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Vincenzo Petronelli: dalla poesia del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen, Due poesie esemplificative di Giorgio Linguaglossa e Francesco De Girolamo, La reificazione dell’archetipo edipico, Le nuove tavole di Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio e Ucraina, acrilici, 80×80 cm, 2024 –

Lucio Mayoor Tosi Paesaggio

Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio, 80×80, acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi Ukraïna! acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi, Ucraina, 80×80, acrilico, 2024

Su una campitura coloristica di radiosa luminosità Lucio Tosi stende i colori quasi senza l’intervento dell’io, del braccio che esegue i comandi della mente, quasi fosse un veggente che disegni un ostentato mare della tranquillità, quasi che un automatismo abbia ordinato qui le macchie, lì le campiture piatte del colore, quasi che tutte queste nuove opere fossero nate già ponderate alla Matisse, nate senza indugio, per partenogenesi, quasi che non conoscessero la reificazione delle parole e dei colori, quasi fossero nate nel mondo di Adamo ed Eva, liberi dal giogo della storia e dal peccato originale. (g.l.)

Vincenzo Petronelli

dalla poesia della fine del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per aver imperniato quest’articolo su di un mio intervento, il che mi onora e mi stimola dunque a recuperare la “sincronia” nei miei interventi sugli articoli dell’Ombra giacché, in questi giorni mi stavo invece soffermando su articoli apparsi nelle settimane precedenti; d’altronde è nella mia indole di antropologo la tendenza a rimanere attardato sulla riva del mare fuori stagione ad osservare da lontano le scie e raccoglierne le suggestioni.
Trovo decisamente interessante e pertinente l’ampliamento di raggio operato da quest’intervento rispetto al mio articolo di partenza, che mi spinge a riflettere su un ulteriore articolazione antropologica.
La lettura del disfacimento del rapporto fra società ed istituzioni nel nostro mondo in chiave psicanalitica e la riconduzione, da tale assunto di base, alla nascita ed alla diffusione nefasta dei populismi e della generale decadenza culturale e politica che affliggono la nostra epoca, è senz’altro stimolante ed è nota la reificazione sociale dell’archetipo edipico, culminante con la pulsione per l’uccisione del padre, che si traduce nei vari momenti distruttivi della storia della nostra civiltà.
Tale assunto, mi conduce ad allargare a mia volta lo spettro ricognitivo, nella direzione di uno dei temi di maggior fascino e profondità sviscerati dagli studi antropologici e cioè quello sulle società matriarcali, riflesso e modello opposto a quello dominante storicamente nella nostra società, da cui deriva la dinamica evidenziata nell’articolo.

Bisogna subito precisare che il dibattito sulle società matriarcali è risultato diversificato nel corso del tempo, poiché l’esistenza storica di comunità basate su di una gestione del potere affidato alle interamente alle donne in ambito europeo – e dunque per estensione in quella che si suole definire civiltà occidentale – non è mai stata realmente comprovata, nonostante fosse stata teorizzata già nel XIX sec. dall’importante opera di Bachofen, “Il matriarcato” del 1861, nella quale viene teorizzato il concetto di ginecocrazia, vale a dire, appunto un modello di gestione della società fondato sulla componente femminile della comunità.

Tale ipotesi si basava sulle testimonianze, provenienti dalla storia delle religioni, dell’esistenza di divinità femminili (le Dee Madri) i cui culti erano diffusi specialmente nel Mar Mediterraneo centro-orientale, simbolicamente identificate con la terra che porta frutti; ipotesi sviluppata anche da altri studiosi, tra i quali una figura chiave nella storia degli studi antropologici, quale James George Frazer, nel suo monumentale “Il ramo d’oro”.

L’età del matriarcato veniva collocata durante la Preistoria, nella fase delle società di cacciatori-raccoglitori in cui le donne sarebbero state investite del ruolo di capi-famiglia, mentre all’uomo sarebbero state demandate le funzioni pratiche di sussistenza: a questo modello comunitario si ispirò Friedrich Engels, teorizzando il comunismo delle origini nel celebre volume “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.

Al di là del dibattito sul matriarcato dei popoli cacciatori-raccoglitori, l’origine del patriarcato viene fatta risalire dagli antropologi al neolitico, momento in cui gli umani smisero di procacciarsi da vivere mediante la raccolta dei frutti della terra e la caccia, sviluppando l’agricoltura e successivamente l’allevamento
Dagli studi di linguistica, si è appurato che l’attività di semina e coltivazione delle piante, sia stato il passaggio culturale che abbia permesso al genere umano di rendersi conto del collegamento causale fra il rapporto sessuale e la gravidanza, determinando la nascita del concetto di genitorialità e la volontà da parte del padre, per assicurarsi il controllo della propria discendenza, di porre la donna sotto il proprio dominio: da qui nasce anche l’istituto del matrimonio.

Al tempo stesso, dagli studi di archeologia, sappiamo essere stata questa l’epoca dell’arrivo dei popoli indoeuropei (fenomeno a sua volta collegato alla nascita dell’agricoltura) ed in particolare l’attività della grande ricercatrice lituana Marija Gimbutas, è stata in grado di mostrare come i popoli pre-indoeuropei fossero caratterizzati da una divisione egualitaria del lavoro sociale, come attestato dal fatto che le tombe in cui venivano seppelliti i componenti di quelle comunità fossero singole, a testimoniare l’assoluta parità dei ruoli all’interno del clan, senza distinzioni gerarchiche fra uomini e donne.

A partire dal XX sec. gli antropologi e gli storici, in relazione alle società europee storiche, hanno preferito parlare non di matriarcato (nel senso che abbiamo visto di ginecocrazia), ma piuttosto di società matrilineari e matrilocali, dove cioè determinati diritti vengono trasmessi tramite le donne e i nuovi sposi si stabiliscono presso i genitori della sposa, ma in cui il potere di gestione rimane nelle mani degli uomini.
Tale slittamento semantico è conseguenza del fatto che l’idea dell’esistenza reale di società matriarcali nella preistoria europea è stata messa fortemente in discussione – rimanendo tuttavia dibattuta – confinandola alla sfera della narrazione mitologica; d’altro canto, le numerose spedizioni etnologiche che in varie aree del mondo (dai Tuareg nord africani, ai Kerala indiani) hanno testimoniato l’esistenza di società organizzate su base ginecocratica, lasciano supporre che effettivamente anche le società occidentali possano aver conosciuto anticamente realtà analoghe.

Indipendentemente da ciò, è assodato che nelle società di cacciatori-raccoglitori (come confermato anche dalle ricerche condotte sul campo presso le popolazioni di questo tipo ancora presenti – in misura sempre più esigua – nel mondo contemporaneo, oltre che dalle ricostruzioni archeologiche), vigesse e viga un pronunciato egualitarismo, tanto rispetto alla suddivisione sessuale del lavoro, quanto dal punto di vista sociale. L’assenza di conflitti interni, si abbina alla mancanza di una cultura bellica, come accertato dall’assenza di armi nelle tombe dei defunti e dalla mancanza di tracce di fortificazioni nelle piante dei villaggi.

Altro elemento caratterizzante tali culture, è la cosiddetta “economia del dono”, cioè una cultura della condivisione, che consente ai propri componenti di non avvertire mai la precarietà e di lavorare meno rispetto ai modelli di società successive che – già a partire da quelle agricole – fondano la propria economia su di un’idea intensiva del lavoro; una visione della conduzione dell’economia divenuta un esempio per gli antropologi economici, a cominciare da Jared Diamond, che teorizzano una diversa e più armoniosa distribuzione delle risorse.

Dunque, indipendentemente dalla matriarcalità siamo senz’altro di fronte a culture dal forte senso estetico, apollinee, in cui il senso del femminile ha un’incidenza evidente in contrapposizione al profilo dionisiaco, guerresco, delle società agricole, che in quanto stanziali, sono condizionate dall’idea del territorio e del suo ampliamento; una cultura dell’accumulazione di potere e di ricchezza che ha poi informato la storia del mondo occidentale ininterrottamente fino ad oggi, costituendo un archetipo che pone tra parentesi il senso dell’estetica e che condiziona tutto, compresa l’arte, per snaturarne il senso eversivo della rappresentazione mimetica.

Così la cultura dell’accumulazione di potere, tramutato in forma di presenzialismo salottiero o di scranno digitale, si impadronisce anche della poesia, svilendola di senso e riducendola ad una rappresentazione autotelica; va da sé che forme di autodifesa del valore di metafora sacra dell’arte hanno sempre continuato ad esistere ed a perpetuarsi, per fortuna, ma nei momenti storici di crisi delle libertà, anche l’arte rischia di essere soffocata e quella che stiamo vivendo è proprio una fase di regime, sospesa tra rigurgiti autoritari ed il suo alter ego travestito da antitesi, il populismo.

Sono proprio questi i momenti in cui la riappropriazione del senso estetico diventa fondamentale in quanto atto rivoluzionario e quindi è improrogabile che la poesia si rimpossessi del suo ruolo critico ed insieme catartico, esattamente come storicamente, nelle parabole decadenti della storia occidentale, è decisiva la capacità di ricreazione del mondo che solo la donna, nel suo ruolo cosmico di donatrice di vita è in grado di esprimere; evidentemente, le due cose sono strettamente collegate poiché il simbolo della poesia è femminile e perciò può esercitare una funzione rigeneratrice insostituibile.
La Poetry Kitchen è appunto l’espressione di tale liberazione, di tale affrancamento dall’impaludamento nel linguaggio del potere ed è pertanto un progetto, una visione di rinascita.

Mi è capitato di rileggere ultimamente una poesia di Giorgio Linguaglossa di qualche anno fa, in una fase ancora embrionale rispetto alla definizione di Poetry Kitchen, ma già emblematica del progetto Nuova Ontologia Estetica e tanto più significativa perché in nuce contiene già i contorni della Poetry Kitchen e la rivela:

Onto Giorgio Linguaglossa.blu

Giorgio Linguaglossa

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del Tramonto, LietoColle, 2006)

Trovo che in questo componimento, sia racchiuso il percorso che dalla fase destrutturante Noe, conduce alla fase palingenetica della Poetry kitchen; da lì in poi, tutta la poesia dello stesso Giorgio, di Franco Intini, di Lucio Tosi, di Mimmo Pugliese e di tutti gli amici del nostro collettivo, sembrano affermare perentoriamente il grido di rivendicazione della poesia: “il corpo (della scrittura) è mio e lo gestisco io!”, premessa indispensabile per liberare la poesia e permetterle di tornare ad incarnare appieno la sua carica libertaria.

giorgio linguaglossa
(25 febbraio 2024 alle 8:09)

Il lavapiatti del Cremlino

Il lavapiatti del Cremlino adesso fa il barbiere
taglia i capelli dei bastardi, applica della brillantina sui loro capelli

Aggiusta le frange e i riccioli dei soldati
Così, è stato promosso al rango di ragioniere

Tiene i conti della banda in ordine, finanzia i progetti per la produzione di carrarmati e di velivoli senza pilota

Asserisce che vuole denazificare l’Europa e altre quisquilie
Così il ragioniere è stato promosso a generale

Adesso comanda un corpo d’armata nel Donbass
Rapisce i bambini con gli occhi azzurri, bombarda le città

e gli elettrodomestici, distribuisce sigarette avvolte nei dollari arrotolati, dichiara che le stelle sono a portata di kalasnikov

E altre quisquilie, che le pallottole sono le caramelle che preferisce e che getterà i gonzi in fondo al mare

Il generale adesso ha altre mire, ma non le dice, attende le mosse del Cremlino, studia la scacchiera, muove qui la Torre,

Qui la Regina, qui il Cavallo…

(24/ 02/2024)

foto francesco de girolamo

Francesco De Girolamo

Ai fuochi azzurri

Sotto il trepido sole degli addii
lo sguardo era il germoglio di una spina,
era una macchia d’ombra porporina
che il vento vorticava in dondolii.
Un che di noi, perduto nella luce,
rimpiangeva il languore della luna
che indora all’alba i fiumi della brace
non spenta dei bivacchi di fortuna.
Erano troppo presto divampati
i fuochi azzurri dell’appartenenza,
confusi nell’azzurrità più intensa
d’altri cieli remoti, non svelati.

(Francesco De Girolamo – da La radice e l’ala, 2000)

Bisbiglio ed eco

Cerco il nodo che acquieta, grazie al poco
che non ho più, per cuore troppo aperto.
Ciò che vorrei, dunque, lo credo detto,
seppure non intenderlo sia un gioco;

a pronunciarlo pare un suono fioco
e più obliquo il suo senso che diretto.
Pertanto spererei che più protetto
fosse il suo segno ed il suo canto, roco

per menti che ad intendere il suo sfogo
potessero servirsene a dispetto.
Che sia perciò il suo transito più stretto,

di bocca, in vento, in vela, in punto, in luogo,
che un palpito racchiuso dentro il petto;
e il suo venire in luce, duri poco. Continua a leggere

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Massimo Morasso, “Frammenti di nobili cose”, Passigli, pp. 110 14,50, 2023, Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa, Ritratto della condizione ontologica dell’uomo del moderno che si trova avviluppato nel deserto dei valori e delle illusioni, nel deserto di un linguaggio reificato, nel disincanto della crisi della Unione Europea e della politica italiana che è transitata dal capitalismo monopolistico al capitalismo globale che ha trasformato gli “io” in una ridda di monadi, di cellule cancerose che si riproducono in un ambiente acido, segno di un habitat totalitario e identitario

Massimo Morasso, Frammenti di nobili cose, cover

Come un neonato Kierkegaard, Massimo Morasso, poeta genovese del 1964, è consapevole di come l’Occidente sia oggi disarmato di fronte alla disumanizzazione dell’esistenza e alla de-valorizzazione di tutti i valori ridotti ad un nulla di nulla, a nihil. Come Michelstaedter, Massimo Morasso opta per la via del «privato», la mantiene in alto, sorreggendola con coraggio e fatica, chiama quella cosa «anima», ma sa che è impossibile tornare al mondo rotondo e pacifico della tradizione del capitalismo monopolistico e della guerra fredda. Rimane, in Morasso, la geometrica angoscia di Kierkegaard e di Kafka che rammenta l’urlo silenziato di Munch, ritratto della condizione ontologica dell’uomo del moderno che si trova avviluppato nel deserto dei valori e delle illusioni, nel deserto di un linguaggio reificato, nel disincanto della crisi della Unione Europea e della politica italiana che è transitata dal capitalismo monopolistico al capitalismo globale che ha trasformato gli “io” in una ridda di monadi, di cellule cancerose che si riproducono in un ambiente acido, segno di un habitat totalitario e identitario di quella cellula monadica che ci siamo abituati a chiamare per convenzione “io”.

«Per anni, in cerca di sollievo,
ho tratto dai ricordi le parole,
ma adesso il mio paesaggio si è invertito.

Ora ho levato il mondo e
vivo solo negli anfratti del reale:
sono una nostalgia celeste
ardentemente arresa al suo delirio.»

*

In principio fu la Parola
e, per sua grazia, i mondi generati:
la realtà.

Ma il tempo passa, e tutto si dimentica.
Le volpi, ormai
s’industriano a zittirla, la parola,
raspano intorno alla memoria dell’origine
per affossarla nel sonno della lingua…

Però restano piccole nei branchi,
patetiche e cialtrone, e non ci riusciranno.
Cantiamo un kyrie anche per loro, Cristo Santo,
per le tribù dei vignaioli illuminati
e poi per noi, per i poeti
che non sanno quello che fanno.

L’io di Massimo Morasso scopre così di essere un «senza-patria», un senza linguaggio, un appartenente ai «vignaioli illuminati», un addetto alla vendemmia, un reietto dell’«anima» (non a caso la parola «anima» ritorna insistentemente in tutto il libro). In Morasso l’io dialoga con l’«anima», ma è un dialogo autoriflessivo, dell’io che dialoga con se stesso. «Heimatlosigkeit» significa nella lingua di Heidegger «senza patria». È un’espressione che rimanda all’assenza di una «dimora» che si connota con la Stimmung, la tonalità di una disperazione esistenziale tardo modernista per le parole perdute, per le «nobili cose» e per quelle non più «nobili».

«Wir irren heute durch ein Haus der Welt»
«Noi erriamo oggi nella casa del mondo»

La frase è di Heidegger. Dunque, ci manca il linguaggio perché ci manca una casa. Senza casa e senza linguaggio, l’uomo, sub specie di “io” plenipotenziario, va ramingo alla ricerca di una dimora da abitare e una parola da pronunciare; nella sua ricerca egli erra nel mondo simile ad un’ombra straniera finanche a se stessa. Il tempo della «mancanza del linguaggio» è il «tempo della povertà» dice Heidegger, il tempo dell’epoca storica in cui l’essere si cela e non si rivela; un’epoca contrassegnata da una barriera linguistica, ovvero, un limite verso l’«apertura» storica del Dasein al mondo.
Tuttavia, «il linguaggio è la casa dell’essere, nella sua dimora abita l’uomo», afferma Heidegger; in quanto co-esistenziale del Dasein, il linguaggio è al contempo «quanto di più lontano e quanto di più prossimo l’uomo riesca ad esperire» (parola sempre di Heidegger).
Morasso è in fondo un poeta ancora modernista, kierkegaardiano e heideggeriano, corretto con una dose di Kafka, una sorta di ircocervo in Italia, il paese di Pantalone e dei coccodrilli.
Nelle nuove condizioni ontologiche e politiche nelle quali si trova il Dasein oggi nel capitalismo cognitivo e globale italiano, il linguaggio poetico dell’io plenipotenziario si è rilevato essere un luogo estraneo, impraticabile in quanto mancante di un linguaggio, un luogo fonte di confusione e di equivoci; il senso e il significato delle parole poetiche impiegate in questi ultimi due-tre decenni dalla forma-poesia in Italia si perdono in un fondo senza fondo, nel fondo di una tradizione che non c’è più, perché non è più possibile poetare con il linguaggio post-montaliano, né con quello post-bertolucciano o post-sanguinetiano «la tentazione del poeta/ di rinchiudere la lingua/ come un disabile in famiglia», scrive Morasso. Il poeta genovese ne ha fatto dolorosa esperienza. Da questo momento in poi, ovvero, dalla fine del modernismo che abbiamo fissato, convenzionalmente, con la morte di Zbigniew Herbert, nel 1997 (e in Italia di Franco Fortini nel 1994, del quale l’ultima opera, Composita solvantur è in proposito significativa, una poesia che nasce dall’attrito tra la struttura sintattica e la struttura metrica, cioè tra organizzazione logica del discorso e la sorpresa musicale della lingua). La «dimora» linguistica del Dasein è divenuta inabitabile – ci ricorda Heidegger – nel nuovo mondo del Dopo il Moderno non sarà più possibile abitare (Wohnen) la dimora che conoscevamo… di qui il bisogno di dover ricostruire e di puntellare con dei «frammenti» la dimora del linguaggio poetico ereditato divenuta inabitabile. Di qui la poiesis dei «frammenti di nobili cose» che sono stati smobilitati, di qui l’abitazione poetica che Massimo Morasso scopre essere un alloggio ammobiliato, con mobilia e suppellettili di seconda mano, divenuti estranei, ereditati da una tradizione divenuta inappropriabile e inconffessabile. Il poeta genovese è un poeta tardo modernista giunto in ritardo alla stazione ultima di un paese divenuto straniero a se stesso, dove si parla una nuova lingua non più comprensibile, che non è più modernista e che non appartiene più al futuro-passato o al passato-futuro, una lingua che toglie le parole di torno al poeta, gettandolo nella condizione del reietto e del transfuga, di colui che è rimasto senza parole. C’è un filo rosso della riflessione che conduce da Mandel’štam a Žižek sulle parole e sulle «cose» che occorre riprendere. C’è un filo rosso che parte da 17 poesie di Tomas Transtrômer del 1954, le poesie che hanno cambiato la forma-poesia della poesia moderna. C’è una Anti-tradizione che parte dalla poesia di Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna e Mario Lunetta e giunge fino a noi. È con l’Anti-tradizione che dobbiamo fare i conti, ribaltare la posizione convenzionale per poter uscire fuori finalmente dal novecento ereditandone una poesia «altra», una poesia «critica» e «autocritica».

Per dirlo con Lacan, se «non esiste Altro dell’Altro», se niente e nessuno ci darà mai la garanzia che la poesia della catena significante possa cessare una volta per tutte la sua deriva verso infiniti rinvii, approdando a un felice senso decisivo, l’unica cosa che resta al soggetto per farsene qualcosa di questo parassita di parole qual è il significante è un saperci fare con il linguaggio, depistare il linguaggio, depistare l’io, derubricare sia il linguaggio che l’io, deterritorializzare sia il linguaggio che l’io per riterritorializzare una forma-poesia non più pensata e non più dipendente dal significante e dalle adiacenze di questo «parassita delle parole», una poesia da costruire intorno alle «cose» un tempo «nobili» che sono state devalutate e derubricate, una poesia che ci parli del «soggetto scabroso» (per dirla con Žižek) e del mondo divenuto anch’esso scabroso.

