Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

Alfredo de Palchi

Domanda: Chi è il poeta Alfredo de Palchi?

Risposta: Alfredo de Palchi è nato a Legnago (Verona) il 13 dicembre, 1926, e vive negli Stati Uniti a New York dove si è dedicato con infaticabile acribia alla diffusione della poesia italiana tramite la rivista di letteratura “Chelsea” e la casa editrice Chelsea Editions. Ora che abbiamo tra le mani il volume delle opere complete del poeta italiano residente negli U.S.A., a cura dell’infaticabile Roberto Bertoldo, possiamo riflettere sulla poesia depalchiana con mente sgombra e animo libero da pregiudizi. Il poeta di Paradigma (Mimesis, 2006), è senz’altro il più asintomatico del secondo Novecento. Il titolo del volume appare azzeccato per quell’alludere a un «nuovo» e «diverso» paradigma stilistico della poesia di de Palchi. Sta qui la radice della sua individualità stilistica nella poesia italiana del tardo Novecento e di questi anni. Il suo primo libro, Sessioni con l’analista, esce in Italia nel 1967, con Mondadori, grazie all’interessamento di Glauco Cambon e Vittorio Sereni; poi più niente, l’opera di de Palchi scompare dalle edizioni ufficiali italiane. Il silenzio che accompagnerà in patria l’opera di de Palchi è ancora tutto da spiegare, un destino davvero singolare ma non difficile da decifrare. Innanzitutto, la poesia di Alfredo de Palchi fin dall’opera di esordio, La buia danza di scorpione, (il manoscritto è databile dalla primavera del 1947 alla primavera del 1951 scritta nei penitenziari di Procida e Civitavecchia, anzi, scalfita sull’intonaco dei muri delle celle durante la detenzione del poeta), rivela una sostanziale estraneità stilistica e tematica rispetto alla poesia italiana del suo tempo. Estranea alle correnti letterarie allora vigenti, estranea al post-ermetismo e alla poesia neorealistica degli anni che seguiranno la seconda guerra mondiale, de Palchi non aveva alcuna possibilità di travalicare l’angusto orizzonte di attesa della intelligenza letteraria italiana, per di più il giovane poeta era visto con estremo sospetto per via della sua scelta di affiliazione, ancorché giovanissimo, tra le file della Repubblica di Salò.

Laboratorio 5 zagaroli

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Perché una monografia critica sulla poesia di Alfredo de Palchi?

Risposta: Perché Alfredo de Palchi è un poeta asintomatico e che non è possibile irreggimentare in una corrente o una scuola o una linea correntizia della poesia italiana del Novecento. E poi direi che il maledettismo di de Palchi non è nulla di letterario, non è costruito sui libri ma è stato edificato dalla vita, come la poesia del grande Villon la cui poesia costituirà per de Palchi un modello e un costante punto di riferimento. Da una parte, dunque, la poesia depalchiana fu colpita dall’etichetta di collaborazionista e reazionaria, dall’altra non è stata mai compresa in patria dove le questioni di poetica venivano tradotte immediatamente in termini di schieramento politico-letterario. Con l’avvento dello sperimentalismo officinesco e della coeva neoavanguardia, la poesia di de Palchi venne messa in sordina come «minore» e «laterale» e quindi posta in una zona sostanzialmente extraletteraria. Esorcizzata e rimossa. Il destino poetico della poesia depalchiana era stato già deciso e segnato. Finita in fuorigioco, chiusa dagli schieramenti letterari egemoni, la poesia depalchiana uscirà definitivamente dalla attenzione delle istituzioni poetiche italiane e sopravvivrà in una sorta di ghetto, vista con sospetto e rimossa nonostante l’apprezzamento di personalità come Giuliano Manacorda e Marco Forti. In ultima analisi, quello che risultava, e risulta ancor oggi, incomprensibile e indigesta alle istituzioni poetiche nazionali, era una fattura stilistica e poetica troppo dissimile da quella letterariamente riconoscibile della tradizione secondo novecentesca. Quella particolare «identità», quella convergenza parallela di vicenda personale biografica e vicenda stilistica, era lo stigma di estraneità alla tradizione italiana. Probabilmente, la poesia di de Palchi sarebbe stata più riconoscibile se letta in una ottica «europea», come espressione adiacente alla poesia di altre esperienze linguistiche e tradizioni letterarie. Diciamo, con una formula eufemistica, che quel manufatto era allora «oggettivamente» indisponente e indigeribile da parte della società letteraria del tempo. Con questo non voglio affermare che la poesia di de Palchi sia «migliore» di quella di Laborintus o de Le ceneri di Gramsci, tanto per intenderci.

Laboratorio gezim e altri

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: Pensi che oggi i tempi siano maturi per una rilettura priva di pregiudizi ideologici della poesia di de Palchi?

Risposta: Oggi, ritengo che i tempi siano maturi per una rilettura dell’opera di de Palchi libera da pregiudizi e da apriorismi ideologici. Ad una lettura «attuale» non può non saltare agli occhi appunto la profonda originalità del percorso poetico depalchiano, un percorso che proviene dalla «periferia del mondo», per citare una dizione di Brodskij, da una entità geografica e spirituale distante mille miglia dalla madrepatria, e questo è da considerare un elemento discriminante della sua poesia, la vera novità della poesia degli anni Sessanta insieme a quella di un poeta come Amelia Rosselli che in quei medesimi anni produceva una poesia singolare ed estranea al corpo della tradizione del Novecento italiano. Per motivi legati ai movimenti di scacchiera del conflitto tra Pasolini e la nascente neoavanguardia, le poesie della Rosselli vennero pubblicate sul “Menabò” da Pasolini nel 1963 perché più comprensibili e decodificabili ed elette a modello di un proto sperimentalismo; questo almeno nelle intenzioni di Pasolini, artefice di quella operazione. Dall’altro lato della postazione, la neoavanguardia tentava di arruolare la Rosselli tra le proprie file battezzandola con l’etichetta di «irregolare». La poesia di de Palchi, invece, non era «arruolabile» per motivi politici e di politica estetica, e quindi il suo destino fu quello di venire dimenticata e rimossa come una specie di «fungo» letterario non riconoscibile e non classificabile. Per tornare all’attualità, oggi, con l’esaurimento del minimalismo e con il consolidamento della «nuova» sensibilità critica e poetica maturatasi a far luogo dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, la poesia di de Palchi può ritrovare un suo profilo di legittimazione storico-estetica e può essere considerata come uno degli esiti «laterali» più convincenti e significativi della poesia italiana della seconda metà del Novecento.

Domanda: Un capitolo della tua monografia è denominato «L’anello mancante della poesia del Novecento italiano». Vuoi spiegarci che cosa significa e perché questo titolo?

Risposta: La dizione non è mia ma di Luigi Fontanella che l’ha coniata per primo, che ritengo fortunata ed azzeccata. L’esperienza poetica del de Palchi di Sessioni con l’analista (1967) è centrale per comprendere la diversità esistenziale e stilistica della sua poesia nel contesto della poesia italiana del secondo Novecento, la irriducibilità di una esperienza poetica legata a doppio filo con la sua esperienza biografica e umana. Se si salta la poesia di de Palchi non si capisce nulla della poesia italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. È incredibile, a confronto con la poesia depalchiana la poesia che si faceva in Italia non ha nessun punto di contatto, sembra quella di un marziano che scriva sul pianeta Marte.

Domanda: Una dichiarazione di sfiducia totale per le opere di storicizzazione.

Risposta: Sfiducia totale.

Alfredo De Palchi -7

Alfredo de Palchi

Domanda:  I sei anni di carcerazione preventiva subita dal diciottenne Alfredo de Palchi con l’accusa infamante di omicidio di un partigiano, sono anni di letture intensissime da parte del giovanissimo poeta. Scrive Luigi Fontanella:

«Gli anni nel penitenziario di Procida, duri e vessatori da un lato, ma assai ricchi di letture, di stimoli e fantasie letterarie. de Palchi divora una montagna di libri che vertiginosamente (ma anche con diligente intento cronologico) vanno dalla Bibbia, Dante (specialmente quello delle rime petrose) e Cavalcanti, fino ai moderni e contemporanei, passando attraverso qualche rinascimentale, per arrivare, appunto, ai vari Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana, Govoni, Sbarbaro, Quasimodo, Ungaretti, Montale,  l’amatissimo Cardarelli (su cui, sempre in carcere,  scriverà un breve saggio che, inviato a Cardarelli in persona, a quel tempo direttore della ‘Fiera Letteraria’, uscì su questa rivista,  suscitando scalpore e un certo dibattito),  fino ai suoi,  quasi coevi,  maestri o ‘fratelli’ maggiori: Sinisgalli, Sereni, Caproni, Erba, Zanzotto, Cattafi. Dalla lett(eratu)ra italiana passa poi a quella francese, non importa se – a quel tempo – con scarsa conoscenza di questa lingua, venendo conquistato in particolare da François Villon (non pochi eserghi tratti da questo poeta verranno poi utilizzati da de Palchi), Charles Baudelaire, Gerard de Nerval e, su tutti, Arthur Rimbaud».

Risposta: Il discorso poetico di de Palchi ha preso congedo dalle «fondamenta» pascoliane della poesia italiana del Novecento. Pascoli e D’Annunzio sono saltati di netto. È il primo poeta italiano del secondo Novecento che si libera anzitempo della zavorra stilistica pascoliana e dannunziana. In tal senso, è il poeta più realista del Novecento.

Laboratorio 4 Nuovi

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Domanda: E questo ai tuoi occhi è un distinguo importante?

Risposta: Nella mia visione dello sviluppo della poesia del Novecento questo è un punto decisivo.

Domanda: Torniamo agli anni Sessanta Settanta. Qual è a tuo avviso il distinguo dell’esperienza poetica di de Palchi rispetto alle coeve esperienze poetiche che in quegli anni si facevano in Italia?

Risposta: Nel libro, ho scritto: «Alfredo de Palchi sterza vigorosamente dalla poesia di impianto simbolistico-auratico del primo periodo montaliano, da una poesia meramente fonetico-musicale della tradizione lirica italiana dove l’io si auto conserva entro l’impianto dell’alienazione dell’«io» e del «corpo», per aderire ad una poesia dell’immaginario e della internalizzazione degli oggetti; fa una poesia afonetica, amusicale, anti auratica, fantasmatica non inscritta in alcun pentagramma melodico tonale. Un po’ in consonanza con quello che avveniva nella musica di avanguardia degli anni Sessanta da Giacinto Scelsi, John Cage a Luciano Berio, a Morton Feldman che apriranno nuove prospettive alla musica contemporanea». Non mi sembra cosa di poco conto.

Domanda: La poesia di Alfredo de Palchi come esempio di un nuovo tipo di realismo?

Risposta. Direi che non ci possono essere dubbi in proposito. Nel libro scrivo:

«Leggiamo alcuni sprazzi di «materia poetica» di de Palchi all’argento vivo, da «Un ricordo del ’45» in Sessioni con l’analista (1967):

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
[…]
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

Si tratta della poesia che ha consumato la più alta capacità di combustibile dagli anni del dopo guerra, un veicolo ad altissimo dispendio energetico, che non conosce il principio del risparmio di carburante, che va allo scontro frontale con l’entropia delle scritture detritiche dello sperimentalismo in auge negli anni Cinquanta e Sessanta, attraversa i decenni con una incredibile fedeltà alla propria intuizione stilistica ed arriva all’epoca della stagnazione stilistica e spirituale dei giorni nostri sempre con l’allegria del naufragio prossimo venturo».

Laboratorio quattro

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

ALFREDO DE PALCHI COVER GRIGIADomanda: Hai scritto nella monografia:  “Il primo autore che nella storia della poesia italiana del Novecento inaugura il «frammento» quale forma base della propria poesia è Alfredo de Palchi, con La buia danza di scorpione (1947-1951) e, successivamente, con Sessioni con l’analista (1947-1966), pubblicata nel 1967». Ritieni questo un punto qualificante della esperienza poetica di de Palchi?”

Risposta: Lo ritengo un punto assolutamente qualificante.

Domanda: Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore».

Risposta: Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco sia gli aggettivi che i sostantivi: o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi dal discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti. Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.

Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.

Domanda: So  che hai letto l’ultimo libro inedito di de Palchi Eventi terminali. Che cosa mi puoi dire su questo lavoro?

Risposta: Siamo circondati dalle parole-chat: radio, televisione, internet, giornali, riviste di intrattenimento e di nicchia, simil-poesie in plastica, miliardi di parole che sciamano con un ronzio inquietante e imperioso nella nostra mente. Anche le opere letterarie sono promulgate in parole chat. Purtroppo non abbiamo altra scelta che credere fermamente in una utopia: che soltanto una grande letteratura può bucare la rarefatta atmosfera fatta di sciami di parole insulse, inutili e perniciose. Le parole sono importanti per mantenere viva e vigile la coscienza estetica di una comunità nazionale. La decadenza delle parole di un popolo è l’indice del progressivo sfacelo di un paese e di una lingua. Una lingua è una precisa concezione del mondo e una immagine della identità di una comunità linguistica. Modificando le parole cambia la lingua, muta la concezione del mondo di quella lingua e muta l’immagine riflessa della identità di una comunità.  Il senso dell’identità dell’io è una costruzione linguistica e, come insegnava Lacan,  quello che per un soggetto è il significante non coincide con quello che per il medesimo soggetto è il significato; tra significante e significato si apre una voragine. Quando l’identità di una nazione è in crisi, si offusca anche il linguaggio dei suoi poeti migliori; de Palchi con quest’ultimo lavoro inedito, Eventi terminali, avverte, come per telepatia, la grande crisi del paese Italia, e la traduce in una scrittura anche sgrammaticata, sforbiciata ma di forsennato vigore. Una scrittura che vuole bucare il linguaggio poetico maggioritario dei nostri giorni, e lo buca a suo modo, con una forza effrattiva che lascia sgomenti. È un linguaggio testamentario che qui ha luogo: de Palchi ritorna, ossessivamente, ai luoghi e ai fatti della sua prima giovinezza, deturpati e violentati, prende per il bavero il più grande poeta italiano del novecento: Eugenio Montale e lo irride mettendo a confronto la edulcorata scrittura letteraria del poeta ligure con la propria irriflessa e istintiva. È l’ultimo atto testamentario del poeta Alfredo de Palchi.

In senso teleologico, il critico ideale è il lettore ideale. Comprendere l’«esperienza» che le parole di un poeta ci offre, questo è il compito del lettore ideale e quindi del critico. Abito del critico è la dichiarazione di valore letterario di un testo. A volte, non basta il primo incontro con un testo; di frequente il lettore vigile ritorna a riflettere sull’opera. Legge e rilegge la stessa opera, magari a distanza di anni. La riflessione è il primo stadio del processo di comprensione ma, inevitabilmente, in ogni atto di lettura è implicita una valutazione. Il lettore ideale si dovrà chiedere: a chi si rivolge quest’opera? Da dove proviene? In quali rapporti sta con le altre opere sue contemporanee? Come si colloca a fronte delle opere del passato? Come si colloca nel panorama del  contemporaneo? Cos’è che rende importante un’opera nei confronti di un’altra? Qual è il rapporto che collega un’opera ad altre contemporanee? Il giudizio critico implica sempre una collocazione non solo dell’opera ma anche del lettore ideale. Ma un giudizio critico è sempre «aperto», non può essere «chiuso», altrimenti sarebbe un dogma teologico; nel giudizio rientra la ricerca del confronto con altri giudizi; ciò a cui il lettore ideale tende è un confronto con altri lettori che lo induca a riesaminare il precedente giudizio. Paradossalmente, il critico ha bisogno, più del poeta o dello scrittore, del confronto con un pubblico. Senza di esso, l’atto della lettura critica diventa un responso soggettivo. Credo che debba esistere nell’ambito della comunità una élite di lettori intelligenti in vista di un accordo sul giudizio estetico. Privo del supporto con un pubblico intelligente, il lavoro del lettore ideale diventa un fatto utopico, al pari di quello del critico. In fin dei conti, anche la scrittura di un critico è un atto testamentario, al pari di quello del poeta.

