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La serendipità del linguaggio corrisponde alla serendipità del funzionamento della nostra mente. La poetry kitchen non può fare a meno della prassi serendipica che conferisce una novità straordinaria e dà straordinarie libertà a questo genere di scrittura, Poesie di Marie Laure Colasson, Francesco De Girolamo, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa

Macchia bianca 20x20 acrilico 2024

Marie Laure Colasson, macchia nera, 60×60, acrilico, 2024

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Marie Laure Colasson

«Riflettendo su queste ultime composizioni kitchen in formato-dialogo mi sono accorto che quello che noi stiamo facendo è semplicemente un ampliamento del campo extrasemantico della semantica o, per dirla con altre parole, di andare con le parole oltre di esse usando i significati per creare una realtà che va oltre i significati. Semplice, no?» (Giorgio Linguaglossa)».

La serendipità del linguaggio corrisponde alla serendipità del funzionamento della nostra mente. La poetry kitchen non può fare a meno della prassi serendipica che conferisce una novità straordinaria e dà straordinarie libertà a questo genere di scrittura. Eccone un esempio.

caro Germanico,

Un berlingot* géant dit à la blanche geisha
“Écoute cette mélopée guerrière écoute
Tagada boum boum…”

“Eh bien oui c’est crever le plein
et le vider comme un cochon bio-orthogonal
assis sur un fauteuil Louis Philippe”
répond-elle allongée sur un tapis volant

“Ou bien” ajoute Eredia
“Un tuyau d’aspiration muni de 48 dents
et 3 ventricules!”

“Cela semble vraiment une source de nourriture
pour un yaourt rempli de poils de pubis”
tranche sévèrement Madame Green

L’homme du vide muet

*

Un berlingot* gigante dice alla bianca geisha
“Ascolta questa melopea guerriera ascolta
Tagada bum bum”

“E bene sì questo è scavare il pieno
e svuotarlo come un maiale bio-ortogonale

assiso su una poltrona Luigi Filippo!”
risponde la bianca geisha allungata su un tappeto volante

“Oppure” aggiunge Eredia
“Un tubo d’aspirazione munito di 48 denti
e 3 ventricoli!”

“Questo sembra veramente una sorgente di nutrimento
per uno yogurt colmo di peli di pube”
trancia severamente Madame Green

L’uomo del vuoto muto

*caramella di Carpentras, città del sud della Francia

(inedito)

Francesco De Girolamo
27 marzo 2024 alle 0:39
(L’io nel)

LABIRINTO

Che cosa ci rimane da aspettare?
Un po’ d’aria la sera, la spiaggia la domenica.
E questa noia che non è più dolce
da dividere insieme, come era un tempo.
Manca poco al momento di vederti
e non avverto la minima impazienza
dell’attimo in cui ti scorgerò spuntare
dal muro bianco di ogni giorno.
Scorrono i volti estranei della folla:
tutti i ricordi che il tuo può evocare
non valgono il mistero di uno solo di essi.
In quelle voci sfuggenti che passano
ascolto gli echi di una vita diversa,
un’altra vita che non vivrò mai.
Non approderò più a nient’altro
che a questa soffocante, sterile quiete,
che come una goccia ossessiva continua
a cadere nel vuoto. E ti odio, quasi,
dacché sei diventata un’abitudine;
ma ho il rimorso di odiarti, perché sono io
che mi ti sono cucita addosso,
come un vestito troppo stretto,
una seconda pelle. Ed ogni giorno prendo
la mia dose di te; e ne ho la nausea,
anche se ne ho bisogno, come un calmante
dal sapore agrodolce, di cui non so fare a meno.
Vorrei gridarti qualcosa che riuscisse a ferirti,
delle ingiurie terribili, al tuo sopraggiungere,
se ne avessi il coraggio; ma ti vedo sorridere
come ogni giorno, così angelicamente ignara
di questo sconfinato labirinto cha da te mi allontana;
e con un nodo alla gola, sorridendo a mia volta,
non riesco a dirti altro che: “Oh, finalmente, Amore!”

Francesco De Girolamo, Piccolo libro da guanciale (Dalia Edizioni, 1990)

Macchia bianca 60x60, acrilico 2024

Marie Laure Colasson, macchia bianca, 60×60, acrilico, 2024

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Giorgio Linguaglossa
27 marzo 2024 alle 11:38
Cara Tizyfardwell,

fraudolentemente un team di scienziati della NASA è riuscito ad innescare un’esplosione nucleare di megagalattiche proporzioni all’interno del mio Mega-Computer

Ha lanciato raggi X e raggi Gamma attraverso l’intero universo e oltre e ha ridotto in cenere alcuni sistemi solari della galassia di Orione a cinquecentomila anni luce dalla Via Lattea

Puoi ben dire e almanaccare pensieri, ormai siamo assoluti dipendenti dei mitocondri di questi scienziati folli che, come il Minotauro della leggenda, reclamano sempre nuove vergini da adibire ai loro piaceri

Ho assistito personalmente alla morte spettacolare di una stella supermassiccia che si è conclusa con la mega esplosione di una supernova. Ciò che è rimasto è una stellina di neutroni con un nucleo collassato largo appena venti metri con una massa milioni di volte di quella del nostro sole che gira attorno al proprio asse alla velocità di trentamila rotazioni al secondo

Ho riferito tutto ciò a Marie Laure Colasson che nel frattempo si è trasferita sul pianeta Mephisto, dicendole del pericolo e di fuggire con la prima astronave a portata di mano prima che quegli scienziati folli risolvano in cenere il suo pianeta. Ma che vuoi, lei non ne vuole sapere di trasferire tutti i suoi quadri e l’atelier in un nuovo pianeta, ha detto che aveva da fare con il rossetto e il rimmel e non so che altro

Chiama, ti prego, anche Gneo Gaius Fabius, Memmio, Alf. Galacticus e quanti altri puoi raggiungere del pericolo che incombe su di loro, io intanto vado a prendere la Colasson per i capelli e la trascinerò sulla prima astronave disponibile, che dio ce la mandi buona, il pericolo incombe!

Se non dovessi più ricevere miei messaggi, ecco il mio nuovo nome di Avatar, Wallet-Glossa, e il mio numero di codice: 248@Giorni

Amen

Giorgio Linguaglossa
27 marzo 2024 alle 12:28

dimenticavo, il tutto è stato orchestrato da due scienziati orbaniani, Péter Magyar e Judit Varga, in realtà sono amanti e condividono il disegno di annichilire tutti i pianeti dove si trovano rifugiati politici della madre-Terra, sono dei terroristi pericolosissimi, ho avvertito la Cia e il Pentagono delle loro identità.

A metà febbraio Magyar ha rinunciato a tutti i suoi incarichi e contestualmente ha lanciato un j’accuse contro la Unione Europea, in particolare sul «Richelieu di Orbán» – come lui lo chiama – ovvero Antal Rogán, potentissimo ministro che controlla anche i servizi segreti. Questo Magyar si è impadronito del Mega Computer e adesso può minacciare il sistema solare!

Con un’intervista video di due ore che ha attratto milioni di visualizzazioni (un ungherese su quattro l’ha vista) la nuova “gola profonda” ha fatto «una radiografia pubblica del funzionamento del sistema orbaniano», come dice lo storico Stefan Zweig.

La motivazione ufficiale fornita da Magyar? «Non voglio far parte di un sistema nel quale i veri capi si nascondono sotto le gonne delle donne»

Si salvi chi può!

(inediti)

Francesco De Girolamo
27 marzo 2024 alle 13:01

Quindi il progresso della scienza ha fallito?