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Poesia senza plot di Giuseppe Talia, Mimmo Pugliese, Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale, Ermeneutiche di Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023https://giorgiolinguaglossa.substack.com/p/eur-roma-nuvola-di-fuksas-domenica

[Roma-Eur, Nuvola di Fuksas, Domenica 10 dicembre, h. 17,00, Sala Giove si terrà l’Evento della Poetry kitchen sul tema:
Cambiare il nome della poesia per cambiare la poesia?
Interventi e voci recitanti di
Tiziana Antonilli, Letizia Leone, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Giuseppe Gallo, Mimmo Pugliese, Giuseppe Talia, Alfonso Cataldi]

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Crisi del linguaggio mimetico

Con il crollo della Coscienza quale luogo privilegiato della riflessività, è crollata anche l’arte fondata sulle fondamenta di quel “luogo”. Ergo, crisi della Rappresentazione prospettica e crisi della rappresentazione tout court. È questa presa d’atto che fa della «nuova poesia» qualcosa di profondamente diverso dal modo di poetare tradizionale. La poesia degli uffici stampa degli editori a maggior diffusione nazionale e provinciale ha cessato di essere un prodotto culturale, fa a meno di ogni contenuto critico, di ogni visione critica, di ogni problematica, è diventata una chiesa, una sorta di consorteria di letterati, sacerdoti che si limitano a presidiare un altare. È una poesia da risultato sicuro, che possiede un proprio esclusivo vangelo, una rete di fedeli adepti, una sorta di società di vegani, una carboneria di officianti di una liturgia privata, una società di alchemici della parola…

«Benvenuti in tempi interessanti», è l’augurio in stile derisorio di Slavoj Žižek, il filosofo eclettico marxista il quale così continua:

«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»

Ecco, appunto,  Žižek coglie nel segno: manchiamo di libertà, il nostro linguaggio, la nostra immaginazione mancano di libertà. La top pop poesia, la poetry kitchen, la pseudo-soap poetry e la false flag-top picture parlano di ciò, della impossibilità del mondo attuale a vedersi riprodotto in una rappresentazione. Perché?

Perché per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia o della narrativa o della pittura.

L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.

I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche… i grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…

È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.

Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà. Ripeto, “Faust chiama mefistofele per una metastasi”, dal titolo eloquente del libro di poesia diFrancesco Paolo Intini.

(Giorgio Linguaglossa)

 Giuseppe Talia

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Il backup di sWAp avviene una volta a settimana. Nella cartella “salva una vita”, nome e cognome, si possono recuperare tutte le storie del passato.

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La fabbrica del mondo di sWAp utilizza esclusivamente metadati prodotti da nuove dimensioni.

(Tallia -16 settembre 2023)

https://twitter.com/i/status/1418592112644435971

Crisi del plot e della poesia-racconto

Mi vengono in mente i tantissimi romanzi che si scrivono oggi, che sono in realtà delle suppellettili, delle sciorinature fatte passare per analisi psicologiche. Ma restano sciorinature senza alcuna importanza. Più che flusso di coscienza siamo davanti ad un flusso di cianfrusaglie. E il bello è che vengono presi sul serio e magari gli danno anche il premio Strega! La poesia kitchen, come appare chiaro in questa composizione di Giuseppe Talia, non la puoi trascrivere in racconto perché manca il racconto, manca il plot. I suoi personaggi sono delle icone, degli emoticon messi lì come semafori che indicano il verde, il giallo e il rosso. È la poesia che si può fare oggi dopo Warhol e dopo Rotcko, a distanza di settanta anni da Warhol e da Rotcko. Paul Celan e Zbigniew Herbert del Rapporto dalla città assediata (1983) sono ancora poeti del modernismo. Invece, la poesia italiana dagli anni sessanta ad oggi si ostina a fare del plot, del racconto. Mi chiedo: che cosa c’è da raccontare? Puoi raccontare soltanto la “Storia di una pallottola” o di “un “passaporto sWAp”.

Forse la poesia italiana che è venuta dopo Giovanni Giudici non ha ancora fatto i conti con la legittimità di fare della poesia-racconto, di fare racconti in poesia, non ha ancora preso atto che oggi i media hanno tolto ogni possibilità alla poesia di accedere al racconto, magari in versi.

Oggi il mondo lo puoi comprendere soltanto se dimentichi il “racconto”, perché non c’è nulla da raccontare che non sia già stato narrato dai media, la poiesis deve ripudiare e aborrire il racconto. Mi piace la poesia di Giuseppe Talia, di Vincenzo Petronelli, di Mimmo Pugliese, di Nunzia Binetti e degli altri autori kitchen, anche loro aborriscono il racconto. I loro avatar, i loro sosia io li leggo in versione pop, come una versione della fine della storia, della fine dell’umanesimo, del modernismo e del post-modernismo.

(Marie Laure Colasson) Continua a leggere

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Steven Grieco Rathgeb, “Il Buon Augurio II”, La poesia con vista da remoto «Forse sei tu, in Italia, il più grande poeta modernista, oggi, dopo Zbigniew Herbert, capace di allargare lo sguardo dal privato alla geografia (Roma, Varsavia, Łodz, Berlino). Forse sei l’ultimo dei modernisti che poeta en plein air, come un novello impressionista che impieghi gli stilemi dell’espressionismo e del modernismo. Le tue poesie sono icone in movimento che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e la luce», a cura di Giorgio Linguaglossa

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023Steven Grieco-Rathgeb è nato nel 1949 è un poeta bilingue che scrive in lingua inglese e italiana. Vive in Grecia, dove coltiva un piccolo lembo di terra. Ha pubblicato Maschere d’oro, poesie italiane nella collana Biblioteca Cominiana, dove il suo volume era affiancato da testi di Yves Bonnefoy, Francesco Tentori e Charles Tomlinson: Entrò in una perla, poesie inglesi in traduzione italiana, collana Hebenon, Mimesis, Udine 2016. È stato redattore della rivista letteraria internazionale L’Ombra delle Parole. Nel 2018 si trasferisce in Grecia dove abita su una piccolissima isola che puoi attraversare a piedi, Koronisia (Κορωνησίας), unita alla terraferma da una strada in mezzo al mar Mediterraneo lunga 25 chilometri, abitata da qualche pescatore e dai gabbiani e dagli uccelli di passo.

Steven_Grieco_Rathgeb_destroyed Warsaw

[Destroyed Warsaw]

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caro Steven,

che altro è la tua poesia se non un pensiero poetico da remoto che medita sul tramonto della luce che avvolge tutte le cose? Sulla luce che lentamente si estingue? La tua poesia è sempre paesaggistica, è sempre en plein air, vuole chiamare il lettore dentro la luce e i suoi mille riverberi; e che cos’è questo se non il chiamare, da remoto, il lettore quale protagonista dentro il tramonto della luce? È in questo tramontante tramontare che la tua poesia si illumina (riceve la luce) e la proietta sul lettore (la irradia)… nella tua poesia i personaggi, i paesaggi, gli oggetti ricevono luce dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, diventano visibili e, nello stesso tempo, invisibili per un eccesso di luce, un eccesso di aria trasparente, di rifrangenze, di ultrasuoni. È una poesia in movimento, una colonna in movimento che chiama il movimento, e lo allontana per rifugiarsi nel rammendo del ricordo e delle icone in movimento. Prendi l’abbrivio con l’invocazione ad una deità, Zbigniew Herbert, il poeta che ha poetato «nei modi della complessità», e aggiungi «come Subbutaj e i suoi Mongoli». E allora eccoti a lavorare, come un fabbro ferraio, sulla piegatura dei verbi per rendere visibile il passaggio, il sentiero della luce, modulando le declinazioni dal gerundio al participio passato fino al condizionale:

Tu, Zbigniew, poeta, hai descritto questo
nei modi della complessità: come Subbutaj e i suoi Mongoli,
non giungendo, mai giunti, giungano sciamando
alle sponde del fiume Kálka.

Forse sei tu il più grande poeta modernista, oggi in Italia, dopo Zbigniew Herbert, capace di allargare lo sguardo passando dal privato alla geografia e alla storia attraverso i suoi luoghi (Eleusi, Mègara, Roma, Varsavia, Łodz, Berlino). Forse sei l’ultimo dei modernisti che poeta en plein air, come un novello impressionista che impieghi gli stilemi dell’espressionismo e del modernismo. Le tue poesie sono icone in movimento che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e l’onda di luce che avanza nello spazio tridimensionale. Ecco una tua tipica icona in movimento:

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

Che inizia con un passato remoto (andammo) da una data incerta (qualche giorno d’ottobre) attraverso un luogo incerto anch’esso, (a Varsavia) dove due personaggi sono diretti verso un luogo incerto e instabile perché sottoposto alla aleatorietà degli eventi.

Che cos’è l’Icona? Non è una pittura silenziosa dove la luce viene dal un altro Luogo?, un luogo immateriale e immortale? Ovviamente, la tua poesia en plein air, si riallaccia alla antichissima poetica delle icone bizantine, è una poesia da zoom paesaggistico, è un periscopio che scandaglia l’orizzonte, fotogramma dopo fotogramma, fotogrammi che prendono luce da un’altra dimensione, ricchi di aria e di vuoto, pieni di vento e di cartacce.

L’icona segna il punto di congiunzione tra la dottrina neoplatonica e la religione cristiana. Qui l’icona non è semplicemente la raffigurazione del trascendente, ma vera e propria incarnazione dell’ente supremo nella forma sensibile della storia degli uomini ricca di sangue e di sperpero. Si parla allora di epifania dell’essere supremo. In questo senso la mimesis platonica raggiunge la sua massima espressione. Questo carattere epifanico della verità di Dio non spetta allora solo al Verbo, alla parola, ma anche l’immagine, simbolo della luce divina, è manifestazione di Dio; possiamo addirittura affermare che l’arte dell’icona è poesia senza parola, messa in opera della verità in immagine silenziosa: ciò che la parola dice, l’immagine lo mostra silenziosamente.

È quindi sbagliato affermare che mentre nella cultura greca è la vista l’organo privilegiato per pensare il soprasensibile – basta pensare al significato delle parole fondamentali del pensiero platonico idea e eidos che rimandano a un vedere essenziale -, nella cultura cristiana il vedere diventa un ascoltare. Non a caso una delle immagini più ricorrente in tutta la tradizione cristiana è proprio quella della luce, intesa, appunto, come immediata epifania della verità: lo Spirito santo è sia Verbo che Luce. Nella visione teologica cristiana la luce è una promanazione (secondaria quindi) dello Spirito Santo. Questa metafora della luce come immediata percezione della verità non si esaurisce in una dimensione puramente religiosa, tra luce e verità c’è un filo conduttore comune, infatti, quando l’occhio percepisce gli oggetti, ciò che in realtà percepisce è la luce riflessa di essi. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela. È la luce che rende bello l’oggetto, permettendo a quest’ultimo di raggiungere il suo bene, la sua essenza.

La tua poesia ha bisogno dell’icona e del passato, è sempre immersa nel passato, dà forma al passato e lo trasfigura in statua di sale, statua di rifrangenze.

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

L’artista delle icone è colui che mediante la vita ascetica si svuota di tutti i desideri terreni per accogliere la luce trascendente trascrivendola su tela. Infatti, l’arte contemplativa si pone al centro della cosmologia dei Padri della chiesa: la visione dei lógoi archetipi, dei pensieri di Dio sugli esseri e sulle cose, costituisce una teologia visiva, una iconosofia. Ogni cosa possiede il suo lógos, la sua parola interiore, la sua determinazione strettamente legata all’essere concreto. Questo legame è posto dal fiat (l’imperativo “sia”) divino; esso è la corrispondenza adeguata e quindi trasparente tra forma e contenuto, il suo lógos; la loro intima compenetrazione, la loro coincidenza segreta si rivela in termini di luce e rivelano la bellezza. La bellezza della icona sta nella trascendenza e nell’immanenza divina. Quest’arte, tipicamente orientale della cristianità ortodossa, rappresenta la possibilità che il trascendente platonico possa rendersi visibile nel mondo mediante un processo ascetico di purificazione e di accoglimento del soprasensibile.

Ecco, tu metti l’immobilità dell’icona nella magmaticità della Storia. La bellezza delle tue icone in movimento sta in questo atto di immissione nella transustanziazione della storia. In questo ti riveli occidentale, figlio della cultura anglosassone e della lingua di Dante; riesci concreto ed astratto, dipingi le parole come un pittore espressionista e le moduli con la dolcezza delle sculture di Henry Moore. Così, riesci ad essere molto poco italiano e molto poco inglese e fai una poesia che per tua fortuna non ha niente a che vedere con i minimalismi della poesia italiana e inglese degli ultimi decenni a cui tu sei semplicemente, per tua fortuna, estraneo.

(Giorgio Linguaglossa, 19 novembre 2023)

Onto Steven Grieco

[Steven Grieco Rathgeb]

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Il Buon Augurio II

I. Plac Zbawiciela

Questa primavera non fioriranno i salici bianchi al fiume.
Gli alberi volano e sono nudi.
Ma i loro sguardi a migliaia già volteggiano nell’aria,
spolverando lanugine ovunque,
sulla folla ed io, felicemente ignari,
a passeggio per le vie e le piazze di una Varsavia
che ogni spigolo allarga, ogni specchio incastra
nel cielo impetuoso di nubi.

Più si sdoppia immobile e non moltiplica, si perde.
Compiuta fra noi e noi, l’imperfetta identità.

E l’immagine è nera.

È qui che vengono a morire i blocchi della banchisa,
nell’animarsi d’infiorescenze solo riflesse nell’aria;
e il cimitero di petali di ghiaccio in crescita di anno in anno,
su in alto, dove la statua con gesto misericordioso,
indica la città rasa al suolo.
Ma ancora, e sopra i tetti, scivolando nel silenzio,
passano le sagome di iceberg, i colossi
nel loro transito a sud,
traditi talvolta dalla danza di un filo d’erba.

“Tutto era per sempre, fino a che non fu più.”
Aprile 2019, i fiori, la guerra da sempre terminata,
e ogni capitombolo nella notte sconfitto e imprigionato.

Questa nostra mattina di luce totale, di luce sbarrata
a se stessa, è primavera che non ha fine;

e nella porosità fattasi estrema, il travaso di pensiero
in ogni direzione, gli strabilianti progressi,
freno ad ogni capitombolo in nuovi precipizi.

I tuoi occhi, Kasya, tradiscono altri paesaggi.

“L’albero della vita ha maturato frutti molti,”
hai detto, quando tutti piangevano;
“ma noi non sappiamo dove dimori quest’albero;
né i frutti prima di cadere e dopo
a cosa siano serviti.”

La forza dei tuoi occhi rivela la brezza dei salici,
e tutto a noi sussurra il vero:
di anima e suono questo vibrare apre un varco,
un’origine; le tue labbra azzurre spalancano porte
sulla nostra casa ormai decaduta, miseria
e innocenza di brutte femmine e letti eunuchi
condivisi nell’ira, nell’inganno, nell’arroganza;
e fango, i piatti e le posate
lavati nel sangue di impietosi sradicamenti.

Tu riveli le migrazioni mai interrotte, da Łodz a Berlino
a tutt’oggi lo ieri verso il domani in marcia,
le donne avvolte negli scialli e i bambini in braccio.
Opera di industriali della carne surgelata,
che per “rischi asimmetrici, ambigui e irreversibili”,
hanno appeso i negazionisti per le pudenda
alla trave maestra della sala dei banchetti.

Andammo in bicicletta, tu ed io, qualche giorno d’ottobre
a Varsavia, arrivando dove il filo di pietra serpeggia
il perimetro di un ingoiamento.
Hai detto: “gira lo sguardo dove non è anima viva”.

Steven-Grieco Rathgeb in celeste

II.

Tu, Zbigniew, poeta, hai descritto questo
nei modi della complessità: come Subbutaj e i suoi Mongoli,
non giungendo, mai giunti, giungano sciamando
alle sponde del fiume Kálka.

Di là, attraverso le prime brume del mattino,
le immagini della poesia materializzano ombre
di accampamenti, rumoreggiare di uomini e cavalli –
tutta la nostra modernità irrealizzabile.

“Senza bisogno di ignorare un dopo.”

Hai sparso, poeta, semi in campi mai arati.
Balzarono su erbacce nel tormento della fioritura.
Hai accolto me nel tuo secco disincanto,
prevedendo i luoghi dell’aggressione, i sicari
nelle ambasciate, il muto collasso della luce del giorno.

Io sono sceso sotto l’orizzonte, al bruno gioiello;
ho compiuto il viaggio remoto là dove
s’accendono mille lumi fra aggrovigliate radici
di giganti in alto in dialogo con il vento di stelle cadute.

Sotterraneo labirinto, non sarà di parole, hai detto:
di altro germinare, quando quelle lanterne, capovolgendosi,
spingeranno a significare molteplici futuri.

Vedo il tuo quanto il nostro tempo di sciagure rimosse;
lento avvicinarsi delle distanze;
sempre più incantato, più impotente a scindere l’Uno
nella distorsione dell’Altro, principe di pagliacci.

In quali modi, poeta, io giunga con te
alle sponde del fiume Kalka,
dove i salici getteranno ombre sugli accampamenti.

Steven Grieco Rathgeb profilo grigio

III.

Nelle nivee città della sintassi, sventolano bandiere
alle torri avare. Sventolano dure, inespugnabili.

Così le lingue monolitiche crollano di colpo:
“per non aver intravisto la sponda opposta.”

Il pensiero umano più ardito rasentava altri pianeti!
Ma quando ci girammo a guardare,
ogni sua offerta retroagiva nel gran specchio convesso,
della pece incandescente lanciata al cielo
le traiettorie tornavano giù
in squallido vivere, riproposto e riavvenuto.

In quale modo, allora – io mi scervellavo –
tutto ciò si replica, la bruttura si ripete?
È questo forse il luccichio della spada di false vittorie?
E davvero l’intelligenza ha fatto tanto scempio?
È proprio questo, questo, l’instancabile ripartire
che ripiega e sempre s’inverte?

Quanto visto annotai nello smisurato libro dell’Avvenire:
Rítsiana, 16 luglio: “il guazzabuglio s’irradia in alto
solo per ricadere orgoglioso sui propri sinistri.”

Ma certo, eccolo l’ipertempo, il nostro, l’agognato!
Immaginario così veloce, da sembrare fermo.
Può l’esperto aver sbagliato nel riporvi tanta fede?

Ha asserito: “Il fatto non è stato cieco; l’errore
è esatto: a chiare lettere riconferma
ciò che sappiamo: sintassi d’ogni questo che è quello,
ed inesausto, e reiterato.

Questa, Signori, l’inalterabilità delle Cose:
dove i fiori del salice riflessi voleranno
e tutto per sempre ricomincerà.”

“Calpestati e distrutti.”

Questa dunque la menzogna che ogni giorno io estirpo,
nell’intimo io disperdo? Che ricostruendo distruggo,
ingranaggio del mio stesso riconfermarmi?

Incredulo, alzai lo sguardo: lassù,
nell’occhio illuminato, furente, parvemi udire una voce
oltre il gran fracasso di trionfi, che mormorava:

“Fummo paralizzati dalla complessità che ci confrontava.”

Steven Grieco

IV.

Allora, e mosso da grave senso e urgente, in partenza
per Atene, 20 luglio, chiesi: “Tutto è scomparso?”
“Niente è apparso, – tornò l’eco del vento. –
Le tenebre sono quelle stesse opere.”

E ancora udii: “Calpestati e distrutti.
Elèusi e Mègara, le raffinerie sul mare. Sogna tuo,
se ami illuderti, l’orizzonte del pensiero metafisico.”

“Perché le opere sono le stesse tenebre.”

E guardai: là, oltre l’autostrada,
al largo, sposarsi d’isole e bracci di mare,
e Salamina, trasognata, dire a noi:

“Oggi non scompare più niente.”

“Siamo noi le tenebre delle stesse opere.”

E l’eco tornare, ritornando.

V.

Ancora guardai: conferivano nelle sale di consiglio
i vampiri, affiancati dai nipotini dell’URSS,
i cristo-muzhỳk risorti al saccheggio,
quelli che scoperchiano le colline
e oggi dichiarano l’incontestabile verità:
“gli ammassi di scorie liquide, i nostri Picasso e Mirò,
rivomitano senza numero il vostro ripetervi.

A noi, come a voi, non importa un fico secco.”

“Sappiatelo: Erebo generò la notte in tutto il mondo,
e in esso in cui appare.
Non scordate, voi. Sappiatelo, feccia di popoli.
Ecco perché Elèusi vi parrà per sempre trasognata,
e la nascita del pensiero-petrolio iridato sul mare.
Guardatevi attorno: Socrate, i misteri, l’oscurità,
abbiamo trasformato in luce quantificabile: camion,
ruspe giganti, verità. Prendetene nota. Stupite.”

