
Marino Iotti, Anime gemelle, 2016, 103 x 90, olio su tela
In questo libro di Carlo Livia, La prigione celeste, si palesa a traccia il Sogno dell’eterno viaggiatore nel multiverso. Approda a variazioni infinite, sconosciuto alla destinazione intrapresa. Il vaticinio lo accompagna tra voci diuturne interferenti ogni piano di realtà.
“Sono nel sogno sbagliato
perdo pensieri e cado
nell’universo che è la mia zona morta
no sono la mente del Dio oscurato dal programma
sguardo frantumato in miriadi di occhi che si allontanano
o la colpa di esistere nel cuore-tabernacolo
dell’ombra-fanciulla che simula l’essere
Segni di smisurata grandezza attraversano menti artificiali in cui il sacro intercede per sua stessa ammissione. Angeli ribelli rivelati alla luciferina costernazione dell’anima ai primordi dell’essere. Lo sterminio di dei, estingue forse l’antico oracolo in sillabario posto a codice supremo. Non appaiono antefatti alla Realtà. Si sprigionano apocalissi in quotidiana afasia della memoria. Il ricordo dell’Eden tramortisce la coscienza in “bagagli di cenere” e “angeli disossati”.
Nel luogo ove tutto è possibile, l’incesto magnifica l’estremo atto del perdersi. Corridoi bui in cui solo la Madre “varcherà l’istante che fugge. Senza tramonto”.
L’Evento immobile, il signore rotto del tempo, ansima nell’azzurrità del male, assenza di bene. Ieratiche figure, Purgatorio del possibile, attraversano scene morte di un palcoscenico. Teatro dell’assurdo, Beckett atteso tra camere mortuarie del pensiero, luogo in cui gli interrogativi rimandano a metamorfiche assenze. Una piazza ri-creata da anima estatica , sovraesposta all’astratto. Il normale balugina tra scaglie di visioni quotidiane perse allo sguardo. Dickinson esiliata nella regale arte del Nulla Poetico disidratato a merce sacra invenduta . Pandemia celeste declinata a prigione.
“L’assenza divina, sospirando si scopre fanciulla”. L’inquietudine non deterge il trauma, ripetuto in unica liturgia. Spoliazione dall’innocenza, tardiva, non salvifica, poiché nella coniazione di singole parole rivive il dramma di Sisifo. Infinito. “L’ultima volta, ma per sempre”.
Ogni frase è antitesi della precedente. Un rito impossibile e complesso, coitus interruptus dell’umano ingegno. Architettura dell’invisibile volta allo spasmo.
Non lascia tregua il respiro. Si resta desti, insomnia costante visitata da entità, come in un “quadro da cui esce la morte all’indietro”. Tonfo. Ipotesi di vita relegata a supposizione.
Se l’onirico, sottratto al suo martirio , è scenario da cui la morte esce all’indietro, istante cosmico denudato a evento della realtà, ogni accadimento trasfigura in liturgia del Presente. Ad esso prossimi e sconfinanti, in pastorale bulimica viviamo l’anarchia delle schiere celesti. Pietra d’angolo scartata e ricomposta in avversa Gerusalemme , popolata da Angeli caduti, rarefatta stella foriera di destini non del tutto umani.
Se mi baci l’angelo furioso scuote
i sigilli falsi della notte
Se mi trascini nella feritoia celeste
il profumo dell’abisso fa impazzire
gli oscuri guardiani dell’alba
Costringe a sonnambulia, la visione continuamente imposta. “Arancia Meccanica” dell’inconscio: l’uni-multi verso scorre su nastro immortale. Ogni evento sottende al silenzio e l’amore, frantuma in psicosi.
Devianza, il volo dei Cherubini, tra guardiani della soglia, trickster, posti a sigillo di Chronos.
L’amplesso fulgido di anime indecise sul restare o continuare ad amare. Non v’è traccia evidente dell’umano, eppure permane un lascito, dopo l’eternità del gesto.
Luci sacrileghe interconnesse al processo duale: sesso o castità.
Bussò un vecchio che diceva di essere
Dio ma non lo fecero entrare
Poi se ne andò ma ci lasciò la sua tristezza nascosta in fondo
Alla musica come una malattia del cielo
Dovevo assolutamente toccare quelle cosce ma non potevo così
Scappai e mi rifugia in mezzo ai libri sacri

Marino Iotti, Ascesa, 2013, 80 per 40, tecnica mista su tavola.