“L’ovvio è difficile da provare. Molti
preferiscono l’oscuro.”
Charles Simic
(da “La stanza bianca”)

FUOCO E GELO

Vedere è l’arte silenziosa
dello sguardo che la luce non cattura
ma procede sulla strada scoscesa
e ignota dei sensi alleati.
Quante lune scorreranno prima che la mente
abbia dominio sulle ombre?
Prima che un chiarore prenda impulso dal sangue
e il dito sfiori il tasto di uno schermo
rivolto all’ultimo zenith, all’orizzonte
estremo, al nord di tutti i nord?
L’ago del chimico è già nella fiala,
il fisico ha stilato il suo prospetto,
la cavia tende il petto al sacrificio:
s’avvicina il mattino in cui il custode
di fuoco e gelo porrà la sua mano
sul nostro capo smarrito nei cerchi
inestricati di una storia sospesa.
Noi, agnelli e demoni, balbetteremo pretesti?
Ma gli occhi del volto più amato
impressi al fondo dell’alveo sommerso
della coscienza, ci condurranno lievi
al ritorno nel non qui mai svelato.
E finalmente avrà inizio l’inizio.

Francesco De Girolamo (La radice e l’ala – Edizioni del Leone, 2000)

Giuseppe Talia 

Caro Germanico,

Ho ritrovato una traccia che credevo perduta nella prosodia.
Una traccia audio di sovrapposizioni e interruzioni dialogiche.

Una speculazione arbitraria. Una disfluenza. Una violazione.
Qualcosa o qualcuno si è introdotto. Ho chiamato il 118.

Gli esiti contradditori e la loro durata temporale preoccupano.
Non sto bene. Non sta bene. Non si sta bene. La violazione

Degli spazi interlocutori, anomalie tecniche, interruzioni,
Rare presenze regolamentari, conversazioni polifunzionali.

Pre-occupano le hit estive problematiche/non problematiche
Tra intoppi e perturbazioni, lapsus linguae e calami stratiformi.

Una meteora pre-termine. Audioregistrazioni sub-corpus.
La pragmatica descrittiva di Geoffrey Leech che attribuisce enunciati.

Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza intenzionale.

Durata breve e violenta: i muscoli involontari, all’unisono,
Supportano il parlare corrente e le variazioni di tono e di volume.

Ascoltate (mi)

(inedito)

Lucio Tosi 2 senza titolo, acrilico 70x70 2024
Lucio Mayoor Tosi, senza titolo, 60×60, acrilico, 2024

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Francesco De Girolamo è nato a Taranto, ma vive a Roma; oltre che di poesia, si occupa di teatro, come autore e regista. Ha pubblicato le raccolte poetiche: “Piccolo libro da guanciale” (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; “La lingua degli angeli” (Edizioni del Leone, 1997); “Nel nome dell’ombra” (Ibiskos Editrice, 1998) con una nota critica di Gino Scartaghiande; “La radice e l’ala” (Edizioni del Leone, 2000) con prefazione di Elio Pecora; “Fruscio d’assenza” – Haiku della quinta stagione – (Gazebo Libri, 2009); e “Paradigma” (LietoColle, 2010) con introduzione di Giorgio Linguaglossa. È presente nelle antologie: “Poesia dell’esilio” (Arlem Edizioni, 1998), “Poesia degli anni ‘90” (Scettro del Re, 2000), “Haiku negli anni” (Empiria, 2005), e “Calpestare l’oblio” (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana, 2010).
Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: “Poesia”, “Folium”, “Poiesis”. “LaRecherche.it” e “Atelier”. E-mail: degirolamo2@yahoo.it

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Giorgio Linguaglossa è nato nel 1949 e vive e Roma. Per la poesia esordisce nel 1992 con Uccelli (Scettro del Re, Roma), nel 2000 pubblica Paradiso (Libreria Croce, Roma). Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura “Poiesis” che dal 1997 dirigerà fino al 2006. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sul n. 7 di “Poiesis”. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle). Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: “È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo”», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italia-no/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 escono la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma), nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2002 esce  l’antologia Poetry kitchen che comprende sedici poeti contemporanei e il saggio L’elefante sta bene in salotto (la Catastrofe, l’Angoscia, la Guerra, il Fantasma, il kitsch, il Covid, la Moda, la Poetry kitchen). È il curatore delle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023 nonché dei volumi Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022), del saggio L’Elefante sta bene in salotto, Progetto Cultura, Roma, 2022. Nel 2014 ha fondato e dirige tuttora la rivista on line lombradelleparole.wordpress.com  con la quale insieme ad altri poeti, prosegue la ricerca di una «nuova ontologia estetica»: dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia meta stabile dove viene esplorato un nuovo paradigma per una poiesis che pensi una poesia delle società signorili di massa, e che prenda atto della implosione dell’io e delle sue pertinenze retoriche. La poetry kitchenpoesia buffet o kitsch poetry perseguita dalla rivista rappresenta l’esito letterario del Collasso del Simbolico, di uno sconvolgimento totale della «forma-poesia» che abbiamo conosciuto nel novecento, con essa non si vuole esperire alcuna metafisica né alcun condominio personale delle parole, concetti ormai defenestrati dal capitalismo cognitivo di oggi.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta), nasce in Calabria, nel 1964, risiede a Firenze. Pubblica le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, Ibiskos Editrice, Empoli, 1999; Thalìa, Lepisma, Roma, 2008; Salumida, Paideia, Firenze, 2010. Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano: Florilegio, Lepisma, Roma 2008; L’Impoetico Mafioso, CFR Edizioni, Piateda 2011; I sentieri del Tempo Ostinato (Dieci poeti italiani in Polonia), Ed. Lepisma, Roma, 2011; L’Amore ai Tempi della Collera, Lietocolle 2014. Ha pubblicato i seguenti libri sulla formazione del personale scolastico: LʼIntegrazione e la Valorizzazione delle Differenze, M.I.U.R., marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea Firenze. È presente nelle Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023,  nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Vincenzo Petronelli: dalla poesia del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen, Due poesie esemplificative di Giorgio Linguaglossa e Francesco De Girolamo, La reificazione dell’archetipo edipico, Le nuove tavole di Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio e Ucraina, acrilici, 80×80 cm, 2024 –

Lucio Mayoor Tosi Paesaggio

Lucio Mayoor Tosi, Paesaggio, 80×80, acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi Ukraïna! acrilico 2024

Lucio Mayoor Tosi, Ucraina, 80×80, acrilico, 2024

Su una campitura coloristica di radiosa luminosità Lucio Tosi stende i colori quasi senza l’intervento dell’io, del braccio che esegue i comandi della mente, quasi fosse un veggente che disegni un ostentato mare della tranquillità, quasi che un automatismo abbia ordinato qui le macchie, lì le campiture piatte del colore, quasi che tutte queste nuove opere fossero nate già ponderate alla Matisse, nate senza indugio, per partenogenesi, quasi che non conoscessero la reificazione delle parole e dei colori, quasi fossero nate nel mondo di Adamo ed Eva, liberi dal giogo della storia e dal peccato originale. (g.l.)

Vincenzo Petronelli

dalla poesia della fine del modernismo alla poesia del post-modernismo kitchen

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per aver imperniato quest’articolo su di un mio intervento, il che mi onora e mi stimola dunque a recuperare la “sincronia” nei miei interventi sugli articoli dell’Ombra giacché, in questi giorni mi stavo invece soffermando su articoli apparsi nelle settimane precedenti; d’altronde è nella mia indole di antropologo la tendenza a rimanere attardato sulla riva del mare fuori stagione ad osservare da lontano le scie e raccoglierne le suggestioni.
Trovo decisamente interessante e pertinente l’ampliamento di raggio operato da quest’intervento rispetto al mio articolo di partenza, che mi spinge a riflettere su un ulteriore articolazione antropologica.
La lettura del disfacimento del rapporto fra società ed istituzioni nel nostro mondo in chiave psicanalitica e la riconduzione, da tale assunto di base, alla nascita ed alla diffusione nefasta dei populismi e della generale decadenza culturale e politica che affliggono la nostra epoca, è senz’altro stimolante ed è nota la reificazione sociale dell’archetipo edipico, culminante con la pulsione per l’uccisione del padre, che si traduce nei vari momenti distruttivi della storia della nostra civiltà.
Tale assunto, mi conduce ad allargare a mia volta lo spettro ricognitivo, nella direzione di uno dei temi di maggior fascino e profondità sviscerati dagli studi antropologici e cioè quello sulle società matriarcali, riflesso e modello opposto a quello dominante storicamente nella nostra società, da cui deriva la dinamica evidenziata nell’articolo.