Poi vidi il miracolo. Tutti loro, tramutati in angeli,
uscire dalle discariche rivomitando
il nostro indice e riepilogo mille volte ribadito,
spaziare per le lande disastrate salmodiando:

“Qui sorgeranno le polis verdi, il popolo
frusciante delle latifoglie e dei salici e dei prati
del mare, del verdissimo mare.”

Mentre dalle discariche ancora tornavano distorte
le loro parole: “Mai poté alcun disfacimento paralizzarci.”

VI.

Nivee bandiere in alto, aulica sintassi!
Collari di ferro, ingressi privi di varco; vie notturne
impercorribili, disseminate di trappole e tagliole.

“Ma lo sai, sento talvolta musica serpeggiare nei versi.
Poi subito scompare, quando la cerco.”

“Sei tu per caso?” – chiedo, senza aver risposta.

“È solo il vago ricombinarsi di suoni
nella tromba delle scale infinite.”

“Sì, certo. E provo e riprovo, ma non ricordo
come rotolano, torcendosi nelle onde, gli oceani.”

VII.

Allora balbettai, “Kasya, mia Musa!
Questi versi, questi utamákura, sono dunque
spezzoni luminescenti di un parlare in disfanie?”

E lei:
“Intessono, o mio Re, il vasto ordito del Presente.
Non i piccoli cieli, non paraninfi e poetastri!

Di là dalle vuote griglie di senso, fessure nostre distanze.

Nel mondo così più avanti e più indietro di te, solo
tu ne puoi dedurre, sognando, l’esistenza.”

Risposi: “Ma come farò? Stento a credere
che non strozzeremo i nostri migliori pensieri
con le nostre mani;
che ai filosofi e agli esperti ciarlatani non concederemo,
una volta ancora, di ruscellare determinismo
dai loro pozzi neri.”

“Non curartene, non aver brame. Sii ενέργια.
Fendi la cecità dell’eterno non-arrivo.

Le tenebre sono le stesse opere.”

Questo udii. O pensai di udire.

Non solo con i segni che chiamiamo scrittura!
Eppure tu, Zbigniew, utilizzando quegli stessi ghirigori
su fogli così bianchi,
esprimesti lo sbraitare degli stivali chiodati.

E rividi i volti spauriti, i volti camusi,
come fuggivano inutilmente
dal loro corpo, fuggivano dal nostro;
chi batteva il pugno, chi usciva brandendo fasci di vento,
ombre minacciose nell’efferatezza,
nel tormento e la solitudine
di questa danza del nichilismo che danza,
che danza.

(Aprile 2019)

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Slavoj Žižek, da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp, dal Quadrato nero su fondo bianco al ready made c’è già scritto il destino del modernismo con le sue avanguardie e le sue postavanguardie. Il Novecento è finito, e con esso anche le stagioni delle avanguardie e delle retroguardie, Che cos’è il Reale? Il Reale è sempre parallattico, Sul concetto di parallasse

Foto Malevitch Quadrato

Kazimir Malevič Quadrato nero, 1915, olio su lino, 79.5 x 79.5 cm, Galleria Tret’jakovMosca[1]

Slavoj Žižek

da Kazimir Malevič a Marcel Duchamp 

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

(S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

pittura marcel duchamp 1

Marcel Duchamp

Slavoj Zizek, Il Trash sublime

«… nell’arte contemporanea il margine che separa lo spazio consacrato del bello sublime dallo spazio escrementizio del trash (i rifiuti), si sta gradualmente assottigliando fino ad arrivare ad una paradossale identità degli opposti: i moderni oggetti artistici sempre più escrementizi, trash (spesso in senso esattamente letterale: feci, corpi in putrefazione, ecc.) non sono forse esibiti per – fatti al fine di, destinati a riempire – il LUOGO Sacro della Cosa? Non è forse questa identità la “verità nascosta” dell’intero movimento? Qualsiasi elemento che reclami di diritto di occupare il Luogo Sacro della Cosa non è forse un oggetto escrementizio per definizione, un rifiuto che non può mai essere “all’altezza del suo compito”? Questa identità della definizione degli opposti (l’elusivo oggetto sublime e/o il rifiuto escrementizio) con la minaccia sempre presente che l’uno sconfinerà nell’altro, che il sublime Graal si rivelerà essere un pezzo di merda, è iscritta proprio nel nocciolo dell’objet petit a lacaniano.

Questa impasse è, nella sua dimensione più radicale, l’impasse che influisce sul processo di sublimazione, non tanto nel senso che la produzione artistica non sia più oggi capace di realizzare oggetti semplicemente “sublimi”, quanto in un senso molto più radicale. Si può affermare, infatti, che lo schema fondamentale della sublimazione – quella del Vuoto centrale, dello Spazio vuoto (“Sacro”) della Cosa esonerata dal circuito dell’economia quotidiana, che viene infine riempito da un oggetto positivo che è “elevato alla dignità della Cosa” (definizione lacaniana della sublimazione) – è sempre più minacciato. Ciò che qui è minacciat è proprio lo scarto tra il Luogo Vuoto e l’elemento (positivo) che lo riempie. Quindi, se il problema dell’arte tradizionale (pre-moderna) era quello di riempire il sublime vuoto della Cosa (il Luogo puro) con un oggetto bello – ossia come riuscire ad elevare efficacemente un oggetto comune alla dignità della Cosa – il problema dell’arte moderna è, in un certo senso, quello opposto (e molto più disperato): non si può più contare sul fatto che il Luogo sacro sia lì, pronto per essere occupato dai manufatti umani; perciò il compito è di sostenere il Luogo come tale, per assicurarci che questo stesso luogo “avrà luogo”. In altre parole, il problema non è più quello dell’horror vacui, riempire il Vuoto, ma piuttosto quello, innanzitutto, di CREARE il Vuoto. Diventa, perciò, cruciale la co-dipendenza tra un luogo vuoto, non occupato, e un oggetto elusivo che si muove rapidamente, un occupante senza un posto?

Il punto è che c’è semplicemente il surplus di un elemento rispetto agli spazi disponibili nella struttura, o il surplus di un posto che non ha alcun elemento che lo occupi; infatti, un posto vuoto nella struttura sostiene la fantasia di un elemento che presto o tarsi lo colmerà, mentre un elemento eccedente senza posto sostiene la fantasia di un luogo ancora sconosciuto che lo attende. Il punto è invece che il posto vuoto nella struttura è in se stesso correlativo all’elemento eccedente che manca al suo posto: essi non sono due entità diverse, ma il diritto e il rovescio di un’identica entità, quell’una e medesima entità che si iscrive nelle due superfici del chiasma di Moebius. In altre parole, il paradosso è che soltanto un elemento che è completamente “fuori luogo” (un escremento, un rifiuto o uno scarto) può reggere il vuoto di un luogo vuoto – cioè la situazione à la Mallarmè, in cui “nulla, tranne il luogo avrà luogo”; nel momento in cui questo elemento eccedente “trovasse il posto giusto”, non ci sarebbe più nessuno Luogo puro distinto dagli elementi che lo riempiono.

duchamp-bicycle-wheel

m. duchamp bicycle wheel

Ed effettivamente, come suggerisce Gerard Wajcman il grande sforzo dell’arte moderna non è proprio quello di mantenere la struttura minima della sublimazione, uno scarto impercettibile tra il Luogo e l’elemento che lo riempie? Non è questa la ragione per cui il Quadrato nero su Fondo Bianco di Kazimir Malevič riduce il meccanismo artistico alle sue componenti essenziali, alla mera distinzione tra il Vuoto (lo sfondo, la superficie bianca) e l’elemento (la macchia del quadrato)? Dovremmo cioè sempre ricordare che il tempo verbale stesso (il futuro anteriore) del famoso rien n’aura eu lieu que le lieu (“nulla avrà avuto luogo se non il luogo stesso”) chiarifica che abbiamo a che fare con uno stato utopico il quale, per ragioni strutturali a priori, non può realizzarsi nel presente (non ci sarà mai un tempo presente in cui “solo il luogo stesso avrà luogo”). Non è semplicemente che il Luogo conferisca all’oggetto che lo occupa una dignità sublime; è che soltanto la presenza dell’oggetto sostiene il Vuoto del Luogo sacro, ma sarà sempre qualcosa che, retroattivamente, “avrà avuto luogo” dopo esser stato intralciato da un elemento positivo. In altre parole, se sottraiamo dal Vuoto l’elemento positivo, “il piccolo pezzettino di realtà”, la macchia eccedente che disturba l’equilibrio, non otteniamo il puro Vuoto equilibrato come tale; il Vuoto stesso, piuttosto, scompare, non è più lì.

Perciò il motivo per cui gli escrementi sono elevati al rango di opera d’arte, utilizzati per colmare il Vuoto della Cosa, non è semplicemente quello di mostrare come “anything goes – qualsiasi cosa va bene”, come l’oggetto sia, in definitiva, indifferente, dal momento che qualsiasi oggetto può essere elevato ad occupare il Luogo della Cosa: questo ricorrere agli escrementi testimonia, piuttosto, l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo sacro c’è ancora. Il problema è che oggi, nel duplice movimento della mercificazione progressiva dell’estetica, e dell’estetizzazione delle merci, un oggetto bello (piacevolmente esteticamente) può sostenere sempre meno il Vuoto della Cosa – è come se, paradossalmente, l’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi. Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte, lungi dall’indebolire la logica della sublimazione, in realtà si sforzano disperatamente di salvarla. Le conseguenze di questo collasso dell’elemento nel Vuoto del Luogo sono potenzialmente catastrofiche: infatti, senza uno scarto minimo tra l’elemento e il suo Luogo, non esiste ordine simbolico: cioè, noi dimoriamo dentro l’ordine simbolico solamente in quanto qualsiasi presenza appare contro lo sfondo della sua possibile assenza (questo è ciò a cui Lacan allude con il concetto del significante fallico come significante della castrazione: è un significante “puro”, il significante come tale, nella sua accezione più elementare, in quanto proprio la sua stessa presenza evoca la SUA STESSA possibile assenza/mancanza).

Forse la definizione più concisa della rottura modernista in campo artistico è proprio che, grazie ad essa, la tensione tra l’Oggetto (arte) e lo Spazio che esso occupa è considerata riflessivamente: ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il Luogo (sacro) del vuoto della Cosa. In altre parole, con l’arte modernista, si perde per sempre una certa innocenza: non possiamo più fingere di produrre oggetti che, in virtù delle proprie caratteristiche, cioè indipendentemente dallo spazio che occupano, “siano” opere d’arte. Per questa ragione, l’arte moderna si divide, fin dalle sue origini, proprio nei suoi due estremi, Malevič da un lato, Duchamp dall’altro. da una parte, l’enfatizzazione pura del vuoto che separa l’Oggetto dal suo Spazio (il Quadrato nero); dall’altra, l’esposizione di un oggetto quotidiano (una ruota di bicicletta) come opera d’arte, per dimostrare che l’arte non si fonda sulle qualità dell’opera d’arte, ma esclusivamente sullo Spazio che esso occupa, in modo che qualsiasi cosa, anche se è merda, possa “essere” un’opera d’arte se si trova nel Luogo giusto. E qualsiasi cosa venga fatta dopo la rottura modernista, anche se è un ritorno al falso neoclassicismo alla Arno Breker, è già “mediata” da questa rottura. Prendiamo un realista del XX secolo come Edward Hopper: ci sono almeno tre aspetti del suo lavoro che testimoniano questa mediazione. Primo, la ben nota tendenza di Hopper a dipingere paesaggi urbani di notte, soli, in stanze molto illuminate, visti dall’esterno attraverso una finestra (anche quando la finestra non è direttamente percepibile, il quadro è dipinto in modo tale che lo spettatore sia spinto a immaginare una cornice immateriale e invisibile che lo separa dagli oggetti raffigurati). Secondo, il modo in cui sono dipinti i suoi quadri e la sua tecnica iperrealista, producono nello spettatore un effetto di irrealtà, come se si stesse osservando qualcosa di onirico, spettrale, etereo, invece che comuni oggetti materiali (come l’erba bianca nei suoi quadri campestri). Terzo, il fatto che la serie di quadri raffiguranti sua moglie seduta in una stanza solitaria, fortemente soleggiata, mentre guarda attraverso una finestra aperta, sono percepiti come un frammento disarmonico di una scena globale, che necessita di un supplemento, che rimanda ad un invisibile spazio fuori campo, come il fotogramma di una sequenza cinematografica privo del suo contro-campo (e in effetti si può sostenere che questi quadri di Hopper siano già “mediati” dall’esperienza cinematografica).»*

* (S. Zizek, Il Trash sublime, Mimesis minima, Milano, 2013 pp. 33-37)

pittura Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il Quadrato nero su superficie bianca di Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.
L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttamente esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»**

** (S. Zizek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine, 2010 pp. 28-29)

Sul concetto di parallasse

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

La definizione comune di parallasse è: lo spostamento apparente di un oggetto (lo spostamento della sua posizione rispetto a uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di osservazione che fornisce una nuova linea di visione. La svolta filosofica da aggiungere, ovviamente, è che la differenza osservata non è semplicemente “soggettiva”, a causa del fatto che lo stesso oggetto che esiste “là fuori” è visto da due diverse stazioni o punti di vista. È piuttosto che […] uno spostamento “epistemologico” nel punto di vista del soggetto riflette sempre uno spostamento “ontologico” nell’oggetto stesso. O, per dirla in Lacanese, lo sguardo del soggetto è sempre-già inscritto nell’oggetto stesso percepito, nelle vesti del suo ‘punto cieco’, quello che è ‘nell’oggetto più che nell’oggetto stesso’, il punto da cui il oggetto stesso restituisce lo sguardo

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

Il Reale parallattico

«Il “Reale” non è la disposizione effettiva, ma il nucleo traumatico di un antagonismo sociale che deforma la percezione dei membri della tribù della disposizione attuale delle case nel loro villaggio. Il reale è la X rimossa in base alla quale la nostra visione della realtà viene distorta anamorficamente, è al tempo stesso la Cosa a cui non si può accedere direttamente e l’ostacolo che impedisce questo accesso diretto, la Cosa che elude la nostra comprensione e lo schermo deformante che ci impedisce di cogliere la Cosa. Il definitiva, il reale è lo spostamento di prospettiva dal primo punto di osservazione al secondo. Pensiamo alla celebre frase di Adorno del carattere antagonista del concetto di società (quella individualista-nominalista anglosassone e quella organicista di Durkheim  della società come totalità che preesiste agli individui) appare irriducibile e sembra di avere a che fare con una vera antinomia kantiana che non può essere risolta tramite una “sintesi dialettica superiore e che eleva la società a una Cosa-in sé inaccessibile. Ad un secondo approccio, però, bisognerebbe notare come questa antinomia radicale che sembra precludere ogni accesso alla Cosa sia già la Cosa stessa: la caratteristica fondamentale della società di oggi è l’antagonismo inconciliabile tra il Tutto e l’individuo. Ciò significa che in fondo lo statuto del Reale è puramente parallattico e, in quanto tale, non sostanziale: non ha densità sostanziale di per sé, è solo uno scarto tra due punti prospettici, percepibile solo nello spostamento da un punto all’altro. Il Reale parallattico si contrappone così alla tradizionale nozione (lacaniana) del Reale come ciò che “ritorna sempre al suo posto”, come ciò che in tutti gli universi (simbolici) possibili rimane costante: il Reale parallattico è piuttosto ciò che rende conto della moltitudine di manifestazioni della stesso Reale sottostante».*

(da The Parallax View, 2006, trad. it. La visione di parallasse, il melangolo, 2013, pp. 41-42)

Žižek, Slavoj. – Filosofo e psicoanalista sloveno (n. Lubiana 1949). Tra i più importanti e incisivi pensatori contemporanei, docente di Filosofia e psicoanalisi all’European graduate school (Svizzera) e visiting professor presso numerosi atenei europei e statunitensi, muovendosi dalle teorie lacaniane ha sottoposto a una serrata revisione critica conflitti e contraddizioni della contemporaneità per come essi emergono dai modelli culturali proposti dalla letteratura popolare e dal cinema; di quest’ultimo ha indagato il gioco di sguardi incrociati tra autore, spettatore e oggetti in Gaze and voice as love objects (2004; trad. it. Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, 2004), analizzandone il ruolo di strumento di formazione del desiderio e dedicando approfonditi saggi al lavoro di singoli registi – quali In his bold gaze my ruin is writ large (1992; trad. it. L’universo di Hitchcock, 2008), The fright of real tears, Kieslowski and the future (2001; trad. it. Paura delle lacrime vere. Krzysztof Kieslowski fra teoria e post-teoria, 2010), The art of the ridiculous sublime. On David Lynch’s lost highway (2000; trad. it. Lynch. Il ridicolo sublime, 2011). Pensatore a tutto campo, in anni più recenti Z. ha esteso la sua analisi a temi politici e sociali quali la guerra in Iraq (Iraq. The borrowed kettle, 2004; trad. it. 2004), la crisi del marxismo (First as tragedy, then as farce, 2009; trad. it. 2010), e dei modelli di sviluppo contemporanei (Living in the end times, 2010; trad. it. 2011). Autore estremamente prolifico, tra i suoi saggi più recenti occorre citare almento Less than nothing. Hegel and the shadow of dialectical materialism (2012; trad. it. 2013); The year of dreaming dangerously (2012; trad. it. 2013); Žižek’s jokes (Did you hear the one about Hegel and negation?) (2014; trad. it. 107 storielle di Žižek (La sai quella su Hegel e la negazione?), 2014); Islam and modernity. Some blasphemic reflexions (2015; trad. it. 2015); entrambi nel 2017, The courage of hopelessness: chronicles of a year of acting dangerously (trad. it. 2017) e Disparities (trad. it. 2017); Like a thief in broad daylight (2018; trad. it. 2019); nel 2020 la raccolta di articoli Virus, catastrofe e solidarietà e Pandemic! Covid-19 shakes the worldHegel in a wired brain (2020; trad. it. Hegel e il cervello postumano, 2021); Heaven in disorder (2022; trad. it. Guida perversa alla politica globale, 2022). Nel 2017 il filosofo è stato insignito del Premio Hemingway per “l’avventura del pensiero”. (Treccani)

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Letizia Leone, Estasi  della  Macellazione, da How the Trojan War Ended I Don’t Remember  – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20, Lettura di Giorgio Linguaglossa, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra

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(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember . Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017,  330 pagine $ 20)

L’idea forte di questa Antologia pubblicata negli Stati Uniti con Chelsea Editions nel 2017 è la individuazione di una Linea Modernista che ha attraversato la poesia italiana del tardo novecento e di queste due ultime decadi. Non riconoscere o voler dimidiare l’importanza della Linea Modernista nella poesia italiana di queste ultime decadi è un atto di cecità e di faziosità, penso che rimettere al centro dell’agorà della poesia italiana la questione della poesia modernista implichi il riconoscimento che la dicotomia tra una «linea innica» e una «linea elegiaca» di continiana memoria, non abbia più alcuna ragion d’essere, siamo entrati in una nuova situazione stilistica e poetica, il mondo, quel mondo che si nutriva di quella «dicotomia» si è dissolto, oggi il mondo è diventato globale e glocale e la poesia non può non prenderne atto ed agire di conseguenza.

Il mio personale impegno di queste ultime decadi è sempre stato quello di favorire l’emergere di una linea modernistica dalla rivalutazione di poeti come Alfredo de Palchi, Ennio Flaiano, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anonimo Romano, Anna Ventura fino a Letizia Leone indebitamente trascurati e lateralizzati. Una storia letteraria non può farsi a suon di rimozioni e di espulsioni, compito della ermeneutica è quello di ripristinare le regole del gioco e ripulire il terreno delle valutazioni dettate da interessi di parte. Letizia Leone si pone nella linea di coloro che hanno optato per una scrittura poetica modernistica che si rifacesse al mito come fonte originaria di nuova interpretazione. La poetessa romana sviluppa il mito del satiro Marsia che sfidò il dio Apollo ad una tenzone musicale per essere poi sconfitta con un sotterfugio dal dio e condannata ad essere scorticata viva. La Leone adotta il traslato, immagina il mito dal vivo, entra direttamente nella «macelleria» dove è stato compiuto l’olocausto della ninfa Marsia (o del satiro Marsia?), il terribile misfatto da cui avranno inizio tutti i misfatti e i delitti perpetrati contro le donne e i diversi. Marsia è morto ma Marsia è vivo (viva?), e lo sarà per migliaia di anni fin quando ci saranno dei diversi e delle donne che vengono torturate e uccise per un ciuffo di capelli fuori ordinanza come l’iraniana Masha Amini che ha dato il via all’autunno di rivolta e di proteste nel paese islamico, ma il mito di Marsia ripreso da Letizia Leone vuole indicarci anche le tribolazioni di tutti i diversi e di tutte le donne che hanno lottato e lottano contro i soprusi e le angherie degli uomini di potere e degli dèi proconsolari, contro tutte le ideologie del potere maschilista, contro l’accettazione remissiva dell’ontologia della guerra.