E’ forse una malattia l’Eterno.
Quando si è in altra dimensione, la dualità perviene a poliformia e il punto di osservazione muta, per cui dalla morte si intravvede la vita. Dal sogno, la realtà. Dalla carnalità, l’estasi. Dall’angelo, il demonio.
Metafisica dell’innocenza tra “belle fontane di musica blu”. “Fra cattedrali nude cerco l’istante in cui sono scomparso”.
“La chiara presenza ha una eternità di venti appesa al collo…un polline d’arcangelo svela “il grande amplesso”.
Big bang iniziale ed iniziatico. Pantheon induista in cui muovono divinità assise ai loro troni. Santuario di insoluta trama. Indugiare marcescente verso l’altare del sonnecchiante custode. Alla fine dei giorni, dopo aver a lungo atteso, nulla verrà rivelato oltre la morte. Kafka muove rapido i suoi passi; indugia la lama nelle carni senza attesa della fine. Nella Colonia Penale del ristoro, ogni peccato imprime suo sigillo.
Un’Eternità nuda piange e rabbrividisce nel salone vacillante
…
Dal mio cuore fioriscono creature dementi
che divorano la madrina del Paradiso;
ora è in un cielo immobile
accanto al trono vuoto
Fiorisce lo spasmo cognitivo volto ad affermare l’insondabile vuoto. Un trono giacente tra le Rose, a di-svelare la Madre divina in assenza del Figlio. Squarcio non tacitato ma nel sempre speso ad interpretare l’assenza di D_o, la Sua Morte.
Nel nome del silenzio che tutto sovrasta, “non si può nascere ma si può restare innocenti “(Missa Romana- Cristina Campo).
“Due mondi. E io vengo dall’altro” (Diario bizantino-Cristina Campo).
Si apre l’ottavo sigillo, in “Lacrime dall’acquasantiera”. L’apice visionario sposa l’Apocalisse di Giovanni.
La Vergine concepì il candore d’un altro universo, ma il
Testimone lo imbrattò di sangue e di dolore
E’ rimando continuo ai Sacri Testi dal luogo in cui il poeta risiede, non identificabile se non per latitudine estrema. Ciò che permane divinizzato, si adegua alla descrizione del momento : “L’estasi ultramarina si perdeva in confutazioni”.
Quando scomparvi la mia ombra divenne divina,
invano
Lo scrivere trasmuta in un atto di innocenza violata, reiterarsi del rito ancestrale dell’incesto con la Grande Madre del Vuoto Assoluto, con l’aspirante incarnazione della necessità adeguata a virtù, mentre una cosmogonia di assoluta imperfezione non tralascia di esistere.
“…il pensiero sfuggito all’ordine” (Valse triste). Carlo Livia ricrea un nuovo impianto, un Teatro dell’Assurdo, divagazione del focus interiore sui temi centrali della sua poetica, amplificati sino alla dissolvenza. Svanisce ogni cosa su palcoscenico mobile, universo scaturito dalla summa di creature metafisiche interroganti e apostatiche.
Di nuovo: cosmogonia trattenuta a stento da un pensiero che inciampa e riproduce sprazzi, tensioni oniriche, figure estinte che interloquiscono con oggetti surreali . Creazione di dei viventi in un Olimpo dell’ombra.
Nella perdurante Ombra, la catabasi è “Madre (che) varcherà l’istante che fugge. Senza tramonto”.
E’ l’Evento immobile, il signore rotto del tempo
Per analogia, scosso il varco spazio temporale, si entra nell’immobile stasi della visione, come in Böohme, filosofo e mistico luterano, chiamati alla luce di D_o .
E la Madre varcherà l’istante che fugge
Senza tramonto
Il poeta varca ogni soglia. Si smarrisce e fa smarrire il viandante-lettore. Errabondi, si entra in ogni dove, come se tutto tornasse ineluttabilmente su una immagine o creatura- fanciulla angelo madre – in eterno, ma con una deviazione impercettibile che non consente agli eventi , per implacabile traslitterazione, di combaciare mai. Parallasse deviata di decimi di grado che, durante la lettura, incrementano, sino a determinare, nello spazio creatosi, universi paralleli in cui analoghe storie vengono narrate, con personaggi simili ma nominati ex novo in interspazi, sino a divenire irriconoscibili.
