iotti ha tenuto numerosi laboratori con bambini di scuole materne comunali della provincia di Reggio Emilia, e con persone affette da disagio mentale. Esperienze stimolanti sia dal punto di vista sociale che da quello creativo.

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La Questione della Poesia italiana, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Rathgeb, Un brano da Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 – Tre poesie inedite di Carlo Livia da La prigione celeste

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Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria

Giorgio Linguaglossa

Riepiloghiamo.

Ecco un brano dal mio libro di critica: Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), Società Editrice Fiorentina, 2013 Firenze, pp. 150 € 15.

Nella poesia [italiana] degli Anni Dieci è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici.

E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico.

A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.

giorgio linguaglossa_Dopo il Novecento

Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.

Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.

Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.

Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione stilistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie?

Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.

Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!

Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono (in pieno post-moderno) le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?

Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico del modello letterario mitopoietico.

Ma chi non è d’accordo sullo scrivere una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di una struttura critica, di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «identità», di «soggetto», di «irriconoscibilità» della scrittura poetica implica porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione». Il discorso poetico del prossimo futuro dovrà passare necessariamente attraverso la cruna dell’ago della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento.

Steven-Grieco Rathgeb in celeste

Sulla terra è l’Uomo che veglia / sopra la nostra vita senza fine. / Sua è la presenza nei corridoi d’ospedale / illuminati tutta la notte, / nei supermercati deserti / quando il mondo e tutti gli umani dormono profondi / e ogni salvezza dipende da un’altra salvezza / e nessuno sprinkler system può proteggerci / da questa vita senza fine. // Sua anche / la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo

Steven Grieco Rathgeb

Il commento di Giorgio Linguaglossa  dovrebbe costituire un post a se stante. Perché è quanto di più chiaro, esplicativo e illuminante che io abbia letto sulla condizione della poesia oggi. Può darsi che lui abbia in mente in buona parte la poesia italiana. Ma posso assicurarlo perché la banalità della poesia inglese mainstream oggi, è uguale, semmai molto più ingenua. Cerco e cerco ma non trovo in inglese altro che poesia da poeta lureates. Sempre scritta benissimo, s’intende. Dopo Pound, HD e gli altri, non posso che stupire.
Ora direi che per la poesia la campana a morto definitiva e settecentenaria, sia stato il sonetto forbito e perfetto di Petrarca. È un macigno che non vuole andare via nemmeno oggi. E vi dico di più. I famigerati sonetti di Shakespeare, lontani di mille oceani dai suoi pezzi teatrali, altro non sono che meraviglioso, perfetto, geniale scimmiottamento di Petrarca. Così come nessuno può mai negare la perfezione di scrittura, la profonda intelligenza, la maestria, del sonetto petrarchesco. Inattaccabile, mirabile, invulnerabile. Ahimè.
È meraviglioso come a questo sia sfuggita totalmente la poesia svedese modernista e ora del XX secolo. Ho già pronto un post con alcune mie trouvailles, di poeti recentissimi di quei paesi, che non potranno mancare di aiutarci tutti – voi italiani e noi inglesi o francesi – quale miracolo possa essere la poesia scritta bene oggi. In cui la totale decostruzione di arroganza, e di totale rifiuto di “gloriosa tradizione letteraria” porti molto velocemente alla scrittura di poesia… sì, alta.

Il Guardian, mio amatissimo quotidiano inglese all’avanguardia in tutti i settori di coverage – politico, sociale, culturale, etc. – posta una poesia alla settimana. A volte sono poesie del passato. Quelle di oggi invece fanno sempre purtroppo una terribile impressione. Perché? questa sezione del Guardian è sotto il tacco dei conservatori della poesia, quasi tutti poet laureates passati, presenti, o in odore di presto diventarlo. Peccato!
Ora direi che per la poesia italiana la campana a morto definitiva e settecentenaria, sia il sonetto forbito e perfetto di Petrarca. È un macigno che non vuole andare via nemmeno oggi. Ma vi dico di più. I famigerati sonetti di Shakespeare, (lontani di mille oceani dai suoi pezzi teatrali) , altro non sono che meraviglioso, perfetto, geniale scimmiottamento di Petrarca. Così come nessuno può mai negare la perfezione di scrittura, la profonda intelligenza, la maestria, del sonetto petrarchesco, così i sonetti di S. sono inattaccabili, mirabili, invulnerabili.
(Mille volte più desiderabili sono allora i sonettisti francesi com Du Bellay et Ronsard.)

È quindi meraviglioso come a tutto questo melenso aulismo sia sfuggita totalmente la poesia svedese modernista e ora del XXIo secolo. (o la Agota Kristof.) Ho già pronto un post con alcune mie trouvailles, di poeti recentissimi di quei paesi, che non potranno mancare di aiutarci tutti – voi italiani e noi di lingua inglese o francese – a capire e a imparare quale miracolo possa essere la poesia scritta bene oggi. In cui la totale decostruzione e il totale gentile rifiuto di un certo senso arrogante della *nostra gloriosa tradizione letteraria” (francese, italiana, inglese, tedesca, non importa) porti molto velocemente alla scrittura di poesia… sì, alta.
Abbiamo molto da imparare, ahimè. Siamo sprofondati nel nulla del XXI sec con intorno al collo la catena delle nostre gloriose tradizioni letterarie, che non potranno aiutarci per niente e per niente.