Bisogna subito precisare che il dibattito sulle società matriarcali è risultato diversificato nel corso del tempo, poiché l’esistenza storica di comunità basate su di una gestione del potere affidato alle interamente alle donne in ambito europeo – e dunque per estensione in quella che si suole definire civiltà occidentale – non è mai stata realmente comprovata, nonostante fosse stata teorizzata già nel XIX sec. dall’importante opera di Bachofen, “Il matriarcato” del 1861, nella quale viene teorizzato il concetto di ginecocrazia, vale a dire, appunto un modello di gestione della società fondato sulla componente femminile della comunità.

Tale ipotesi si basava sulle testimonianze, provenienti dalla storia delle religioni, dell’esistenza di divinità femminili (le Dee Madri) i cui culti erano diffusi specialmente nel Mar Mediterraneo centro-orientale, simbolicamente identificate con la terra che porta frutti; ipotesi sviluppata anche da altri studiosi, tra i quali una figura chiave nella storia degli studi antropologici, quale James George Frazer, nel suo monumentale “Il ramo d’oro”.

L’età del matriarcato veniva collocata durante la Preistoria, nella fase delle società di cacciatori-raccoglitori in cui le donne sarebbero state investite del ruolo di capi-famiglia, mentre all’uomo sarebbero state demandate le funzioni pratiche di sussistenza: a questo modello comunitario si ispirò Friedrich Engels, teorizzando il comunismo delle origini nel celebre volume “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.

Al di là del dibattito sul matriarcato dei popoli cacciatori-raccoglitori, l’origine del patriarcato viene fatta risalire dagli antropologi al neolitico, momento in cui gli umani smisero di procacciarsi da vivere mediante la raccolta dei frutti della terra e la caccia, sviluppando l’agricoltura e successivamente l’allevamento
Dagli studi di linguistica, si è appurato che l’attività di semina e coltivazione delle piante, sia stato il passaggio culturale che abbia permesso al genere umano di rendersi conto del collegamento causale fra il rapporto sessuale e la gravidanza, determinando la nascita del concetto di genitorialità e la volontà da parte del padre, per assicurarsi il controllo della propria discendenza, di porre la donna sotto il proprio dominio: da qui nasce anche l’istituto del matrimonio.

Al tempo stesso, dagli studi di archeologia, sappiamo essere stata questa l’epoca dell’arrivo dei popoli indoeuropei (fenomeno a sua volta collegato alla nascita dell’agricoltura) ed in particolare l’attività della grande ricercatrice lituana Marija Gimbutas, è stata in grado di mostrare come i popoli pre-indoeuropei fossero caratterizzati da una divisione egualitaria del lavoro sociale, come attestato dal fatto che le tombe in cui venivano seppelliti i componenti di quelle comunità fossero singole, a testimoniare l’assoluta parità dei ruoli all’interno del clan, senza distinzioni gerarchiche fra uomini e donne.

A partire dal XX sec. gli antropologi e gli storici, in relazione alle società europee storiche, hanno preferito parlare non di matriarcato (nel senso che abbiamo visto di ginecocrazia), ma piuttosto di società matrilineari e matrilocali, dove cioè determinati diritti vengono trasmessi tramite le donne e i nuovi sposi si stabiliscono presso i genitori della sposa, ma in cui il potere di gestione rimane nelle mani degli uomini.
Tale slittamento semantico è conseguenza del fatto che l’idea dell’esistenza reale di società matriarcali nella preistoria europea è stata messa fortemente in discussione – rimanendo tuttavia dibattuta – confinandola alla sfera della narrazione mitologica; d’altro canto, le numerose spedizioni etnologiche che in varie aree del mondo (dai Tuareg nord africani, ai Kerala indiani) hanno testimoniato l’esistenza di società organizzate su base ginecocratica, lasciano supporre che effettivamente anche le società occidentali possano aver conosciuto anticamente realtà analoghe.

Indipendentemente da ciò, è assodato che nelle società di cacciatori-raccoglitori (come confermato anche dalle ricerche condotte sul campo presso le popolazioni di questo tipo ancora presenti – in misura sempre più esigua – nel mondo contemporaneo, oltre che dalle ricostruzioni archeologiche), vigesse e viga un pronunciato egualitarismo, tanto rispetto alla suddivisione sessuale del lavoro, quanto dal punto di vista sociale. L’assenza di conflitti interni, si abbina alla mancanza di una cultura bellica, come accertato dall’assenza di armi nelle tombe dei defunti e dalla mancanza di tracce di fortificazioni nelle piante dei villaggi.

Altro elemento caratterizzante tali culture, è la cosiddetta “economia del dono”, cioè una cultura della condivisione, che consente ai propri componenti di non avvertire mai la precarietà e di lavorare meno rispetto ai modelli di società successive che – già a partire da quelle agricole – fondano la propria economia su di un’idea intensiva del lavoro; una visione della conduzione dell’economia divenuta un esempio per gli antropologi economici, a cominciare da Jared Diamond, che teorizzano una diversa e più armoniosa distribuzione delle risorse.

Dunque, indipendentemente dalla matriarcalità siamo senz’altro di fronte a culture dal forte senso estetico, apollinee, in cui il senso del femminile ha un’incidenza evidente in contrapposizione al profilo dionisiaco, guerresco, delle società agricole, che in quanto stanziali, sono condizionate dall’idea del territorio e del suo ampliamento; una cultura dell’accumulazione di potere e di ricchezza che ha poi informato la storia del mondo occidentale ininterrottamente fino ad oggi, costituendo un archetipo che pone tra parentesi il senso dell’estetica e che condiziona tutto, compresa l’arte, per snaturarne il senso eversivo della rappresentazione mimetica.

Così la cultura dell’accumulazione di potere, tramutato in forma di presenzialismo salottiero o di scranno digitale, si impadronisce anche della poesia, svilendola di senso e riducendola ad una rappresentazione autotelica; va da sé che forme di autodifesa del valore di metafora sacra dell’arte hanno sempre continuato ad esistere ed a perpetuarsi, per fortuna, ma nei momenti storici di crisi delle libertà, anche l’arte rischia di essere soffocata e quella che stiamo vivendo è proprio una fase di regime, sospesa tra rigurgiti autoritari ed il suo alter ego travestito da antitesi, il populismo.

Sono proprio questi i momenti in cui la riappropriazione del senso estetico diventa fondamentale in quanto atto rivoluzionario e quindi è improrogabile che la poesia si rimpossessi del suo ruolo critico ed insieme catartico, esattamente come storicamente, nelle parabole decadenti della storia occidentale, è decisiva la capacità di ricreazione del mondo che solo la donna, nel suo ruolo cosmico di donatrice di vita è in grado di esprimere; evidentemente, le due cose sono strettamente collegate poiché il simbolo della poesia è femminile e perciò può esercitare una funzione rigeneratrice insostituibile.
La Poetry Kitchen è appunto l’espressione di tale liberazione, di tale affrancamento dall’impaludamento nel linguaggio del potere ed è pertanto un progetto, una visione di rinascita.