In questo tentativo, puramente folle e umile, di entrare, come fanciullo a piedi scalzi, nel limbo della ossessione, lì dove l’umano non scardina il divino e il divino nega l’esistenza all’umano, non si scorge attimo di stasi. Trasumananza, tra parole tronche, frasi de-private della punteggiatura, diluite dal solvente dell’eternità eppure, abbacinate da una invisibilità misteriosa che tradisce l’Impero del Sogno. Libro rosso dell’immaginazione attiva , presentimento del Sé creante
.
Il Sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto indietro (l’amato Kafka, di nuovo).
(Marina Petrillo)

Marino Iotti, Giardino, olio su tela, 2019.Copertina di materia redenta.
da: La Prigione celeste di Carlo Livia
Paradiso artificiale
Ieri hanno portato via l’ultimo corpo, in parte già
trasformato in luce, bianco-musica e celeste-silenzio.
Al suo posto è apparsa la macchina che guarisce il pensiero: il dolore è dissolto dal raggio verde, la paura risucchiata dagli specchi.
Sembra che il sistema abbia raggiunto la perfezione,
eliminando ogni sensazione ed emozione o altro elemento di disturbo, solo onde di piacere nelle menti-ricevitori, che le riflettono all’infinito.
sono nel sogno sbagliato raccolgo i miei occhi e cado
nell’universo che è la mia zona morta
no sono la mente del Dio oscurato dal programma sguardo frantumato in miriadi di occhi che si allontanano o la colpa di esistere nel cuore-tabernacolo
dell’ombra-fanciulla che simula l’essere
attenzione: residuali entità antisistema potrebbero sfuggire al controllo delle barriere di filtraggio e mutazione di campo.
Il rischio maggiore è che, introducendosi nelle fasi ricettive, alterino la qualità dei valori di soddisfazione e riproducano perturbamenti e segnali negativi, superflui e nocivi.
ero la ferita del cielo
ero prigioniero della processione di istanti o di maschere ai piedi della candida peccatrice
nella dogana di lune e sospiri dov’erano gettati tutti i
desidèri
sognavo corpi che erano frutti di cieli lontani
cieli spogliati d’ombre malate di parole parole come squarci d’addio nel pensiero aspettavo poi venne il sonno
un macigno di lacrime fra arcate di nubi e quei passanti finti che gridavano
che la mia testa era senza confini
Sembra che permangano visibili tracce di entità non ancora conformi alla codificazione del sistema; occorre approntare al più presto sistemi di identificazione ed eliminazione
totale, per evitare che producano segnali in grado di interferire con l’attività programmata.
Come sono arrivato in fondo a questo precipizio corridoio di domande oscurate
dove sono esposti tutti i miei peccati stella spenta o giuramento tradito trascino pensieri sono bagagli di cenere angeli disossati pendono dalle feritoie da millenni lo stesso luogo di polvere niente più che viva e palpiti
ma la morte è scomparsa o attende fra le porcellane ponte gettato nell’oscurità
tento di raggiungere il mio essere che non sorge e non si estingue
sento l’esterno che non esiste ma ferisce ma non posso sentire l’interno
oceano di fontane spente
sterminio di Dei o di parole allacciate amplesso immobile o folle paradiso paralizzato sogno dell’oscuro Dio scomparso
mani che tentano di forzare la grande serratura celeste dietro cui attende la vergine distesa
che non posso ricordare
È evidente che l’azione di contrasto ha avuto effetto: le tracce di elementi non conformati si fanno sempre più labili ed evanescenti.
lo squarcio, i sogni che sfuggono, e
no, perché quando scompari trascini il peccato per un sentiero scosceso e completamente azzurro,
gridi di aspettare, ma
da quando il tuo regno non è di questo mondo
il tuo sguardo, il profumo del Paradiso,
il silenzio dell’immenso violino che
l’estasi della nuvola sul pendolo del mistero, la veglia delle deliziose lontananze col suo supplizio di corallo,
la tenerezza del crepuscolo appesa al chiavistello
di stelle morte, la visione che aspetta l’ultimo respiro,
il gomitolo delle finestre da
nel freddo della soglia scavata nell’anima
l’attimo resterà
quando risponderai

Marino Iotti, Giardino segreto, olio su tela con inserti polimaterici, 85×135
Sette pause del silenzio in un tempio vuoto
La bambola pazza sferza a sangue la stella che medita.