Quando una società non dispone di una letteratura in salute, l’esercizio dell’attività critica risulta dimidiata e offuscata, la comunità dorme il suo sonno ontologico. La stessa democrazia è in pericolo. La valutazione delle «cose pubbliche» della comunità non è cosa diversa e distinta dalla valutazione delle «cose private» qual è un  libro di poesia.

La difesa di un libro di poesia ha a che fare con la difesa della democrazia. Occuparsi di un’opera di poesia, difendere un buon libro di poesia, un autore è dunque un esercizio altamente «politico», è un atto da cittadino della polis, un atto che ha a che fare con la libertà individuale e collettiva. È, in definitiva, un atto pubblico.

Domanda: Un’ultima domanda, pensi che sia utile in quest’epoca di grande confusione in materia di poesia scrivere una monografia critica su un poeta vivente?

Risposta: Sono fermamente convinto che nella attuale situazione di confusione indotta dei valori poetici sia indispensabile proporre delle monografie critiche sui poeti veramente significativi. 

Laboratorio lilla

Grafica di Lucio Mayoor Tosi

Alfredo de Palchi, Poesie
da Sessioni con l’analista (1948 – 1966)
da Bag of flies

6

dicono
— i comandamenti — ma quali,
se gutturale la fiamma che ammonisce
aggrava i litigiosi che li smentiscono, se maligna
s’incarna in un’altra voce
che istruisce dalla montagna.
Conosco io, non te meritevole, quei comandamenti —
solo veri.
Dimentico la pena lacerante, non l’odio
di cui la ragione mi svergogna per voi tutti.
Io neppure so più amare,
solo so bruciarvi con i miei anni
di punizione e questa
domenica del patire parolaio / ancora i vostri rami
d’ulivo sono l’infetta infiammazione, torce di numerosi
Getzemani dove popolazioni sono triturate
dagli Eichmann e da milioni che si lavano le mani.
Non una parola
(la si sente tardi)
solo mani rapaci che usurpano quelle
mani inchiodate all’avvento mistificatore,
mistificato, torpore,
fiaba della resurrezione.
È domenica delle palme —

4

strumenti: ben
disegnati precisi numerati
non occorre contarli: hanno già l’osseo colore;
nella cava il paleontologo
scoprirà la scatola blindata di lettere
che dissertano l’uomo, alcuni ossi
su cui sono visibili tracce
delle malefatte — e nel libro
spiegherà che gli strumenti automatici
erano (sono) necessari ai robots primitivi
“spiega”
lo so, il mio dire
non mi esamina o spiega, eppure . ..
(la segretaria incrocia le gambe sotto il tavolo
e vedendomi in occhiali neri
“interessante”
commenta “ma ti nascondi”)
è chiaro
— sono ancora nascosto —
non più per paura benché questa sia . . . per
autopreservazione
“perché” paura, accetta i risultati,
affronta . . . difficile
l’autopreservazione,
capisci? se tu mi avessi visto allora
nel fosso, dopo che il camion…
(il camion traversa il paese
infila una strada di campagna seminata
di buche / ai lati fossi filari di olmi /
addosso alla cabina metallicamente
riparato pure dai compagni che al niente
puntano fucili e mitra)
— capisci che si tratta di strumenti —
(ho il ’91 tra le gambe)
di colpo spari e io
— già nel fosso —
alla mia prima azione guerriera non riuscii. . .
me la feci nei pantaloni kaki
l’acqua mi toccava i ginocchi. Sparai quando
“leva la sicurezza bastardo” urlò il sergente Luigi
— fu l’ultimo sparo in ritardo —
dal fosso al cielo di pece
strizzando gli occhi
la faccia altrove — risero:
“sono scappati
hai bucato il culo bucato dei ribelli”
— capisci? se la ridevano —
mentre io non pensavo
no, alla preservazione.
La intuivo nel fosso —

10

freddo — la neve blocca il poco traffico
a Vercelli
e si esce la notte (1951)
— non vuole farsi vedere con me —
temendo il giudizio del paese
“la reputazione, sai. . . “
— a me non importa —
la mia reputazione fa il giro
e la curiosità . . . le spiego l’entomologia
l’amore degli insetti
“gli insetti maschi
acchiappano le femmine riluttanti
mettendo in moto speciali furbizie”
— la curiosità —
s’informa mentre si cammina nella neve
dei viali della stazione:
“grilli e cavallette sono inclini alla musica
le farfalle s’appoggiano
ai profumi e le mosche di maggio
aromatizzano la seduzione con la danza”
succede . . .
andiamo al cavalcavia, oltre i giardini:
ora, d’accordo,
amo la ragazza ma
“la sanno meglio i maschi delle malacchidi
(minuscoli scarafaggi dei tropici)
— non ch’io sia scarafaggio, però . . . —
che adescano le femmine con un nettare
piccante / per allentare poi le loro inibizioni
le iniettano di frode un afrodisiaco”
— succede qualcosa di simile —
in piedi, sotto il cavalcavia:
“perché l’hai fatto”
piange pulendosi con la neve.
La pulisco
— d’accordo, non ho complessi di colpa —
ma non più m’interessano le vergini
“perché”
quel sangue pulito infiamma la neve — e lei piange
“perché l’hai fatto, la mamma . . . “
(pensi che la segretaria
cosce lunghe incrociate sotto il tavolo,
da .. . finché)… la mamma —

16

(dopo) — che mi porta —
l’inquietudine neurotica
incastonata nell’incertezza
è uno stormo implacabile, un cancro: ora
(fuggire)
alla frontiera
“documenti” chiede il finanziere
“non sei in regola,”
sono “guarda bene,
ne hai un pacco” timbrati dalla questura
libertà che persegue
(sul treno, terza classe, di notte
una coppia mi persegue
con occhi glutinosi)
glutine umana
sfoglia, legge “ah”
e timbra documenti passaporto
“comportati bene” chiude il pacco
“fai presto carogna” penso
— il gatto mi piange sulle spalle —
ma è bello fuggire
con una valigia di poeti scorpioni
le loro menzogne in buona cera
sotto il sedile
— me li porto dovunque —
per rassicurarmi delle menzogne abbaglianti:
astrazione
eccetto i miei anni: il contatto
la glutine umana —

costantina-donatella-giancasperoDonatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013 e la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015)

46 commenti

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46 risposte a “Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)

  1. gino rago

    LA POESIA DI UN CLASSICO: ALFREDO DE PALCHI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18816
    E’ una di quelle pagine, questa odierna, cui dovrebb’essere destinato un cantuccio privilegiato nella memoria umana e letteraria di ognuno di noi.
    L’intelligenza delle domande (Donatella Costantina Giancaspero) e la competenza critico-letteraria espressa dalle risposte (Giorgio Linguaglossa)
    consentono alla intervistatrice e all’intervistato di gettare finalmente
    la giusta luce su un poeta-maestro come Alfredo De Palchi sulla cui Opera,
    di lunga militanza e fedeltà alle ragioni alte della poesia, la politica editoriale
    italiana ha steso una coltre di oblio e di silenzio, mostrando con ciò i suoi imperdonabili limiti e le imperdonabili colpe.

    E bastano pochi versi come questi di De Palchi: “freddo – la neve blocca
    il poco traffico/ a Vercelli/ e si esce la notte (1951)…”
    per dare definitivamente ragione a Giorgio Linguaglossa per avere indicato
    in Alfredo De Palchi un anticipatore d’una poesia non già frammentista
    ma una “poesia per frammenti” come lontana e lucida matrice della N.O.E.
    Così come capiamo senza sforzi che Alfredo De Palchi non è mai caduto
    nella rete del lirismo di bassa lega poiché – ed emerge dalla intervista
    odierna – quel che si dice un “poeta lirico” non ha niente a che spartire
    con l’opera depalchiana, essendo un poeta lirico colui che tra sé e
    le verità della realtà sceglie sempre se stesso, con quell’Io minimo,
    periferico, scartato dagli eventi perché tristemente legato alle piccole
    psicopatologie del quotidiano.

    Gioia piena, ammirazione, riconoscenza alle elaborazioni artistiche di
    Lucio Mayoor Tosi nella proposizione della effigie di Maestri/e di poesia
    non più in questo mondo, Maestri/e ai cui versi L’Ombra delle Parole,
    fin dai suoi esordi, ha sempre dato riconoscente ospitalità.

    Gino Rago

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  2. DEBOLEZZA E INFERMITA DELLA PAROLA POETICA: Verso una nuova ontologia estetica
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18817
    Ho inteso inserire i «polittici dei poeti» firmati da Lucio Mayoor Tosi perché credo in questo design, mi piace questo indebolimento dei colori, lo apprezzo, siamo in un’epoca di indebolimento progressivo dei colori, delle parole, delle appercezioni, dei valori (forse), dei sentimenti, del politico… È questo il nostro comune sostrato ontologico, non ne abbiamo un altro di ricambio. Dobbiamo ripartire da qui, dalla nostra intima debolezza e infermità della parola poetica.
    Quanto diverse ci appaiono oggi le parole forti, graffiate, incise di netto della poesia di Alfredo de Palchi!

    Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli», la significazione poetica diventa «debole», ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole; anche i colori dell’odierno design sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, diventano meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante. Non ci sono più oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili. Oggi ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, è soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’è altra strada che muoversi in questo universo di parole slontananti, in via di indebolimento.

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  3. donfrancesca23

    complimenti!

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  4. LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL 900
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18821
    Ci vuole l’audacia di Linguaglossa per proporre una personalità , e una vicenda umana,complesse come quelle di Alfredo De Palchi;il quale aspetta ancora spazio e attenzione da parte di tutto il nostro mondo letterario,rassegnato ad una remissività imperdonabile.Potrebbe essere il “lettore comune”,quello che ha il pudore di non considerarsi neppure “lettore” a scoprire una grandezza che esiste, splende oltre ogni tentativo di oscuramento.
    Io diffido dei “critici”, specialmente se guidati dall’alto, ma credo nel pubblico oscuro dei semplici lettori,più intelligenti di quanto comunemente si creda.

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  5. LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL 900
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18822
    ”Osservando il panorama editoriale contemporaneo ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in Case Editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. Ne deriva una situazione di profondo sconcerto che coincide con l’eclisse della critica della poesia.”

    (Alfonso Berardinelli).

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  6. LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL 900 ALFONSO BERARDINELLI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18823
    Come non concordare con le osservazioni di Berardinelli, studioso di esemplare chiarezza e onestà? Personalmente, sono ottimista circa queste case editrici piccole, ma combattive,che riempiono, da sole, il vuoto della critica di regime,orientata dalla produzione di regime,dagli intellettuali di regime, e così andando.Ribadisco la mia fiducia nel lettore sconosciuto,che sa scegliere benissimo.Ogni tanto, al mercato, mi fermo a guardare i libri che, acquistati” a peso”,vengono poi proposti a prezzi contenuti: i libri “buoni” scompaiono immediatamente.Per ritrovare le “lettere d’amore di una monaca del Trecento” mi toccò rintracciare l’incredibile magazzino dell’ambulante.

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  7. antonio sagredo

    la cartografia della poesia italiana del 900 – Alfonso Berardinelli e Antonio Sagredo
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18825
    Berardinelli scrive qualcosa che condivido in pieno, finalmente! – Ma bisogna precisare che questa situazione non è nuova per la poesia italiana, e che più casi si son verificati in altre letterature come testimoniano le varie storiografie. Chatterton per esempio non riuscì addirittura a pubblicare e si uccise giovanissimo, credo a 17 anni! – quello del pubblicare (del non riuscire a…) con case editrici minori, tanto minori da risultare inesistenti non è un grave problema. Ricordo che un giovane poeta si lamentò con Mandel’stam perché non riusciva a pubblicare, e allora il Poeta lo cacciò a malo modo: “Cristo non ha mai pubblicato, Socrate mai !… [e altri elencò]”… facendolo ruzzolare dalle scale. Non ha importanza pubblicare ma per chi è a caccia di premi diviene un problema grave, tanto grave che mi fa sbellicare dalle risa.
    Credete veramente che il desiderio dei versi è quello di esser noti a tutto il mondo. Credo che non vogliono poi tanto essere riconosciuti, e sanno bene,
    perché dotati di consapevolezza, che voleranno dappertutto, comunque! Ma la consapevolezza del verso (della coscienza del proprio valore) nasce dal fatto che il poeta distanziandosene quasi totalmente – quasi non fosse affatto l’autore – può esclamare “ma questi versi sono davvero [p.e.] stupendi!

    Personalmente ho mandato al diavolo case editrici maggiori e minori, fino a che un Poeta mi ha pubblicato ed io non pagato nemmeno un centesimo di euro. Questa è la vittoria della Poesia! – Ma non basta nemmeno questa vittoria, ci vuole altro: come dire “il mio mito è la mia biografia, che poi ci sia di mezzo anche la Poesia, mi sta bene, ma non è affar mio!.
    adieu…
    ho scherzato, ma non troppo…
    altro da fare ci attende: avvisare i lettori vecchi e giovani di diffidare dei poeti che pubblicano con le grandi case editrici, ma diffidate pure di quelli che pubblicano con case editrici minori, molto minori, ma con meno acrimonia.
    adieu, di nuovo…

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  8. antonio sagredo

    LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL ‘900 ALFREDO DE PALCHI E GLI ALTRI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18828
    Non posso che condividere quasi del tutto quanto esprime l’ottimo Linguaglossa a proposito del poeta-fuori-le righe – De Palchi. Mai dirà il vero, p.e., il giovane e una volta rampante critico letterario Cortellessa, uno dei tanti che teme di bruciarsi a dichiarare che, p.e., il Montale già fu superato in vita dalla poesia concretissima e amara di quello (visto che la poesia di questi è una edulcorazione continua); fu inviso allo stesso Carmelo Bene dopo che lo andò a trovare – se non erro a Forte dei Marmi -… dopo, poiché mentre l’attore salentino gli parlava con fervore e passione della Poesia, l’Eusepio-Doganiere giocava a barchette sul tavolo senza rispondere… inviso a tutti solo per questo? No, inviso comunque. Quando lo lessi la prima volta avevo 16 anni e già mi annoiavo fortemente (mi annoiavo fino a riderne dei suoi versi e la colpa fu di Isidore Ducasse… Lautreamont: provate a mettere in confronto “I canti di Maldoror” coi canti del Montale, e poi ditemi dove sta la grande POESIA!). Il Montale, un poeta che dalle sue memorie e ricordi monotoni non riesce a uscirne fuori con scatti e riscatti biografici per cui un poeta è anche ricordato. Vi sono poeti che conducono una vita regolare come un qualsiasi borghesuccio, ma poi vai leggere i loro versi e rimani di stucco per la possanza che possiedono e per il furore che ti fanno nascere dentro. In quello che è considerato il maggiore dei poeti italiani (vincere un Nobel non significa nulla, anzi qualche volta deprime – e deprime vedere un Ungaretti in secondo piano!) non scorgiamo il fuoco divoratore nemmeno per riflesso, se mai un fuoco fatuo. E quanto fuoco invece in De Palchi! Sarà stato il Montale un ottimo traduttore, ecc., ma di traduttori italiani ottimi ve ne sono dozzine! Quanto fuoco nel Ripellino che lo stesso Linguaglossa indica come maggior poeta della fine del secolo scorso! E quanto fuoco in Pasolini tanto da bruciarsi davvero! Questi sono secondi a Montale? Nemmeno per scherzo! Il poeta Bene straccia la poesia del Montale come quei pezzi di stoffa rossa durante uno dei suo spettacoli monografici, (vedi i poeti russi coi loro quattro modi di morire!)
    Ci vogliono critici e storici della letteratura (e mettiamoci pure gli accademici), ma di vaglia, disinvolti e disincantati che se ne fottono dei giudizi storici(-zzanti) che hanno già catalogato come in nicchie i poeti: ognuno ha la sua nicchia sua e da questa non lo si sposta. Anche quelli che fra questi (i critici…) sembrano originali nel loro modo di scrivere dei poeti, alla fine riescono ad essere degli affossatori, perché fortemente ideologizzati e altro… ma basta e adieu

    ———————————————–
    E allora se diventa un mito la vita e la poesia del poeta De Palchi, è perché sia la vita che la poesia da questa espressa possiedono quel fuoco divoratore di cui sopra dicevo, e che se ci si avvicina troppo ci si può perdere come loro in quel “gorgo” campaniano, da cui sia il Montale, che un Quasimodo se ne stavano prudentemente lontano. Quel gorgo, che poi è il “duende” spagnolo, nella poesia italiana del secolo scorso è toccato di viverlo a tre o quattro poeti, non certo ai due nobel su citati; ma poi si sa che vi sono le eccezioni per fortuna come l’amatissimo Pirandello e le sue meravigliose “pagliacciate”; poi vi sono quelli che vivono il gorgo gioiosamente criticando e sferzando i costumi come il Fo, il cui mito ci sarà sempre presente.
    E Sagredo, che fine farà?
    adieu….