Mi è capitato di rileggere ultimamente una poesia di Giorgio Linguaglossa di qualche anno fa, in una fase ancora embrionale rispetto alla definizione di Poetry Kitchen, ma già emblematica del progetto Nuova Ontologia Estetica e tanto più significativa perché in nuce contiene già i contorni della Poetry Kitchen e la rivela:

Onto Giorgio Linguaglossa.blu

Giorgio Linguaglossa

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del Tramonto, LietoColle, 2006)

Trovo che in questo componimento, sia racchiuso il percorso che dalla fase destrutturante Noe, conduce alla fase palingenetica della Poetry kitchen; da lì in poi, tutta la poesia dello stesso Giorgio, di Franco Intini, di Lucio Tosi, di Mimmo Pugliese e di tutti gli amici del nostro collettivo, sembrano affermare perentoriamente il grido di rivendicazione della poesia: “il corpo (della scrittura) è mio e lo gestisco io!”, premessa indispensabile per liberare la poesia e permetterle di tornare ad incarnare appieno la sua carica libertaria.

giorgio linguaglossa
(25 febbraio 2024 alle 8:09)

Il lavapiatti del Cremlino

Il lavapiatti del Cremlino adesso fa il barbiere
taglia i capelli dei bastardi, applica della brillantina sui loro capelli

Aggiusta le frange e i riccioli dei soldati
Così, è stato promosso al rango di ragioniere

Tiene i conti della banda in ordine, finanzia i progetti per la produzione di carrarmati e di velivoli senza pilota

Asserisce che vuole denazificare l’Europa e altre quisquilie
Così il ragioniere è stato promosso a generale

Adesso comanda un corpo d’armata nel Donbass
Rapisce i bambini con gli occhi azzurri, bombarda le città

e gli elettrodomestici, distribuisce sigarette avvolte nei dollari arrotolati, dichiara che le stelle sono a portata di kalasnikov

E altre quisquilie, che le pallottole sono le caramelle che preferisce e che getterà i gonzi in fondo al mare

Il generale adesso ha altre mire, ma non le dice, attende le mosse del Cremlino, studia la scacchiera, muove qui la Torre,

Qui la Regina, qui il Cavallo…

(24/ 02/2024)

foto francesco de girolamo

Francesco De Girolamo

Ai fuochi azzurri

Sotto il trepido sole degli addii
lo sguardo era il germoglio di una spina,
era una macchia d’ombra porporina
che il vento vorticava in dondolii.
Un che di noi, perduto nella luce,
rimpiangeva il languore della luna
che indora all’alba i fiumi della brace
non spenta dei bivacchi di fortuna.
Erano troppo presto divampati
i fuochi azzurri dell’appartenenza,
confusi nell’azzurrità più intensa
d’altri cieli remoti, non svelati.

(Francesco De Girolamo – da La radice e l’ala, 2000)

Bisbiglio ed eco

Cerco il nodo che acquieta, grazie al poco
che non ho più, per cuore troppo aperto.
Ciò che vorrei, dunque, lo credo detto,
seppure non intenderlo sia un gioco;

a pronunciarlo pare un suono fioco
e più obliquo il suo senso che diretto.
Pertanto spererei che più protetto
fosse il suo segno ed il suo canto, roco

per menti che ad intendere il suo sfogo
potessero servirsene a dispetto.
Che sia perciò il suo transito più stretto,

di bocca, in vento, in vela, in punto, in luogo,
che un palpito racchiuso dentro il petto;
e il suo venire in luce, duri poco. Continua a leggere

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Poesie di Francesco de Girolamo, Alfonso Cataldi, Antonio Sagredo Quel «declino dell’ontologia», quel declino, per dirla in termini più comprensibili, delle oggettualità, di cui ha parlato Vattimo, sembrerebbe condurci alla soglia del declinare e del deragliare di tutte le arti «deboli» e «povere» (in primo luogo la «poesia»), sicché non avremmo più nulla di cui narrare, Marie Laure Colasson, Struttura nel vuoto,

Struttura_dissipativa_acrilico 50x28, 2023

(Marie Laure Colasson, Struttura nel vuoto, acriico, 70×30, 2021)

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Francesco de Girolamo
23 febbraio 2024 alle 10:33

Giorgio Linguaglossa, già 13 anni fa, scriveva:

“Quel «declino dell’ontologia», quel declino, per dirla in termini più comprensibili, delle oggettualità, di cui ha parlato Vattimo, sembrerebbe condurci alla soglia del declinare e del deragliare di tutte le arti «deboli» e «povere» (in primo luogo la «poesia»), sicché non avremmo più nulla di cui narrare. E invece la poesia di un Toma, di un Pedota, di un Farina o di un Francesco De Girolamo prende forza proprio da questa intima infermità del discorso poetico del «Dopo il Moderno» che non può fondarsi su alcun «fondamento», prende forza dalla «leggerezza» che ha investito sia il «soggetto» che l’«oggetto».
Una poesia sensibile a tale problematica è quella di Francesco De Girolamo, il quale riutilizza i rottami e lacerti «eleganti» del crepuscolarismo più astuto per recapitare alcune felicissime sortite nei retaggi della rima invisibile, che serpeggia come un marchio di luttuosa «eleganza» in questa poesia intimamente ultronea e ultranea.
La specificità del discorso poetico di Francesco De Girolamo riposa, dicevamo, sulla radicalità di questo assunto, sulla radicalità della sua interrogazione, sulla eccentricità di ciò che è privo di un centro e del quale bisogna cercare il senso. Una problematicità aporetica che ruota attorno a un «dio» e ad un «io» assenti. Da «Paradigma Antologia personale e altre poesie 1997-2009» (2010):

Quello che vedo non è quello che penso;
quello che dico non è quello che sento;
i miei amici sono i miei nemici;
l’io che non sono ha ucciso l’io che ero.*
[…]”

ULTIMO AVVISO

Non fidarti di me, non lasciarti ingannare
dall’apparente candore che dal mio sguardo mansueto
vagamente traspare.
Potrebbero esserci minacce imprevedibili
nascoste in quella quiete sfuggente
ed imperscrutabili mire di un soggiogamento perpetuo,
silenzioso, incruento, che porterebbero pian piano il tuo orgoglio
a una resa incondizionata e quasi inconsapevole.
Dietro quei modi teneri, infantili, un io nascosto ha un dominio
segreto, un io feroce, bieco, senza freni: una belva affamata
di continue concessioni, di conferme, di dedizioni,
spesso persino di sottomissioni.

Non fidarti di me, il fuoco arde sotto la cenere,
e la lunaticità è quasi come la licantropia
e a volte trasforma d’un tratto la noia
in un gioco crudele. Ed è allora
che potresti dover soffrire, solo per dimostrarmi
che sono importante;
e se non soffrissi abbastanza, se il sale delle mie accuse
non bruciasse nelle tue ferite, vorrebbe dire
che non mi meriti; ed amen.

Non fidarti di me: troppo sconfinato è il mio orgoglio,
troppo tenace la mia vanità e l’improvvisa perfidia
che ti coglierà di sorpresa, nel sonno,
quando meno te lo aspetti, mentre sorridi,
svestita ogni corazza, con le armi ai piedi del letto,
porgendo il tuo piccolo cuore nudo
ai mille artigli del mio affetto vile.

Giorgio Linguaglossa
19 febbraio 2024 alle 12:22

Apprezzo di questa poesia di Francesco De Girolamo il suo essere dalla parte del non-io, dell’ombra dell’io, che invita a non fidarsi dell’io e delle sue apparenze. Tematica questa che ricordo Francesco ha sempre coltivato fin dalla sua primissima poesia dei primi anni novanta. E ben coglieva De Girolamo il lato debole delle tematiche dell’io, era sufficiente guardare nel risvolto dell’io per scoprire che lì c’era del marcio, che l’edificazione di una società dell’individualismo era ed è una società dell’illusione, che una poesia fondata a scoprire chissà quali penetralia dell’io è una poesia della mistificazione. Una poesia anti Totem, ormai il capitale «liquido» non ha più bisogno di un Totem, di un Padre da onorare quanto di un suo sostituto.

*Giorgio Linguaglossa, DALLA LIRICA AL DISCORSO POETICO. Storia della poesia italiana (1945 – 2010), Edilet – Edilazio letteraria, 2010 (capitolo “la nuova poesia modernista”)

.

Antonio Sagredo
23 febbraio 2024 alle 10:08

La maschera autunnale era avvilita come una tragedia in atto
Quando le poltrone incanutite tradivano il copione già inattuale.
La viola piangeva sui misfatti del do diesis minore,
il controfagotto per sentirmi doppio nell’unità delle note.

Dal loggione le parole giungevano invertite per il trionfo
del grottesco, per la metafora che lacrimava a dirotto sul palco.
Ma le dame, come due secoli fa, smaniavano per l’attesa di un gesto
e per un applauso disatteso come una condanna recidiva.

Per una serpe nel cieco brusio del salice rosso si era immolata.
Come un attore di provincia non aveva altro da dire che cantare
così Il bardo stenografo imitava il poeta nel singhiozzo straniato.
Non Desdemona, ma Eleusina elogiava il mistero del digiuno erogeno.