Il Signore scomparso è una lama di sogno che penetra nel sesso della notte.
Il flauto dell’Enigma perseguita l’universo.
Nella follia degli angeli c’è un incesto di musica
nel peccato del cielo un pianto senza dolore e senza
bambini
nel sonno della folgore un vuoto di pensiero che uccide l’universo.
La nostalgia ammira i suoi gioielli e pensa: il prossimo addio sarà il mio vero amore.
L’ombra del vero si specchia nelle parole e tace a perdifiato.
In piedi sulla grande altalena del Paradiso il mio amore mi chiama, scompare, mi chiama…
Dipinti
Sono una belva dallo sguardo spento. Una belva dipinta sopra una scatola cinese. Una scatola dentro un’altra scatola dentro un’altra… e così all’infinito. Chi può dirlo. Non ho familiari, né simili. La mia specie si è estinta da millenni. Vivo in una pausa del tempo. In fondo alla strada infelice di De Andrè. In quel nero sono stati commessi atroci delitti. Alcuni sono celebri dipinti, e riposano in cielo coi santi. Altri alloggiano in televisione.
Ho un’unica dea, inesistente. Ogni giorno alle tre appare nei miei sogni. Diventa mia figlia, per amarmi. Poi si suicida. Ma non è un incesto. È un groviglio di piccoli santuari in forma di veliero nella tempesta. Per raggiungere la Signora altissima, inappagabile. Nelle sue stanze risuonano peccati e misteri biondi, celesti, terrificanti. Paradisi perduti, irraggiungibili.
È una carezza dorata, interminabile. Annienta senza uccidere. Senza togliersi le vesti. Come la musica che saliva lenta dai tumuli, in guanti di pioggia triste. Mi prese le mani fissandomi con occhi grigio-azzurri. Io sono fatta così, l’inaudito diventa vero- disse. Niente accade per caso, invano.
Invece giunse quell’assenza, quel dolore di ciechi in delirio che riempiva la calura d’estate. Voli murati. Giardini morti, che vagavano senza trovare l’ingresso dell’anima. E diventavano fanciulle crocifisse al sogno scomparso, implacabile. Viaggi effimeri nelle promesse del glicine. Col cielo basso in cui si scompare senza merito, senza seme.
E i padri bianchi ritornavano dal grande mistero senza parlare, coll’armatura di arpe e flauti ferita dalle domande di Kafka. Accecati dalle donne-praterie, chiedevano un altro giorno, un altro nome. L’altare intermedio, protetto dalla macchina vellutata. La siringa di Per sempre.
Se è vero amore il muro della velocità si piega docilmente – dicono. Ma prima bisogna attraversare il pianto della Madrina. La pietà indurita dagli scheletri. I teleschermi vuoti.
La malattia che ci ha diviso.

Diario, 1996, 150×100, olio su tela
Ad ogni costo
Il tuono morbido spalancò il sogno. Una costola della morte. Varcò lo squarcio e cadde nell’insonnia dell’altro universo.
Una stanza troppo pallida in un’alba malata d’ardesia. Dappertutto c’era quel sesso malato che doveva morire ad ogni costo. E la creatura trasparente, che bruciava cantando.
La sposa era un dolore di flauto. Perseguitava l’universo.
Io aspettavo qualche goccia del suo amore, rinchiuso nell’animale spento. Ma lei era una fotografia lontana: “malinconia sul lungofiume”.
Legato alla colonna di pianto, vedevo passare i tempi missionari. Le comunicande nude, che copiavano la mia follia. Allontanandosi, mi uccidevano lentamente, senza fine.
Tutti si erano gettati nell’aldilà. Solo io esitavo, nell’oscuro cespuglio femminile. Stringevo l’ultimo cielo, la malattia di Schubert.
Ero un violoncello celibe, folle, senza memoria. Gridavo nella folla del mercato: “Lei è così in alto! Come avete potuto uccidere il suo amore? Non sentite questo gelo che cresce? Non vi terrorizza il suo silenzio? Il suo pensiero immobile nell’uragano morto?”