Dice Giorgio che di solito noi poniamo mano, ripariamo, rinnoviamo quei pezzi del sistema – politico, sociale, culturale, economico – quando questi vanno in avaria per vecchiaia e/o obsolescenza. Di solito è stato così nella storia. Purtroppo, non sempre: oggi quasi tutti gli esperti e gli economisti concordano che le economie mondiali non hanno imparato niente dalla recessione 2008-9, che continua ad imperare ovunque la formula neo liberalista capitalista, miope e distruttiva della società umana, del clima e dell’ambiente. Viviamo una irrealtà, una favola di crescita economica, una fandonia di proporzioni globali, siamo tutti sullo schiacciasassi, chi comodamente seduto, chi solo appollaiato o aggrappato all’esterno ma tutti insieme ci stiamo avviando al baratro non più lontano ormai. Quanto questo sia vero, nessuno ce lo può dire. Comunque la maggioranza degli scienziati lo dà per certo, fra 12 anni circa i nostri life-support systems (in italiano?…) inizieranno a cedere.
In letteratura chi esprime ciò? È quello che affronto nella terza parte di questo trio Agorafilia-Utamakura-Disfanie. La fessura di fugace verità, attraverso la quale la nostra realtà apparentemente così comoda e sicura si mostra per quella che è: distopia

Giorgio Linguaglossa

caro Steven,

in questi ultimi anni è avvenuto in me  un fenomeno strano: Qualcuno mi ha rubato le parole, me le ha sottratte pian piano, un ladro si è infiltrato nella mia mente e mi ha trafugato le parole, QUELLE parole della «critica» con le quali si fabbricano le schede-libro delle note di lettura e dei quarti di copertina. Non sono più capace di adoperare QUELLE parole per redigere le cosiddette «recensioni» o «note di lettura». Sono così rimasto senza parole. Non sono più capace di redigere quegli scritti augurali e procedurali che ammiro con sempre maggior stupore nelle schedine critiche che leggo in giro. Mi sono accorto che il Nulla ha inghiottito tutte QUELLE parole, e di QUELLE parole non è rimasto più nulla.
E ne ho preso semplicemente atto.

Per questo sono stato accusato di essere un cavaliere del Nulla, un nullista, un nichilista, un nullificatore… un pericoloso taliebano del Nulla.

Mi sono accorto che sono diventato incapace di adoperare QUELLE parole della poesia maggioritaria che si scrive oggi, quelle poesie corporali, confessionali, augurali, posiziocentriche, non so come dire, alla Gualtieri e alla Lamarque. Sono ormai diventato allergico a QUELLE parole. Le ho perdute. E Penso che una analoga allergia sia stata avvertita anche da un Mario Gabriele, da un Gino Rago, da un Francesco Paolo Intini, da un Mauro Pierno e da tanti altri autori che frequentano queste pagine…

[L’originario è il Nulla, e la traccia dell’origine, cioè del Nulla, è l’Essere. Gli Enti sono lontanissime tracce dell’Originario che si è dissolto, che si è auto tolto]

Giorgio Agamben-988x1024

Giorgio Agamben

«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco (corsivo mio), nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla “cura di sé”, sulla “pratica di sé”. Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».*

* [da una intervista reperibile on line e su questa rivista]

Ci sono in giro moltissimi autori di poesia impegnati nell’opera di auto storicizzazione della propria poesia; noi qui, come dimostra la ricerca di Steven Grieco Rathgeb, siamo invece impegnati a riallacciare i fili della tradizione culturale dell’Occidente e dell’Oriente.

La nuova poesia passa di qui. Senza un disegno generale della poesia occidentale e orientale, in mancanza di un grande Progetto si finisce per scrivere poesie sulla sabbia, parole sull’acqua.

Ancora nel 1966, anno dell’intervista a Montale in trattoria, il poeta italiano poteva affermare tranquillamente che non ascoltava mai la radio e non possedeva la televisione. Io mi limito ad osservare che la nuova poesia, la «nuova ontologia estetica» non potrebbe essere nata senza la piena immersione nella civiltà mediatica. Oggi, se ci si pensa un attimo, non è possibile in alcun modo rifugiarsi in un angolo oscurato della civiltà mediatica, siamo tutti, volenti o nolenti, in qualche misura intaccati ed influenzati dal mondo mediatico. La metafisica di cui qui si parla non è un optional che si può rifiutare e da cui ci si può difendere con una resistenza, una ostruzione, la metafisica è l’essere che si dispiega e che giunge alla sua fine annunciata. In altre parole, la fine dell’essere è già stata segnata dall’insorgere della civiltà mediatica. Non volerne prendere atto, è, appunto, un atto di cecità oltre che di stupidità.
La NOE è il presente e il futuro della poesia perché implica l’accettazione di dover misurarsi con il mondo mediatico.

Carlo Livia

Tre poesie, da La prigione celeste, in corso di stampa con Progetto Cultura

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. È in corso di stampa con Progetto Cultura, La prigione celeste.