(Roma, 22 febbraio 2024)

Alfonso Cataldi
23 febbraio 2024 alle 11:31

Venerdì 16/02/2024, ho partecipato alla presentazione di un libro di poesia, al caffè letterario di Roma “il Mangiaparole”. Non voglio qui parlare delle poesie, non conoscendo l’autore. Mi interessa invece fare una riflessione sulla necessità di scrivere ancora poesia nel 2024, argomento affrontato nel corso della serata. Cosa può aggiungere una poesia scritta oggi a quanto è stato già scritto nei secoli scorsi?
L’autore ha affermato che una poesia è da ritenersi necessaria se muove da un’urgenza reale che porta a riscrivere in modo “nuovo” un’esperienza già descritta. A tal proposito e in relazione ad alcuni testi in cui i protagonisti erano i figli appena nati, è stata nominata la poesia “sincera” di Saba . Il prefatore ha aggiunto che la cultura e la conoscenza approfondita della poesia da parte dell’autore della pubblicazione, lo hanno messo al riparo dallo scrivere poesia ingenua, poesia già scritta e quindi non necessaria.
Io non sono convinto di questo approccio. È un metro che non può che portare, se si è davvero onesti, se non si fa un discorso retorico tra amici di vecchia data che se la raccontano, a considerare tutta la poesia scritta oggi, del tutto inutile. Oltretutto, la cultura è da considerarsi un’aggravante. Lo dico avendo pubblicato nel 2017 la raccolta “Ci vuole un occhio lucido” con la sezione “in prospettiva di Sofia” quasi interamente dedicata a mia figlia. Ho scritto quei testi con la consapevolezza piena di una riscrittura, di un tema affrontato fino allo sfinimento. Quei sentimenti, seppur trascesi e messi in poesia attraverso la mia estetica di allora, appartengono a tutti gli umani, a tutti i poeti che diventano genitori. Cosa ha spinto allora l’autore di venerdì sera a ritenere la sua paternità diversa e quei testi degni di essere pubblicati e letti, degni di suscitare interesse rinnovato a un pubblico conoscitore della poesia? La parola chiave, l’aggettivo usato dall’autore è “nuovo”. Se vogliamo affrontare seriamente la questione, dobbiamo partire da quanto scrive Giorgio Linguaglossa:

“Un nuovo linguaggio e un nuovo stile nasce quando una nuova «autenticità politica» ha derubricato e sostituito la vecchia. Un nuovo linguaggio emerge quando il vecchio è andato in pensione.” Nessuna urgenza può costruire una poesia necessaria se viene riportata in un libro con uno «stile derivato», uno stile che “sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica”. Continua a leggere

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16 gennaio 1969 – Lo studente cecoslovacco Jan Palach si dà fuoco in Piazza San Venceslao a Praga, lo studente morì dopo tre giorni di agonia, il 19. La storia si ripete, la guerra in Ucraina dura dal 20 febbraio 2014, 9 anni e 330 giorni. Una relazione dei servizi segreti della Germania ipotizza da parte della Federazione Russa un attacco all’Europa (Lituania, Lettonia, Estonia) entro qualche anno nella convinzione, da parte della Russia che la NATO si tirerà indietro. L’avvertimento arriva da Fabian Hoffmann, ricercatore per l’Oslo Nuclear Project dell’Università di Oslo. L’Europa è in pericolo. Poesie per il sacrificio di Jan Palach

Jan Palach

Tiziana Antonilli

Mrs Slim

La spiga della signora Slim
si sgrana in cinque anelli
uno per ogni dito del parto.

Una volta l’anno con la polvere cosmica fa il pane
e lo offre alla siepe di Recanati.

Il lievito tradito perdona sempre la farina
per sua natura debole di palpebre.

Il post del mémoir si è aperto un varco tra i boomers
e si è sciolto nell’acqua bollente del Karkadè delle cinque.

Corridoio

Il batticuore fa ancora vibrare il corridoio
tra il primo vagito e l’esofago annodato.

Durante il casting
il sole rassicurò Iron Lady:
– Ci sono anche per te!
mentre la madre di Lia aspettava che il rubinetto
uscisse dalla pausa pranzo.

L’archivio del Comune conserva copia
della fune d’acciaio puntata
tra il sette e il cinquanta.

Era la profezia del Cirque du Soleil.

.

Mimmo Pugliese

LA GOLA DEL CAMMELLO

L a gola del cammello nasconde la scacchiera
che costeggia un pentagono di pioggia
Il soffitto corre incontro a se stesso
boschi in scatola clonano pistole
dentro un cappello starnutisce uno struzzo
fantasmi pettinano girasoli
Buio
gatti tra le case
sei tornato gemello
mescolato ad alveoli al risveglio
incisi sulle braccia dell’araba fenice
il muro di Berlino è una ciminiera
qualche volta bambini scuotono l’albero maestro
estate presa a calci
fuochi di marmo inciampano su baffi sordi
ubriaca l’aria viola

.

Francesco De Girolamo

Come ai giorni dell’oro

Un febbrile ritorno avanza piano,
stretto tra le nascoste pieghe vive
delle cose perdute, andate, prive
d’orme chiare, ma che un nuovo, lontano

sguardo riemerso sembra riuscire
a ridestare, come ai giorni dell’oro.
E sembra che le voci amiche, in coro,
ti sussurrino frasi da carpire

nel silenzio presente, sorda luce,
corolla di fermenti che si schiude
alla ferma fiducia, all’accoglienza

del tuo fertile vuoto, delle nude,
tenui trame, disperse nell’assenza,
che un filo inafferrabile ricuce.

(Inedit)

espressionismo Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

Otto Dix, I mutilati di guerra, 1920

.

Marie Laure Colasson

La Goulue* avale une sonde robotique
au “Moulin de la Galette”
pour mettre les images en état d’arrestation

Le KGB des miettes cathodiques
enfile sa robe de bure avec capuche
en disant “le faux fait le vrai”

Des feuilles de choux fermentées
trouvent un sens au néant
à travers un miroir déformant

Des imbus du pouvoir secrètent
du venin et des balivernes montées en épingle
comme les inquisiteurs de l’élégance au chocolat noir

Des filaments de non-dits crèvent
l’aorte de l’épaisseur du vide
pour produire des effects pervers

De longs poils soporiphiques
dépiauntent des petits riens
contre la liberté d’expression

Et tout tombe à plat

*nome di una donna ritratta da Toulouse Lautrec
*
La Goulue inghiotte una sonda robotica
al “Moulin de la Galette”
per mettere le immagini in stato d’arresto

Il KGB delle briciole catodiche
infila il suo saio con cappuccio
dicendo “il falso fa il vero”

Foglie di cavolo fermentate
trovano un senso al nulla
attraverso uno specchio deformante

Degli ebbri di potere secretano
del veleno e delle scempiaggini arrampicati sugli specchi
come inquisitori dall’eleganza al cioccolato fondente

Filamenti di non-detti scavano
l’aorta dello spessore del vuoto
per produrre degli effetti perversi

Lunghi peli soporiferi
scorticano dei piccoli niente
contro la libertà d’espressione

E tutto ricade a terra Continua a leggere

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Francesco De Girolamo, Luci segrete (haiku), Ed. Il ramo e la foglia, 2023 pp. 64 € 12, Lettura di Giorgio Linguaglossa

Non è stato Thomas Stearns Eliot che in La terra desolata, ha scritto: «Aprile è il più crudele dei mesi … Fiorirà quest’anno? … Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine» (This fragments I have shored against my ruins). Molti si sono chiesti cosa significasse la parola «rovine», senza trarre le dovute conseguenze da quella parola. Le «rovine» siamo noi, sono le nostre «parole», sempre fuori-luogo e fuori-significato, con le quali non possiamo comunicare alcunché di significativo. E allora la poesia più attenta di oggi torna a rivolgersi istintivamente a quelle «rovine» che in un altro tempo, in altre civiltà sono state «parole» vive e pregne di significato.