Anche da Letizia Leone si diparte la individuazione della linea che segue la poesia modernista di fine novecento, ovvero, la nuova ontologia estetica, che altro non è che un approfondimento e una rivalutazione delle tematiche della linea modernistica su un altro piano problematico. Certo, la problematizzazione stilistica e filosofica della nuova ontologia estetica è l’indice dell’aggravarsi della Crisi rappresentativa delle proposte di poetica personalistiche e posiziocentriche che continuano inconsapevolmente la grammatica regionale ed epigonale di una poesia ancora incentrata sull’io post-elegiaco. Ecco, questo è il punto forte di discrimine tra le posizioni epigonali e quelle della nuova ontologia estetica che ritengo caratterizzata da uno zoccolo filosofico di amplissimo respiro e dalla consapevolezza che una stagione della forma-poesia italiana si sia definitivamente esaurita. E che occorra aprire una nuova pagina.

Riporto, per completezza, il brano di Giorgio Agamben sulla vexata quaestio della linea innica e della linea elegiaca:

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia (1925). Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco (1956) rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà (1968), aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»1]

(Giorgio Linguaglossa)

1] Giorgio Agamben, Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114

(da Letizia Leone, La disgrazia elementare, Giulio Perrone Editore, Roma, 2011)
(da AA.VV. Poesia Italiana Contemporanea, a cura di G. Linguaglossa, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016)
(Uno stralcio del poemetto è stato pubblicato anche su How the Trojan War Ended I Don’t Remember – Come è finita la guerra di Troia, non ricordo, Chelsea Editions, New York, 2017, 330 pagine $ 20)

Giorgio Ortona Letizia celestina 42 x 70 olio su tela 2020

Opera di Giorgio Ortona, ritratto di Letizia Leone

.

Letizia Leone

Estasi Della Macellazione
Chi conosce l’indirizzo dei mattatoi?

Supplizio fossile
(Del Satiro Marsia che osò sfidare in gara musicale il dio Apollo e finì scorticato vivo: strumento cantante.)

No,
non avresti dovuto scherzare col suono
col grido di do
questo drago illeso nel fuoco della campana,
nell’arca di bronzo. Né usare

le note
dell’uovo spaccato
quasi fossero venti, Marsia!
Per non dire delle folate d’aria
sullo scheletro vibratorio delle sillabe.

Hai immolato il tuo corpo.
Raggiante di silenzio e morte
sembra il lavoro di un sadico
ma c’è troppa letizia di un dio
in questo fasto del sangue.

E che altro?
Il canto di lode
travolse gli alberi da olocausto,
era dunque musica incosciente
la risata quadrata della natura?
Poi si sa, un dio
in questo caso Apollo,
è un mezzo vivo con poca musica,
affamata di grida guerriere
la sua sordità.
E come si canta?

I

Dapprima il gioco di Apollo

fu pantomima del tuono
grande musica totemica.
Imitava – lui, dio pappagallo-
i rumori robusti delle materie:
folgori mareggiate sfregamenti
di bestie contro cortecce
poi passò agli animali,
esaurito il coro della natura,
prese dai vivi il fiato per un canto,
l’invidioso.
Ma gli inni primaverili, l’accompagnamento
dei cembali, i tintinnii, in fondo
lo mettevano a disagio
che farsene di un Cantico solare?
Costruire un tamburo di pelle
dura e gonfia con pezzi d’animale
e assordare Marte con quest’arma sonora
al ritmo delle arterie
una crociata di rombi, urla
a squarciagola
e le lingue profonde dei selvaggi
farle volare mozzate con la freccia sibilante
di un suono e gli schizzi di sangue,
questo si che è uno strumento cantante
da pestare con mani e piedi
su una terra assetata
– se è vero che i suoni incurvano e spezzano-
e poi si potrebbe amplificare tutto in un
antro! Questo pensava Apollo.

Oppure un altro ordigno: il corno.
Con tamburo e corno
sarebbe stato più facile imboccare la via dell’inferno.

II

Ma questi, di far risuonare caverne
erano desideri inespressi
profondi. Che qui come dio
gli toccava accoppiarsi al sole
all’armonia delle piante
alla forza altalena di una scala maggiore,
una gru di toni e ipertoni
dai ritmi edificatori,
insomma
all’unisono con i bocci
tanta musica alata
a nutrire gli insetti non nati
pronti a tuffarsi nella luce.

Perché un cantare supremo era il suo compito
apollineo, celebrare il culto
della vita con la lira.
Altro che clamori infernali. Continua a leggere

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Anniversario, di Fernando Pessoa (1988-1935), Lettura e video di Diego De Nadai, Un Appunto di Giorgio Linguaglossa, Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa di allora. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti.

Diego De Nadai è nato a Cagliari il 20 luglio 1955 laurea in Lettere moderne. La carriera di voce recitante: Doppiatore , attore (maker creatore di video poesie ) nasce dopo il 1999 dopo una formazione di 5 anni con la docente di dizione e espressività vocale Ludumilla Martinucci.
Vincitore di vari concorsi nazionali a tema unico dell’accademia d’arte drammatica sezione A.D.I. “Associazione Doppiatori Italiani.”
1° classificato Napoli 2017 –Firenze e Torino 2018 – Milano 2019,
1° premio della fondazione Fernando Pessoa di Lisboa 2010 quale miglior interprete delle poesie di Fernando Pessoa in lingua italiana.
Film come attore. Io Bullo – Santa – Quando i papaveri erano rossi.
Lettore di poesia religiosa : Rai 3 per il Programma “Uomini e profeti “
Docente a Roma al “ Polmone pulsate- salita del Grillo “ di una scuola di interpretazione vocale con corsi specifici e individuali di (dizione, fonetica e espressività vocale ) con l’applicazione del metodo Stanislavskij. Ha anche organizzato concorsi di poesia.

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«La voce di Diego De Nadai è in sé una nobile arte frutto di scavo psicologico e lavoro sui testi. Arte che è un fare per veicolare messaggi, viaggio nel valore semantico delle parole, insieme al suono, al ritmo, alla modellizzazione secondaria. Non la voce è importante, ma “ciò che è nella voce” dice Aristotele. La fonogènica voce di Diego De Nadai, pregnante di pathos, racchiude in sé alcune qualità della musica e riesce a darci la Befindlichkeit, lo stato in luogo della voce; convogliare emozioni e stati d’animo in maniera più semanticamente più ricca di quanto talora faccia la musica stessa. La poesia come Dire originario diventa comunicazione quando si legge o si ascolta la poesia stessa arricchita dall’apporto emotivo di una particolarissima Befindlichkeit. La voce di De Nadai sinesteticamente convoglia nella sensibilità soggettiva dell’ascoltatore la sensiblerie della voce recitante. La voce recitante con il suo apporto emotivo incide sull’alone del significato della parola e sul suo valore semantico, contribuendo a fornire una maggiore e più profonda comprensione del testo poetico.»
(Giorgio Linguaglossa)

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Appunto di Giorgio Linguaglossa

Ci tenevo a postare questa poesia di Fernando Pessoa interpretata da Diego De Nadai. Personaggio di poeta così complesso e sfaccettato che non è possibile racchiudere in una formula. Uno dei principali poeti del novecento, uno dei massimi del modernismo europeo. Oggi mi chiedo chi siano in Italia gli eredi del modernismo europeo, se c’è stato in Italia un modernismo europeo o un movimento poetico ragguagliabile al modernismo in accezione specifica e perché e per quali ragioni in Italia non c’è stato un movimento poetico modernista. Che cosa significa oggi fare in Italia una poesia in qualche modo erede della tradizione del modernismo in un momento storico come quello attuale di fine del postmoderno e quindi di fine del modernismo. Impresa non facile e ricca di sfaccettature che richiede qualche riflessione. La nuova ontologia estetica o fenomenologia del poetico è una cosa che è in rapporto in qualche modo e misura con quella lacuna, con quella mancanza, è come se nella tradizione poetica italiana mancasse un anello, un tassello di congiunzione all’Europa, con il modernismo portoghese ed europeo, è questo il senso profondo di riproporre oggi la lettura di un poeta come Pessoa che impersona la grande crisi della cultura europea degli anni venti e trenta. Anche oggi, come allora, viviamo in un momento di grande crisi della cultura europea. Non è un caso che il poeta più influente degli anni trenta che abbiamo avuto in Italia è stato Vincenzo Cardarelli mentre in Portogallo c’era un certo Fernando Pessoa, la differenza dice tutto. La nuova ontologia estetica invece con la sua ultima produzione: la poetry kitchen assume: «La poesia non è figlia della memoria» perché la storia si è mutata in storialità. L’oblio della memoria (da cui i celebri versi di Brodskij: «La guerra di Troia è finita / chi l’ha vinta non ricordo»), segna l’inizio di una nuova poesia, di una nuova narrativa e di una nuova arte: una poiesis incentrata sulla dimenticanza della memoria e sull’oblio della tradizione.
Qui, in nuce, c’è il punto nevralgico della nuova poesia europea.
Un poeta del Dopo il Novecento non potrà più fruire dell’ausilio della memoria, dovrà imparare a farne a meno. La condizione dell’uomo nell’epoca del neoliberalismo è contrassegnata da questa duplice petitio principii: l’oblio della memoria (e della tradizione) e l’oblio della libertà, Pessoa rientra nella generazione di quell’Europa che si preparava, inconsapevolmente, a militare per la irregimentazione nei regimi illiberali e autoritari, di qui la dissoluzione dell’Io e la disintegrazione  dell’inconscio storico. Pessoa con straordinaria lungimiranza preannuncia tutto ciò.

Forse nessuno in Europa come Pessoa ha avvertito i segnali, i campanelli di allarme che tintinnavano dovunque. In Italia noi, in piena autarchia, abbiamo avuto un Cardarelli e il ritorno all’ordine de “La Ronda”, poca roba davvero. Oggi, l’epoca del neoliberalismo si nutre vampirescamente delle zone grigie dell’inconscio storico, la poiesis, priva di ricerca intellettuale, si riduce ad uno statuto ancillare e auto propositivo. Un poeta, la profondità di un poeta la si misura dalla sua capacità di captare i segnali del proprio tempo che preannunciano il futuro prossimo venturo, di sondare la crisi del proprio tempo. Non si capisce niente di Pessoa e della grande poesia europea di quegli anni se non teniamo presente la crisi dell’Europa: la poesia di Mandel’stam, Eliot, Pessoa, Montale sta lì a dimostrare che alcuni poeti avevano intravisto, molto in anticipo sui propri contemporanei, la crisi di civiltà e di valori della cultura del loro tempo. Non si capisce nulla della poesia di Pessoa se non si tiene bene aperto davanti agli occhi il registro del nichilismo e della dissoluzione dell’Io, quel morbo invisibile che attecchì le menti degli abitanti dell’Europa dagli anni trenta ai quaranta. Non si capisce niente del mondo di oggi se non teniamo bene aperto il quaderno del nichilismo di oggi: la crisi delle democrazie parlamentari dell’Unione Europea e dei suoi cittadini, spaesati, impoveriti e impauriti da una guerra insensata scatenata dalla autocrazia di Mosca. La poesia è tra le arti forse quella più idonea a rappresentare la crisi di un mondo, del nostro mondo…

da Il libro dell’inquietudine:

Mi ero alzato presto e mi attardavo a prepararmi ad esistere [147]

La generazione cui appartengo, quando è nata, ha trovato un mondo sprovvisto di fondamenta per chi abbia cervello e un cuore. Il lavoro di distruzione delle generazioni anteriori aveva fatto in modo che il mondo, sul quale siamo nati, non ci potesse dare nessuna sicurezza sul piano religioso, nessun aiuto sul piano morale, nessuna tranquillità sul piano politico. Siamo nati ormai in piena ansia metafisica, in piena ansia morale, in piena agitazione politica. Ebbre delle formule esteriori, dei meri procedimenti della ragione e della scienza, le generazioni che ci hanno preceduto hanno abbattuto i fondamenti della fede cristiana… [173]

Onto Fernando Pessoa

Fernando Pessoa

Anniversario

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
io ero felice e nessuno era morto.
Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione secolare,
e l’allegria di tutti, e la mia, era giusta come una religione qualsiasi.

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno,
avevo la grande salute di non capire alcunché,
di essere intelligente per quelli della famiglia,
e di non aver le speranze che gli altri avevano in mia vece.
Quando arrivai ad avere speranze, non sapevo più avere speranze.
Quando arrivai a guardare la vita, avevo perso il senso della vita.

Sì, quello che fui di supposto per me stesso,
quello che fui di cuore e famiglia,
quello che fui di veglie di semiprovincia,
quello che fui perché mi amavano e perché ero bambino,
quello che fui – Dio mio!, quello che solo oggi so di essere stato…
Com’è lontano!…
(Nemmeno l’eco…)
Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!

Ciò che oggi sono è come l’umidità nel corridoio in fondo alla casa,
che provoca muffa nelle pareti…
Ciò che oggi sono (e la casa di quelli che mi hanno amato trema attraverso le mie
[lacrime),
ciò che oggi sono è che abbiano venduto la casa,
è che tutti siano morti,
è che io sia sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo…

Al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…
Quale oggetto d’amore è per me quel tempo, come una persona!
Desiderio fisico dell’anima di essere lì un’altra volta,
attraverso un viaggio metafisico e carnale,
con una dualità da me a me…
Mangiare il passato come pane per l’affamato, senza tempo di burro sotto i denti!

Vedo tutto ancora una volta con una nitidezza che mi rende cieco alle cose presenti…
La tavola apparecchiata con dei posti in più, con la porcellana migliore, con dei
[bicchieri in più,
la credenza con molte cose – dolci, frutta, il resto nell’ombra sotto la scansia –,
le vecchie zie, i cugini estranei, e tutto era per me,
al tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno…

Fermati, cuore mio!
Non pensare! Lascia il pensiero alla testa!
Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!
Oggi non compio più gli anni.
Perduro.
I miei giorni si addizionano.
Sarò vecchio quando lo sarò.
Nient’altro.
Rabbia di non aver portato in tasca il passato rubato!

Il tempo in cui festeggiavano il giorno del mio compleanno!…

15 ottobre 1929 Continua a leggere

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Giorgio Linguaglossa, Stanza n. 17, L’occhio di porcellana azzurra, Stanza n. 17/a, Fumo soltanto le Astor con filtro, Commento di Gino Rago sulla morte dell’autore e la fine del modernismo europeo, Una poesia di Anna Achmatova

Foto selfie Jack NicholsonGiorgio Linguaglossa

Stanza n. 17
L’occhio di porcellana azzurra

   per Anna Achmatova

L’occhio di porcellana azzurra di Madame Hanska
osserva il teatro privato del mondo.

Ufficiali degli Ussari con i bottoni di madreperla giocano a carte.
Strauss in un angolo della Radetzkystraße n. 13
scrive la “An der schönen blauen Donau”
per la prossima guerra.
Enceladon porge la mano a Brodskij.

Rodin e Klimt nel salotto, ascoltano le note che
volteggiano nel fumo azzurro.
Una bellissima dama, uscita da un fondale del Tintoretto,
offre agli astanti il fragile germoglio della felicità.

C’è già la decadenza, ma gli ospiti non lo sanno.
Noi non ci siamo,
osserviamo da un binocolo rovesciato,
da dopo il Novecento ciò che avviene all’interno del quadro.
Invisibili e inaccessibili.

Adesso Enceladon porge la mano al Tintoretto.
Io stringo la mano al Tintoretto.
«È un saluto?»,
«No, è un congedo»,
rispondo dal quadro dove mi trovo.

«Mi venga a trovare»,
mi dice il Tintoretto da un altro quadro appeso al muro.
«Ma è già tardi»
– rispondo – «Il custode
deve chiudere il Museo delle ombre».

[Anonimo: Das ist eine wunderbare Melodie! Vielen Dank Strauss für diese einzigartige Musik: es wurde im meinem Herz immer bleiben!]

Foto Edward Honacker

Stanza n. 17/a
Fumo soltanto le Astor con filtro

. . per Anna Achmatova

Il sombrero verde brillante di Enceladon con nastri blu
qualcuno lo aveva spedito via posta
Alla sorella di Tatiana in un pacco decorato
con foglie di acanto ed iris…

Lo vidi poi sui capelli di Anna Achmatova
mentre suonava al pianoforte nel boudoir di Madame Hanska
“Emperor Waltz” di Strauss.
I palazzi ardevano tra i lampi e il fumo delle bombe…

«Sua Altezza può provarlo»,
disse il maggiordomo, lo ripetè in tedesco:
«Durchlaucht können anprobieren!».

L’ampia vetrata ricamata dava sul giardino in fiamme.
«Fumo soltanto le Astor con filtro»,
replicò il giovane tenente.
Piegava la banconota tra le dita.
«Tutto è perduto, tranne l’onore,
o forse anche quello…»,
aggiunse.

«Non so, non saprei perché tutto ciò è avvenuto».
«Chiudi la porta».
«Chiudi sempre la porta alle tue spalle».
«C’è sempre una porta, da qualche parte…
da chiudere».

Gino Rago

Roland Barthes,* nel suo breve ma denso saggio La mort de l’auteur (1968), sancisce, riconoscendola nella sua pienezza, la libertà del lettore di fronte al testo. Anche per me l’autore è morto. Anche per me l’autorità autoriale non esiste.
L’autore non è altro che un luogo di incontro di:

– linguaggio,
– citazioni,
– stratificazioni,
– ripetizioni,
– echi
– referenze,
– interferenze.

Ne consegue che tutto si sposta sul lettore, il quale, senza tenere conto nemmeno dei significati, esercita pienamente la sua libertà di “aprire” e/o di “chiudere” ogni processo di “significato” del testo:

Nella parte più importante di questo saggio che ho subito cercato di far mia Roland Barthes si concentra sulla distinzione fra testi e li distingue tra

– testi realistici (questi, a lungo e ancor oggi dominanti, si limitano a offrire al lettore “significati chiusi”;

– altri testi (fra cui quelli della poetry kitchen) che al contrario dei testi “realistici” sono in grado di incoraggiare, di invitare il lettore ad entrare nel testo in modo che lo stesso sia capace di produrre significati, anche ricorrendo a ciò che Giorgio Linguaglossa nel suo commento ha indicato come «parlato» o il virgolettato (di cui anche lo scrivente fa larghissimo uso).

Il primo tipo di testi, il testo di tipo “realistico”, quasi esclude il lettore perché gli permette unicamente di essere il “consumatore” di un significato fisso.
Ed è il testo “leggibile”.

Il secondo tipo di testi invece mira a trasformare il lettore da “consumatore” a “produttore di significati”. Ed è il testo “plurimo”. Perciò nel mio precedente intervento, riferendomi ai testi della Achmatova, ho parlato di “testi leggibili”; mentre ho parlato a ragion veduta di testi “plurimi” riferendomi alle composizioni poetry kitchen di Giorgio Linguaglossa, composizioni in cui si registra “la mort de l’auteur” secondo il pensiero centrale nel brusio della lingua di Roland Barthes.

E più si accentua “la mort de l’auteur” più il lettore entra nel testo per “scrivere” egli stesso poesia, come dev’essere nella poesia “a significato plurimo”.

*Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968) in Id. Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984

Anna Achmatova

Vivo come il cucù dell’orologio,
non invidio gli uccelli dei boschi tuttavia.
Mi danno carica e io faccio cucù.
Però, lo sai che a un nemico soltanto
un tale destino augurerei. Continua a leggere

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Poesie semi automatiche di Giuseppe Talìa, inediti da Eccomi. Ovunque, Dal Modernismo alla nuova ontologia estetica, Commenti di Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi

Foto residui di tecnica
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È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. Il soggetto del reale, costantemente sballottato da un significante all’altro, si dà solo come effetto della significazione, rinvio continuato, segno della sua costitutiva scissione: il soggetto non si dà, se non come già da sempre barrato. Il soggetto giunge, ma dove?, da dove viene?, dove è diretto? Giuseppe Talia dice: «Eccomi», sono «Ovunque»; ovvero, in nessun luogo.
Poiché intendiamo con segno l’associazione di un significante a un significato, possiamo dire che il segno linguistico è arbitrario. La parola
arbitrarietà non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante; noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha alcun legame naturale.
«Non c’è alcuna significazione che si sostenga se non nel rinvio ad un’altra significazione» (Lacan 1974). Il significato, infatti, non indica la cosa, ma la si-gnificazione. «Ogni volta che parliamo diciamo la cosa, il significabile, tramite il significato. C’è qui un abbaglio, perché è bene chiaro che il linguaggio non è fatto per designare le cose. Ma questo abbaglio è strutturale al linguaggio umano» (Lacan 1974), il senso non è costituito dal rapporto rappresentativo significato-significante, bensì dalla catena significante, dal continuo rimando da un significante all’altro secondo le leggi del linguaggio, che seguono il modello della metonimia e della metafora.
(Giorgio Linguaglossa)

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John Taylor, nella prefazione all’antologia americana di poeti italiani del XXI secolo: How the Trojan War Ended I Don’t Remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), edita da Giorgio Linguaglossa tradotta da Steven Grieco-Rathgeb e pubblicata da Chelsea Editions di New York, coglie l’entità distribuita delle poetiche di vari autori, le questioni di spazio e di tempo, a partire dalla presenza del passato nel presente, “In other words, a sort of dream or imaginative vision combined with wakefulness” (John Taylor).
La linea Modernista, che va da Alfred Prufrock di The waste land (1922) di Eliot  ad Alfredo de Palchi di Sessioni con l’analista (1967), è paragonabile a uno dei torrenti che scorrono nella mitologia sotto la città di Troia e trova continuità e sbocchi nel nuovo Modernismo, o meglio in una nuova ontologia estetica.
Il filone di opposizione radicale dell’ontologia alla poesia di fine secolo Novecento non ritiene più valide le esperienze diaristiche dell’Io.
Dunque, l’ingresso di una nuova situazione stilistica e poetica. Contrapposta alla conservazione faziosa di posizioni istituzionali, come scrive Giorgio Linguaglossa, segue la linea modernista su altri piani problematici circa il complesso meccanismo del pensiero e della parola oggi. Che valore dare e quali le cause della perdita di memoria nell’epoca della velocità, dell’immediatezza, dell’alzheimer condiviso, dello scorrere continuo di dati dove paradossalmente il tempo è diventato inesistente? Quale recupero operare nella vastità del prodotto letterario? Con quale linguaggio, mitologia e storia delle idee? Quale spazio mentale?, come dice John Taylor nella prefazione al volume: «albeit  sometimes bizarrely, fantastically, or comically».