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  9. Claudio Borghi

    LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL 900
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18829
    Per quanto condivida in buona parte quanto afferma Antonio Sagredo, in particolare per quanto riguarda il coinvolgimento emotivo e la potenza espressiva di un Lautréamont (o di un Rimbaud) rispetto alla quieta, quasi manierata rappresentazione del dolore di vivere di Montale, oltre al necessario riferimento alla svalutazione totale del valore del Nobel alla letteratura (assegnato da un consesso di attempati accademici svedesi che non hanno di certo la conoscenza adeguata né la competenza per stilare graduatorie di merito circa la letteratura mondiale), credo sia necessario inquadrare i singoli autori nel contesto in cui hanno operato e formulare giudizi estetici il più possibile obiettivi (cosa non facile), prescindendo dall’adesione interiore di chi si presta ad una indagine critica. Né credo sia utile stilare graduatorie di grandezza, che quasi sempre lasciano il tempo che trovano. Nel caso di de Palchi, credo sia necessario salutare l’opera di Giorgio Linguaglossa come una coraggiosa quanto documentata e appassionata presa di posizione nel quadro stagnante della critica letteraria italiana, che tende a isolare i diversi in quanto generano inquietudine e destabilizzano false cristallizzate certezze. Il caso di Campana, a sua volta non poco travagliato, è quanto mai sintomatico, visto il suo essere, come scrive Antonio, lontanissimo dalla tranquilla sintesi borghese di Montale (ne è prova il citato surreale contatto con Carmelo Bene, appassionato cultore dell’opera di Campana), ma se ne potrebbero citare altri, in primis Beppe Salvia, splendido poeta morto suicida a Roma (dove viveva, dopo essersi trasferito dalla nativa Potenza) nel 1985, i cui testi meriterebbero ben altra attenzione e di uscire dall’isolamento e dalla nicchia in cui è stato collocato dalla critica ufficiale.

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    • gino rago

      Perché in tanti, ma non L’Ombra delle Parole né il suo fondatore Giorgio
      L, ancora continuate a ignorare il più emblematico dei casi di
      “ingiustizia poetica e di critica” del Novecento italiano: Lorenzo Calogero?

      Gino Rago

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  10. LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL ‘900 SECONDO GIORGIO AGAMBEN
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18831
    Riprendo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento” sempre secondo Gianfranco Contini, perché a nostro avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni e tutte le questioni come linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri.
    (n.d.r.)
    giorgio linguaglossa

    21 dicembre 2015 alle 11:42 Modifica

    «Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)

    L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »

    Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

    * Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

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  11. LA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL 900
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18833
    caro Gino,

    il problema per i poeti del Sud resta sempre quello: il Sud non esiste economicamente se non come colonia del Nord, non ha potere contrattuale, non ci sono grandi case editrici, non c’è un palazzo come a Roma dove c’è il Palazzo politico e i letterati sono aggiogati al Palazzo delle Tre Chiese… anche quella delle 5 Stelle sembra un’altra Chiesa ancora più monocratica delle altre Tre. Dicevo che i poeti del Sud vanno in ordine sparso, a portare vettovaglie e primizie a quelli del Nord sperando di ottenerne benefici e bonus e così facendo si comportano proprio come vuole il Palazzo che desidera ricevere a Corte soltanto gli uomini di fede e quelli che suonano il pianoforte dell’epigonismo. Lorenzo Calogero è un esempio calzante, ma non il solo… Altro problema è l’assenza di critica vera e seria, come evidenziato da Berardinelli, ormai siamo nel gurgite vasto, alla mercé degli eventi atmosferici…

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    • gino rago

      Ben articolato com’è, il commento di Giorgio Linguaglossa è da sottoscrivere perché contiene quella che un tempo veniva detta
      la “verità delle cose”, soprattutto in quelle poche parole che dicono il
      tutto: “l’assenza di critica vera” proprio nel segno, e nel senso, del dialogo
      già noto fra Avenarius e il Signor Pistorius: critica come kritiké téchne,
      vale a dire l’arte di scegliere, di separare, di dare giudizi.
      Nel caso di Lorenzo Calogero, Giorgio L. ha ragione anche in questo,
      ha giocato un certo ruolo tutto sfavorevole anche la sua appartenenza
      storico-geografica, senza nominare gli altri fattori ben evidenziati dalla
      nostra Rivista quando all’opera calogeriana fu data più che degna
      ospitalità. Ed è vero che esistono anche altri casi di crassa ignoranza
      poetica e critica a decretare la morte in vita d’altri poeti.
      Tuttavia, per onorare la verità delle cose, dopo il mio brevissimo commento del 24 marzo 2017, ore 10:04, ho ricevuto da Flavio Almerighi la comunicazione di una notizia che mi ha dato gioia:
      Stefanie Golisch, ( della cui ricerca poetica L’Ombra delle Parole si è a più
      riprese interessata ospitandola ), ha tradotto in tedesco poesie scelte
      di Lorenzo Calogero, con in copertina del libro poetico da Stefanie G.
      curato il titolo:

      Lorenzo Calogero, GEDICHTE
      (Aus dem Italienischen von Stefanie Golisch)

      Per quel che vale, vorrei far giungere a Stefanie Golisch il sentimento
      della mia gratitudine per un lavoro meritorio a servizio della Poesia e un
      “grazie” a Flavio Almerighi per la segnalazione.
      Gino Rago

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  12. Donatella Costantina Giancaspero

    Piccolo omaggio musicale ad Alfredo de Palchi…

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  13. SULLA CARTOGRAFIA DELLA POESIA ITALIANA DEL 900 LA TESI DI CONTINI E LA LINEA DISCORSO POETICO CHE ATTRAVERSA DIAGONALMENTE IL NOVECENTO
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18836
    Riprendo un mio Commento in margine al post dedicato alla “Cartografia della poesia italiana del Novecento”, perché è importante scalzare la visione dicotomica del Contini. Non dobbiamo farci abbagliare dalla sua formula dicotomica, anche perché da questa formula dicotomica sono esclusi poeti di livello europeo come Aldo Palazzeschi, Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Anna Ventura, Mario Lunetta, Giorgia Stecher, Mario Gabriele e Alfredo de Palchi, cioè quei poeti che percorrono un tipo di poesia che non coincide con nessuno dei due tipi indicati da Contini, cioè la linea innica e la linea elegiaca.

    Ritengo importantissimo tenere questa linea di demarcazione. Anzi, è vero il contrario: sia la linea innica che quella elegiaca sono laterali rispetto alla linea di quei poeti che hanno percorso la linea del DISCORSO POETICO di stampo modernistico. ed è proprio qui, è a questa linea modernistica della poesia italiana che io vorrei riallacciare «la Nuova Ontologia Estetica» di cui sono rappresentanti i poeti della redazione, una direttrice che non guarda né a destra né a sinistra, direi.
    Dire e spiegare come e perché la poesia di punta oggi in Italia è quella della Nuova Ontologia Estetica è un obbligo intellettuale e lo ritengo anche un obbligo etico.

    29 dicembre 2015 alle 8:27 Modifica

    Caro Pasquale Balestriere,
    il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi “politici” a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.

    Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato”La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico” (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà molte novità e approfondimenti. A mio parere la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

    Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

    L’identificazione di una Linea dominante è un atto critico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il più grande poeta dopo Montale. Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne “La beltà” del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria, avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.

    Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

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  14. PRENDIAMO UN ESEMPIO DI POESIA DELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18838
    Se leggiamo un brano famoso di una poesia di Eliot Una partita a scacchi (da The waste land), ci rendiamo conto di quanto la migliore poesia del Novecento e del Dopo il Novecento sia ancora debitrice della poesia di Eliot. Qui c’è un parlare a vanvera, un parlare apparente, un parlare a zig zag, un parlare pretesto, un mix impareggiabile di sciocchezze e di quisquilie:

    […]
    “Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
    Parlami. Perché non parli mai? Parla.
    A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
    Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”
    Penso che siamo nel vicolo dei topi
    Dove i morti hanno perso le ossa.
    “Cos’è quel rumore?”
    Il vento sotto la porta.
    “E ora cos’è quel rumore? Che sta facendo il vento?”
    Niente ancora niente.
    E non sai
    “Niente? Non vedi niente? Non ricordi
    Niente?”
    Ricordo Quelle sono le perle che furono i suoi occhi.
    “Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?”
    Ma
    0 0 0 0 that Shakespeherian Rag…
    Così elegante
    Così intelligente
    “Che farò ora? Che farò?”
    “Uscirò fuori così come sono, camminerò per la strada
    “Coi miei capelli sciolti, così. Cosa faremo domani?
    “Cosa faremo mai?”
    L’acqua calda alle dieci.
    E se piove, un’automobile chiusa alle quattro.
    E giocheremo una partita a scacchi,
    Premendoci gli occhi senza palpebre, in attesa che bussino alla porta.
    Quando il marito di Lil venne smobilitato, dissi –
    Non avevo peli sulla lingua, glielo dissi io stessa,
    SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
    Ora che Albert ritorna, rimettiti un po’ in ghingheri.
    Vorrà sapere cosa ne hai fatto dei soldi che ti diede
    Per farti rimettere i denti. Te li diede, ero presente.
    Fatteli togliere tutti, Lil, e comprati una bella dentiera,
    Lui disse, lo giuro, non ti posso vedere così.
    E io nemmeno, dissi, e pensa a quel povero Albert,
    E’ stato sotto le armi per quattro anni, si vorrà un po’ divertire,
    Se non lo farai tu ce ne saranno altre, dissi.
    Oh è così, disse lei. Qualcosa del genere, dissi.
    Allora saprò chi ringraziare, disse, e mi guardò fissa negli occhi.
    SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
    Se non ne sei convinta seguita pure, dissi.
    Ce ne sono altre che sanno decidere e scegliere se non puoi farlo tu.
    Ma se Albert si sgancia non potrai dire di non essere stata avvisata.
    Ti dovresti vergognare, dissi, di sembrare una mummia.
    (E ha solo trentun anni.)
    Non ci posso far niente, disse lei, mettendo un muso lungo,
    Son quelle pillole che ho preso per abortire, disse.
    (Ne aveva avuti già cinque, ed era quasi morta per il piccolo George.)
    Il farmacista disse che sarebbe andato tutto bene, ma non sono più stata la stessa.
    Sei davvero una stupida, dissi.
    Bene, se Albert non ti lascia in pace, ecco qui, dissi,
    Cosa ti sei sposata a fare, se non vuoi bambini?
    SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
    Bene, quella domenica che Albert tornò a casa, avevano uno zampone bollito,
    E mi invitarono a cena, per farmelo mangiare bello caldo –
    SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
    SVELTI PER FAVORE SI CHIUDE
    Buonanotte Bill. Buonanotte Lou. Buonanotte May, Buonanotte.
    Ciao. ‘Notte. ‘Notte.
    Buonanotte signore, buonanotte, dolci signore, buonanotte, buonanotte.

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  15. Giuseppe Talìa

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18841
    La produzione poetica di Alfredo de Palchi (…) è ormai entrata definitivamente nei classici della poesia italiana del secondo Novecento per merito della vox populi, nonostante la perdurante insabbiatura che lo scomodo de Palchi ha subito nel corso del tempo e che continua a subire, volutamente ignorato dalla critica dominante, non solo per il fatto che l’opera depalchiana fuoriesce dai canoni standardizzati dell’enclave, ma anche, e diciamolo pure, per una sorta di ostracismo politico riguardante la vicenda autobiografica dell’autore. Sebbene de Palchi, interpellato più volte sulla questione così detta politica, abbia espresso qualche perplessità, riteniamo, per pura congettura, che in molti casi sia stato, nel corso del tempo, più il sottobosco, fatto di critici allineati, come di Capi Editoriali, a dettare le linee guida esclusive. Non dimentichiamo, infatti, che Sessioni con l’Analista (1967), uscito per Mondadori dietro interessamento di Bartolo Cattafi, il quale segnalò l’autore a Vittorio Sereni, dovette subire e oltrepassare, per esempio, il veto imposto da Gianfranco Fortini.
    De Palchi, assolto, dopo l’ingiusta condanna che gli costatò sette anni di reclusione, esce dal carcere pulito, scagionato ma anche marchiato a vita. I sette anni di carcere, tra sevizie subite e ingiusta reclusione, forgiarono indelebilmente il carattere del poeta in nuce. L’incontro con la poesia, probabilmente , avviene, dopo le lezioni di musica, violino in particolar modo, che de Palchi prende dall’età di sei anni fino ai quattordici anni, alla scuola di gentiliana memoria, articolata e popolare, con l’abbecedario di cui il Nostro ricorda le poesie del ligure Angiolo Silvio Novaro o del più conosciuto fratello Mario Novario. L’infanzia e l’adolescenza di Alfredo trascorrono tranquillamente: Bimbo amato e curato a cui non manca nulla, de Palchi cresce in quei “territori acquatici” mostrando fin da piccolo una personalità particolare, “ingenua, insolente, perbene, scomoda, scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza”, ed è proprio quella “ingenua e insolente” al tempo stesso caratteristica naturale di de Palchi a metterlo sempre nei guai, come nell’episodio narrato dallo stesso autore dei due fratellini che lo costringono a “stringere un filo elettrico vivo di scosse”, “originando un ventre congruo/d’afflizioni.”

    (Parte di uno scritto-tributo)

    Il saggio di Giorgio Linguaglossa su de Palchi mostra una interessante novità nella parte in cui l’indagine della poesia decalchiamo si orienta su presupposti psicoanalitici, in particolare il capitolo “Il fantasma nell’ordine simbolico”. L”inedito taglio di Linguaglossa avvolta quanto lo stesso de Palchi ha in più occasioni comunicato, cioè che è stata proprio una rivista di psicoanalisi ad interessarsi dei suoi versi agli albori.

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    • Giuseppe Talìa

      Riscrivo l’ultima parte del commento falsato da un correttore automatico e da una scarsa rilettura.