In questo libro di haiku di Francesco De Girolamo c’è l’esposizione della biplanarità del testo-haiku: da una parte l’io, dall’altra la realtà. L’haiku è storicamente la forma che per eccellenza punta sulla evanescenza della realtà e sulla de-localizzazione dell’io. Il soggetto scopre che «non è più padrone in casa propria» (Freud), che i pensieri e le parole sfuggono, si muovono indipendentemente dalla volontà della «mente», e che questo ininterrotto peregrinare  è nient’altro che il luogo della soggettività. L’itinerario della soggettività risiede nella distanza tra: a) la parola e l’immagine; b) tra l’immagine e la realtà; sul presupposto che l’immagine è già una rappresentazione della parola, e che la parola (e quindi l’immagine) è l’atto del pensiero.

Per noi, in Occidente, la poiesis non è soltanto un «dire», un «dire» autosufficiente, ma un «fare», un operare concreto. La poiesis in Occidente mette in atto una «pratica» del non dire i significati noti e acclarati, infatti, non dà luogo a significati già noti, ma deve essere intesa come un «dire» significati che un attimo prima dell’atto del gramma non erano neanche immaginabili, quindi per noi in Occidente la parola è un segno, un atto più o meno «arbitrario» nel senso che può conformarsi o no ai significati già noti, un gesto performativo. In questi haiku di De Girolamo invece si ha un esercizio «inoperoso», il «dire» è un «fare inoperoso», un fare ricco di «inoperosità» (nel senso in cui lo intende Agamben), quando si riferisce a «un operare che, in ogni atto, realizzi il proprio shabbat e in ogni opera sia in grado di esporre la propria inoperosità e la propria potenza». (Giorgio Agamben)

Il modo in cui il pensiero può ancora distinguersi dal comune opinionare è fare ciò che né la doxa né la scienza possono fare. Questo è il compito storico della poiesis: menzionare l’ombra che altro non è che la distanza tra la parola e la medesima parola pronunciata un attimo dopo la prima volta; l’ombra non coincide con il percetto né con l’atto del pensiero ma rivela una distanza, è la difference tra la parola e la ripetizione della parola medesima (1 non è mai eguale a 1). L’ombra è quella realtà che sempre accudisce la forma della luce. Gli haiku di De Girolamo hanno sempre a che fare con l’ombra, non si accontentano dei significati consolidati, anzi, dirò di più, è un raffigurare la distanza tra la parola e la parola ripetuta, è un volgere la raffigurazione all’orlo, al limite, alla condizione di possibilità della significazione.

Muro di sabbia

una mano di piombo

soffoca l’onda.

*

Dietro il cristallo

della neve ferita

soffia l’azzurro.

*

Entra il libeccio:

la tenda del balcone,

velo da sposa.

La raffigurazione in questi haiku è un esercizio etico, un «fare» (che è anche un «dire») che si indirizza sulle tracce del punto cieco di ogni conoscenza per mettere in luce il limite dei suoi presupposti. La parola è qui lo specchietto retrovisore che accudisce il punto cieco della visione. La parola non è tutto, non può essere tutto, qualcosa sfugge sempre alla parola, anche in questi haiku, è questa la ragione della vitalità della lingua, che la parola, ogni parola è insufficiente ai fini del «dire».

Questa pratica-haiku è un abitare il mondo delle parole senza adottare i significati consolidati che corrispondono storicamente a quel mondo di parole. Questa pratica, questo esercizio quotidiano implica e richiede una «torsione» delle parole per rivelare la loro ombra, quell’ombra che infirma i significati consolidati.

Ad esempio, nel terzo haiku riportato, il «velo da sposa» richiama alla mente, per via di un correlativo oggettivo, l’atto del primo verso che si presenta con la personificazione di un inanimato (il libeccio): «Entra il libeccio»; il secondo verso funziona come trait d’union tra le immagini del primo e del terzo verso, funziona cioè come mediazione. Gli haiku di De Girolamo funzionano tutti secondo questo schema: dove il secondo verso agisce come momento di mediazione tra il primo e il terzo verso, in ciò rendendo evidente che si tratta di haiku modernissimi, di haiku dove agisce una sensibilità squisitamente occidentale, modernistica.

(Giorgio Linguaglossa)

.

Francesco De Girolamo è nato a Taranto, ma vive da molti anni a Roma, dove, oltre che di poesia, si è occupato di teatro, avendo curato la regia di diversi spettacoli, tra cui: “Le sette maschere” ispirato a Kahlil Gibran (1992) ed “Il piacere di dirsi addio” da Jules Renard (1996).
Ha pubblicato: “Piccolo libro da guanciale” (Dalia Editrice, 1990), con introduzione di Gabriella Sobrino; “La lingua degli angeli” (Edizioni del Leone, 1997); “Nel nome dell’ombra” (Ibiskos Editrice, 1998), con una nota critica di Gino Scartaghiande; “La radice e l’ala” (Edizioni del Leone, 2000), con prefazione di Elio Pecora; “Fruscio d’assenza” – Haiku della quinta stagione – (Gazebo Libri, 2009); e “Paradigma” (LietoColle, 2010), con introduzione di Giorgio Linguaglossa.
E’ presente nelle antologie: “Poesia dell’esilio” (Arlem Edizioni, 1998), “Poesia degli anni ’90” (Edizioni Scettro del Re, 2000), “Haiku negli anni” (Empiria, 2005), “Calpestare l’oblio” (Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana), Argo, 2010) e “Quanti di poesia” – Nelle forme la cifra nascosta di una scrittura straordinaria – a cura di Roberto Maggiani (Edizioni L’Arca Felice, 2011). Articoli letterari e recensioni sono stati pubblicati su: “Tempi Moderni”, “Le reti di Dedalus”, “La Mosca di Milano”, “Polimnia” e su diversi blog e siti specializzati di Poesia e Critica. Nel 1999 è stato scelto tra i rappresentanti della Poesia italiana alla “Fiera del libro” di Gerusalemme. Ha collaborato dal 1994 al 2000 con l’organizzazione di “Invito alla lettura” a Castel Sant’Angelo e nel 2006 con il “RomaPoesia – Festival della Parola”. Nel 2007 è stato Responsabile Territoriale per il Lazio del Sindacato Nazionale Scrittori. Si sono occupate criticamente della sua opera, tra le altre, le riviste: “Poesia”, “Folium”, “Poiesis” e “Atelier”.

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELLA MUSICA O SUGLI STRUMENTI MUSICALI di Adam Zagajevski, Giorgio Linguaglossa, Domenico Alvino, Francesco De Girolamo, Franco Dionesalvi, Fortuna Della Porta, Terry Olivi, Laura Cantelmo

musica tra gli egiziani Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

Il violoncello

Dicono i detrattori: è solo
un violino che, mutata la voce,
è stato espulso dal coro.
non è così.
Il violoncello ha molti segreti,
ma non piange mai,
canta solo a voce bassa.
Non tutto però si muta
in canto. Talvolta si può udire
un sussurro o un fruscio:
sono solo,
ma non posso prender sonno.

(trad. di Krystyna Jaworska)

picasso astratto musica

picasso astratto musica

 

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

 

 

 

 

 

Giorgio Linguaglossa

Il Signor K. era là

Aveva appuntato, Cogito, l’indirizzo della Signora Marlene
su un foglietto di carta che teneva in fondo alla tasca interna della giacca.
Voleva congedarsi. Prese il foglietto in mano.

Intanto, i premorienti si affollano nei vagoni merci.
Gendarmi portano al guinzaglio i mastini,
rovistano in ogni angolo della Zentralbahnhof,
perlustrano i binari.
Nella sala d’aspetto, c’è chi gioca con i serpenti,
chi pettina i capelli alle bambole,
chi suona il violoncello.
Tchiajkovski strimpella il pianoforte,
più in là Vermeer dipinge di profilo una ragazza.

La luce si spense sul lastricato. Nella Kammerspiel
color fucsia la bella Marlene canta al pianoforte
il Lied della morte e della nostalgia.

Il Signor Cogito ama questo luogo di pace,
non saprebbe farne a meno.
Berlino. Anni Trenta.
Sulle ciglia, sulla pelliccia, sui guanti grigi
del Signor Cogito adesso cade una neve soffice.