Dipinti

Sono una belva dallo sguardo spento. Una belva dipinta sopra una scatola cinese. Una scatola dentro un’altra scatola dentro un’altra… e così all’infinito. Chi può dirlo. Non ho familiari, né simili. La mia specie si è estinta da millenni. Vivo in una pausa del tempo. In fondo alla strada infelice di De Andrè. In quel nero sono stati commessi atroci delitti. Alcuni sono celebri dipinti, e riposano in cielo coi santi. Altri alloggiano in televisione.

Ho un’unica dea, inesistente. Ogni giorno alle tre appare nei miei sogni. Diventa mia figlia, per amarmi. Poi si suicida. Ma non è un incesto. È un groviglio di piccoli santuari in forma di veliero nella tempesta. Per raggiungere la Signora altissima, inappagabile. Nelle sue stanze risuonano peccati e misteri biondi, celesti, terrificanti. Paradisi perduti, irraggiungibili.

È una carezza dorata, interminabile. Annienta senza uccidere. Senza togliersi le vesti. Come la musica che saliva lenta dai tumuli, in guanti di pioggia triste. Mi prese le mani fissandomi con occhi grigio-azzurri. Io sono fatta così, l’inaudito diventa vero- disse. Niente accade per caso, invano.

Invece giunse quell’assenza, quel dolore di ciechi in delirio che riempiva la calura d’estate. Voli murati. Giardini morti, che vagavano senza trovare l’ingresso dell’anima. E diventavano fanciulle crocifisse al sogno scomparso, implacabile. Viaggi effimeri nelle promesse del glicine. Col cielo basso in cui si scompare senza merito, senza seme.

E i padri bianchi ritornavano dal grande mistero senza parlare, coll’armatura di arpe e flauti ferita dalle domande di Kafka. Accecati dalle donne-praterie, chiedevano un altro giorno, un altro nome. L’altare intermedio, protetto dalla macchina vellutata. La siringa di Per sempre.

Se è vero amore il muro della velocità si piega docilmente – dicono. Ma prima bisogna attraversare il pianto della Madrina. La pietà indurita dagli scheletri.   I teleschermi vuoti.

La malattia che ci ha diviso.

 

 Ad ogni costo

Il tuono morbido spalancò il sogno. Una costola della morte. Varcò lo squarcio e cadde nell’insonnia dell’altro universo.
Una stanza troppo pallida in un’alba malata d’ardesia. Dappertutto c’era quel sesso malato che doveva morire ad ogni costo. E la creatura trasparente, che bruciava cantando.
La sposa era un dolore di flauto. Perseguitava l’universo.
Io aspettavo qualche goccia del suo amore, rinchiuso nell’animale spento. Ma lei era una fotografia lontana: “malinconia sul lungofiume”.
Legato alla colonna di pianto, vedevo passare i tempi missionari. Le comunicande nude, che copiavano la mia follia. Allontanandosi, mi uccidevano lentamente, senza fine.
Tutti si erano gettati nell’aldilà. Solo io esitavo, nell’oscuro cespuglio femminile. Stringevo l’ultimo cielo, la malattia di Schubert.
Ero un violoncello celibe, folle, senza memoria. Gridavo nella folla del mercato: “Lei è così in alto! Come avete potuto uccidere il suo amore? Non sentite questo gelo che cresce? Non vi terrorizza il suo silenzio? Il suo pensiero immobile nell’uragano morto?”
Chitarra bambina (dall’addio delizioso, da cui è appena fuggita la morte): “Se il naufragio ricorda il suo primo nome, se solo un bacio apre il tabernacolo, se il vertice del terrore è la fonte battesimale, se la Dea ha spigoli e farmaci, se l’Eterno ha un angolo rotto, se…”

Davvero credevate di esistere?
Il fatto increscioso è deceduto un’ora fa, fra le cosce supreme!

 

Evento (nel diaframma)

Il giglio cade alla velocità del prete
Oscurato
Oscurato fino al grido o al germoglio

Lei guarda in alto per rivedere il primo bacio
Il viale proibito ricresce
Nella musica che abolisce il corpo

Poi tutti si strappano l’anima
Per mangiare

Ma lei resta ammanettata al roseo dell’oriente
In quel cielo sonda le mie delizie

L’amore trapassa

“ Se fuori è fango, dentro è l’immacolata spoliazione “ – dice lo Spettro, fatto plastica dalla furia verginale.
Ma il destino si rinchiude nello specchio che annienta i velluti, senza esistere.

Entro nella femmina triste. È un tempo obliquo, matrigno, diserbato. Cresce e consuma i rami del sogno.
Ci sono troppe stelle. La casa morta. Il sole-falco. Il ragno supremo, che sposta l’universo.
Sale nel pensiero-serpente, spogliando paradisi, uragani.
L’uomo esce dall’ombra e si ferma in mezzo alla scena. La macchina pazza esce dalla sua testa, cresce e lo schiaccia ( lui muore e rinasce nel fotogramma oscurato).

Voce fuori scena (abissale, risorta a stento):
“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.

La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

 

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