      *
      Il saggio di Linguaglossa su de Palchi mostra una interessante novità nella parte in cui l’indagine della poesia depalchiana si orienta su presupposti psicoanalitici, in particolare il capitolo “il fantasma nell’ordine simbolico”.
      L’inedito taglio di Linguaglossa avvalora quanto lo stesso de Palchi ha in più occasioni comunicato, cioè che è stata proprio una rivista di psicoanalisi ad interessarsi dei suoi versi agli albori.

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  16. LA RIFORMA DEL DISCORSO POETICO POSTMONTALIANO E LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA –
    INTERVISTA di Donatella Costantina Giancaspero a Giorgio Linguaglossa

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18846
    Domanda: Ritieni che sia giunto il momento di dichiarare a chiare lettere l’esigenza di una rottura con la tradizionale forma-poesia del recente minimalismo poetico?

    Risposta
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18846
    Giunti al punto in cui è giunta oggi la poesia maggioritaria, ritengo che una semplice Riforma della forma-poesia egemone, ovvero, il minimalismo romano-lombardo, sia del tutto insufficiente. Quello che c’è da fare è una rottura netta e consapevole con la tradizione recente del secondo Novecento (le timidità di Claudio Borghi che vorrebbe un annacquamento della diversità, non sono accettabili), per semplificare quell’area che va dalla Antologia di Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975) ai giorni nostri.Una vera riforma linguistica e stilistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di immediata riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di rottura determina necessariamente una solitudine e diversità stilistica e linguistica per chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di ostilità. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica dove è giunta la poesia italiana di oggi, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.

    Il mio libro monografico sulla poesia di Alfredo de Palchi si situa in questa linea di pensiero: la necessità di aprire dei varchi nella ottusità degli studi accademici sulla poesia del secondo Novecento, correggere le macroscopiche omissioni, le dimenticanze,e, fatto ancor più grave, le distorsioni dei valori poetici del secondo Novecento, dimostrare che è possibile e auspicabile disegnare un diverso Novecento. Occorre soltanto un po’ di coraggio intellettuale.

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    • Claudio Borghi

      Annacquamento della diversità: cosa significa? Io ho più volte sottolineato la necessità di dare priorità al pensiero, la cui forza alimenta e genera la forma laddove si risolve in arte. Staccarsi dal Novecento, ammesso sia un’impellenza (visto che l’evoluzione, come ho rilevato in un post recente, deve essere creatrice, non procedere per salti quantici, deve cioè far propria la vitalità e l’energia del passato per rinnovarsi), implica proporre nuove idee, all’insegna di quello che Hegel chiamava il pensiero vivente, che esplorando la profondità dell’essere e del divenire porti in luce frammenti o invenzioni complesse, in cui filosofia e scienza ed esistenza si fondano in sintesi nuove ed inaspettate. Per quanto condivida la necessità di una rilettura critica, libera e anticonformista del recente passato, disallineata dalle cristallizzazioni della storicizzazione ufficiale (ben vengano gli autori fuori sistema che Linguaglossa propone e giustamente valorizza), non sono d’accordo che siamo a un punto zero della scrittura poetica. Siamo in una fase di fluido rinnovamento: non serve, a mio avviso, volersi staccare, quanto piuttosto, umilmente, predisporsi a scavare in una profondità che, nella forma in cui può essere attinta dalla poesia, è preclusa sia alla filosofia che alla scienza. La mia è una posizione tutt’altro che timida, è un invito ad avere il coraggio di non assorbire passivamente verità che provengono da altri ambiti. Il pensiero poetico è potenzialmente potente quanto quello filosofico o scientifico, semplicemente usa altri strumenti per scandagliare il mistero.
      La forma viene di conseguenza, è un effetto, non un mezzo.

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  17. Domanda: Tu parli di una «frattura» della continuità di una tradizione, pur conflittuale e ppolicentrica, che si è verificata nella poesia italiana dagli anni Settanta ad oggi, ne prendo atto. È un compito gigantesco quello di riscrivere la storia della poesia italiana del secondo Novecento, da Satura (1971) di Montale fino ai giorni nostri, non credi? Ritieni che i tempi siano maturi?

    Risposta
    INVITO ALLA RILETTURA DEL SECONDO NOVECENTO POETICO
    Scrivevo in un post del 13 ottobre 2015:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18847
    «Nel postletterario, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio», o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico». L’autenticità data dall’immediatezza sarebbe quindi l’obiettivo dello scrittore post-letterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria»; «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento».

    Con le dovute differenze, credo che possiamo estendere la categoria dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria anche alla poesia contemporanea. Anch’io ho parlato spesso di «post-contemporaneo» e di «post-poesia», intendendo sostanzialmente un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato anche la debolezza delle direzioni di ricerca di quello che ho definito «minimalismo». Lo ammetto, meglio sarebbe stato aggiornare tale definizione con quella di «post-minimalismo» delle scritture poetiche di massa, nel senso che oggi in tutto ciò che accade sembra d’obbligo far precedere l’etichetta «post»: post-sperimentalismo quindi, post-esistenzialismo, post-chatpoetry, post-del-post. Tutto ciò che avviene nella pseudo-letteratura del tempo mediatico sembra presentizzato in un post-presente, il presente diventerebbe la dimensione unica, una dimensione superficiaria unidimensionale, ciò che sembrerebbe confermato anche dalle tendenze del romanzo di intrattenimento che dal fantasy e dalla fantascienza sembra spostarsi verso le forme ibride di intrattenimento di post-fantasy e di super-post-fantascienza. Quello che tento di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca sono impegnate in una forma-scrittura dell’immediatezza, quasi che l’autenticità del romanzo e della scrittura poetica la si possa agganciare, appunto, con l’esca dell’immediatezza espressiva.

    Nulla di più errato e fuorviante! Per quanto riguarda la mia tesi del paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico, entro il quale la quasi totalità delle scritture poetiche contemporanee rischia di periclitare, detto in breve, volevo alludere non al concetto di «egemonia», fuorviante e inappropriato quando si parla di poesia contemporanea, ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca, del diario e del quotidiano) sarebbero perfettamente digeribili dalla lettura della post-massa acculturata del Medio Ceto Mediatico. Certo «professionismo dell’a capo», come stigmatizza il critico Sabino Caronia diventa l’arbitrio di un a capo che può avvenire in tutti i modi, con le preposizioni, con le particelle avversative, con i pronomi personali, e chi più ne ha più ne metta. Vorrei però prendere le distanze da una facile tendenza a voler stigmatizzare la «dittatura del Medio Evo Mediatico» in quanto questa posizione sottintenderebbe un approccio moralistico al problema del paradigma moderato e unidimensionale che sembra aver preso piede negli uffici stampa degli editori necessariamente impegnati in una difesa delle residue quote di mercato editoriale dei libri.

    La situazione descritta sembra essere ancora più grave per la poesia, che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità anche ai piani alti della cultura poetica italiana, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta non hanno più creduto possibile una difesa della forma-poesia: Montale, Pasolini, Sanguineti e altri di seguito. Da questo punto di vista, paradossalmente, una difesa della forma poesia è più evidente nei Quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, il più drastico atto d’accusa del «sistema Italia», che non ne La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, il quale si appoggia ad una struttura strofica e timbrica ancora tradizionale, ma è una difesa della tradizione che va in direzione di retroguardia e non di apertura all’orizzonte dei linguaggi poetici del futuro. È un po’ tutto l’establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa, credendo che una sorta di neutralismo o di prudente e ironica apertura nei confronti dei linguaggi telemediatici costituisse un argine sufficiente, una misura di sicurezza verso una forma-poesia aggiornata, con il risultato indiretto, invece, di rendere la forma-poesia recettizia della aproblematicità dei linguaggi telemediatici.
    Quel neutralismo ha finito per consegnare alla generazione dei più giovani una forma-poesia sostanzialmente debole, minata al suo interno dalle spinte populistiche e demotiche provenienti dalla società della massa telemediatica. La storia della poesia degli anni Ottanta e Novanta sta lì a dimostrare la scarsa consapevolezza di questa problematica da parte della poesia italiana.

    Domanda: A questo punto?

    Risposta: A questo punto, ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto quando qualcuno sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche della poesia del Novecento. Non escludo che ci possano essere nel prossimo futuro dei poeti di valore (e ce ne sono), quello che escludo è che finora nessun poeta italiano degli ultimi quarantacinque anni, cioè dalla data di pubblicazione di Satura (1971) di Montale, è stato capace di fare quella Riforma del discorso poetico nelle dimensioni richieste dal presente stato delle cose. Certo, ci sono stati l’ultimo Franco Fortini di Composita solvantur (1995), Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca (I quanti del suicidio del 1972), e poi Maria Rosaria Madonna (con Stige, 1992), Fernanda Romagnoli con il libro pubblicato da Garzanti nel 1980, Anna Ventura (Antologia Tu quoque 1978-2013), Mario Lunetta, scomparso nel 2017, Roberto Bertoldo (Pergamena dei ribelli, 2011 – Il popolo che sono, 2016), ed altri ancora che non è il caso di nominare, poeti di indiscutibile talento che si sono mossi nella direzione di una fuoriuscita dal novecentismo aproblematico, ma resta ancora da scalare la salita più ripida, c’è ancora da sudare le sette fatidiche camicie. In una parola, c’è da porre mano alla Riforma di quel discorso poetico ereditato dalla impostazione in diminuendo che ne ha dato Eugenio Montale.

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  18. Domanda rivolta da Donatella Costantina Giancaspero a Steven Grieco-Rathgeb.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18848
    Domanda: Di recente hai parlato della importanza della «immagine» per la poesia di oggi, del fatto che la poesia italiana degli ultimi decenni abbia trascurato questo aspetto del fare poesia. Hai anche accennato alla importanza della immagine nella migliore cinematografia. Puoi spiegarci questo aspetto?

    Risposta: «Oggi, l’immagine – in una società sempre più satura di immagini – viene in genere elaborata in modo tale da raggiungerci in una frazione di secondo. Tale procedimento si basa sul concetto, anch’esso “primordiale”, che ciò che è “vero”, “reale”, è per sua natura anche subito fruibile. Ma il mondo-tempo che trascorre di fronte a noi è anche misterioso o si mostra solo in parte.
    E’ da più di mezzo secolo che tale inganno “realista” va spostando la scrittura, il cinema, e persino la musica, verso un limbo di realtà fittizia, di realtà fictional, che il fruitore si è ormai abituato a consumare come entertainment.

    In quest’ottica del pronto consumo, il lasso di tempo che per il fruitore intercorre tra il suo esperire un prodotto artistico e la sua reazione estetica ad esso, deve essere ridotta più vicino possibile allo zero. Eppure, la nostra fruizione di un dato fenomeno, interiore o esterno, non è sempre così immediata; oppure la sua immediatezza è talvolta così fulminea da raggiungerci con una sorta di effetto ritardato. Perché allora l’autore dell’opera deve pre-masticare e pre-digerire per noi la sua esperienza umana? Facendo così, ci toglie la vera intelligenza-percezione del fenomeno che egli vuole presentare. Simili metodi creano quasi sempre un falso. Sono una truffa.

    L’immagine in cinematografia ha bruciato i tempi, andando avanti in modi sicuramente contraddittori e problematici ma anche fortemente creativi (un Bresson vale centomila film commerciali), costringendo la poesia a scomparire, oppure a radicalmente rivisitare le radici stesse del suo essere. E bene ha fatto. Ma si tratta di una lezione che la poesia deve ancora recepire: come non ammettere, ad esempio, che di fronte alla minaccia dell’immagine “immediatamente fruibile”, essa ha quasi sempre preferito ripiegarsi su se stessa, rintanandosi nella sicurezza del “già fatto”? Ripeto che sono pochissimi i poeti, nella seconda metà del XX secolo, che hanno avuto il coraggio di recepire il dato “reale” del nostro oggi, e volgerlo in Poesia.

    Steven Grieco a Paestum, 2013 Evgenia Arbugaeva Weather_man
    Visto tutto ciò, è opportuno oggi che, in ambito poetico, il senso del dire arrivi al fruitore in modo graduale, “ritardato”, di modo che questi non abbia la possibilità di “consumarlo”. Non parlo di una tecnica artificiale. Un esempio: un mattino di marzo, con il cielo coperto, e noi assorti nei nostri pensieri, attraversando la città in tram scorgiamo inaspettatamente un albero fiorito in un giardinetto trascurato e polveroso. Di fronte ad una esperienza percettiva come questa, di un certo impatto, il processo di interiorizzazione non sarà uniforme: a causa dell’elemento di sorpresa, di gioia, di stupore che l’albero fiorito ha provocato in noi, la sua immagine sarà ripetuta mentalmente (la cosiddetta after-image, scia d’immagine) anche infinite volte nello spazio di qualche secondo. Di tanto è capace l’onnipotenza del pensiero, simile all’universo studiato dagli astrofisici (e ugualmente inafferrabile). Ma il fatto che tale esperienza percettiva non sia liscia e uniforme, apparirà più chiaro alla fine del processo di interiorizzazione, una volta cioè finito il sentimento di sorpresa e l’emozione concomitante, e ancora più chiaro sarà quando tale esperienza vorremo esteriorizzarla in forma descrittiva, narrativa, orale. In un primo tempo il nostro dire uscirà frammentato, interrotto e ripreso, mentre cerchiamo il modo migliore di fare giustizia all’esperienza. E’ solo in seguito che l’esperienza prenderà ad assestarsi nella nostra coscienza, depositandosi e lasciando lo spazio a nuove esperienze percettive, nuovi pensieri, etc. Anche qui sta il fulcro misterioso della visione poetica, che ritroviamo non solo nella poesia in quanto tale, ma in tutti i campi dell’attività artistica.

    Un esempio di cosa intendo può essere costituito da certe sequenze “silenziose” del cinema d’arte. Sequenze quasi del tutto prive di sonorità, senza musica, solo forse qualche fruscio dei vestiti o stormire di alberi. Eppure esse possono letteralmente urlare, creare frastuono in noi. Ecco, questo tipo di silenzio può essere anche della poesia contemporanea – o meglio, anche la poesia può interiorizzare la propria dimensione sonora (il suo rumore), e ritrovare la gradualità, la musicalità che così spesso in poesia è precisamente silenzio. Assenza di parole.

    …Schwestermund,
    du sprichst ein Wort, das fortlebt vor den Fenstern,
    und lautlos klettert, was ich träumt, an mir empor.

    Il testo kashmiri del IX secolo, Dhvanyaloka, del filosofo Anandavardhana (commentato due secoli più tardi da un altro grande filosofo, Abhinavagupta), studia l’essenza del messaggio poetico. Semplificando assai: la poesia, secondo Anandavardhana, contiene in genere un senso letterale e uno figurato. Il senso letterale ci raggiunge con una certa velocità, mentre quello figurato si stacca dal senso letterale e ci arriva “in ritardo”, ovvero dopo un lasso di tempo maggiore: è questo scarto temporale che crea la suggestione, il senso, il sapore estetico».

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  19. ALCUNE DOMANDE DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA SUL DISCORSO POETICO DELL’ESPLICITO E DELL’IMPLICITO NELLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18850
    Domanda: Tu hai scritto:

    «Il linguaggio è fatto per interrogare e rispondere. Questa è la verità prima del Logos, il quale risponde solo se interrogato. Noi rispondiamo attraverso il linguaggio e domandiamo attraverso il linguaggio. Il nostro modo di essere si dà sempre e solo entro il linguaggio».