Chitarra bambina (dall’addio delizioso, da cui è appena fuggita la morte): “Se il naufragio ricorda il suo primo nome, se solo un bacio apre il tabernacolo, se il vertice del terrore è la fonte battesimale, se la Dea ha spigoli e farmaci, se l’Eterno ha un angolo rotto, se…”
Davvero credevate di esistere?
Il fatto increscioso è deceduto un’ora fa, fra le cosce supreme!
Evento (nel diaframma)
Il giglio cade alla velocità del prete
Oscurato
Oscurato fino al grido o al germoglio
Lei guarda in alto per rivedere il primo bacio
Il viale proibito ricresce
Nella musica che abolisce il corpo
Poi tutti si strappano l’anima
Per mangiare
Ma lei resta ammanettata al roseo dell’oriente
In quel cielo sonda le mie delizie
L’amore trapassa
“ Se fuori è fango, dentro è l’immacolata spoliazione “ – dice lo Spettro, fatto plastica dalla furia verginale.
Ma il destino si rinchiude nello specchio che annienta i velluti, senza esistere.
Entro nella femmina triste. È un tempo obliquo, matrigno, diserbato. Cresce e consuma i rami del sogno.
Ci sono troppe stelle. La casa morta. Il sole-falco. Il ragno supremo, che sposta l’universo.
Sale nel pensiero-serpente, spogliando paradisi, uragani.
L’uomo esce dall’ombra e si ferma in mezzo alla scena. La macchina pazza esce dalla sua testa, cresce e lo schiaccia ( lui muore e rinasce nel fotogramma oscurato).
Voce fuori scena (abissale, risorta a stento):
“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.
La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”
*
Alla gemella prima luce, Carlo Livia,
Marina Petrillo
da: materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura, 2019
Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.
Limen rivelato in distillio di tempo
a calco di ignoto cammino.
Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
imene dei molti inganni.
Ad ombra di me indossai il sudario
abitando la solitudine degli Esseri Primi.
da: L’amore trapassa, tratto da Evento (nel diaframma) di Carlo Livia
“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio
che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro
di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.
La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”
Nell’ignoto spazio, ogni cosa è componimento. Interludio vittorioso, dell’insolito tramestio manto, quando sogni trapassano l’imene della notte. Oracolare lento sovrapposto allo sbiadire del verbo incolume al sacro involucro. Parestesia, immobile insetto di cristallina forma; dubbio volatile insorto a universo sconoscente l’interludio dei mondi. Stabilisce ritmo il ricordo di sé su una sedia accidiosa alla calma dell’estate. Non riconosce stagione il limbo: lento catturarsi all’istante.
Aspira alla completezza, misterioso, il tramestio dell’io nel perdurante gesto di una Età dell‘Oro. Turbinante forma accesa tra diapason avvertiti in fessurante linea tramortita dal gelido stridio del risveglio.
Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010, con Progetto Cultura, La prigione celeste 2020.
Nel 1978 inizia la sua attività espositiva a Scandiano (RE) con “Studio aperto”, uno studio/galleria che voleva essere punto di incontro e confronto tra gli artisti. Anche se sempre più affascinato dalla pittura aniconica, Iotti dedica una parte dei primi anni Ottanta allo studio della pittura italiana del Novecento. Numerosi sono i ritratti dipinti, dalla forte impronta psicologica, ispirandosi ad artisti come Casorati, Funi, Sironi. Studio che consente all’artista di rafforzare le proprie capacità tecniche. Ma è con artisti come Graham Sutherland e Giacometti, che avviene il graduale passaggio ad un linguaggio dapprima simbolico (con temi quali l’ecologia e l’orrore per la guerra) per passare poi ad una pittura astratto/informale.
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L’incessante ricerca è il dato che caratterizza tutta l’opera di Marino Iotti; una ricerca continua, mai forzata e sempre in divenire, uno studio appassionato dei sottili equilibri che il colore ed il segno possono ancora trasmettere. Nell’ultimo decennio inizia la collaborazione con la Saletta Galaverni di Reggio Emilia, dove presenta due personali nel 2004 e nel 2009, e con la Galleria Nickel di Seebruck in Germania, dove espone nel 2002 e nel 2004 più altre mostre collettive. Nel corso degli anni, Marino Iotti ha tenuto numerosi laboratori con bambini di scuole materne comunali della provincia di Reggio Emilia, e con persone affette da disagio mentale. Esperienze stimolanti sia dal punto di vista sociale che da quello creativo. |