Il lampionista si voltò, vicino a noi accese un lampione
e si mise a fischiare un’aria di Mozart.
I soldati scrivono cartoline alle fidanzate.
«Che epoca è questa?», chiede Cogito
alla bella Marlene nel salotto color fucsia.
Salieri fuma una sigaretta nel divano scarlatto,
ufficiali della Wermacht giocano a whist nel reservoir.
«Signor Cogito lei è un vero umorista», gli risponde
la Signora Marlene dall’antichambre.
C’è chi gioca con i décolleté, chi con la vedova nera,
c’è chi gioca con i serpenti, chi pettina i capelli alle bambole.
Una neve soffice si posa sulla pelliccia di Cogito
che si affaccia a una finestra. È quasi inverno.

Il cigolio meccanico degli usignoli si arrestò.
Il Signor K. era ancora là, tra lo stipite e la porta.
«Gutentag Herr Cogito…».

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel

Un lampadario veneziano brilla nella Kammerspiel color fucsia.
Una maîtresse si trucca davanti allo specchio
con la cornice dorata. La bella Marlene
canta un Lied di nostalgia e di addio.
I treni sono carichi di soldati.
Ufficiali della Wermacht dicono «Gutentag und Gutenabend».
Il Signor K. indossa una parrucca argentata.
Il Signor Cogito inforca gli occhiali.
“Il signor Retro estrae l’orologio da tasca,
lo carica –
ascolta il ticchettio del meccanismo,
che impassibile spinge avanti
le lancette e i secondi
(come fermare l’istante, questa goccia di eternità?)”.*
Il Signor Retro ripone l’orologio sul tavolo
e dice: «auf Wiedersehen».
Il Signor Cogito si toglie gli occhiali.
Il Signor K. si toglie il guanto sinistro.
Getta una manciata di gioielli,
(smeraldi, perle, diamanti, rubini)
sulla toeletta; il tutto, così, alla rinfusa.
L’innominato indossa una redingote
nera, lucida, lisa, occhiali di tartaruga
con le stanghette dorate.
Gli uccelli sugli alberi emettono un singulto metallico.
Marlene singhiozza il Lied della nostalgia.
I soldati sono partiti nei treni carichi di morti viventi.
Si alzano in volo col muso ad uncino i pipistrelli.
Sette corvi beccano il mangime nel letamaio.
Nella Kammerspiel è entrato il fruscio degli astri.
Il Signor K. si mette in posa nel corridoio.
«Dov’è?».
«Cosa?».
«Il quaderno nero».
* versi di Marek Baterovicz

violino_Barroco

violino_Barroco

 Domenico Alvino

Domenico Alvino

Domenico Alvino

La cantante cieca

È una cieca ora l’accompagnano
resta dietro pupille grandi.
Cerca un bandolo là sotto
medita la sua canzone al buio
dentro un buio chiuso
a lampi
aduna
corde
lorde
parole salgono a grappoli
alle note
lega
una valanga
giocata a pigli scosse luride luminose
vengon fuori anime secolari
affollano e diradano
a respiri e ad ansimi
a balzi
e poi giù ricadute
piene di salti
roteanti riverberi in sé stessi
rientri
nel buio chiuso
essi e la cieca ricurva all’applauso
infinito
di tutti
lì in piedi
annusa il loro sguardo
dietro
le loro bocche spalancate.

(Roma, venerdì, 27 luglio 2007)

La musica: il morire

Nella tua spessa ombra
tu pensi
ch’io entri
come d’un pezzo passando cellule
atomi
fra atomi
io ombra
in un corpo-ombra?
O che un non-spirito
entri in un non-spirito
ove né valva né vulva ti apri
tu spirito così addensato d’ombra
che esaurisci il dentro
tanto che i molti io e tu ed egli tutti
schiodati fuori?
Il noi – dice – è però da dentro.
Ma è un dentro vuoto
senza il tu e l’io certi
a ben vedere
anche il tu e il voi e l’egli
e il loro e l’essi
sono altri dentro
spesso anch’essi
vuoti
avidi
sfumanti in fuori
e vedi quanti fuori vuoti
adesso astri
che si girano
lenti
l’uno guarda fuori
l’altro
l’essere, io penso, non ha dove
sta a guardare a lato
scoppi
attende
crepe
nella materia obdura
fin che ne si sciolga
un dentro…
Lascio la musica lì
nel nulla
essa non entra
nella morte
bisogna andarci soli.

(inediti, Roma, 6 aprile 2001)

musica sassofono

 Francesco De Girolamo

Francesco De Girolamo

Cammina e canta

Cammina e canta
e insegui molti amori
impossibili e fieri
e disvela misteri e nascondi
i tuoi sogni ai veleni del giorno
livido e freddo e uguale.
Troppe bocche senza ansia di fiamma
bisbigliano il coro dell’ombra
alla folla disabitata.
E tu, sii il seme di un’alba
remota, mai sorta;
appartieniti, proteggiti
dalla vita già morta
che incalza; sii il cucciolo inerme
della tua rinnegata eternità.

Metamorfosi

Non è molto quel ramo dietro i vetri
per sapere che fuori impera il niente;
ma è tutto ciò che scorgi e che non vedi
che lo trasforma in una gemma ardente.
Che lo trasforma in una calda rosa
che accende il limitare dello sguardo
della sua sete indomita e operosa;
e ritrasfonde in musica il tuo pianto

Francesco De Girolamo da Paradigma Lietocolle, 2010

musica rinascimento

 Franco Dionesalvi

Franco Dionesalvi

La fragola e il pianoforte

Il lembo vellutato
del vestito a macchie di fragola
si acquattava sul cranio pallido
del maestro francese
al pianoforte.

L’ansia distratta di lei
raccoglieva
silenzi mielosi margherite di raso
nel pubblico a cappelli
raccogliticcio
dalla valanga appena sventata
di là dalla finestra
per nuovi messia
intagliati nell’alba;
girava le spalle nude
accostava la parete
si poggiava sul davanzale di neve
concepiva nella sua mente
il nano della montagna.

musica

 Fortuna Della Porta

Fortuna Della Porta

Musica di pentagramma,
infuriano le dita sui tasti.
La Moldava, come la vita,
me la svelò mia madre,
con appena tre note, l’udito lacunoso.
L’oboe delle ellittiche,
in movimento di danza,
l’appresi di notte
malgrado i corni latranti dei cani.
In spirito millimetrico, rispettoso,
ninnavano il sonno i cerchi di Saturno
con andamento adagio, molto cantabile
e al fondo, sempre udibile,
la grancassa in fff del big bang
favilla di prestoria
dove il prima e il dopo
convissero in un fulmine.
In perfezione di suoni
la legge di sassi e comete.
Al flauto delle tempeste solari
fibrillano i violini del fiume
le cui ripe in concerto
sbocciano a un giro di do.
Arpeggia lo spartito armonico
col sigillo -da sfinire- di scale avulse.

Stradivari 1681

Stradivari 1681

 

Terry Olivi

Terry Olivi

 

 

 

 

 

 

Terry Olivi

Blues all’Alberone

.
Occhi succosi estate
la cantante
ha un vestito rosso
sul palco gli acuti
i bassi
uno swing? so sad
tonight
una disperazione
così dolce così tacita
too bad

tonight

il plenilunio è
ancora lontano
l’oceano mi è testimone
una zattera insegue l’onda
una culla
la ragazza sulla zattera
nel suo vestito rosso
canta microfono in mano
è solo per il mare
per il vento per le instabili nuvole
per l’ampio cielo intorno.
Un’armonica risponde
così pura così lontana.

Eppure
svaniscono piano piano
so sad so sad so sad
tonight….

Roma 30 dic. 2011

Giuliana Lucchini violoncellista

 Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Laura Cantelmo

Papillons*

A Mirna amante dell’armonia

Nel coro turchino dei grilli coglie
l’allodola semi e granaglie
con le prime note del mattino.
Ha vegliato la notte di collina,
paventando fantasmi della Selva
Nera, ciclopiche illusioni
dell’Egeo cipriota con i venti
della steppa turbinanti sopra
una tastiera di farfalle. Le note
si fanno immateriali trilli
di cutrettola vibrante con le piume
che gonfiano leggere le frasi
di spartito.
Poi appare Leda, abbandonata
all’assoluta gioia d’un amore
divino, ignara dell’infimo
destino mortale.