    E fai un distinguo, affermi che il linguaggio poetico del minimalismo romano-lombardo si esprime mediante il linguaggio dell’esplicito, un linguaggio esplicitato (hai fatto più volte i nomi di Vivian Lamarque, Valerio Magrelli, Valentino Zeichen, etc.) tramite la forma-commento, la poesia intrattenimento, la chatpoetry, la forma che vuole comunicare delle «cose»: tipo fatti di cronaca, di politica, insomma, fatti che hanno avuto una eco e una risonanza mediatica. Puoi portare un esempio di poesia non appartenente a questi tipi di scrittura che oggi vanno molto di moda?

    Risposta: Interrogando il logos il poeta ci dice che interrogare significa domandare. L’uso del linguaggio, implica l’interrogatività dello spirito, è atto di pensiero. Lo spirito abita l’interrogazione. Non era Nietzsche che diceva che «parlare è in fondo la domanda che pongo al mio simile per sapere se egli ha la mia stessa anima?». La questione del Logos poetico ci porta ad indagare il funzionamento interrogativo del linguaggio. Anche quando ci troviamo di fronte a sintagmi impliciti, il poeta risponde sempre, e risponde sempre ad una domanda posta, o quasi posta o a una domanda implicita. Nella risposta esplicativa il poeta introduce sempre uno smarcamento, una nuova istanza che solleva nuove domande-perifrasi alle quali non può rispondere se non attraverso un linguaggio-altro, un metalinguaggio.

    La traduzione problematologica diventa nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb una traslazione stilistica. Il vecchio concetto di «simmetria» euclidea legata ad un concetto lineare del tempo, viene sostituito con quello di «supersimmetria», un concetto che rimanda alla esistenza di pluriversi, della «materia oscura», dell’«energia oscura» che presiede il nostro universo. Nella poesia della tradizione italiana del secondo Novecento cui siamo abituati, la traduzione problematologica corrisponde ad una certezza lineare unidirezionale del tempo metrico e sintattico, in quella di Grieco-Rathgeb invece assistiamo ad un universo metrico e sintattico «goniometrico», vale a dire, a spirale, involto, involuto, dove l’interno e l’esterno sono complementari e indistinguibili.
    Noi abitiamo la domanda, ma essa non sempre si dà come frase interrogativa, questo è già qualcosa di esplicito, non sempre le domande assumono una forma interrogativa, anzi, forse le grandi domande sono poste in forma assertoria e dialogica (come nei dialoghi platonici), ricercano un interlocutore. Analogamente, nella forma mentis comune per risposta si intende qualcosa di assertorio. Errato. In poesia le cose non sono mai così semplici e diritte. In poesia le due modalità si presentano sempre in commistione reciproca e in forma dialettica.

    Domanda: Puoi fare un esempio?

    Risposta: Nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb è il punto lontano della domanda da cui prende l’abbrivio che costituisce un luogo goniometrico dal quale si dipana il discorso poetico spiraliforme. Qui è una geometria non-euclidea che è in questione. Il discorso si apre a continui rallentamenti ed accelerazioni del verso, essendo questo la traccia di una ricerca che si fa a ritroso, attraverso la via verso un luogo che un tempo fu abitabile. Utopia che la poesia ricerca senza tregua. Il punto lontano va alla ricerca del punto più vicino scegliendo una via goniometrica e spiraliforme piuttosto che quella retta, una via goniometrica, eccentrica; in questo modo, la versificazione si irradia dalla periferia del punto lontano verso il centro di gravità della costellazione simbolica mediante le vie molteplici che hanno molteplici direzioni. Ogni direzione è un senso interrotto, un sentiero interrotto (un Holzwege), e più sensi interrotti costituiscono un senso plurimo, sempre non definito, non definitivo. La poesia si dà per formale smarcamento dell’implicito, e procede nella sua ricerca del vero allestendo una mappa, una carta geografica dell’evento linguistico. Si smarca dalla significazione dell’esplicito. La poesia di Steven Grieco-Rathgeb risponde sempre per totale smarcamento dell’implicito alla ricerca di ciò che non può essere detto con parole esplicite (dritte) o con un ragionamento «protocollare». In questa ricerca concentrica ed eccentrica, spiraliforme, la poesia narra se stessa e narrando la propria ricerca indica una traccia, delinea un non-spazio che si apre al tempo, anzi, un non-spazio fatto di temporalità, un tempo fatto di non-spazio, che chiude lo spazio entro la propria irreversibile molteplicità temporale. È la marca della temporalità quella che appare alla lettura, una temporalità inscindibilmente legata ad una molteplicità di accadimenti.

    Per Steven Grieco, il discorso dell’esplicito è certo una risposta, ma una risposta tautologica perché vuole statuire attraverso la via più breve utilizzando lo spazio geometrico della significazione euclidea, mediante le vie rette del linguaggio neutrale della comunicazione. Il discorso poetico del nostro autore invece attraversa lo spazio multidimensionale del cosmo, oltrepassa il tempo, lo vuole «bucare», ciò che Maurizio Ferraris definisce nel suo recente libro, Emergenza (Einaudi, 2017) la «quadridimensionalità». La poesia di Grieco-Rathgeb abita un pluri-spazio, non è topologica, o meglio, è multi topologica, si rivela per omeomerie e per omeotropismi dove i rapporti di simiglianza e di dissimiglianza tracciano lo spazio interno di questo universo in miniatura qual è la poesia, dove c’è corrispondenza tra il vuoto e il pieno, dove gli eventi «Sono apparsi in una sfera / staccata dal pneuma» e accadono in una «sfera», in «una perla», un universo in miniatura che riproduce il macro universo.

    Il silenzio-lucertola scruta fisso.
    Si muove. Risale verso l’immobilità. Si ferma, ingoia suono,
    i suoi occhi gonfiano il vuoto.

    Domanda: Allora, secondo il tuo giudizio, il discorso poetico si darebbe in forma di domanda-risposta e secondo il modo dialettico esplicito-implicito? Possono esservi anche domande tacite in quello che tu chiami discorso poetico?

    Risposta: Le domande che occupano il locutore sono tacite, ciò che vi risponde prende la forma della metafora e dell’immagine. La metafora indica così il divario che si apre tra l’implicito e l’esplicito; l’immagine allude alla lontananza tra la periferia e il centro dello spazio poetico. L’immagine e la metafora smarcano il rotolare dell«’io» dal centro alla periferia, e viceversa. Se il Logos è fatto di domande e di risposte, a che cosa risponde il Logos? Il Logos risponde a ciò che siamo. Si dà linguaggio poetico nella misura in cui si mette in gioco ogni possibilità del dire della Lingua, in cui ci si mette in gioco. Nella poesia intitolata alla «icona di Andrey Rublyov», non c’è nulla che rimandi, per via implicita o esplicita, alla icona del pittore russo, il discorso poetico procede per le vie sue proprie in un universo supersimmetrico e superdistopico, non si dà come illustrazione o commento, non sceglie la via diretta dell’esplicito, quanto invece allude e accenna ad un altro universo analogico e contiguo a quello della icona pur se superdissimile e superdistopico.

    Domanda: puoi portare qualche testo a riprova di quello che dici?

    Risposta: Senz’altro. Ecco alcune poesie di Steven Grieco Rathgeb tratte dal suo volume Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016)

    Leafing through the pages

    I was leafing through the pages, looking
    for the word φαινόμενον.

    “Our world is fully discovered,” you said.
    “We’ve mapped the continents and seas,
    classified plants and creatures.”

    Your words spread out like a full-blown flower.

    “Its mysteries,” you said, ”largely explained,
    the future foreseeable and ours by pre-emption.”

    This didn’t seem quite right:
    but still your argument held its own
    and climbed before our eyes,
    turning on a sky-blue axis,
    so round and well-fashioned we forgot
    its nothingness, how it echoes down the aeons
    growing stronger, clearer, till it’s One
    with the dreamlike deep vibration of existence.

    “And for all our achievements, look at us,” you said:
    “unknown to our own selves,
    outraging what’s left of this world.”

    This world, I thought, or just a reflection?
    I myself couldn’t tell.

    Overwhelmed, we watched it turn silently,
    its rugged contours etched
    with ever finer, more rending strokes;
    offering us the same answers we seek;
    feeding with our gaze
    its dream.

    Florence, 1988

    Sfogliavo le pagine

    Sfogliavo le pagine, cercando
    la parola φαινόμενον.

    Tu dicesti: «il mondo è stato tutto scoperto.
    Conosciuti i mari e i continenti,
    le piante e gli animali classificati.»

    Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

    «I suoi misteri – dicesti– ormai quasi spiegati,
    il nostro futuro prevedibile e già oggi ipotecato.»

    Su questo avrei avuto da ridire:
    ma il tuo pensiero resse,
    e noi lo vedemmo librarsi nell’aria,
    tondeggiando azzurro,
    così ben foggiato da farci dimenticare
    il suo nulla, come un’eco nei millenni,
    sempre più forte, più chiaro, fino a diventare
    suono, sonorità inconscia dell’Essere.

    «E noi – dicesti – con tutte le nostre conquiste,
    sconosciuti a noi stessi;
    violando quel che resta di questo mondo.»

    Questo mondo, riflettevo, o soltanto
    un’immagine? Ero incerto anch’io.

    Vinti dalla sua presenza, lo vedemmo ruotare
    in silenzio, i suoi rilievi manifestarsi
    con crescente, lacerata precisione:
    inviarci i segnali da noi stessi desiderati;
    alimentando con il nostro sguardo
    il suo sognare.

    Firenze, 1988

    *

    Koronisia, 1990

    Lights out, the house
    – dark

    Down the passage to the room,
    and in the encircling unfathomable foreignness

    a shimmering vegetation—

    trill of crickets from the dark-enshrouded olives
    —noiseless spider, mantis, gecko

    (vermin slithering through the underbrush)

    “Don’t touch!“ – a whisper speaks
    that same darkness: “now events
    shed no light:
    but the ever-itself, in thousands,
    shapes around the stone-hard
    still core, leaping like fish
    from wave to wave— ”

    Till presence is this dark body, woven
    in thoughts: the eyes dark, the heart
    woven in its own embrace

    inside the wider encircling Gulf
    now audible,
    washing ashore

    where thought, dark swimmer,
    swims out
    breathing unutterable darkness

    Supersymmetries

    Koronisia, 1990

    Spente le luci, la casa
    – oscura

    giù per il corridoio verso la stanza,
    e in questo cerchio insondabile, straniato

    una rilucente vegetazione–

    stridio di grilli dagli olivi avvolti nel buio
    – silenziosi ragno, mantide, geco

    (strisciano immondi sotto i cespugli)

    “Non toccare!” – sussurra la
    stessa oscurità: “adesso gli eventi
    non illuminano:

    ma il sempre-se-stesso, a migliaia,
    si forma intorno all’impietrito
    fisso centro, balza come un pesce
    di onda in onda” –

    finché la presenza è questo corpo oscuro
    che il pensiero intesse: gli occhi scuri, il cuore
    intessuto nel proprio abbraccio

    nel grande cerchio del Golfo
    ecco, si percepisce
    lo sciacquio a riva

    dove il pensiero, oscuro nuotatore,
    nuota al largo
    respirando indicibile oscurità

    Supersimmetrie

    *

    Amnesia

    Now that you’re up, ashlit moon,
    invisibly clear in the early night—
    in this silence, like the mind’s quiet,
    I wonder how your bright crescent
    speaks the dark fullness: the darkness coming
    of your round brilliance.

    Your speed up there so high
    I instantly reach you.
    For the deepest transparency,
    without glass, across distances,
    is only thin air

    and the horizon of this world, away.

    You speak, ancient poet,
    not as a voice within a voice,
    but as one divided
    in your undivided sound.

    May I tonight
    forgetting the distance

    speak the dark round of your fullness

    Supersymmetries, 1995

    Amnesia

    Ora che sei sorta, luna-cenere,
    quasi invisibile nella notte appena fatta,
    nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
    mi chiedo come questo orlo di luce
    esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
    del tuo sferico splendore.

    Tu lassù così veloce
    che ti raggiungo in un istante.
    Perché la trasparenza più profonda,
    senza vetri, di là dalle distanze,
    è solo quest’aria sottile

    e l’orizzonte di questo mondo, avulso.

    Tu parli, antico poeta,
    non come voce nella voce,
    ma come uno diviso
    nel tuo suono indiviso.

    Possa io stanotte
    dimenticando la distanza

    dire l’oscura sfera della tua pienezza

    Supersimmetrie, 1995

    *

    Rome, Bombay

    Via degli Astalli, 1968

    Through the deep nights
    a fountain in the courtyard dripped
    endless water. Fragrance
    came over the rooftops, the city
    rose in a glimmer to the brim of our being.

    Now in my mind’s eye I open the door
    and peer down the dimly lighted hallway:
    those who came have just left –
    I hear the elevator groaning its way
    down the shaft

    but a suppressed excitement
    warps the row of expressionless windows.

    I can never remember:
    who was standing behind the door,
    a glass of dark water in his hand?

    Altmount Rd., 1997

    I’m walking up Altmount Road, to reach the top:
    the way familiar, peopled with memories
    and homes I no longer recognize
    in this crowd of alien windows.

    Of those I knew some have moved away,
    some become estranged.
    Others stayed on in their vast apartments,
    old friends I’ve come to meet again, brooding
    now the sun has rounded the corner.

    Down in the garden
    children still play on the sparkling lawn
    under the pipal tree that has lost its leaves.

    And the older siblings,
    as good as grown up,
    bursting in the front door
    with excitement, and… news!

    But the afternoon late, the sunset
    so deep and self-sufficient,
    this life is a full glass
    set before us who’ve no thirst to quench.

    Soon I’ll reach the top, look out over the city,
    I’ll glimpse the Arabian Sea

    After dusk, past the balcony’s black void
    I sensed that sighing body
    spread remotely around the night,
    how it encircled our clutch of drinks
    and anxious lights

    myself mirror-less – and all my profusion of tongues,
    the trouble to grasp and express
    simply a guide around the well-turned phrase

    till words, pointing to their opposite,
    left me groping in blindness.

    Night follows on dusk, dawn on night:
    though closely shadowed, our world is too sudden –
    it flows in a manner akin to narration.

    Down there, beyond the sprawling city,
    ships’ horns are hooting –
    crows croak from all the trees
    in the smoky air before daylight.

    There is no silence anywhere.
    Only at the centre of the heart.

    Roma, Bombay

    Via degli Astalli, 1968

    Nelle notti profonde
    dalla fontana giù in cortile gocciava
    acqua senza tregua. Un profumo
    giungeva da sopra i tetti, le luci della città
    riempivano fino all’orlo le nostre vite.

    Adesso immagino di aprire la porta,
    scruto il corridoio in fioca luce:
    loro sono venuti e subito andati via –
    sento la gabbia dell’ascensore
    scendere a terra ansimando

    ma una eccitazione soffocata
    storce la fila impassibile di finestre,

    non riesco mai a ricordare:
    chi stava in piedi dietro la porta,
    un bicchiere di acqua scura nella mano?

    Altmount Rd., 1997

    Risalgo Altmount Road, per raggiungere la cima:
    la via familiare, popolata di memorie e case
    familiari, ormai introvabili
    in questa folla di finestre ignote.

    Di coloro che conobbi chi è andato via,
    chi è diventato estraneo.
    Altri sono rimasti nei loro grandi appartamenti,
    vecchi amici incupiti che io visito
    ora che il sole ha girato l’angolo.

    Giù in giardino
    i bambini ancora giocano sul prato luccicante
    sotto il peepal che ha perso le foglie.

    E i figli grandi,
    ormai quasi adulti,
    irrompono dalla porta d’ingresso
    pieni d’entusiasmo… e quante notizie!