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(Giuseppe Talia, Firenze, 17 settembre 2019)

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Giuseppe Talia

Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor Organizzatore nel Corso di Studi in Scienze della Formazione Primaria, Dipartimento FORLILPSI. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, (1999); Thalìa, (2008); Salumida, (2010); La Musa Last Minute, (2018). Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato – Dieci poeti italiani in Polonia (2011); Come è Finita la Guerra di Troia non Ricordo (2016). Quest’ultima pubblicata, a cura di Giorgio Linguaglossa, in edizione bilingue da Chelsea Edition, New York 2019, con il titolo How the Trojan War Ended I Dont’ Remember. La silloge Thalìa esce in versione bilingue negli Stati Uniti d’America per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A. 2017, con le traduzioni di Nehemiah H. Brown. Ha pubblicato, inoltre, due libri sulla formazione del personale scolastico, L’integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea, Firenze 2013.

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inediti da Eccomi. Ovunque

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Eccomi. Sono di ritorno. Da un lungo viaggio.
Il fuoco nel caminetto. Arde.
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Il fuoco è l’elemento principe. Scioglie e riaggrega.
L’aria, invece, è ovunque. Principe.
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La bottiglia. Principe. Dai monti della Sila.
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Che dire, Germanicus, si parla la lingua.
E la lingua è fuoco e aria.

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*
a Alfredo De Palchi
Chi voleva buttarla in politica rossa e resilienza
Ha cercato di sollevare il solito motivo.
Fascista. Recluso. Per sette anni.
Come una mosca sul pane benzoino.
Libero.
Anche se poi io sono anarchico – mi dicevi.
Se puoi, anarchico.
E io. Io,
Dall’America. Dall’isola di Manhattan.
Ho sposato una donna ebrea.
Fu dopo che mi buttai nella Senna
E ne venni fuori
E c’è chi ancora la butta in politica rosa e resistenza.
Dimenticandoti nel fosso, con i calzoni bagnati
un fucile in mano e l’analista.
*
Dai, divertiamoci un po’, Germanicus.
Non trovi anche tu che se togliessi una virgola.
Dai, divertiamoci un po’ Germanicus.
Mi cambia tutto il senso. Bullo. Nel secondo caso.
.
Che dire di questa pandemia? Praticamente,
In epoca di pandemia, non devi uscire, o almeno
Il meno possibile; lo puoi incontrare ovunque;
lo trovi ovunque.
Non trovi anche tu, che questo vestito grafico
Non devi meno ovunque ovunque, mi stia bene?
.
E’ tempo d’affari online altro che vendita al dettaglio.
L’immagine sfiora appena i fili del cablaggio.
Metti i Ferragnez. Un polinomio frastico.
E fratello, o frate o fraté, dilla come vuoi;
Se non lanci un # o sorella, o sora, o soré;
Se non azzardi, come Magrelli con la Minetti.
Solo che Magrelli ci ha giocato facile. L’ha buttata sullo scandalo.
E sulle lodi delle bocce.
.
No, no, io (eccomi) dico una cosa diversa.
.
Massimo Recalcati. Ti ho inviato i libri. Pre-pandemia.
E nemmeno un grazie. Ora, invece, ti indirizzo
Questa nuova poetry kitchen. Come una planetaria
Impasta e sminuzza gli elementi di disturbo, lalalangue.
La- la -langue la tua risposta Massimo.
*
Nunzio Pino vorrebbe che scrivessi
Una riscrittura delle Vocali vestite, invece che vissute.
Buona idea. Penso. A come Armani V come Versace.
Ma toh guarda, la A è la V capovolta.
*
Andare oltre il viaggio.
L’alluce sul capezzolo della venere.
Gli anelli al collo Kaian.
Le scarpe di svolta.
Andare oltre il viaggio.
Oltre il collo allungato e le scarpe.
*
Maitresse miracolante.
Adoro. La Maitresse.
Il capo curvo sui frammenti di ricordi.
.
Che si mangia? Ti voglio bene.
.
Non voglio venire più qui.
Me ne sto a casa mia.
.
Ma tu sei a casa tua.
.
E’ casa mia questa? E chi lo dice?
.
Te lo dico io.
.
E tu che ne sai?
.
Sono tuo figlio.
.
Ah, per questo lo sai?
.
Io da ragazza facevo la sarta.
.
Poi sono diventata maestra.
*
L’eleganza di Dio. La indossi ovunque.
La vedi ovunque.
.

La gallina Nanin. Non avevo mai scritto prima
D’ora Una poesia sulla gallina o o almeno con la gallina.
La gallina di Tosi. Anche qui, che bel problema.
Dei due colori dello sfondo è stato già detto. La compagine del momento.
Poco importa il momento ma i due colori dello sfondo.
Comunque.
Manca una v e scartando la c e la m (…)
La gallina Nanin. E’ perfetta poetry kitchen- Non avevo mai scritto prima a
Dora, nemmeno del piumaggio, o forse sì (nota D’ora e Dora).
Il nero sta bene comunque e comunque, ma mi ripeto.
Scrivo di getto. Quanti minuti tra un verso e l’altro? Controlla pure.
Perdo tempo nel correggere. Ma ti assicuro è scrittura di getto.
È roba fresca (aggiunto in seguito).
.
Ora mi riposo e prendo fiato. Sigaretta? Allora, ecco (o eccomi)
La sigaretta, Ippolito e il fond d’écran.
.
La gallina, secondo me.
E’ bella, Nanin.

Commenti

Trovo molto interessante questa scrittura semi meccanica di Giuseppe Talia. Disturbata da scariche elettriche (perdite di memoria nel linguaggio), ne guadagna la creatività che “salda” creando nuova composizione del discorso. Qui trovano posto vocali e colori, vien da dire; per la gioia di chi ha apprezzato quel suo lavoro.

(Lucio Mayoor Tosi)

Ti ringrazio, Lucio, per la semi meccanica disturbata che salda il discorso. Ti voglio dire che la gallina Nanin e la poetry kitchen li trovo geniali.

(Giuseppe Talia)

La scrittura semi meccanica di Giuseppe Talia segna un nuovo sviluppo della poetry kitchen. Non la libertà dell’inconscio, che non può mai essere accettabile, ma una semi libertà, una sorta di arresti domiciliari del discorso poetico che oscilla tra il soggetto del conscio e il soggetto dell’inconscio, come due discorsi che si intersecano e si ostacolano, dove ciascuno va per conto proprio. Il risultato è una sorta di discorso poetico con le proposizioni e le mini proposizioni affette da zoppìa, claudicanti, sghembe, storte… Guiseppe Talìa è alle prese con il tentativo di raffigurare quel «territorio straniero interno» (definizione di Freud) che viene ripreso da Lacan con il neologismo estimità (parola che include sia esteriorità che intimità) e contrassegna propriamente l‘alterità intima nel soggetto. Il nastro di Möbius, enigmatica figura topologica composta da un solo lato e un solo bordo,diviene metafora dell’extimité, volto a rappresentare la disgregazione dei bordi e dei confini che raffigurano i confini tra il territorio esterno e quello interno. E allora, come fare per raffigurare nel campo del linguaggio questa estimità delle cose? E, al contempo, questa intimità delle cose? Quale sintassi adoperare, quale topologia? Con quale soggetto?
(Giorgio Linguaglossa)

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Annamaria De Pietro Quartine scelte – da Rettangoli in cerca di un pi greco (Marco Saya, Milano, 2017) – Con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Gif Hell is other people

L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno.

Annamaria De Pietro è nata a Napoli. Vive a Milano. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005). Nel 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Le ultime pubblicazioni sono Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Primo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2015) e Rettangoli in cerca di un pi greco. Il Secondo Libro delle Quartine (Marco Saya Edizioni, Milano 2017).

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

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Stanotte cadono le stelle. Una
cada nel tuo bicchiere come ghiaccio

L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento,

che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.»

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Andrea Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo e la fine del Moderno. Annamaria De Pietro raddrizza l’endecasillabo, restaura la quartina rimata (ABBA – ABAB), e da lì parte per una scrittura elegantemente sillabico endecasillabica. In modo incredibile, qui c’è la gioia della rima, la gioia del solfeggio e del cantato e del cantabile. E non c’è dubbio che la De Pietro sia il poeta, tra quelli che io ho letto, che impiega l’endecasillabo in modo impareggiabile.  È il suo modo di rispondere alla crisi della poesia: la risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba o a percussioni da contrabbasso… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, e così l’epoca delle retroguardie. E Annamaria ne ha preso atto.

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che è stato il prodotto poetico del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi, paradossalmente, ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque, è sufficiente una buona tromba di Eustachio e un buon paio di occhiali. La poesia della De Pietro assomiglia alla barchetta di carta che galleggia tra i flutti della materia equorea, «è un soffermarsi presso la linea», per dirla con Pier Aldo Rovatti.

annamaria de pietro

annamaria de pietro

Poesie di Annamaria De Pietro

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

 

L’oltre è un soffermarsi presso la linea:
visualizzarne in altro modo l’intorno. Identificare,
costruire, attraverso l’uso che facciamo del linguaggio,
uno spazio di gioco, un’abitabilità.
Mettersi in ascolto non di un «canto» sepolto e originario,
bensì di un «groviglio» di significati…

(Pier Aldo Rovatti) Continua a leggere

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Analisi dei primi quattro versi di una poesia di Mario Gabriele – Quesito di Donatella Costantina Giancaspero: Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole? Risposte di Gabriele Pepe, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Edda Conte, Anna Ventura  – Crisi della poesia italiana post-montaliana – Il «Grande Progetto» e la mancata riforma della poesia italiana del secondo Novecento. Una Poesia di Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi e Laura Canciani 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Giorgio Linguaglossa
19 dicembre 2017 alle 8:59

Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo, una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).

Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.

43

Il tempo mise in allarme le allodole.
Caddero èmbrici e foglie.
Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
senza la sirena e il cane Wolf.

Un Giudice si fece largo tra la folla,
lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
– Non c’è salvezza per nessuno,
né per la rosa, né per la viola -,
concluse il dicitore alla fine del processo.

Matius oltrepassò il fiume Joaquin
mantenendo la promessa,
poi salì sul monte Annapurna
a guardare la tempesta.

Un concertista si fece avanti
suonando l’Inverno di Vivaldi,
spandendo l’ombra sopra i girasoli.

Appassì il campo germinato.
Tornarono mattino e sera
sulle città dell’anima.
Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
tornato con le rondini sul davanzale.
Restare a casa la sera,
calda o fresca che sia la stanza,
è trascorrere le ore in un battito d’ala.

Si spopolò il borgo.
Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
Chi andò oltre l’arcobaleno
portò via l’anima imperfetta.

Nostra fu la sera discesa dal monte
a zittire il fischio delle serpi,
il canto dei balestrucci.

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
la frusta che schiocca e s’attorciglia.

Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.

Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. Non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. La traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).

L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita

Chiamammo Virginia
perché allontanasse i cani
dagli ulivi impauriti.

 

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 11:16

Caro Giorgio,

leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”. Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia.

Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre.

Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione. Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.

 Edda Conte

19 dicembre 2017 alle 12:08

E’ una bella risposta ,questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei versi di Mario Gabriele. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.

Giorgio Linguaglossa

19 dicembre 2017 alle 12:36

La «nuova ontologia estetica» ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…

In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica… Intendo dire che una aporia ha attecchito la poesia italiana di questi ultimi decenni: che la poesia debba essere comunicazione di un quantum di comunicabile. Concetto errato, non vi è un quantum stabilito che si può comunicare, anzi, la poesia che contingenta un quantum di comunicabilità cade tutta intera nella comunicazione, diventa un copia e incolla della comunicazione mediatica, di qui la pseudo-poesia di oggi. Occorre, quindi, rimettere la comunicazione al suo posto. Questo concetto va bene quando si scrive un articolo di giornale o quando si fa «chiacchiera» da salotto o da bar dello spot ma non può andare bene quando si scrive una poesia. Il distinguo mi sembra semplice, no?

Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:32

1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”

  1. Osip Mandel’štam

2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò mai (…) sono nata portata (…)”

Marina Cvetaeva

3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…

4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/ anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”

Giacinto Scelsi

Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith, passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.

 Gino Rago

19 dicembre 2017 alle 17:55

Brano tratto da Il marinaio di Fernando Pessoa:

” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.

(…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)

(…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO Ritagli di carta e cielo - cover (2)

Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica

Donatella Costantina Giancaspero

19 dicembre 2017 alle 19:51

caro Gino Rago,

questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. È una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.

Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso, qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –

E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?

Mario M. Gabriele

19 dicembre 2017 alle 23:19

Cara Donatella,

sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante.

Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.

Donatella Costantina Giancaspero

20 dicembre 2017 alle 13:53

Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:

Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?

Risposta:

La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:

1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.

2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.

Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dal contemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi…   Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca”  dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.

Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici. Grazie!

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 9:32

Il lato debole della nuova ontologia estetica

 Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.

Vado subito al punto centrale.

A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.

È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».

È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.

Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.

Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…

In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi… E arriviamo ai giorni nostri…

 

Anna Ventura

20 dicembre 2017 alle 10:39

Caro Giorgio,

già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone” (parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare. Credo che siano le capacità letterarie dei singoli, se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione. Saluti dalle truppe cammellate, pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 10:49

Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:

 (Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 11:41

Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa:

Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.

Giorgio Linguaglossa

20 dicembre 2017 alle 15:57

Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»

 Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni

Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

 Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Non bisogna dimenticare la riproposizione di un discorso lirico aggiornato da parte del lucano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:i vincoli dello spazio – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.

Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo ma pur sempre entro la linea del modernismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna.

È doveroso segnalare che in questi ultimi anni ci sono state altre figure importanti che ruotano intorno alla «nuova ontologia estetica»: Mario M. Gabriele con Ritratto di Signora (2015), L’erba di Stonehenge (2016)  In viaggio con Godot (2017), Antonio Sagredo con Capricci (2016), e poi Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De Robertis, Donatella Costantina Giancaspero, Francesca Dono, Giuseppe Talia, Edith Dzieduszycka.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici della «cronaca mediatica». La composizione adotta la veste di commento. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «di visione del mondo»; il risultato è che la micrologia convive e collima con il solipsismo asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.

Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

1] T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.

Lucio Mayoor Tosi

20 dicembre 2017 alle 23:38

Di Maio

«Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
in meno di un istante».

Glielo disse ruotando attorno al vassoio
nel mezzo di una stanza.
«Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
Poi l’altro, poi l’altro».

«Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».
Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
Entra nell’ascensore.

Posto qui una poesia inedita di
Laura Canciani.

                                                        a a.s.

Questa volta saliamo sul ring.
Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
– eresiarca di un fuoco baro –
io, con vestaglietta da cucina
e un occhio già ferito
da lama spinta:
potrei indossarle tutte le scarpette rosse
che girano vive tra luci e pareti
disattente.

Round primo:
quale arbitrocritico non esulta per il colpo
“Orfeo e Euridice”?

Round secondo:
creami adesso, qui, il più piccolo
fiore rosso…

Un colpo basso, a testa bassa, feroce
contro le regole
non viene perdonato.

La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
in un ridere di onda d’urto
che disfa persino l’invisibilità.

Provo dolore consapevole nel prodigio
del silenzio
ma sono viva e da viva mi giunge una voce
strana, anglosassone, elegante, come crudele.
«Liberati»
«Liberarmi, da che cosa?»
«Tu lo sai»
«Sì, liberarmi da tutta la zavorra
che impedisce la santità».

Commento estemporaneo di Giorgio Linguaglossa

Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…

Gino Rago
18 dicembre alle 18.30

Dopo Lilith
(Dio presenta Eva ad Adamo)

“(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
ma non superare la soglia.
Stai molto attento a non far piangere questa donna.
Io conto una ad una le sue lacrime.

Questa donna esce
dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
per essere pestata
(né dalla tua testa
per sentirsi superiore).

Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
Ma dal lato del tuo cuore.
Per essere amata. Questo ti comando.(…)”

Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
Un sibilo invade il giardino di gigli.

 

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Luigi Celi: Appunti sul racconto/poesia LORO di Edith Dzieduszycka, sulla interpretazione psicofilosofica del poemetto di Giorgio Linguaglossa e sulla Nuova Ontologia Estetica

foto cry me a river

devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi – Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE

 Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avermi invitato più volte ad intervenire sulla rivista, ma motivi personali mi hanno impedito finora di pronunziarmi sul racconto poetico Loro di Edith Dzieduszycka. Scrivo adesso, senza piaggeria, riconoscendo molti meriti all’autrice. Il testo scritto da Edith mi piace; soprattutto mi piace come racconto. È un sogno ad occhi aperti, un po’ kafkiano, incalzante quanto basta, coinvolgente e distaccato quanto basta! Lo stile asciutto, puntuto, tagliente, le frasi o i versi corti calzano a pennello con i criteri della NOE. Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido. l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla. Una caratteristica della prosa e della poesia di Edith è l’ironia.

L’io dice a se stesso:

“Ma devo potermi vedere allo specchio senza batter ciglio guardarmi dritto negli occhi e dirmi; ‘Sei stato il più bravo. Il più coraggioso. Il Più’ ”. Si tratta in fin dei conti, e Linguaglossa in ciò ha ragione, di un attacco dissolutivo alla pletoricità dell’ “Io”; una messa in mora del suo presunto cartesiano primato, in nome, in questo caso, forse, delle conquiste psicoanalitiche. Linguaglossa non fa riferimento al Super io, che è una sorta di alter ego, spesso in dissidio con le altre strutture della psiche; egli tuttavia dà un’interpretazione psicoanalitica molto suggestiva, oscillando tra Freud e Lacan. Sulla scia delle sua scelta ermeneutica vorrei dire la mia.

L’“Io”, il suo presunto primato,

nel racconto della Dzieduszycka, esplode nello scheggiarsi della sua immagine in uno sciame di maschere e demoni persecutori. È ironica, la Dzieduszycka, di una ironia raggelata. L’ironia è un modo per relativizzare, velare e depistare. Poteva essere, Edith, più coinvolta e coinvolgente? Non lo so. Ma a volte occorre anestetizzare i propri ricordi, soprattutto se dolorosi; è necessario dare veste letteraria o teatrale, trasformare in personae, in maschere, le proprie memorie infantili, i timori, le angosce sopite. Mentre scrivo, penso all’amico Salvatore Martino, che non si è sentito coinvolto leggendo LORO, e mi viene da ribadire che si tratta di un testo in prosa, non di una poesia tout court, di una messa in scena attuata con brechtiano distacco. Salvatore Martino lo sa: fa bene alla scrittura e anche al teatro espressionista, che pure mirano al coinvolgimento, tenere un certo distacco, perché sia possibile capire non soltanto patire.