*Robert Schumann, composizione per pianoforte Op. 2

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ANTOLOGIA IV PER IL PARNASO – Roberto Maggiani, Giuseppe Panetta, Chiara Moimas, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Marzia Spinelli, Davide Cortese, Stelvio Di Spigno

Parnaso 1

roberto maggiani

roberto maggiani

Roberto Maggiani

La paura

È un qualunque mattino di serenità:
il sole alto sull’orizzonte marino
la nuvola bianchissima nell’azzurro subtropicale
la palma ondeggiante lungomare
il frastuono dell’onda sulle pietre.

Minuti sospesi
sul baratro dell’inesistenza –
ma noi di questo non ci preoccupiamo.
Nell’Universo dal vuoto metastabile
(potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro)
qualcuno si spaventa per una sirena

un incendio improvviso nel bosco
un forte vento.

La paura
è solo un momento in cui vediamo
riflessa nel mondo
la precarietà
della rete che ci sostiene.

 

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Giuseppe Panetta

Il cuore assente per il troppo battito
gli occhi riversi nel bagliore di compassione
e la luce del lavacro torbido di Giove prono nella galassia
antigene del Potere asfittico pronipote di Venere distributrice
di bevande nell’aferesi della prima spremitura di nube con la sorte
della grappetta dei fogli pidocchiosi d’inchiostro dall’alto del satellite cieco
il profilo del malaffare planetario pesca nell’idolatria rinsecchita del dio denaro
in rivoli di melma di una qualsiasi povertà che vìola e recide la protostella al nascere
della galassia del vivere nell’infrarosso interagente nel libertinaggio masturbatore
d’ogni fibra oftalmica avvelenatrice del rimpatrio delle stelle dell’orsa maggiore
che guidano i disperanti nel mare nostrum della sera con diaspore di sconforto
di speranza nei frangiflutti delle luci morte delle supernove che come fari
d’ogive e distruzione di gas e polveri in luogo del seme rifuggono
nel procellarum muto l’oscurità il riassetto del mondo per mano
d’uomo e in questo primo quarto il nulla a-cosmico
come un corno d’Africa porta fortuna

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Preziosamente

Zaffiri stemperano il cielo e l’orizzonte,
acquamarina fresca zampilla dalla fonte,
rossi rubini a coprir l’occiduo sole
e d’ ametista i petali delle nascoste viole.

Smeraldi intensi sopra i pendii e sui prati,
coralli e lapislazzuli son fiori profumati,
stille di diamanti paion gocce di rugiada
e sopra le tue palpebre il pallore della giada.

La notte si accende, son topazi le stelle,
ed è d’ambra dorata la tua pelle,
boccioli di corniola i pruni del tuo seno
racchiusi nel cristallo i colori del baleno.

Bisso prezioso e casto a ripararti il pube
e incenso conturbante che avvolge in una nube.
Un’ostrica ho divelto per cullare il tuo riposo;
opalescente perla, che toccar non oso.

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Sabino Caronia

da Diario di un’assenza

È il vuoto che mi lasci la mia vita.
No, non manca la sedia ma il tuo posto
e più manca la voce e più il silenzio
dell’averti qui accanto, di quei grandi
occhi perduti che lasciano il mondo.
Anche la chiara luna su nel cielo
solitaria di te nel buio splende.
Tutto intorno è il diario di un’assenza.

A distanza

A distanza, dai luoghi che traversa
l’ansia d’averti, come sai, ti chiamo
ed una gioia sento in me diversa
a cui m’arrendo come pesce all’amo.

Tutta la vita in fondo è cosa persa,
l’inganno di un inutile richiamo,
la filastrocca bella e un po’ perversa
che ci seduce con il suo “ti amo”.

Pure resta un ricordo: l’usignolo
che cantava nel bosco ed era solo
e l’ombra che scendeva nella sera

dalle ciglia, materna ombra severa,
e gli angoli incurvava della bella
bocca altera e distante come stella.

 FOTO G. DI LEO

Giuseppina Di Leo

Un uomo dai quattro occhi ho guardato
due li aveva nel petto sotto la camicia
ronzavano alla maniera di un animaletto
ali le ciglia sbattevano segretamente
senza esser visti divoravano
l’eccesso del cuore facendolo sterile
gli occhi del viso erano gioiosi
si posavano curiosamente
sui platani dal bordo castano
stimme verde arancio o di morfea
nella morfallassi di un tempo intero
avanzavamo a scoprire genesi e genere
a un’età dove riposto è già ogni sgomento
con altri occhi somiglianze non ve n’erano
mai ne avevo visti di così belli;
ma i due occhi nel petto
non mi fu possibile guardare
né mi preoccupai invero di scoprirli
segreti ammorbavano chiarori in lampi
e, allontanandomi, essi trafissero il dolore.

*
C. M. E.

La cenere nuota nell’acqua
di un bicchiere mezzo vuoto.
Una cicca di primo mattino.
Qualche scatto assestato per bene
tra piccoli fiori coltivati ad arte
nel piccolo giardino davanti
l’alloggio, e se puoi dimmi
al risveglio cosa ricordi
se il bacio sulle labbra
a quale parola associare.

Aria fresca e avvio di un motore
un pensiero anche
apertosi tremando
come noi tremiamo.

Spinelli foto

Marzia Spinelli

Ti ho cercato in ogni deserto
per le strade di questa odorosa
amorosa città
ho scavato nella terra
e abbracciato la carne
disegnando un sorriso
un suono della tua voce
un profumo tuo
nel giorno
che continua il sogno di te
della notte, di notte qualcosa di te
ho immaginato
la tua lucente armatura d’eroe
e il mio abito di fanciulla perduta
per entrambi
in un trasparente corpuscolo
nella grana ruvida delle stelle
nell’aurora una nuova sembianza di noi.

(inedito)

davide corteseDavide Cortese

Vomito boschi dalle erbe odorose,
unicorni dalle storie millenarie.
Con un solo filo dei miei pensieri
giovani marinai dimenticano il mondo
intrecciando con dita di scheletro
gasse degli amanti e nodi dai nomi
che i loro figli mai nati
non smettono ancora di inventare.
Ciò che si muove nel mio ventre
è l’intero mondo,
bagnato fradicio, fino al cuore di fuoco,
dalla pioggia splendente della vita.
Ma sarò solo una gabbia d’ossa
se ora tu non verrai ad amarmi.
Sarò il cimitero dei miei popoli iridati,
degli arcani baciatori,
dei miei incendiari poeti.
Sarò maestoso nubifragio di tristezze
se solo tu ora non verrai.

(da “Anuda” Aletti 2011)

Elvio Di Spigno

Stelvio Di Spigno

Barcarola della fortuna

A Stefania Buonofiglio

Fai brillare i cavalli al tuo treno perché
è soltanto miseria il nostro mondo, anche se
si affaccia a rincuorarti mentre cammini
ai bordi di una foto, su Positano inusitata
di colori e di acacie, e a lungo la faccia che hai
perde il verde del suolo primitivo.

Brevettammo universo e allegria, come a metà
del Novecento i nostri avi, entrambi contadini,
ma su due facce di cielo distanti in fascine,
poi vennero i giorni di caduta, ora ricordo
che fosti incinta di me come una madre,
mi curavi e cercavi, mi adottavi e viravi

la tua barchetta molle delle astuzie marine
verso un’isola dove restasti sola, drammatica,
a morire di sghembo, senza essere chiamata,
più da nessuno da quel giorno, dolcezza,
signora, amore, pietà, larghezza amata.
Restano tra i vivi gli olivi calabresi,

il filmino della casa, l’anno 2006, la mente andata,
e ogni nuovo volto è un dolore che affoga:
popolammo il motore della fine, quando
tutto cominciò, in un giorno di carta, ere fa,
nessuno ancora l’ha scritto o l’ha tradito,
perché a ogni fatica noi affondammo insieme.

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