    Ma la sera inoltrata, il tramonto
    così profondo e pago di sé
    questa vita è un bicchiere pieno
    che non abbiamo più sete di vuotare.

    Presto raggiungerò la vetta, guarderò la città dall’alto
    rivedrò il Mar Arabico

    Dopo l’imbrunire, oltre il vuoto nero del terrazzo
    ho sentito sospirare quel corpo lontano,
    inanellato intorno alla notte,
    come stringeva d’assedio i nostri aperitivi
    e le nostre luci inquiete –

    Io, irriflesso – e tutta la ricchezza delle mie lingue,
    la difficoltà di cogliere ed esprimere
    solo una guida per sfuggire alla frase tornita

    finché le parole indicandomi il loro contrario
    mi lasciarono a tentoni come un cieco.

    La notte viene dopo l’imbrunire, l’alba dopo la notte:
    il mondo lo spio come un’ombra: ma lui è troppo veloce,
    scorre libero come un racconto dei tempi antichi.

    Da laggiù, oltre la città sconfinata,
    arriva il fischio delle navi –
    i corvi gracchiano da tutti gli alberi
    nell’aria fumosa prima della luce.

    In nessun luogo c’è silenzio.
    Solo al centro del cuore.

    *

    Bottling wine on a high balcony

    to a learned friend in Tokyo

    Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
    Delusion, madness lifted you into the sky
    where Heian poets wander forever
    in their disembodied yearning:
    the petals of those phantom minds mingling
    with your dark, three-quarters sterile mind!
    And time, devotion, labour: smouldering ashes.

    What can I offer you but the wine I decant
    on this moonless night of March:
    this open-ended sky, black-starred origin
    high in the numinous ravine;
    this wine I translate into a whirlwind
    streaming out the drunken inner blossom…

    And the wakas, now, breathing depth –
    subtlety – fascination!

    Supersymmetries – Florence, 1999

    *

    Imbottigliando vino su un alto terrazzo

    per un amico erudito a Tokyo

    il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
    Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
    dove i poeti Heian vagano per sempre
    nel loro anelito spettrale;
    i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
    alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
    E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.

    Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
    in questa notte di marzo senza luna:
    questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
    tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
    questo vino, che traduco in un turbine,
    spira dall’inebriato, più interno fiore …

    E dei waka, adesso, il respiro –
    il fascino sottile!

    Supersimmetrie – Firenze, 1999

    *

    The painter’s portrait

    Before setting to his work,
    the painter of this image should remember:
    Who is he portraying? and reflect
    how the narrow corridor through our world of chance
    lies strewn with breakable misery
    and fear of violent mishap
    and sudden bottomless manholes:

    for, clearly, the likeness of a distinguished forebear
    or even the vision of all humankind
    unlocking in one single flower,
    are not what lies in his heart of hearts:

    but considering that he may no longer
    be shielded from thought of accident,
    know the only way to be the way forward,
    the whole face he dare not envision.

    Then he will do his work in the best of ways,
    and accomplish what he had always striven for,
    knowing this to move strangely
    between waking dream and recognition

    and play down the importance of individual traits,
    putting them surprisingly
    where they are – much as meaning
    rises out of words that sleep:
    the city at night
    resembling itself, intently
    outside the window, enveloped in darkness.

    So that his image may finally be expressed.

    Then the painter will not only render
    cheekbones and shading,
    not only conjure light in the eyes.

    His portrait will be memory itself.

    2003

    Il ritratto del pittore

    Prima di mettersi al lavoro
    il pittore di questa immagine ricordi:
    Chi vuole rappresentare? e rifletta come
    l’angusto corridoio attraverso questo mondo dell’alea
    è cosparso di umana disperazione
    e del timore di violenti sinistri
    e di improvvise botole senza ritorno:

    perché la somiglianza di un illustre predecessore,
    o anche la visione di tutto il genere umano
    schiusa in un unico fiore,
    non sono certo quello che lui ha nell’animo:

    invece, sapendo di non avere più riparo
    dal pensiero di sciagure,
    capisce che l’unica via è la via che va avanti,
    il volto intero che non osa immaginare.

    Allora svolgerà il suo lavoro nel migliore dei modi,
    realizzando ciò che da sempre si era prefisso,
    e che lui ben sa muoversi strano
    fra sogno ad occhi aperti e riconoscimento

    e senza dare troppa importanza alle fattezze del viso,
    le porrà dove già si trovano:
    così come il senso scaturisce
    dalle parole che dormono:
    città di notte
    assorto specchio di sé,
    fuor di finestra, avvolta nel buio.

    Affinché la sua immagine possa compiersi.

    Allora il pittore non avrà solo reso
    zigomi e ombreggiature,
    non solo evocato la luce negli occhi.

    Il suo ritratto sarà la memoria stessa.

    2003

    *

    He entered a pearl

    He entered a pearl inside the world
    passed through walls muffling all cries

    someone called it stealth
    but the blue-lit night station was full of tears
    The estrangement between you and me

    wasn’t him – we
    forgot each other standing face to face,
    while He sat threading
    this wrecked dream’s own escape
    through good turned bad turned
    good
    through the same places that came back
    and back

    On such a rugged upward path
    the way was changed into air!

    into a dome of twilight, with persons
    going in and going out,
    as each fashioned
    his own swarm of thoughts,
    cocooned phantoms and naiads of image,
    hanging them
    in a white wilderness

    Slowly he encompassed, slowly
    encompassed us
    till he hid

    Oh, my I, now my clown,
    on a fingertip spin the ball
    I balance on

    My heaven has split from top to bottom

    And then we, unknowing prisms,
    returned in brilliance
    to our prisons

    till I thought this life will last forever

    Entrò in una perla

    Entrò in una perla dentro il mondo
    attraversò muri che tacquero ogni grido

    qualcuno ne parlò come di un segreto
    ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

    L’estraneità fra te e me
    non era lui: noi
    ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
    mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
    nella cruna della sua stessa fuga,
    attraverso il bene che volge al male che volge
    al bene,
    attraverso gli stessi luoghi che tornarono
    e ritornarono

    Su un sentiero così impervio
    la via si tramutò in aria!

    in una cupola d’ombra
    con persone che entrano ed escono,
    mentre ciascuno si fabbrica
    il proprio sciame di pensieri,
    larvati spettri e naiadi d’immagine,
    e li appende
    in una bianca desolazione

    Lui lentamente ci circondò,
    circondò da ogni parte
    finché rimase nascosto

    Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
    sulla punta del dito fai ruotare
    la sfera su cui oscillo

    Il mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

    E allora noi, prismi ignari,
    tornammo a splendere
    nelle nostre prigioni

    finché pensai che questa vita durerà in eterno

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  20. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18852
    Cito dal libro di Alfonso Berardinelli Casi critici. Dal postmoderno
    alla mutazione
    (Quodlibet, 2007) a pag 37, c’è scritto:

    «… la nostra poesia (con Montale, Luzi, Bertolucci, Caproni, Sereni, Penna, Zanzotto, Giudici, Amelia Rosselli) è stata fra le migliori in Europa; ma poi (salvo eccezioni) ha perso libertà e pubblico. – E commenta – un’arte senza lettori deperisce o si trasforma in una specie di pratica ascetica, con tutto il suo seguito di comiche devozioni e perversioni».

    Berardinelli accenna al vero problema: Ma se la poesia italiana è stata fra le migliori d’Europa, come è accaduto che quest’arte ha perso pubblico e credito? –
    C’è qualcosa che non va in questo ragionamento

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    • L’osservazione di Berardinelli, circa lo stato della poesia, data,mi pare,2007.Forse sono solo un’ingenua ottimista, ma mi pare che, in questi ultimi dieci anni, la situazione sia migliorata; grazie, anche, all’opera di diffusione che ha fatto Linguaglossa, il quale ha creato un clima di accoglienza, ma anche di rigore e di serietà, riportando la poesia ai grandi valori che ebbe nel passato, sottraendola a quel clima di vanità in cui è talvolta precipitata per colpa di ignobili mercanti della penna.

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  21. Pingback: INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA A PROPOSITO DELLA RIFORMA DELLA FORMA-POESIA EREDITATA DA SATURA (1971) DI MONTALE –  LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA | L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

  22. Pingback: INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA E A STEVEN GRIECO RATHGEB A PROPOSITO DELLA RIFORMA DELLA FORMA-POESIA EREDITATA DA SATURA (1971) DI MONTALE –  LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA | L'Ombra delle Parole Rivista Le

  23. Pingback: INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA E A STEVEN GRIECO RATHGEB A PROPOSITO DELLA RIFORMA DELLA FORMA-POESIA EREDITATA DA SATURA (1971) DI MONTALE –  LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA | L'Ombra delle Parole Rivista Le

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  29. Mando qui un abbraccio agli amici della redazione. Non so voi, ma a me il confinamento sta togliendo la parola. Afasia nell’argomentare. In poesia, un linguaggio parallelo pressoché indecifrabile segue puntuale, e come ombra, ogni ragionevole asserzione. Stracci e scarti inutilizzabili.
    Il mondo andrà avanti, e sono certo che si creerà una società migliore. Tuttavia, come avviene per la depressione, essendo un tantrico accetto quel che viene. Anzi, gli vado incontro. Non si butta niente della vita.
    Auguro a tutti un buon anno di poesia!

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  30. Carlo Livia

    Racconta Freud di aver fatto una passeggiata con Rilke, in una meravigliosa giornata di primavera, in un incantevole luogo pieno di hbellezza e serenità. Ma il volto del poeta rimaneva triste e turbato. Quando Freud gliene chiese la ragione, gli rispose che la sua tristezza derivava dalla consapevolezza che tutta quella bellezza presto sarebbe svanita.
    Ma è proprio per questo che devi rallegrarti e godere di quello che hai la fortuna di assaporare, proprio perché presto svanira’ ! – ribatte’ Freud.
    No, mi dispiace, la visione effimera del bello non può consolarmi del dolore della certezza della sua scomparsa. – concluse amaramente Rilke.

    Queste due visioni antitetiche hanno da sempre orientato l’atteggiamento e il pensiero rispetto alla ineluttabile contingenza e impermanenza dell’ente. Quella di Freud, il “carpe diem” di Orazio, Withman, o dei contemporanei Flores d’Arcais, Odifreddi, ecc. , afferma la volontà di ottenere il massimo godimento estetico o responsabilità etica, concentrandosi sulla certezza del presente, senza lasciarsi influenzare dalla labilità e oscurità del futuro, proiettandovi speranze o illusioni alienanti.
    L’altra, più spiritualista, è incapace di rassegnarsi alla fugace luce dell’attimo fuggente, senza rabbrividire sentendo il gelido vento dell’oscurità che lo avvolge. È da essa che sono sorte, in ogni cultura, credenze e mitologie, pagane e religiose, che danno vita all’imprescindibile sete di eternità che sgorga dal fondo dell’animo.

    Personalmente trovo la visione positivista di Freud priva di senso e di valore edonistico. Un’esistenza che nasce e finisce nel nulla è incompatibile con le nostre fondamentali istanze psichiche, inoltre la necessità di godere il più intensamente possibile in un tempo contingentato (come nel turismo low cost o nel sesso mercenario!) mi sembra più nevrotizzante che appagante, è il “piccolo piacere del giorno e il piccolo piacere della notte, di cui solo sono capaci i piccoli uomini della fine dell’umanità ” di cui parla Nietzsche, che “ama l’eternità come non ha mai amato nessun’altra donna”.

    “…Dice il dolore perisci !
    Ma ogni piacere vuole eternità
    vuole profonda, profonda eternità. ..”

    Nietzsche

    Sappiamo peraltro che per superare la metafisica tradizionale egli ne crea una visione ancora più smisurata, quella dell’Eterno ritorno, una sorta di ipermetafisica, una prigione ultratemporale che opprime e terrorizza, più di qualunque Ade o Inferno, ma non si rassegna all’istante che fugge e precipita nel nulla.

    Il fatto è che non possiamo rassegnarci ad una vita priva di senso, come accade sempre più di essere spinti a fare nella odierna cultura post-metafisica, in cui, smarrita una visione olistica del sapere, crescono le informazioni empiriche delle scienze, ma il senso complessivo resta nel buio. Anche molti scienziati patiscono quest’ombra nella moderna epistemologia positivistica.

    “Qual’è il senso della nostra esistenza, il significato di ogni essere vivente? Saper rispondere a questa domanda significa avere sentimenti religiosi. Voi direte, ma ha dunque senso porre questa domanda? Io rispondo: chiunque crede che la propria vita e quella dei suoi simili sia priva di significato, non soltanto è infelice, ma a stento capace di vivere.”

    Albert Einstein

    Il dolore, lo smarrimento che coglie la scoperta dell’impermanenza dell’Essere, fu quello che spinse Buddha a vagare nei boschi per sei anni, in cerca di risposta, fino all’illuminazione, la consapevolezza dell’illusorieta’ dell’io, che determina il dolore per la finitezza e la morte.

    “Tutte le cose composite non sono permanenti.
    Tutte le cose composite sono dolorose.
    Tutte le cose sono senza io.
    Quando l’uomo si rende conto di ciò non prova più dolore.
    Questo è Il sentiero della purezza. ”

    Buddha

    La salvezza dunque non deriva da una rivelazione di verità trascendente. L’uomo deve solo abbandonare l’illusione dell’io empirico, impermanente (Atman), per intuire la sua identità ad un io trascendente, divino, eterno e immutabile (Atman-Brahman).

    La Visione del divino (Nirvana) è inesplicabile e intraducibile in forme razionali, ma si può molto approssimativamente indicare con il Vuoto, il Nulla, come avviene nel taoismo e nella mistica apofatica di Meister Eckhart, che considera mistificante e blasfema ogni definizione positiva del divino, che può essere approssimato concettualmente solo con connotazioni negative ( Deserto, Quiete, Silenzio, Nulla).
    Se l’uomo, con una radicale ascesi intellettuale si svuota e distacca da ogni affermazione, possesso, dogma, acquisizione noetica, restando completamente vuoto e sprovvisto di certezze, “costringe” la Divinità ad entrare in lui, o riesce a scorgere il fondo della propria anima, perché lì io e Dio sono una cosa sola. Allora il dolore scompare, perché non c’è nessun elemento egoico transitorio che offusca la beatitudine, e nasce un inesauribile amore e rettitudine morale, perché è la stessa Divinità che governa l’anima.

    “Dio è una luce che risplende nella quiete silente. Finché il nostro intelletto analitico segue l’ombra della realtà dicotomizzandola, non vi sarà identità con Dio.”
    Meister Eckhart

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  31. Lettera aperta a Ewa Tagher

    Cara Ewa Tagher

    il tuo ottimo lavoro su Handke e sulla sua poetica della durata
    (dello stesso libro e dello stesso tema si occupò Giorgio Linguaglossa, su L’Ombra delle Parole, qualche anno fa), e la tua stessa ricerca poetica di poetry kitchen sono in grado (ed è questa la loro forza interna) di dare una spinta decisiva a ciò che circa un anno fa, a cena da Edith Dzieduszycka, nella sua casa nei pressi della Sinagoga, o del Tempio, concordammo con Giorgio Linguaglossa e con Milaure Colasson, sulla necessità di una nostra petizione di una nuova polis, con nuove leggi e nuovi cittadini..
    Perciò mi congratulo nuovamente con te, gentile Ewa Tagher e auguro a te e a noi tutte/tutti un anno nuovo che ci restituisca pienamente le nostre vite sospese,

    gr

    *
    Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago
    Liberare la poesia
    *
    La nostra proposta di una nuova ontologia, anche in forma di poetry kitchen, è destinata alle ortiche, anzi, rischia d’essere senza destino, se non implica la petizione di una nuova idea del tempo, dello spazio, della vita psichica, della vita erotica, dell’esistenza e della storia.