Le considerazioni di Giorgio, nel suo commento “psicofilosofico”, mi sono sembrate quanto mai stimolanti. Aggiungerei che l’“IO può essere assunto in tanti modi, come “IO” generico, io sociale, io borghese, aristocratico, proletario  oppure come l’“IO” struttura della Psiche, e certo forse, dietro quest’“IO”, si nasconde l’io individuale, il piccolo io che ha a che fare con il corpo, con la sofferenza e il piacere, con il desiderio e con il senso di colpa…. Ma quanti “io” esistono nella fenomenologia del soggetto? L’io è un camaleonte, è mercuriale, sguscia quando lo si vuole afferrare, definire. A me pare, però che noi complichiamo le cose, al fondo di tutto il racconto, ad essere assediato dai lemuri o dai demoni del “Super io persecutorio” (Freud) e l’io reale o anch’esso fantasmatico di chi scrive, di Edith. Non vedrei tanto nei fantasmi che ossessionano l’io, il segno della ritorsione del desiderio generico dell’io-corpo che, non conseguendo l’“oggetto”, scaricherebbe la propria energia su se stesso, come un boomerang. Certo ciò che è rappresentato in scena è il conflitto tra Es, io e super io, ma la battaglia vera si compie non nella sfera strutturale, ma nel regno dell’individuale, del corpo e delle relazioni concrete.

foto volto con mano

l’“IO” si guarda allo specchio, quasi per accertare la propria identità o essere sicuro ancora di esistere; è spocchioso, ma assediato e insidiato vacilla…

Si può dunque proseguire sul doppio binario dell’analisi strutturale e dell’analitica esistenziale. Mi permetto adesso di fare una digressione un po’ scolastica. Il Super io è, secondo Freud, una struttura psichica, che si costituisce nell’infanzia, come introiettato divieto dell’incesto. Esso può divenire persecutorio perché si è formato nei conflitti familiari, quando il bambino che desidera la madre, arriva ad allucinare la soppressione fisica del padre; per questa fantasia di amore e morte si genera il senso di colpa o si costituisce la coscienza etica, come introiezione super egoica del divieto dell’incesto. La bambina, ovviamente – secondo questa lettura mitico-simbolica (l’Edipo è un mito) – desidera il padre e vorrebbe sopprimere la madre. È invalso, a questo proposito, parlare di Complesso di Elettra, come variante al femminile del Complesso di Edipo. Se ritorniamo allo schema psicoanalitico freudiano, accade che il Super io, introiettando il divieto, può divenire via via più rigido, e quanto più si irrigidisce tanto più continua l’azione repressiva dei desideri e delle pulsioni, amplificando le suggestioni e le distruttività mnesiche della colpevolezza (delle colpe reali o immaginarie) producendo fobie, sintomi d’ansia, disturbi della personalità e frantumate maschere persecutorie. L’io è per altro, in questo schema, una “struttura di mediazione” tra le pulsioni dell’inconscio e le istanze etico- sociali del Super io subcosciente. La funzione sociale del Super io non è del tutto negativa: essa è funzionale a “sublimare” l’istinto, a rendere disponibile l’ “energia psichica”, la libido, per fini culturali, civili, sociali. Piuttosto quando l’io non è più in grado di mediare tra gli istinti e le superiori istanze superegoiche dell’etica e del sociale allora si può entrare nella patologia. Non bisognerebbe demonizzare né l’inconscio, né il super io, né l’io psicologici, occorre solo considerarli nelle loro interattive funzioni, nella fisiologia e nella patologia del loro agire.

Questa chiave interpretativa del testo di Edith Dzieduszycka, può essere utile ad entrare in dialogo con quella sempre molto interessante di Giorgio.

Ci sono diverse possibilità ermeneutiche. Nietzsche sosteneva che “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.

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Il linguaggio sa di metallo che è stato fuso e che ora, riposto nel ghiaccio, può essere presentato nel suo esito duro e traslucido

Forse la prendo alla lontana, ma si può interpretare anche il racconto di Edith

non guardando più solo al super io quanto piuttosto alla svolta subita dalla psicoanalisi freudiana dopo il 1920, con Al di là del principio del piacere. Freud studiando le “nevrosi traumatiche”, scopre che gli ammalati di questa sindrome – generalmente persone rimaste sotto le macerie di un bombardamento durante la prima guerra mondiale – tornavano continuamente e coscientemente sui propri traumi, non riuscivano a staccarsene. La sua scoperta rischiava di mandare in aria la sua teoria del rimosso e della necessità dell’anamnesi. Non erano esperienze inconsce, dimenticate, da riportare alla coscienza, a tormentare le persone affette da questo tipo di nevrosi. Il trauma può essere più o meno grave, ma se ha provocato la nevrosi traumatica – quale autocostrizione psichica tesa a rivisitare ossessivamente gli eventi dolorosi, traumatici, in una condotta che egli definisce “coazione a ripetere” – allora il soggetto, pur ricordando i motivi del suo trauma, non riesce a liberarsi; egli è come dominato da thanatos, una forza, una spinta interiore distruttiva, che Freud chiama anche “principio di morte” per opporlo al “principio del piacere”.

Thanatos è la seconda istanza pulsionale/funzionale, dopo Eros,

ad informare la psiche nelle interpretazioni freudiane dopo il 1920. Il caso rilevatore è stato quello di Hans, il nipotino di Freud, il cui papà è andato in guerra. Nel gioco del rocchetto, Freud individua la “coazione a ripetere”: il bambino lancia un gomitolo urlando “Fort”, cioè “via”, così agendo sembra rispondere a una necessità interna coattiva, mentre è più sereno nel riattirarlo a sé, quando dice “Da”, che vuol dire “qui”. Hans, rende attivo ciò che ha passivamente subito e che lo ha fatto soffrire. Freud dirà che il rocchetto sta per il padre di Hans, e che l’atto di scagliarlo lontano riproduce attivamente il trauma subito. Hans mette in scena nel suo gioco il momento doloroso, riattiva il distacco, mentre il momento libidico, gratificante, atto a compensare la sofferenza, passa in secondo piano. Ora Edith Dzieduszycka ha anche lei subito un doppio trauma: ci ha più volte raccontato di  aver perduto il padre, per colpa dei collaborazionisti di Vichy e dei nazisti e, per un certo tempo, di aver perso anche la madre, che fu incarcerata. La messa in scena teatralizzata del racconto LORO, è solo un modo di configurare, velare e sublimare una storia di persecuzione realmente subita. L’abilità di chi scrive è nel rendere meno drammatica la elaborazione dei ricordi per nulla rimossi, i pensieri dolorosi di cui è rimasta prigioniera, non del tutto  metabolizzati. Nella mia disamina critica di Cellule – un altro libro di Edith, pubblicata sull’Ombra  – ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione.

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ho utilizzato la categoria ermeneutica del tragico, che trova anche adesso, in questo racconto poetico, una ulteriore legittimazione

II

La svolta modernista della poesia del novecento

 Il racconto LORO di Edith Dzieduszycka è stato riscritto, su suggerimento di Giorgio Linguaglossa, in forma-poesia, con gli accapo opportuni. Egli ha avuto anche il merito di rendere con ciò visibilmente attuale l’ironica frase, che la poesia moderna non sia altro che “l’arte di andare accapo”. Ed è dunque abilissimo, il critico, con questo coup de théâtre, nel voler dimostrare a suo modo che non c’è alcuna differenza tra prosa e poesia. L’assunto, con molte limitazioni, ha un suo fondamento storico nella svolta modernista della poesia del novecento. Il modernismo ebbe tra i suoi esponenti personalità di grande livello Ezra Pound, T. S. Eliot, Virginia Woolf, J. Joyce, Ernest Hemingway, F. Fitzgerald, Henry Roth, e tra i suoi affini Kafka, Céline, Emilio Gadda, Luigi Pirandello. Nel modernismo il razionalismo coesiste con l’empirismo, la sensibilità reclama nei versi concretezza, prossimità alle cose.

 Antonio Sagredo vuole spostare il baricentro della «nuova ontologia estetica»

Nei commenti a LORO della Dzieduszycka c’è un intervento di Antonio Sagredo che, con mio grande stupore, critica uno dei maestri del modernismo, un poeta la cui importanza è universalmente riconosciuta, T. S. Eliot. Sembrerebbe aver poco a che fare, quest’intervento, con il testo di Edith, ma nella sua eccentricità, non so quanto intenzionalmente, Sagredo solleva alcune questioni che hanno attinenza con la NOE. A questo punto abbandono il discorso su LORO della Dzieduszycka per affrontare proprio alcune questioni estetiche e filosofiche che vengono sollevate, anche nei commenti sull’Ombra delle parole. L’attacco a Eliot di Sagredo forse tende, come fa spesso lui, a spostare il baricentro ermeneutico della NOE, da una linea più filo-occidentale, ad una che faccia propria i territori più misteriosi della poesia slava. Egli cita, però, anche, oltre a Chlebnikov e Majakovskj,  poeti occidentali  di grandissimo livello come Paul Valéry e Hart Crane, ma lo fa sempre per sminuire Eliot, per ridurlo a un poeta “che rappresenterebbe il marcio e il malato della poesia europea”. Nella storia della letteratura mondiale, ci sono autori di altissima rilevanza e in genere non si dovrebbero fare graduatorie; nella poesia russa, come non apprezzare poeti del livello di Puskin, Osip Mandel’stam, Bella Achmadulina, Anna Achmatova, V. Majakovskj…, esaltare gli uni non ci deve portare a disprezzare gli altri.

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Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico

Vorrei spendere alcune parole su Eliot,

su come la sua poesia possa interessarci ancora. Eliot, nonostante il suo conservatorismo politico, fu teorico del modernismo post illuminista e post romantico. Egli sapeva gestire in maniera intensa il linguaggio alto con cadenze e ritmi di grande musicalità. Nei Four Quartets assume la tecnica del contrappunto, mutuandola da Beethoven e da Berlioz. Eliot comprese che occorreva fondere il linguaggio alto con il linguaggio basso, più prosastico, ricorrendo, tra l’altro, ai celebri “correlativi oggettivi”, che fanno palpitare di vita poetica le cose. Non dimentichiamo che in giovinezza era stato attratto dal simbolismo e più tardi dall’imagismo poundiano. Nei versi delle sue opere maggiori, la ragione ottiene il pieno riconoscimento dei suoi diritti; l’“io” è decentrato ed è un “io”plurale… cioè vengono convocati altri “io” nei suoi versi come ad un magnifico simposio, i pensatori del passato e del presente – Eraclito, Platone, Agostino, Tommaso, Bergson, F. H. Bradly, B. Russel, E. Husserl, J. Maritain e molti altri – e poi i grandi poeti. Eliot assume, mutandoli di segno, i versi dei suoi maestri e compagni di viaggio: Omero, Virgilio, gli stilnovisti, Dante, Shakespeare, i metafisici inglesi del XVII secolo; ha familiarità con i moderni e i contemporanei, J. Laforgue, Milton, Yeats, Valery, Auden, Joyce, Poe, Pound; sa attingere, senza darlo a vedere, dai Vangeli, soprattutto da Giovanni, dalle Epistole paoline e dai Profeti dell’Antico Testamento; da Ezechiele ricava tra l’altro il titolo del suo poema, La terra desolata (che non c’entra nulla con “terra marcia”); prende spunti, da Geremia, da Isaia e dai testi biblici sapienziali; utilizza i mistici come San Giovanni della Croce… Aleggia nella sua poesia il linguaggio mitico, le leggende nordiche, il Graal, parla di Adone, di Attis, di Osiride, innesta la storia antica nell’attualità, per cui un prototipo dell’uomo d’affari e della finanza del suo tempo, Stetson, può combattere a Milazzo durante la prima guerra punica! Aperto alle culture orientali, al buddhismo e all’induismo, esprime drammatica consapevolezza della deriva dell’Occidente, della desolazione della guerra. I suoi versi sono come una fiamma che si alimenta di una materia poetica sempre viva, con citazioni e prestiti, anche nascosti… Se non basta la vastità degli interessi e l’ampiezza della sua prospettiva a darmi ragione, non serve ovviamente neppure il premio Nobel a confermarne l’eccezionale livello, né il numero enorme di critici che su scala mondiale si sono occupati di lui. Direi, in ultimo, che l’importanza e la grandezza di un poeta dipendono non solo dal gusto di questa o quella persona che  li legge, ma dall’influenza che la sua poesia ha esercitato e continua ad esercitare sul piano  planetario.

Onto T. S. Eliot

La NOE deve molto ad Eliot e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea

    La NOE deve molto ad Eliot

e alla svolta rivoluzionaria del Modernismo nella poesia contemporanea.  Linguaglossa lo ha compreso, si vede dalla sua citazione di Eliot, negli interventi critici a LORO di Edith, però, egli è subito contraddetto e con virulenza dall’amico Antonio Sagredo, troppo aggressivo, ingeneroso verso il poeta anglo americano.

La rivoluzione modernista non è ancora compiuta che già incalza la tendenza dissolutiva, di cui pur sempre essa era latrice per il doppio movimento verso la profondità e verso la superficie, verso la poesia e verso la prosa. L’unica possibilità di salvezza è l’equilibrio del doppio registro poetico prosastico. Non si può negare la deriva prosastica attuale, basata sull’imitazione delle traduzioni in prosa di poeti stranieri che spesso hanno scritto in rima; l’assunzione dei linguaggi dei traduttori, che non possono rendere la qualità originaria dei poeti stranieri, non è un’acquisizione positiva. Suono e senso dovrebbero concorrere; anche il nonsense vale per il suono, non in sé. Il linguaggio di certa poesia minimalista, sciatto, meramente enumerativo, vicino agli elenchi telefonici, l’eccessiva ricerca della spigolosità del verso, le cacofonie più o meno intenzionali, la rinuncia programmatica alla metrica, o anche solo al ritmo o all’unità formale del testo, pur nell’uso congruo del frammento, sono elementi di un nuova estetica che è come un tavolo che si regge solo su una gamba. Una differenza tra prosa e poesia bisogna conservarla, lo dice chi ha pubblicato come sua prima opera un prosimetro – L’Uno e il suo doppio (Bulzoni, Roma, 1997) – che quindi non ha rifiutato mai per partito preso la commistione dei “generi letterari”, evidentemente tramontati nella loro rigida separatezza…

  Una tesi da cui dissento, è che la poesia si generi ex nihilo.

Secondo il mio modesto parere, ciò non avviene, se non per metafora. Ogni opera poetica nasce indubbiamente dalla creatività del poeta ma è risultato di un lungo percorso personale e storico collettivo. Spesso i rimandi, i prestiti, le influenze sono determinanti per comprendere e valutare un testo di poesia.

In ultimo – ma forse ho capito male e vorrei che il mio dubbio mi fosse chiarito – non sono convinto che la battaglia per una Nuova Ontologia Estetica debba passare per l’accettazione, piuttosto che per la critica del nihilismo. Amerei trovare il senso “ontologico” della poesia piuttosto che il suo “niente” nei dibattiti dell’Ombra. “Ontos” sta per essere, logos sta per discorso, mentre mi pare che si intenda bypassare la differenza tra Essere e Nulla, tra Nulla e niente, tra pieno e vuoto, tra ontologia e nihilismo… La cosa è pericolosa, già lo ha visto Nietzsche – “Il nihilismo è il più inquietante dei visitatori, sta fermo davanti alle porte”… Figuriamoci se gliele apriamo! Può accaderci di essere invasi irrimediabilmente dai lemuri del racconto poetico di Edith Dzieduszycka. Faccio notare umilmente che certi démoni non si possono evocare, senza pagarne nel tempo le conseguenze e su più piani. Quali? Per esempio, se non si accetta la differenza tra essere e nulla è impossibile fondare un’etica. Vi pare poco? Due guerre mondiali, i Campi di Sterminio, i Gulag, i morti per fame a causa del neoimperialismo economico, il terrorismo internazionale e le emigrazioni planetarie sono esempi che non c’è stata né ci sarà mai alcuna nietzschiana “Trasmutazione dei valori”; che la vera “Etica del risentimento” è quello degli ignavi che non fanno niente per gli altri, e svalutano chi si impegna, quella di chi, dopo aver affamato e sfruttato interi continenti, si permette di condannarne la rabbia, di non aprirsi agli ultimi della terra, agli espropriati di ogni umana dignità. Questo è nihilismo. Il nihilismo è insito nelle ideologie laiche assolutizzate del nazismo, del fascismo. Il nihilismo è la porta della guerra e di ogni abuso, di ogni discriminazione e violenza perché elimina ogni differenza assiologica, oltre che ontologica.

  L’identificazione tra essere e nulla

è stata fatta, su  altri piani dai mistici, anche sotto l’influsso della teologia apofantica neoplatonica, perché si voleva dire che di Dio (dell’Essere assoluto) non è possibile alcuna conoscenza essenziale. Egli è al di sopra di ogni nostra possibilità di definirlo e conoscerlo, tranne che per analogie, per cui il suo Essere è oltre l’essere, ed è per noi come Nulla. Di fronte a Dio i mistici si ponevano con interrogante umiltà, in meditante silenzio, in attesa fiduciosa per un ascolto interiore e profondo, accompagnato dall’impegno alla conversione e all’amore. Il nihilismo è tutt’altra cosa. Aggiungo che si potrebbe scrivere una storia del concetto di Nulla e si vedrebbe come la questione del nihilismo è solo marginale, rispetto ad essa. Parlando delle stesse cose e con le stesse parole, può succedere di trovarsi in ambiti epistemici o ermeneutici totalmente lontani; tuttavia, dell’Essere e dell’ente, di ciò che permane o che diviene è sempre il caso di dibattere, non solo in relazione alla poesia. Per i poeti, certo, è più importante scrivere versi, ma chissà se saranno in grado, meglio dei filosofi, che hanno interrotto i loro sentieri per carenza di linguaggio, di interrogare la parola sulla grandezza e la miseria dell’ente.   

  Perché l’ente e non il nulla?

Ciò che si spalanca, nella contingenza e finitezza, è la costitutiva mancanza di “ragion d’essere” degli esistenti (Leibniz). Perché l’ente e non il nulla? Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?  L’ontica costitutiva indigenza degli enti – si nasce e si muore, e qui sorge la questione del fondo vuoto dell’esserci, richiede logicamente ed esistenzialmente una risposta. L’indigenza ontica è come una domanda inscritta nella carne della natura e nella storia. Il vuoto dell’ente si fa cosciente a volte nell’uomo, ma anche se non è consapevole di sé, si esprime tuttavia come angoscia, disperazione o speranza e ci sospinge verso il Nulla o verso il Pleroma. Noi viviamo proprio in questo “vuoto” – sunyata , in questa infinita apertura del finito (dicono i buddhisti), e potremmo non occasionalmente come Leopardi, ma sempre ritrovarci dietro la siepe dell’infinito. Il desiderio, il tendere, la dynamis segnano costitutivamente ogni ontica ed essenziale indigenza dell’ente, perché l’ente è e non-è, l’Essere invece è, non ha origine e fine, in tal senso è metafisicamente Infinito. Non è l’Essere che sta oltre l’ente, è l’ente che abita nell’Essere ed è l’Essere che abita nell’ente, che lo origina, lo sostiene e lo trascende. Quale sia il Fondo misterioso di questa compenetrazione, che uccide e risuscita, non credo che possa essere raggiunto con la sola ragione; solo un Dio può rivelarcelo. L’ente viaggia nell’Essere come nel tempo interno; nel tempo esterno l’ente è divenire: miscuglio di vita e morte. 

Chi non si appaga del finito, parla del nulla, perché ha  bisogno di Infinito.

Di queste suggestioni e possibilità voglio ringraziare tutti gli amici dell’Ombra, che non nomino solo per non dilungarmi.

Dopo aver seminato di perplessità e interrogativi il mio intervento, vorrei  esprimere una certezza. Merito di Giorgio Linguaglossa è aver inteso che la grande poesia non è mero sfogo di stati d’animo o superficiale levigatura impressionista di schermi, di fogli di carta e di specchi, ma ha profondamente a che fare proprio con l’Essere e con il Nulla, cioè con le dimensioni più profonde, evocate con il Linguaggio. Non qualsiasi linguaggio, ma quello che sveglia se stesso risvegliando le cose. Compito della poesia è il Risveglio, diceva il poeta filosofo Kikuo Takano. La poesia guardando al futuro e alle cose, con lo sguardo dell’ente sull’assolutamente Aperto, forse può ritornare nella sua antica Casa ancora oggi disabitata.

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

  Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.

Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. 

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)

Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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Giancarlo Baroni DIECI POESIE da I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Grafiche step, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Bisogna prendere distanza dalle cose / allontanarsene

Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie e sei libri di poesia. Le ultime due raccolte di versi sono: I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (Mobydick editore, 2009, prefazione di Pier Luigi Bacchini; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP Editrice, 2016) e Le anime di Marco Polo (Book editore, 2015). Nel 2009, 2010 e 2011ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”.

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive Giancarlo Baroni: «Bisogna prendere distanza dalle cose / allontanarsene». Ecco, questo credo sia il punto centrale della sua poetica. Ma, aggiunge subito dopo una precisazione: «Non oltre gli uccelli / né sotto agli uomini». Dunque, la condizione umana che sta sotto quella degli uccelli, al di sotto dell’empireo della loro «indifferenza» non certo divina, ma pennuta. E così, ecco una moltitudine di passeri, aironi, merli, colibrì, allocchi, bisce, «piume, squame», «messaggi bellicosi», «creste regali e fiammeggianti» etc. Si sa che un tempo il volo degli uccelli poteva svelare eventi futuri, i popoli antichi erano abili scrutatori degli uccelli e del loro volo, Baroni parte da qui per fare una poesia che è anche osservazione precisa degli esseri pennuti, nella convinzione che essi ci possano svelare i segreti degli umani. Impiega spesso un verso prosastico con degli andirivieni, che un tempo si chiamavano enjambement, per collegare un verso all’altro con un tono asettico, didascalico, scevro di pathos, in una parola, narrativo, eppure sempre attento a non dimenticare il mondo arioso degli uccelli, quell’empireo negato agli umani e alla loro storia sanguinosa. Sono piccoli cammei di pensiero queste poesie, scritte con stile aforistico ed epigrammatico ma anche con una leggerezza invidiabile. Il poeta non può dire altro, è muto rispetto alle grandi questioni metafisiche che sono state deiettate fuori dal nostro immaginario, ma con una lontana nostalgia per ciò che si è irrimediabilmente perduto.

 Il libro di saggi di Gaincarlo Baroni, Una incerta beatitudine (Mobydick  2004 pp. 70 € 11,00),  non privo di spunti sulla letteratura europea del Novecento, ci introduce subito nella costruzione delle categorie estetiche con le quali leggere la poesia del secolo appena trascorso. Scriveva l’autore:

«I poeti in lingua italiana del Novecento possono essere divisi in tre gruppi, classicisti, realisti ed ermetici; quest’ultimi in due sottogruppi dalle differenze evidenti, orfici e sperimentali. Una classificazione che riguarda naturalmente categorie estetiche astratte più che correnti letterarie effettive. Intendo per classicisti i poeti preoccupati di rendere belle e piacevoli le cose da dire, per realisti quelli che preferiscono la comunicazione allo stile, per ermetici infine gli autori oscuri e poco comprensibili. I classicisti privilegiano la grazia, cioè una misurata, armoniosa, delicata e musicale eleganza, mentre escludono scompostezza ed eccessi principalmente verso il basso. Nella poesia accolgono vita e realtà solo dopo averle trasformate in letteratura, perdendo così di spontaneità, ma acquistando finezza. Il loro tono prevalente risulta quello elegiaco… il modello lontano è Tetrarca (…) La maggioranza dei poeti italiani fa parte di questo primo gruppo, il pericolo di manierismo rimane per loro sempre presente. Per i realisti, al contrario, gli argomenti da dire e soprattutto il bisogno, l’ansia di dirli contano più del modo in cui vengono riferiti».

Nel mio libro Appunti Critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Roma, 2003) ho ripescato due categorie in un certo senso integrative di quelle elencate da Baroni: il Modernismo e il Post-modernismo. Scrivevo che:

«sia il Modernismo che il Post-modernismo partono dal comune presupposto “il faut etre absolument moderne” di Rimbaud, si pongono in posizione di contiguità con il Moderno, tentano di svecchiare la forma lirica per adeguarla alla nuova sensibilità dei lettori. In questo tentativo di restituire una leggibilità e fruibilità dell’opera di poesia ad un grande pubblico, si consuma e sempre più si consumerà la possibilità stessa, della poesia, di attingere una nuova identità. Se la poesia vorrà sopravvivere alla sfida che il futuro le impone, essa dovrà assumersi tutto intero l’onere di questa sfida.

Perché è ovvio che un genere artistico non può vivere né sopravvivere a lungo senza la sponda di un pubblico attento ed intellettualmente libero. In questo cammino, il Modernismo appare più legato al paradigma della tradizione del Novecento rispetto al Post-modernismo, che invece tende a ripercorrere e leggere il secolo appena trascorso nei suoi punti di svolta contrassegnati dalle post-avanguardie della seconda metà del Novecento. Vero è che alcuni autori sembrano muovesi in una sorta di via di mezzo tra queste due grandi correnti, oscillando tra l’una e l’altra, nel tentativo di conciliare stilisticamente le due Tradizioni. Allo stato, non sembra più ipotizzabile un poeta che fondi un nuovo linguaggio, e quindi un nuovo “traliccio” linguistico; in questa accezione siamo tutti diventati  epigonici, non c’è più una scuola di poesia che possa arrogarsi il merito di essere in avanti. Caduta, con la fine del Novecento, la stessa accezione di avanguardia così come l’abbiamo conosciuta, penso che una nuova avanguardia di là da venire, se mai verrà, sarà del tutto diversa da quelle che abbiamo frequentato. È paradossale, ma sono convinto che una nuova vera Avanguardia non potrebbe che scegliere il Silenzio compiuto piuttosto che la Parola, non potrebbe che auto suicidarsi nell’atto stesso del suo collocamento. Ai posteri l’ardua sentenza».

Lo stato attuale della poesia, sembrerebbe convenire anche Baroni, assume l’aspetto di un arcipelago, di una serie di individualità scisse e disarticolate, senza un centro e senza una periferia, una sorta di competizione fondata sul vuoto di poetica, sulla fede nei fatti propri. Altro aspetto di questo fenomeno è, ovviamente, la scomparsa della critica militante, sostituita da una moltitudine babelica di micro linguaggi dichiarativi, epifenomeno direttamente correlato al primo ed equipollente alla scomparsa della società letteraria.

Sarebbe interessante chiedere agli autori invitati di scrivere una dichiarazione di poetica, credo che ne verrebbe fuori l’assenza di pensiero critico tipica del nostro tempo.

Creste

Le piume come squame
residui d’ascendenze minacciose. Adornano
le chiome agli eroi pellerossa
gli scalpi degli uccelli combattenti
creste selvatiche.

*

Le vostre frasi nascondono
messaggi bellicosi. Durante le conquiste
colpite il rivale meno forte
usando la cresta come elmetto. Zuffe
o semplici avvertimenti. Ali sfregate sulla terra
e minacce col becco. In mostra
la vampa delle piume il volume del collo.

*

Creste regali e fiammeggianti
riflessi sulle ali. Rossi rubino
cangianti blu cobalto
vi accendono il dorso. Sul petto
uno scudo colore dello zolfo
o di verde metallo. Zampilli filiformi
spuntano dalle piume della coda
simulando arabeschi. Sottili filamenti
vi arruffano i ciuffi sulla fronte
e la incorniciano.

Voci

Qualche volta vi nascondete dietro le nuvole
facendo finta di essere scomparsi.
Allora noi cerchiamo dappertutto
vi preghiamo di tornare

inventiamo mille promesse.
Là in alto intanto voi ve la ridete
di noi che gridiamo
che fingiamo di invocarvi come ossessi.

*

Ce ne infischiamo della nebbia
che foriamo col becco
oppure graffiamo con le unghie
così da volare dall’altra parte.

Attraverso la nebbia inviate
comunque fino qui le vostre voci
di cui a fatica comprendiamo
la vera provenienza.

(Pitture di Mariella Colonna)

Il peso dei vostri corpi

.
E’ così popolato questo giardino
di voi passeri che becchettate.
Saltellate di frequente, qualche volta vi rincorrete
sopra uno strato di foglie secche,

mentre il rumore che vi costringe a fermarvi
fissando davanti a voi
è quello dei passi, e del peso dei vostri corpi
quando sfiorata la terra neanche vi appoggiate.

Merli e colibrì

.
(Merli)

La melanina che scurisce il corpo
e ci rende simili a fantasmi
fa paura all’allocco.
Allora gonfiamo il petto
gli gridiamo te l’abbiamo fatta
un’altra volta, gioiamo
ma piano
come avessimo in gola dell’ovatta.
(Colibrì)

Il risveglio vegetale si mostra
con colori e sapore. I petali ci attirano
gli zuccheri del nettare convincono
a intingere il becco. Anche noi
come mosche e farfalle.
Crescono da questi fiori
frutti carnosi con dentro il seme.

.
Airone

Immerso nello stagno
apri le ali per levare
i riflessi dall’acqua. Traspaiono
le sagome sinuose delle bisce
che infilzi col becco.

.
*

Appena un rivale ti minaccia
alzi le piume della testa
gli stampi il becco sulla faccia. Basta
così gli vomiti
contro tutta la tua rabbia.

.
*

In marcia cautamente nel canneto
trafiggi alcuni rospi che ti credono
di sera un fantasma.

.
*

Da predatore a preda
il passo è breve
basta solo una svista. La mossa
del nemico che ti spiazza
impari e la fai tua.

.
*

Svelto più di una lancia
passi da parte a parte una ranocchia
la ingoi a partire dalla testa. L’incedere
tuo elegante il bianco immacolato delle penne
non ci convincono.

.
Le cose

.

Bisogna prendere distanza dalle cose
allontanarsene. Non oltre gli uccelli
né sotto agli uomini,
amando invece questi
quanto più si è capaci di afferrare
i segreti dei primi.
Parti perciò trascurando
le voci che promettono
di farti troppo dissimile da entrambi.

.
*

Come un uccello impazzito
il mondo si è messo a ruotare
fuori della tua finestra.
Piatti e soffitto rimangono dove sono
mentre i pesci galleggiano in aria
e le piante si perdono in mare.
Una goccia vicino all’altra
sotto l’effetto della pioggia
il cielo si scolora.
Invece le case gridano
come i loro inquilini.
Qualche uccello picchietta
contro i tuoi vetri
implorando di entrare
nel fondo del bicchiere
dentro la tazza ancora tiepida
o sotto il tuo pavimento.
Allora apri le persiane
contando di ritrovare
le cose al proprio posto.

Voi uccelli

siete esseri carenati
le vostre ossa fendono l’aria come vascelli
per questo non ci succede mai di imitarvi
nemmeno quando più forte lo vogliamo.
*

Potete alzarvi in volo
allora vi invidiamo
nel resto ci assomigliate
stupidi e astuti.

.
*

L’assoluta indifferenza è il sentimento
che impersonate
con tanta naturalezza lo esibite
ai cacciatori mentre precipitate.

.
*

Volate da parecchio senza sapere perché
in terra ce lo chiediamo da mille anni.
Voi continuate a farlo e basta
come noi quando sfrecciamo sui treni.

*

Crediamo dall’alto si veda
chiara la verità. Scegliete
di appannarvi tuttavia la vista
giocando a chi vola più veloce.

.

Rondini

L’amore? Chiedetelo alle rondini
attraversano il deserto per ritrovarsi qui.
Allora si inseguono garriscono virano per cercarsi
appena più in là, sembrano infaticabili.

Accovacciati sopra ai nostri rami
volentieri le scrutiamo fra le foglie,
curiosi nel frattempo di imparare
tentando qualche volta di imitarle.

.
Da un oceano all’altro

Percorrete distanze illimitate
da un continente all’altro
da un oceano all’opposto,

scegliete la mitezza del clima
gli ambienti meno ostili.
Disegnate viaggiando
una specie di V, un cuneo

che si infila nell’aria.
Se qui ci fosse cibo a sufficienza
forse non partireste. Sbagliamo
a credere vi spingano

smanie di libertà. In volo quanti
di voi moriranno? chi resta
passerà l’inverno
cercando di sopravvivere.

.
Quando smettete di volare

La vita è emersa
dal mare come un sommergibile

ma le burrasche si sfogano al suolo
e i raggi raggiungono la terra
come voi quando smettete di volare.

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NOVE POESIE di Lino Angiuli da “Ovvero” (nino aragno, 2015 pp. 152 € 10) “preposizioni semplici” con uno scritto critico di Giorgio Linguaglossa

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Lino Angiuli (1946) è nato e vive in terra di Bari. Delle dodici racolte poetiche ad oggi pubblicate,le ultime due sono apparse nella collana “Licenze poetiche”di Nino Aragno Editore. Sulla sua produzione poetica vedasi Dal Basso verso l’alto: studi sull’opera di Lino Angiuli, a cura di Daniele Maria Pegorari (2006). Collaboratore dei servizi culturali della Rai e di quotidiani, ha contribuito a fondare alcune riviste letterarie, tra le quali “incroci”. Molte pubblicazioni sul versante della tutela della cultura tradizionale.

Lino Angiuli cop ovvero giorgio linguaglossa_Dopo il Novecento

Commento di Giorgio Linguaglossa
la poesia di Lino Angiuli  tra modernismo e neomodernizzazione stilistica

Dalla plaquette giovanile di Lino Angiuli, Liriche (1967) fino ad Amar clus (1984), trascorre circa un ventennio durante il quale il poeta pugliese passa da una lirica tradizionale ad una koiné linguistica che ha assorbito gli stilemi dello sperimentalismo coniugandoli con l’abbassamento del registro lirico in direzione di una prosaicizzazione aperta alle tensioni antifrastiche (anche in idioma) e alle inflessioni di ironico disincanto. Campi d’alopecia è del 1979 (l’anno dopo la pubblicazione della Antologia della Parola innamorata, che segna l’inizio degli anni del riflusso); qui siamo dinanzi ad un discorso poetico dove è predominante un vistoso intento metaletterario: locuzioni incidentali si intrecciano a frastagliature frattali; locuzioni parenetiche, parentetiche, ipotetiche, ottative, dubitative, esortative si diramano nel tessuto ritmico-sintattico con tutta una congerie di espedienti retorici: dall’anafora, alla paronomasia, alla metafora per contatto, alla anadiplosi,  alla analogia per dissimmetria che finiscono per conferire al testo un andamento di irrisione convulsa a metà tra la mestizia del grido impotente e la tristizia goliardica della derisione. È un proposito metaletterario quello che governa il dettato poetico di Angiuli; è la sua personale interpretazione dell’eredità della neoavanguardia. Angiuli importa nel suo registro stilistico la più grande estensione di strumenti retorici dello sperimentalismo per piegarlo all’impeto e allo sdegno civile e politico ma anche alla irrisione e alla derisione, al disincanto e all’incanto; quello che ne deriva è un tessuto linguistico composto, mobile, variabile, esuberante di immagini e di moduli sintattici che si sovrappongono e interagiscono in un soliloquio con effetto di lacerante e grottesca ilarotragoedia.

Che a fare l’uovo di colombo
almeno quando si rigonfia l’alluvione
di scatole discorsi a due piazze e scatoloni
scollando significati appena insalivati
dalla carnagione variopinta di amanti occasionali
pascola allora nelle sventrate intercapedini del sole
una razza di muffe ininterrotte allora…

Edward Hopper room in New York.

Edward Hopper room in New York.

È in questi anni che la crisi del discorso lirico si aggrava

Si sta preparando il decennio della «parola innamorata» e del «ritorno all’innocenza»; gli spazi per un discorso poetico aperto e problematico si restringono sempre di più. D’ora in avanti si apre la strada in discesa delle poetiche deboli e deresponsabilizzate. In Angiuli non si riscontra alcun rimpianto per la scomparsa di quel mondo stilistico maturo di cui l’ultimo prodotto è stato il post-ermetismo pugliese di un poeta come Vittorio Bodini. Quello che nel 1952 Anceschi definiva «poesia degli oggetti» nel frattempo ha occupato la piena visibilità dello scenario poetico italiano e il minimalismo è nella sua fase ascendente: non ci sono più i margini per la elaborazione di una poesia che si distacchi dal quadro di riferimento «normativo» nazionale. Forse, una certa nostalgia per quel «mondo stilistico maturo» che è scomparso la si può rinvenire in Amar clus, (1984) in cui le fonti stilnoviste e provenzali vengono reimpiegate per un effetto di straniamento e di distanziamento rispetto alla poesia coeva; nel frattempo, l’impiego di un certo «quotidiano» sta diventando un dogma che non cessa di esercitare sulla quasi generalità un certo effetto, un certo ascendente. Angiuli ha già introdotto, per suo conto, il «quotidiano» in una sorta di registro basso, pur se variegato e mosso. È il quotidiano del registro rurale che convive con il quotidiano della civiltà cittadina. Convivenza in un equilibrio incerto e instabile dal quale il poeta pugliese sa far scoccare le scintille del suo personalissimo trolley linguistico. Angiuli sa che il «quotidiano» che si fa a Milano è un prodotto della latitudine: non è un abbaglio, non un errore di prospettiva, non è un errore ottico o un errore di poetica. Angiuli lo sa ma sa anche che una poesia del Sud modernamente aggiornata non potrà vestire i panni del modernariato né i jeans dell’ideologia modernizzatrice, e corre ai ripari nelle opere successive calcando il pedale dell’acceleratore dei toni ilari e giocosi e del «quotidiano» sudista.

Un certo ascendente, si sa, opera, a ricaduta, entro un cerchio di iniziati e dentro la sfera di competenza di una istituzione stilistica. Di fatto, è così che prende forma una egemonia: una «linea ascendente» della tradizione stilistica permette una «linea discendente» di immediata riconoscibilità. Tutte le opere che si inseriscono nella «linea discendente» appaiono automaticamente riconoscibili a norma della «linea ascendente». Ecco come si forma una tradizione stilistica. L’intento di Angiuli si muove in direzione di una poesia che abbia le sue salde radici iconologiche, coloristiche, fonosimboliche e materiche nel Sud, non può guardare al Nord se non come a un’officina che va derubata e depistata e capovolta ma non può guardare al Mezzogiorno se non nei termini del principio di ironizzazione, del capovolgimento e del ribaltamento dell’iconologia della tradizione post-ermetica del Sud.

Catechismo è del 1998. Libro chiave, di svolta e di stabilizzazione stilistica. «Catechismo» è, un lemma ironico, appunto: catechizzare come sinonimo di ammaestrare. Ormai il poeta pugliese ha messo a punto la direzione della propria rotta: una post-poesia di riflessione metaletteraria sul tema del «paesaggio» («L’orto festeggia l’onomastico del sole / fantasticando d’essere un deserto…»). Libro che alterna composizioni in lingua e in idioma, sospeso tra natura e cultura, ancora una volta tra il piano «basso» del folklore e il piano «alto» della poesia in lingua ma senza mai perdere il contatto con il piano «basso», il pavimento del folklore.

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Direi che è la latitudine che governa la poesia del poeta pugliese più che la longitudine, e sotto questo aspetto, il percorso della poesia di Angiuli è davvero singolare e significativo: dalla rastremata lirica del 1967 il poeta pugliese giunge, nel secondo ventennio che va dal 1984 al 2010 de L’appello della mano (Torino, Aragno), ad un discorso poetico sostanzialmente dal timbro metaletterario, da dove sono stati espunti i riferimenti polemici al «mondo», (sembrerebbe quasi una ritirata strategica) ma la poesia degli anni Novanta e degli anni Dieci ne guadagnerà in brillantezza e nitore di superficie. Angiuli alleggerisce la chiglia stilistica della sua poesia dei toni più asseverativi e suasori; adesso il tessuto stilistico è più leggero, più arioso, più frizzante ma ha anche perduto lo sfrigolio, l’attrito dell’utopia che spingeva in avanti l’attesa e allungava il futuro. La modernizzazione del Sud non c’è stata, non c’è stata una crescita economica del Sud, non c’è stato sviluppo ma, paradossalmente, il Sud è entrato, in qualche modo, a rimorchio della modernizzazione del resto d’Italia e la poesia più sensibile se ne è accorta. Ecco perché la poesia di Angiuli non si limita a perseguire la modernizzazione linguistica (riflesso acritico della modernizzazione tecnologica) ma si inoltra nell’unica direzione possibile: lo spazio della ilarizzazione dei nuovi linguaggi, della nuova koiné linguistica.

In Amar clus del 1984 Angiuli giunge ad un surrealismo tutto personale, nutrito di calembours e giochi di parole, una poesia scandita in strofe compatte e ariose, anzi, aeree tanto sono leggere che sembrano innalzarsi come palloni aerostatici:

Da bravo galeone fantasma
trasporta santi diavoli e cristiani
insieme a taciturni incubi di calce
da una sponda all’altra della notte
beccheggiando dentro un tempo acquoso
che affila le sue onde a mannaia
contro parole in pietraviva

Un giorno l’altro (Aragno, 2005) è un libro emblematico del, se mi si passa la dizione, «ritorno all’ordine» di Angiuli: qui opera il principio di demistificazione e ironizzazione a tutto campo che non risparmia né il profano né il sacro: è il disincanto della leggerezza e del principio di ionizzazione del reale: «mi faccio un giorno o l’altro come dico io / mi faccio una rima che finisca in dio» (con tanto di scorno delle forzate letture di chi ne fa un autore ligio al Vangelo). Nei testi di Angiuli c’è la piena consapevolezza stilistica della provenienza «dal basso» di certi lemmi e di certi stilemi per confezionare un tessuto materico e stilistico direi conglomerato, rassodato, nella accezione di composto chimico-fisico del discorso poetico, a distanza di sicurezza da ogni suggestione «sacrale» o di banale dissacrazione di ciò che da tempo immemorabile non è più «sacro». La versificazione appare più ordinata, variegata, anche la gamma lessicale è stata sottoposta ad un processo di rarefazione, sottrazione di substantia e alleggerimento; i miasmi della modernizzazione industriale, che in Puglia non c’è mai  stata, sono ormai fatti del passato (recente e remoto), i pensieri brulicano, si assiepano e sgomitano per prendere la forma della poesia:

minutaglia di pensieri senz’arte né parte
crosticine della vecchia ferita
in odore di maltempo
che non s’asciuga e non s’asciuga mai
*
vorrei scovare una parola
svestita senza niente addosso
nemmeno qualche finta foglia
ma non c’è verso d’adocchiarla
forse sarà esistita
in fondo all’antro della voce.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Il discorso poetico da elemento di resistenza  è diventato una condizione di esistenza: «Intanto il capitale impera / coi suoi monili luccicanti», non resta che operare per introdurre quelle innovazioni stilistiche e materiche ad una moderna poesia del Sud;  l’evento imprevisto o sensazionale («intanto s’affatica il mare / su cui galleggia questa storia / come un turacciolo ribelle») fa parte del gioco degli elementi e dei fattori noti e non. Senza contare il severo allenamento alla desistenza operata dal poeta pugliese, che ben si coniuga con la condizione (esistenziale) di chi si trova aldiquà e non può far altro che spedire Cartoline dall’aldiqua (Bari, Quorum, 2004), come frecce appuntite, al mondo di chi si trova sull’altra spiaggia della temporalità e mondalità mediatica. È la strategia della desistenza ludognomica quella messa in atto da Angiuli alla ricerca del «punto fermo» della terraferma dalla quale inviare i segnali di fumo, le «cartoline», le parole leggere sub specie aeternitatis. È la strategia stilistica messa in atto dal poeta pugliese, che può contare sulla desistenza e sulla persistenza del proprio gioco di prestigio, sul gioco serissimo che diventa fuoco d’artificio.