    Non ha futuro se non implica la petizione di una nuova esperienza del vivere e dell’agire, qui e ora, nel tempo e se non attiva un ripensamento categorico dei pilastri dell’ontologia, della filosofia, dell’etica e della politica occidentali e non provoca un rivolgimento di tutti i nostri sensi e del nostro modo di vita.

    Si inganna e ci inganna chi scambia la petizione del nostro principio per una nuova ontologia poetica per una proposta riduzionistica o, semplicemente, umanistica, perché una nuova ontologia poetica richiede fortemente una nuova forma di vita.

    La poesia vive all’interno di una determinata forma di vita, e non è libera affatto.

    Liberare la poesia è il primo passo per liberare e rinnovare la nostra forma-di-vita.

    La nostra petizione di una nuova ontologia è quindi la petizione per una nuova polis, per nuove leggi e per nuovi cittadini.
    *

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  32. tiziana antonilli

    Ho letto con estremo interesse l’intervista a Giorgio Linguaglossa sulla poesia di Alfredo de Palchi, difendere un libro di poesia come atto politico, sono d’accordo , così come è un atto politico leggere e/o rileggere autori emarginati dalla critica letteraria maggioritaria. Un ottimo modo per iniziare il nuovo anno.

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  33. Intervista di Donatella Giancaspero a Giorgio Linguaglossa sulla sua monografia critica:  La poesia di Alfredo de Palchi. Quando la biografia diventa mito (Edizioni Progetto Cultura, Roma, pp. 144 € 12) con una selezione di poesie da Sessioni con l’analista (1967)


    cara Tiziana Antonilli e caro Gino Rago,

    ho letto della poesia di Alfredo de Palchi come momento di diversità e di estraneità della spina dorsale della poesia italiana del secondo novecento che non coincide affatto con il modello maggioritario di poesia proposto dagli interessi editoriali e dai loro uffici stampa. Se volessimo tracciare la linea trasversale della poesia italiana del secondo novecento dovremmo partire da Ennio Flaiano, passando per Angelo Maria Ripellino, per giungere ad Alfredo de Palchi, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, l’Anonimo romano, Mario Lunetta, Anna Ventura, Mario Gabriele fino alla attuale nuova ontologia estetica e alla poetry kitchen. Ovviamente, la poesia italiana non coincide con la poesia degli uffici stampa degli editori maggiori, ed è compito delle persone serie rimarcare questa ovvietà, ed io mi ritengo impegnato in questa battaglia di giustizia prima ancora che letteraria.
    La nuova poesia ha bisogno di una nuova società, non può vivere senza un cambiamento radicale di paradigma (letterario e politico), di un nuovo modo di vita, di un mutamento radicale dello sviluppo capitalistico. Insomma, di un nuovo modello di capitale.
    È ovvio che non è sufficiente un mutamento del foro interiore, occorre un mutamento del «foro esteriore», del linguaggio, della cultura, delle pratiche di linguaggio senza le quali siamo destinati a restare pur sempre all’interno della antica ontologia estetica tardo novecentesca, peraltro acritica e digiuna dei nuovi versanti della filosofia continentale. La pandemia del Covid almeno questo dovrebbe avercelo insegnato.
    Invito a leggere il brano che ho estrapolato del filosofo Byung-Chul Han, da me postato il 28 dicembre 2020 alle 15:13.

    Cambio di paradigma

    Un’infinita possibilità di connessione e di informazione ci rende veramente soggetti liberi? Partendo da questo interrogativo, Byung-Chul Han tratteggia la nuova società del controllo psicopolitico, che non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio: ci invita invece di continuo a comunicare, a condividere,a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita. Ci seduce con un volto amichevole, mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i bigdata, ci stimola all’uso di dispositivi di automonitoraggio. Nel panottico digitale del nuovo millennio – con internet e gli smartphone – non si viene torturati, ma twittati o postati: il soggetto e la sua psiche diventano produttori di masse di dati personali che sono costantemente monetizzati e commercializzati. In questo suo saggio, Byung-Chul Han pone l’attenzione sul cambio di paradigma che stiamo vivendo, mostrando come la libertà oggi vada incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in costrizione: per ridefinirla è necessario diventare eretici, rivolgersi alla libera scelta, alla non conformità.

    [Byung-Chul Han, nato a Seul, è docente di Filosofia e Studi culturali allaUniversität der Künste di Berlino. Autore di saggi sulla globalizzazione el’ipercultura, per nottetempo ha pubblicato La società della stanchezza (2012), Eros in agonia (2013), La società della trasparenza (2014) e Nello sciame (2015).]

    https://www.academia.edu/42076399/Psicopolitica_Il_neoliberismo_e_le_nuove_tecniche_del_potere_Byung_Chul_Han20200226_32786_1pu408v?email_work_card=title

    Crisi della libertà

    Sfruttamento della libertà

    La libertà sarà stata un episodio. Il termine episodio significa “parte intermedia”: il sentimento della libertà si manifesta nel passaggio da una forma di vita all’altra, fino a che anche quest’ultima non si rivela una forma di costrizione. Cosí, alla liberazione segue una nuova sottomissione: è questo il destino del soggetto, il cui significato letterale è “essere-sottomesso”. Oggi, non ci riteniamo soggetti sottomessi, ma progetti liberi, che delineano e reinventano se stessi in modo sempre nuovo. Il conseguente passaggio dal soggetto al progetto è accompagnato dal sentimento della libertà: ormai, il progetto stesso si rivela non tanto una figura della costrizione, ma piuttosto una forma ancora piú efficace di soggettivazione edi sottomissione. L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione.
    Viviamo una fase storica particolare, in cui la stessa libertà genera costrizioni. La libertà di potere (Können) produce persino piú vincoli del (Sollen) disciplinare, che esprime obblighi e divieti. Ildovere ha unlimite: il potere, invece, non ne ha. Perciò, la costrizione che deriva dal potere è illimitata e con ciò ci ritroviamo in una situazione paradossale. Lalibertà è, nei fatti, l’antagonista della costrizione, essere liberi significaessere liberi da costrizioni. Al momento, questa libertà – che dovrebbe essere il contrario della costrizione – genera essa stessa costrizioni. Disturbi psichici come depressione e burnout sono espressione di una profonda crisidella libertà: sono indicatori patologici del fatto che spesso oggi essa si rovescia in costrizione. Il soggetto di prestazione, che si crede libero, è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone.

    Nessun padrone lo fronteggia e lo costringe a lavorare. Il soggetto assolutizza la nuda vita e lavora. Nuda vita e lavoro sono le due facce di una stessa medaglia: la salute rappresenta l’ideale della nuda vita. A questo servo neoliberale è estranea la sovranità, o meglio la libertà di quel padroneche, secondo la dialettica servo-padrone di Hegel, non lavora e gode solamente.
    Tale sovranità del padrone consiste nell’elevarsi al di sopra della nuda vita e, di conseguenza, nel farsi carico persino della morte. Questo eccesso, questa forma di vita e di godimento eccessivo è estranea al servo che lavora preoccupandosi della nuda vita. Al contrario di quanto afferma l’assunto hegeliano, il lavoro non lo rende libero: egli resta comunque servo del lavoro. Il servo hegeliano costringe anche il padrone a lavorare: la dialettica servo-padrone di Hegel porta alla totalizzazione del lavoro. Come imprenditore di se stesso, il soggetto neoliberale è incapace di rapportarsi agli altri in modo libero da costrizioni. Tra imprenditori non si stabilisce alcuna amicizia disinteressata: eppure, essere-liberi originariamente significa essere tra amici. Nell’indogermanico, libertà (Freiheit) e amico (Freund) hanno la stessa radice: la libertà è essenzialmente un termine di relazione.

    Ci si sente davvero liberi soltanto in una relazione soddisfacente, in un felice essere-insieme all’altro. L’isolamento totale a cui conduce il regime neoliberale non ci rende davvero liberi: cosí, si pone oggi la domanda se – per sfuggire alla fatale dialettica della libertà che la porta a rovesciarsi in costrizione – essa non vada ridefinita e reinventata. Il neoliberalismo è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l’emozione, il gioco e la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace: nel caso dello sfruttamento da parte di altri il rendimento è assai basso. Soltantolo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento.È interessante notare che anche Marx definisce la libertà in base al rapporto soddisfacente con l’altro: Solo nella comunità [Gemeinschaft] con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare intutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale1.

    Essere liberi significa, quindi, nient’altro che realizzarsi insieme. Libertà è sinonimo di comunità felice. La libertà individuale è per Marx un’astuzia, una perfidia del capitale. La “libera concorrenza”, che si fonda sull’idea della libertà individuale, è soltanto “la relazione del capitale con se stesso in quanto altro capitale, ossia il reale comportamento del capitale in quanto capitale”. Attraverso la libera concorrenza, il capitale riesce a riprodursi rapportandosi a se stesso come a un altro capitale. Grazie alla libertà individuale, copula con l’altro se stesso. Mentre concorriamo liberamente tra noi, il capitale si moltiplica. La libertà individuale è una schiavitú nella misura in cui, in funzione del proprio accrescimento, il capitale la monopolizza. Il capitale, dunque, sfrutta la libertà dell’individuo per riprodursi: “Nella libera concorrenza nonsono gli individui, ma è il capitale che è posto in condizioni di libertà”. Attraverso la libertà individuale si realizza la libertà del capitale.
    Di conseguenza, l’individuo si degrada a organo genitale del capitale. La libertà individuale presta al capitale una soggettività “automatica”, che stimola la riproduzione attiva. Cosí, il capitale “procrea” ininterrottamente“individui viventi”. La libertà individuale, che assume oggi una forma eccessiva, è infine nient’altro che l’eccesso del capitale stesso.

    Dittatura del capitale

    Secondo Marx, a un determinato stadio del loro sviluppo, le forze produttive (forza-lavoro umana, modi e mezzi materiali di produzione) entrano in contraddizione con i rapporti di produzione dominanti (rapportidi proprietà e di dominio). La contraddizione sorge perché le forze di produzione si sviluppano incessantemente: l’industrializzazione, cosí, crea nuove forze di produzione, che entrano in contraddizione con i rapporti di produzione e di controllo feudale. Questa contraddizione porta a una crisi sociale, che spinge a una trasformazione dei rapporti di produzione: essa è risolta attraverso la lotta del proletariato contro la borghesia, lotta che porta a un ordine sociale comunista. Al contrario di quanto sostiene Marx, la contraddizione tra forze di produzione e rapporti di produzione non può essere superata per mezzo di una rivoluzione comunista: essa è infatti insuperabile.

    Il Grande Fratello benevolo

    La lingua immaginaria parlata nello stato di sorveglianza orwelliano è detta“neolingua”: essa deve sostituire la “archelingua” e ha un unico scopo, quello di limitare lo spazio di pensiero. Anno dopo anno, le parole diminuiscono, e la libertà di coscienza si riduce sempre di piú. Syme, unamico di Winston – il protagonista di 1984 –, è entusiasta della bellezza insita nell’annientamento delle parole. I reati di pensiero dovrebbero essere resi impossibili già per il fatto che le parole necessarie a commetterli sono eliminate dal vocabolario della neolingua. Viene abolita, in tal modo, anche la libertà di pensiero. Proprio da questo punto di vista, lo stato di sorveglianza orwelliano si distingue radicalmente dal panottico digitale, che fa un uso smodato della libertà: l’odierna società dell’informazione sarebbe caratterizzata non dall’azzeramento, ma dall’incremento delle parole. Il romanzo di Orwell è dominato dallo spirito della Guerra Fredda e dalla negatività dell’antagonismo. Il paese si ritrova in una guerra permanente: Julia, l’amante di Winston, suppone persino che le bombe, che quotidianamente cadono su Londra, siano sganciate dallo stesso partito del Grande Fratello, per mantenere gli esseri umani in una condizione di paura e terrore. Il “Nemico del Popolo” si chiama Emmanuel Goldstein: è a capo di una rete di cospiratori che opera in clandestinità e persegue la caduta del governo. Il Grande Fratello conduce una guerra ideologica contro Goldstein: ogni giorno, sul “teleschermo” vengono trasmessi i “Due Minutid’Odio” contro di lui. Nel Ministero della Verità (che in effetti è un ministero della menzogna) si controlla il passato per adattarlo all’ideologia. La psicotecnica, cui si ricorre nello stato di sorveglianza orwelliano, comporta il lavaggio del cervello per mezzo di elettroshock, la privazione del sonno, la detenzione in isolamento, la somministrazione di droghe e letorture fisiche. Il Ministero dell’Abbondanza (Minabbon, nella neolingua) si preoccupa che non siano disponibili troppi beni di consumo: provoca una mancanza artificiale.

    Lo stato di sorveglianza orwelliano, con i suoi teleschermi e le sue stanze di tortura, è del tutto differente dal panottico digitale, con internet, gli smartphone e i Google Glass, dominato com’è dall’illusione di una libertà e di una comunicazione illimitate. In questo panottico non si viene torturati, ma twittati o postati: non c’è, qui, alcun misterioso Ministero della Verità. A sostituire la verità sono la trasparenza e l’informazione. Il nuovo obiettivo del potere non è controllare il passato, ma indirizzare in senso psicopolitico il futuro. La tecnica di potere del regime neoliberale non è proibitiva, protettiva o repressiva, bensí prospettiva, permissiva e proiettiva. Il consumo non viene represso ma massimizzato. Non si produce alcuna mancanza, bensí un’abbondanza, anzi un eccesso di positività: siamo tutti sollecitati a comunicare e a consumare. Il principio di negatività, che caratterizza ancora lo stato di sorveglianza orwelliano, lascia il posto al principio di positività: i bisogni non sono repressi ma stimolati. Al posto delle confessioni estorte con la tortura, subentra il denudamento volontario. Lo smartphone sostituisce la camera di tortura: il Grande Fratello assume ora un volto benevolo. La sua benevolenza è ciò che rende la sorveglianza cosí efficace.

    Il Grande Fratello di Bentham è certamente invisibile, ma è onnipresente nelle menti dei detenuti, che lo hanno introiettato. Nel panottico digitale, invece, nessuno si sente davvero sorvegliato o minacciato. Perciò, la locuzione “stato di sorveglianza” non è del tutto adeguata a descrivere il panottico digitale: in esso ci si sente liberi, però proprio questa libertà percepita, che manca completamente nello stato di sorveglianza orwelliano, rappresenta un problema. Il panottico digitale fa uso di una rivelazione volontaria da parte dei suoidetenuti. L’autosfruttamento e l’autoesposizione seguono la stessa logica: ogni volta è la libertà a essere sfruttata. Nel panottico digitale manca quel Grande Fratello che ci estorce informazioni contro la nostra volontà. Piuttosto, siamo noi stessi a svelarci, a metterci a nudo volontariamente. È diventato leggendario lo spot di Apple che, nel 1984, fu trasmesso sul maxischermo durante il Super Bowl: nello spot, Apple si presentava come il liberatore dallo stato di sorveglianza orwelliano. Marciando, una fila di lavoratori apatici e privi di volontà entra in una grande sala e ascolta il discorso fanatico del Grande Fratello sul teleschermo. Nella sala irrompe una donna che corre, inseguita dalla polizia del pensiero: continua a correre imperturbabile, reggendo un grande martello davanti al seno che sobbalza. Corre determinata verso il Grande Fratello e scaglia il martello con tutta lasua violenza contro il teleschermo che, di conseguenza, esplode in una fiammata. Gli uomini si risvegliano dalla loro apatia e una voce annuncia: “Il 24 gennaio, Apple Computer lancerà Macintosh. E voi capirete perché il1984 non sarà come 1984”.