In una recente intervista Angiuli scrive: «nella vivace e variegata situazione contemporanea… la maggioranza azionaria è ancora detenuta dall’io lirico, che tende a riproporre la propria ontologia all’insegna di una resistente, autoriproduttiva, teleologica e forse datata mitologia letteraria». Parole quanto mai in equivoche che gettano un fascio di luce sulla chiarezza della impostazione di poetica dell’autore.

In questo itinerario, non sorprende che il poeta pugliese, una volta ogni dieci anni, sia tentato di sciacquarsi i panni nei fiumi della sua terra: è da qui che nasce la plaquette Viva Babylonia (LietoColle, 2007), una raccolta di cromatiche composizioni in idioma di Valenzano, una boccata di ossigeno dirimpetto alla invasione dei linguaggi della media-sfera che Angiuli tenta in tutti i modi di neutralizzare aprendo le maglie della sua poesia alle contaminazioni lessicali più spurie. Degno di nota è che in questa ricorrente cadenza decennale, in ben quattro raccolte, i testi dialettali sono in condominio con quelli in lingua e si incamminano progressivamente verso un multilinguismo (strategia ben diversa rispetto alla bidimensionalità separata e strabica delle odierne tendenze del neo-monolinguismo della conclamata e invasiva neo-dialettalità).

In questa lucida strategia della assimilazione della contaminazione  rientra sia l’istituto dello spostamento semantico, sia il lavoro sui suffissi e i prefissi («orto» che diventa «risorto», «dente» accostato a «per-dente» in Catechismo del 1998), degli scambi semantici tra parole diverse dove il «catechismo» del perbenismo della piccola borghesia pugliese viene catechizzato e sottoposto a dissolvente ironizzazione. È l’iconologia (anche religiosa) piccolo borghese della Puglia che viene marionettizzata e ludicizzata, con tanto di quel «dio» popolare: «nel nome di un dio come si deve / un padremadre di tutte le virgole / compreso il destino sonoro della calandra / il karma buono di un dentedileone…» (da Cartoline dall’aldiqua, 2004).

Colored Folks Corner

Colored Folks Corner

Siamo arrivati a L’appello della mano (Aragno, 2010), una sorta di metanarrazione della propria posizione di poetica, una derisoria riflessione (capovolta) sull’epoca della globalizzazione («Le mani hanno cento occhi / gli occhi cento mani /inutile chiudere sotto chiave tutto / quello che svolazza (…) ho ben altro da fare / con i cinque sensi»); il poeta pugliese ha compreso che il «lasciapassare dell’aria», la comunicazione universale, ha sottratto al discorso poetico le antiche sicurezze: le «tematiche», gli «interni», gli «esterni», il «paesaggio» rassicurante della poesia elegiaca, il linguaggio rassicurante dello sperimentalismo, i punti cardinali sui quali si fondava la scrittura poetica nel vecchio Novecento. Ormai si apre un’era nuova e si chiude il vecchio mondo stilistico.

Di un monastero abitato da respiri medievali
vado tuttora in cerca con bisaccia a tracolla
certo che lui un giorno mi spunterà davanti
proprio nel mezzo di una geometria vegetale

perciò apprendo la filosofia dal lazzeruolo che
abita nel paese più remoto dell’occhio mentre
dal percoco imparo a pigliare il sole in fronte
o puramente a non farmi la barba tutti i giorni

parolerò coi monaci che mi hanno anticipato
con le sagome loro svolazzanti intorno al pozzo
di un’acqua da sorseggiare nelle mani a coppa
domanderò come introdursi in una passiflora

uscendone con una pozione di salmi terrestri
adatti a mettersi a tu per tu con la roba celeste
poi basterà alzare gli occhi oltre il nono cielo
per fare alle malombre disumane il contropelo.
*

A quel convento cimato in capo a una collina
bussa ribussa il pensiero per domandare i voti
e andarsene appresso alla radice quadrata che
porta lì dove molti avverbi finiscono in mente

una pezza di marrone manufatto basta e avanza
un cordone lungo quel tanto che possa servire
ad abbracciare il mondo con fare meridiano e
i sandali per poter viandare a piedi nella testa

al buon convento della terraferma mi raggiunge
l’anima in persona per spalancare porte portoni
da molti secoli non la guardavo in faccia ma lei
mi riconosce subito a prima vista e primo udito

appesa al collo porta una cartapecora sgualcita
dove sta disegnata la parola d’ordine silentium
un mare di silentium da risciacquarci la lingua
in modo tale che il suono vero non si estingua.

*

Da un chiostro accampato nella murgia aperta
ai famosissimi cinque sensi più quello di scorta
con cui misuro le muraglie di pietre muricciole
ci sono chilometri di spighe ballerine e tramonti

in un minuto secondo passa lungo l’orizzonte
una sorta di ripensamento che non dice niente
eppure traccia una striscia di cose d’altro mondo
la controfirma di quello che da noi si chiama dio

passa anche un odore di stalla migrata nell’altrove
tra la lagna di una casedda ruminata da malerbe
e due querce stravecchie da sempre imparentate
col fantasma di un volpino squagliatosi nel giallo

se poi compare la ferma essenza di un pio bove
allora sì che faccio terno nel suo occhio incantato
in cui sparisce la differenza tra ieri oggi domani
sì da poter slegare il cuore con entrambe le mani.

Lino Angiuli

Lino Angiuli

In questa cella vive una specie adriatica di alba
sbucata dall’acqua marina a due passi dal piede
fino ad allagare tutti i tabernacoli della mente
dopo aver sbarcato ossa di miracoli color caffè

quelle di sannicola e di sangiorgio per esempio
insieme alle milleunanotte di storie e patorie ai
contrabbandi di vite agli smerci di carne umana
alle malarie che combina l’homo qui dove però

vennero altre anime a raschiare l’umore del tufo
con il tantumergo rimasto impigliato al cappero
basta spegnere la radio dell’estate per ascoltarne
le note insieme alla ronda di api attorno attorno

basta una branda di sabbia circoscritta dal timo e
una grotta scarrassata dal sole verso mezzogiorno
per mantenere a cuccia la frescura d’ombre sante
tra cento viavai di un’onda galoppata dal levante.

*

Con l’abbazia d’un cielo fatto a cielo me n’esco
a pascolare il mio grillo canterino voglioso di
sviolinare la stella che da sempre lo allatta e di
salmeggiare a modo suo in onore della lunanova

gli passano così le brutte insonnie del malincuore
i calvari della grasta in terracotta tra vasi di ferro
gli inverni con le sue mazzate di coltello amaro
le gelature che gli stutano la parlantina in gola

meglio farsi un quartino o una quartina solitari
abbandonarsi alla notte come fosse l’ultimora
giocare con il buio a mosca cieca senza la paura
del giorno che pianta bombe per cogliere tombe

malemale domani mattina sposerà una zucchina
col fiore aperto a strombazzare le lodi pacchiane
lei non sa se potrà farcela a vedere un’altra sera
eppure in cuor suo sa che la propria vita è vera.

*

Su l’eremo di settembre veleggia una boccata d’aria
festeggia l’onomastico delle prugne color prugna
quelle ricevute in dono dal Qualcuno appostato
sopra l’altalena di una foglia eterna e passeggera

lì dentro c’è un sacco di roba che manco sappiamo
come una chiocciola mi ci chiudo da dietro e godo
questa brezza madrina di mandorle e ozoni strani
e di nostalgie giallognole scampate a un temporale

mi vengono incontro i fichi a mano disarmata ma
ripiena di fruttosio con cui provare ad addolcire
l’ombra scaraventata a terra dal fumo dei cannoni
inutili e scemi che fanno soltanto gridare peccato

peccato quei bambini che non possono fare poesia
peccato quelle donne col seno pendulo e vacante
peccato questi ulivi uccisi su un altare di cemento
peccati contro la vita che chiede un altro accento.

*

Per la cattedrale del sogno vado scolpendo origani
e rucole che si danno il cambio sul portale della
notte accogliendo un popolo di ombre pellegrine
tumefatte dall’assenza di luce e da vuoti di carne

a rimpolpare le loro lentezze accorrono i ricordi
accorrono i perdoni a tagliargli le unghie per bene
cosicché possano guarire dall’italico maltempo
e riuscire a incamminarsi sul tratturo del giorno

piano piano ecco si muovono in fila per quattro
per riempirsi la bocca con una manciata verde
c’è un cotogno che le aspetta proprio all’incrocio
tra l’autunno e una congrega di nubi pensierose

seminano nella testa la semenza di altri desideri
capaci di riempire le tasche di ortaggi consacrati
e accucciare tra parentesi quadre l’eterna fame
di sciocchezze che imbambalisce l’umano reame.

*

Tra me e la cappella della pioggia maestra di grigio
si stende una sera enorme quanto il lago maggiore
biodegradabile al centopercento più o meno come
le lacrime e tutto ciò che mi inumidisce l’ossario

allorquando anche il cielo si abbassa le mutande
così da acchiapparlo con un pensierino rasoterra
resuscitato dalla muffa come un cavolo a merenda
eppure buono a trasportarmi altrove tutto intero

è forse questo il tempo giusto per ridare la corda
ai sorrisi arrugginiti che fanno capolino dalle foto
ai memoriali che salgono su una scala senza pioli
e scendono con una cesta di frasi infreddolite

il tempo giusto per farmi amico quel cipresso lì che
ogni giorno mi fa buongiorno con la mano mentre
m’invita ad adacquarla bene la mia beata solitudo
perché cresca tanto da far rima con sola beatitudo.

*

Fra un migliaio di nicchie abitate da mille madonne
cerco quella incassata in fronte a una casa vacante
quella da cui fu sfrattato un qualche santo eremita
allergico alle messe cantate ai ceri e agli incensieri

voglio abitare lì in compagnia di calce alla buona
per contare i minuti della mia eternità giornaliera
senza vetrina fermo dentro una canottiera di lana
dieci parole al giorno cinque scritte e cinque orali

dimodoché venga un silenzio a dire uffa e poi uffa
a quelle moine terrene che non cambiano mestiere
e venga l’edera giustiziera che campa di campagna
a tinteggiarle di verde a botta di ramaglie e foglie

avrò tutto il tempo per farmi perdonare dal carrubo
giacché è dal secolo scorso che non l’ho più potato
purtroppo la testa è caduta dentro la rete dei casini
e solo ’sta nicchia può restituirmi i puntini puntini.

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Alfonso Berardinelli LA POESIA DEL NOVECENTO – DA RILEGGERE: SBARBARO, CAMPANA, REBORA I MODERNI con un Commento breve di Giorgio Linguaglossa

Riproponiamo questo breve appunto di Alfonso Berardinelli sulla poesia italiana pubblicato nel 2010 nella speranza che qualcuno tra i lettori voglia esprimere la propria opinione.

franco fortini 1(Avvenire, 22 gennaio 2011)pier paolo pasolini

Che cosa sappiamo e pensiamo, ormai, del­la poesia italiana del Novecento? L’argo­mento non sembra suscitare interesse. I dibattiti, le polemiche, gli scontri degli anni Ses­santa e Settanta appartengono a un’epoca remo­ta. Oggi sarebbero inimmaginabili. Sperimenta­lismo, avanguardia, impegno, formalismo sono termini fuori corso. La lingua degli ideologi di al­lora (Fortini, Pasolini, Sanguineti) è quasi intra­ducibile. Nelle università sulla poesia non si fan­no corsi, non si danno tesi di laurea: quando av­viene, si tratta di eccezioni. È perfino raro che si organizzi un convegno sulla poesia contempora­nea.

Eugenio Montale

Eugenio Montale

 Eppure qualcosa è avvenuto a Berlino per i­niziativa di Angelo Bolaffi, che dirige l’istitu­to italiano di cultura e si è impegnato in questi an­ni a spiegare ai tedeschi il Novecento italiano. Co­sì, alla fine, è arrivato il turno della poesia. A metà gennaio tre giorni di letture, conferenze, semina­ri sono stati dedicati alla nostra poesia dall’inizio del Novecento a oggi, con il coinvolgimento del­la Freie Universität e della Literaturwerkstatt. Par­tecipanti: Romano Luperini, Patrizia Cavalli, Giu­lio Ferroni, Antonella Anedda, Roberto Galaver­ni, Anna Maria Carpi, Patrizia Valduga, io stesso. Il laboratorio di traduzione è stato condotto da Theresia Prammer, Camilla Miglio e Piero Salabè.
I risultati? La poesia dell’intero Novecento an­drebbe riletta e anche sul presente non manca­no i disaccordi. Dell’ermetismo non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per il suo primo libro.

mario luziLuzi diventa interessante se letto accanto ai suoi coetanei Sereni, Caproni, Bertolucci: che secon­do alcuni superano i più giovani Pasolini e Zan­zotto. Il primato di Montale e Saba resta indi­scusso. Penna e Amelia Rosselli hanno influenzato più di ogni altro le giovani generazioni. Giovanni Giudici (vero erede di Gozzano e Saba) è quasi di­menticato. La neoavanguardia anni Sessanta è stata soprattutto una costruzione ideologica. Più che Marinetti (poeta-vate elettrizzato) i veri mo­derni sono stati Sbarbaro, Campana, Rebora. Quanto a me, ho definito il postmoderno «speri­mentalismo neoclassico».

Commento breve di Giorgio Linguaglossa

Per far fare un passo in avanti alla poesia italiana del nuovo secolo credo che occorra fare i conti con il più grande poeta del Novecento: Eugenio Montale, riprendere la lezione del modernismo europeo, superare la poesia scettico-cinica di Montale di Satura (1971) e considerare che nelle nuove condizioni della civiltà mediatica (una vera e propria rivoluzione) sia necessaria una riflessione sulle ragioni che oggi fanno apparire invecchiata la poesia di autori che cita Berardinelli in questo breve appunto: in primo luogo derubricare la poesia di Giovanni Giudici, troppo legata alla ideologia piccolo borghese degli anni Sessanta, e prendere le necessarie distanze da un poeta a mio avviso sopravvalutato come Sereni.

Al contrario di Mengaldo, io non considero un «capolavoro» il primo libro di Sereni, gli preferisco l’ultimo, Stella variabile del 1981 dove padroneggia meglio il registro medio-basso ed ha ormai assimilato l’abbassamento stilistico e lessicale delle sua poesia che aveva perseguito lungo quattro decenni di lavoro. Fu un risultato duraturo per la poesia italiana? Forse sì, e forse no. A breve termine sicuramente sì. La vittoria incontrastata di Sereni significò però l’abbandono di un’altra via che era stata tracciata e abbozzata dalla poesia di un Fortini il cui ultimo libro paradigmatico, Composita sovantur (1994), indicava almeno nelle intenzioni una diversa idea di sviluppo per la poesia italiana a venire. È stato un bene?, è stato un male?. Ai posteri l’ardua sentenza. Io ritengo che porre in questi termini la questione Sereni significa non voler vedere gli elementi irrisolti e di derivazione dal post-ermetismo che sono presenti come retaggio nella poesia di Sereni e che l’omissione di tale problematica non sia utile alla poesia italiana, tanto meno è utile la «deificazione» di un poeta e di un modo di fare poesia.

Considero inoltre la poesia di Clemente Rebora una operazione incompleta e insufficiente sotto il profilo della forma, ancora troppo mistica e poco formalizzata in uno stile. Si percepisce nella poesia di Rebora un avvicinamento ad uno stile proprio ma non uno stile compiuto.

Quanto alla esperienza della neoavanguardia e del successivo post-sperimentalismo, ritengo che sia stata una esperienza significativa e utile, e anche sotto certi aspetti inevitabile, da ricondurre a una forma di reazione alla poesia dei post-ermetici, utile almeno come campionario di possibilità linguistiche e stilistiche inespresse e non definite in uno stile riconoscibile che si è dissolto in una miriade di tentativi.

A mio avviso, siamo ancora al punto daccapo. Ci sono oggi però degli spunti e delle esperienze poetiche molto significative che vanno in direzione di una ricostruzione di una poesia che abbia le sue fondamenta sullo zoccolo duro della poesia del modernismo europeo.

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Umberto Eco IL REALISMO MINIMO. IL DIBATTITO SULLA FINE DEL POSTMODERNO: NON TUTTO È INTERPRETAZIONE

da: La Repubblica  11 marzo 2012

Il testo di Umberto Eco che qui riproduciamo integralmente è stato scritto in occasione di un convegno a New York che si è tenuto a novembre 2011 sul tema “postmoderno e neorealismo” organizzato da Maurizio Ferraris a cui hanno partecipato filosofi e studiosi internazionali con posizioni diverse sul tema. Il testo è ora pubblicato sul numero di marzo di Alfabeta2 che da molti mesi ospita interventi su questo tema. Il testo di Eco spiega la posizione del “realismo negativo” che si può riassumere nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata.

Ho letto in vari siti di internet o in articoli di pagine culturali che sarei coinvolto nel lancio di un Nuovo Realismo, e mi chiedo di che si tratti, o almeno che cosa ci sia di nuovo (per quanto mi riguarda) in posizioni che sostengo almeno dagli anni Sessanta e che avevo esposte poi nel saggio Brevi cenni sull’Essere, del 1985.

So qualche cosa del Vetero Realismo, anche perché la mia tesi di laurea era su Tommaso d’Aquino e Tommaso era certamente un Vetero Realista o, come si direbbe oggi, un Realista Esterno: il mondo sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere. Rispetto a tale mondo Tommaso sosteneva una teoria corrispondentista della verità: noi possiamo conoscere il mondo quale è come se la nostra mente fosse uno specchio, per adaequatio rei et intellectus. Non era solo Tommaso a pensarla in tal modo e potremmo divertirci a scoprire, tra i sostenitori di una teoria corrispondentista, persino il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo per arrivare alle forme più radicalmente tarskiane di una semantica dei valori di verità.

umberto eco4In opposizione al Vetero Realismo abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza non funziona più a specchio bensì per collaborazione tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni del ruolo dell’uno o dell’altro polo di questa dialettica, dall’idealismo magico al relativismo (benché quest’ultimo termine sia stato oggi talmente inflazionato in senso negativo che tenderei ad espungerlo dal lessico filosofico), e in ogni caso basate sul principio che nella costruzione dell’oggetto di conoscenza, l’eventuale Cosa in Sé viene sempre attinta solo per via indiretta. E intanto si delineavano forme di Realismo Temperato, dall’Olismo al Realismo Interno – almeno sino a che Putnam non aveva ancora una volta cambiato idea su questi argomenti. Ma, arrivato a questo punto, non vedo come possa articolarsi un cosiddetto Nuovo Realismo, che non rischi di rappresentare un ritorno al Vetero.

Nel convocarci oggi qui, ieri a New York, domani a Bonn e poi chissà dove a discutere di queste cose, Maurizio Ferraris ha fissato dei confini alla nostra discussione. Il Nuovo Realismo sarebbe un modo di reagire alla filosofia del postmodernismo.

Ma qui nasce il problema di cosa si voglia intendere per postmodernismo, visto che questo termine viene usato equivocamente in tre casi che hanno pochissimo in comune. Il termine nasce, credo a opera di Charles Jenks, nell’ambito delle teorie dell’architettura, dove il postmoderno costituisce una reazione al modernismo e al razionalismo architettonico, e un invito a rivisitare le forme architettoniche del passato con leggerezza e ironia (e con una nuova prevalenza del decorativo sul funzionale).

umberto eco5L’elemento ironico accomuna il postmodernismo architettonico a quello letterario, almeno come era stato teorizzato negli anni Settanta da alcuni narratori o critici americani come John Barth, Donald Barthelme e Leslie Fiedler. Il moderno ci apparirebbe come il momento a cui si perviene alla crisi descritta da Nietzsche nella Seconda Inattuale, sul danno degli studi storici. Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta. L’avanguardia storica (come modello di Modernismo) aveva cercato di regolare i conti con il passato. Al grido di Abbasso il chiaro di luna aveva distrutto Continua a leggere

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