    Contrariamente al messaggio di Apple, il1984 non ha segnato la fine dello stato di sorveglianza, ma l’inizio di una società del controllo di nuovo genere, la cui efficacia supera di molto lo stato di sorveglianza orwelliano. La comunicazione coincide interamente col controllo. Ognuno è il panottico di se stesso.

    Di Maurizio Malta, leggasi qui:

    «La scoperta del vaccino contro il coronavirus mostra due facce.

    La prima è una pietra miliare per la scienza e per le tecnologie della bioingegneria, a soli undici mesi dallo scatenarsi della pandemia secolare.
    La scoperta poggia su decenni di studio dei virus e della biologia molecolare, da quando negli anni Cinquanta fu ricostruita l’azione di DNA e RNA nelle cellule.
    Aver svelato i segreti della genetica, e aver sviluppato le biotecnologie, ha permesso di selezionare parte del codice del virus, indurre la risposta delle cellule umane e innescare la reazione del sistema immunitario.
    La capacità di fuoco dei grandi gruppi farmaceutici ha fatto il resto, passando dai laboratori alla produzione in massa. E’ l’industrializzazione della scienza: miliardi di fiale, che in potenza sarebbero in grado di proteggere l’intera umanità.
    Un passo da gigante, paragonabile secondo alcuni solo all’introduzione della penicillina ottant’anni fa.

    A pandemia secolare, una scoperta secolare.
    L’altra faccia quella del capitale. La corsa al vaccino ha scatenato una guerra industriale tra i colossi della farmaceutica, per accaparrarsi commesse miliardarie e per spartirsi fondi pubblici ingentissimi.
    La fornitura dei vaccini già uno strumento nella contesa strategica, almeno tra USA, Cina, Europa e Russia: una lotta di influenza; Pechino ha preso una misura di vantaggio in Asia, Africa e America Latina. Comunque sia, un quinto della popolazione mondiale, si calcola, rimarrebbe senza protezione.
    Infine c’è la guerra vera. Virus, batteri e vaccini fanno parte da decenni degli arsenali militari; la guerra chimica e batteriologica ha già dato prove spaventose della sua capacità distruttiva.

    Questo è iI punto, ed è il Giano bifronte della società capitalistica. ll vaccino mostra i risultati grandiosi dello sviluppo delle forze produttive, se indirizzate verso uno scopo cosciente.
    Il capitale mostra la contraddizione dei rapporti di produzione, che condannano al caos, all’anarchia dei mercati, alla guerra, alla distruzione di ciò che s’era costruito.
    Scienza, tecnica e produzione vanno liberate dalla tirannia del capitale.
    Il vaccino ci dice che il comunismo è una necessità storica.»

    Dicembre 2020
    (Maurizio Malta)

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  34. Da Il Maestro e Margherita, di Bulgakov
    l’incontro tra Margherita e il Maestro, versione di Vera Dridso, Einaudi.

    – Essa aveva in mano orribili fiori gialli inquieti. Non so come si chiamino, ma sono sempre i primi ad apparire a Mosca. Questi fiori si stagliavano nettamente sul suo soprabito nero primaverile. Aveva fiori gialli! Un brutto colore. Dalla Tverskaja svoltò in un vicolo e si voltò. Conosce la Tverskaja, no? Lungo la Tverskaja camminavano migliaia di persone, ma le garantisco che essa vide me solo e mi guardò, non dico preoccupata, ma addirittura in un certo qual modo morboso. Fui colpito non tanto dalla sua bellezza, quanto dalla straordinaria, mai vista solitudine nei suoi occhi! Ubbidendo a quel richiamo giallo, anch’io svoltai nel vicolo e la seguii. Camminavamo in silenzio lungo il vicolo triste e storto, io da un lato, lei dall’altro. E si figuri che non c’era anima viva. Mi tormentavo perché mi sembrava che fosse necessario parlarle, e temevo che non sarei riuscito a pronunciare neppure una parola, e lei se ne sarebbe andata, e non l’avrei mai più rivista. E s’immagini, a un tratto fu lei a parlare:
    – Le piacciono i miei fiori?
    Mi ricordo chiaramente il suono della sua voce, alquanto bassa, ma con brusche variazioni di tono, e – è sciocco, lo so – parve che un’eco risuonasse nel vicolo e si ripercuotesse nel muro giallo e sporco. Passai in fretta sull’altro marciapiede e, avvicinandomi a lei, risposi:
    – No.
    Mi guardò sorpresa, e, di colpo, in modo del tutto inatteso, sentii che per tutta la vita avevo amato proprio quella donna! Che storia, eh? Lei dirà, naturalmente, che sono pazzo.
    – Non dico niente, – esclamò Ivan, e soggiunse: – La supplico, continui!
    L’ospite continuò.
    – Si, mi fissò sorpresa, e poi, dopo avermi fissato, chiese:
    – Non le piacciono i fiori?
    Nella sua voce mi parve sentire dell’ostilità. Le camminavo accanto, cercando di tenere il passo, e, con mio grande stupore, non mi sentivo affatto imbarazzato.
    – No, mi piacciono i fiori, ma non questi, – dissi.
    – Quali le piacciono?
    – Le rose.
    Rimpiansi le mie parole, perché lei ebbe un sorriso contrito e gettò i suoi fiori nel rigagnolo. Li raccattai, un po’ confuso, e glieli porsi, ma lei, sorridendo, li respinse ed essi mi rimasero in mano.
    Camminammo così, silenziosi, per un po’, finché lei non mi tolse i fiori di mano e li gettò sul selciato, poi infilò sotto il mio braccio la mano col guanto nero svasato, e proseguimmo vicini.
    – E poi? – disse Ivan. – Per favore, non salti niente!
    – E poi? – l’ospite ripeté la domanda. – Quello che successe poi, lo può indovinare lei stesso -. Inaspettatamente si asciugò una lacrima con la manica destra, e prosegui: – L’amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpi subito entrambi. Così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello a serramanico! Del resto, lei affermava in seguito che non era così, che ci amavamo da molto tempo pur senza esserci mai visti, e pur vivendo lei con un altro… e io, allora… con quella, come si chiama…
    – Con chi? – chiese Bezdomnyj.
    – Con quella, ma si… quella… mm… – rispose l’ospite schioccando le dita.
    – Lei era sposato?
    – Ma si, perché crede che schiocchi le dita?… Con quella… Varen’ka… Manecka… no, Varen’ka… il vestito a strisce, il Museo… Ma non ricordo.
    Ebbene, lei diceva che con quei fiori gialli in mano era uscita, quel giorno, perché io la potessi finalmente incontrare, e che se questo non fosse avvenuto, si sarebbe avvelenata, poiché la sua vita era vuota.
    Si, l’amore ci colpì in un baleno. Lo sapevo già, quel giorno, dopo un’ora, mentre eravamo, senza accorgerci dell’esistenza della città, sul lungofiume sotto le mura del Cremlino,
    Parlavamo come se ci fossimo lasciati il giorno prima, come se ci conoscessimo da molti anni. Ci accordammo per trovarci l’indomani nello stesso posto, sulla Moscova, e ci incontrammo. Il sole di maggio splendeva per noi. Ben presto, quella donna divenne la mia moglie segreta.
    Veniva da me quotidianamente, di giorno, e ad aspettarla io cominciavo sin dal mattino. Questa attesa si manifestava col fatto che spostavo gli oggetti sul tavolo. Dieci minuti prima mi sedevo vicino alla finestra e mi mettevo in ascolto, aspettando che il vecchio cancello sbattesse. È strano: prima che la incontrassi, poca gente veniva nel nostro cortiletto, anzi, non veniva mai nessuno, mentre adesso mi sembrava che tutta la città vi si precipitasse. Sbatteva il cancello, batteva il mio cuore, e, si figuri, dietro il finestrino, al livello del mio viso, appariva immancabilmente un paio di stivali sporchi. L’arrotino. Ma chi aveva bisogno di un arrotino nella nostra casa? Arrotare che cosa? Quali coltelli?
    Lei entrava una sola volta dal cancello, ma io avevo provato il batticuore almeno dieci volte, non dico una bugia. Poi, quando giungeva la sua ora e le lancette indicavano mezzogiorno, il batticuore continuava finché senza tacchettio, quasi silenziose, davanti alla finestra non mi passavano le scarpe con un nodo di camoscio nero, stretto da una fibbia d’acciaio.
    A volte scherzava, e fermandosi davanti alla seconda finestra, bussava al vetro con la punta della scarpa. Nello stesso istante io mi ritrovavo davanti a quella finestra, ma la scarpa scompariva, scompariva la seta nera che velava la luce, e io correvo ad aprirle.
    Nessuno sapeva del nostro legame, glielo garantisco, anche se questo non succede mai. Non lo sapeva suo marito, non lo sapevano i conoscenti. Nella vecchia casetta dove possedevo quello scantinato, naturalmente, sapevano, vedevano che mi veniva a trovare una donna, ma non ne conoscevano il nome.
    – E chi è? – chiese Ivan, interessato in sommo grado a quella storia d’amore.
    L’ospite fece un gesto a significare che non l’avrebbe mai detto a nessuno, e continuò il suo racconto.
    Ivan seppe che il Maestro e la sconosciuta si amavano talmente che divennero assolutamente inseparabili. Ivan ora si immaginava con chiarezza le due camere dello scantinato della casetta, dove regnava sempre il crepuscolo a causa del lillà e della palizzata. I logori mobili di mogano, lo scrittoio con l’orologio che suonava ogni mezz’ora, e libri, libri, che andavano dal pavimento di legno lucido fino al soffitto annerito dal fumo, e la stufa.
    Ivan apprese che, sin dai primi giorni della loro relazione, il suo ospite e la moglie segreta erano venuti alla conclusione che a farli incontrare all’angolo della Tverskaja con il vicolo era stato il destino, e che erano stati creati eternamente l’uno per l’altra.

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  35. Carlo Livia

    Brano meraviglioso. Il contesto struggente di pathos, l’anamnesi faticosa, lacunosa che travalica in sogno, l’implicita illuminazione sulla misteriosa trascendenza dell’amore, sul determinismo numinoso che lo governa strappandolo alla contingenza…un miracolo!
    Tutto il capolavoro di Bulgakov ( figlio di un professore di teologia ) è impregnato di una riflessione religiosa obliqua, eterodossa, espressa spesso in antinomie e controfigurazioni.
    Il vero protagonista è Satana, che denuncia la misera mistificazione dell’ideologia marxista, atea e positivista, che sorregge la falsa emancipazione del popolo, opprimendolo in forme sostanzialmente immutate da quelle dell’antica schiavitù.
    Il nucleo della parenesi, affidata alle parole che Gesù rivolge a Pilato, che “ogni forma di potere è una violenza”, rivela l’ostacolo strutturale, intrascendibile all’evoluzione del socialismo verso forme meno oppressive:
    è la sua radice ideologica, hegeliana, che rinchiude l’individuo in una complessa e immutabile struttura ideologica, come una pedina senza valore, umiliandone il valore e la inalienabile singolarità e autonomia di pensiero. È la inevitabile oppressione che promana dalla ferrea staticità dell’architettura del sistema idealista, contro cui si scagliava l’accorata ribellione di Kierkegaard, e poi di tutta la scuola del “sospetto” esistenzialista.

    Nel seminario “Encore”, Lacan dà una definizione dell’incontro d’amore molto aderente alla narrazione di Bulgakov: è la paradossale unione di “due tracce d’esilio”, due realtà assenti, due luoghi mancati che pure si toccano, si uniscono in una contingenza. Al tempo stesso l’amore si rivela necessario, in un’inestricabile aporia o pausa di senso, e destinato all’eterno, di cui è inafferrabile segno.
    Nell’impossibile, nel soprannaturale istante dell’incontro, sempre e mai entrano nel tempo, come un appiglio in cui trattenere l’illusione, tramutando l’inaudito in inevitabile.
    Per Lacan, come per i surrealisti di cui era fiancheggiatore, il desiderio è la cifra del trascendente, almeno nella forma in cui si rivela all’uomo. “Dio è la donna permanente dell’uomo”.
    È la dimensione paradossale, inafferrabile in cui il divino vincola il pensiero alla sua ineluttabile fragilità : riconoscerne la sorgente ultraterrena, estrinseca ad ogni orizzonte precluso alla trascendenza.

    “Essere orgogliosi è aver dimenticato di essere Dio.”

    Simone Weil

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    • caro Carlo Livia,

      come sappiamo, Agamben concepisce la religione a partire dal verbo latino relegere. Parola che significa essere attenti, vigilare, vegliare sulle cose, che sono sacre, preoccuparsi che le cose sacre restino separate dalle altre. Questa separazione è essenziale per ogni religione.
      La profanazione, al contrario, significa, esercitare contro quella vigilanza un atteggiamento di consapevole in-curia, non-curanza, anzi, di consapevole avversione trasgressione per tutte le cose considerate sacre.
      La profanazione è, quindi, una prassi di libertà che ci libera dalla trascendenza, da ogni forma di soggettivazione, di assoggettamento all’Altro, di assoggettamento alla trascendenza.
      La poiesis è lo spazio aperto dove si svolge il gioco della profanazione e della trasgressione, della libertà dalla trascendenza e dal recinto delle cose ritenute sacre.

      La profanazione apre cosí uno spazio di libertà dell’immanenza.
      Come noto sia Hegel che Marx pensano il pensiero del lavoro. La Fenomenologia dello spirito è la storia capovolta del lavoro umano, Il Capitale è concepito come critica del concetto di lavoro di Hegel rimesso sui piedi. Tanto il pensiero di Hegel quanto quello di Marx sono dominati dal principio del lavoro; alla stessa stregua, Essere e tempo (1927) di Heidegger è ancora vincolato al concetto di lavoro. Nella sua «cura» e nella sua «angoscia», il Dasein è un uomo che lavora, che pensa il lavoro come libertà, come auto realizzazione nella sottomissione della natura mediante il lavoro. Il Dasein non gioca mai, è sempre impegnato nella seriosità in un impegno, in un lavoro: l’aver cura, la cura. L’ultimo Heidegger sembrerebbe voler fare un passo indietro da questa teorizzazione, infatti il concetto di «abbandono» (Gelassenheit), vorrebbe fornire una via di uscita dal vicolo cieco rappresentato dal concetto dell’aver cura, di impegno, di lavoro. Ma si tratta di una soluzione parziale e inconcludente, perché chi si abbandona dal lavoro ritorna, prima o poi, all’impegno nel lavoro e all’abbandono della Gelassenheit.

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  36. Byung-Chul Han dice cose che appartengono alla cultura orientale, e suonano come invito a intraprendere il percorso introspettivo, nuovo per l’occidente scientifico che su questi aspetti non ha saputo andare oltre la psicanalisi, che è per l’appunto, una scienza.

    “Il soggetto di prestazione, che si crede libero, è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone”.

    Qui è il paradosso che scombina l’assetto del pensiero occidentale, specie per quanto riguarda la consueta interpretazione, e organizzazione, del mercato suddiviso per “classi” sociali. Ma come? Anche senza padrone, siamo servi? Saremmo dunque degli auto-reclusi?

    Linguaglossa fa notare che Byung-Chul Han ” ci stimola all’uso di dispositivi di automonitoraggio”. Suggerisce quindi l’approfondimento introspettivo (il pensiero va alle stucchevoli poesie che si leggono e alla presunto realismo di tanta poesia).

    Nel brano scelto da Linguaglossa, tratto da Il Maestro e Margherita, i tempi, esterno e interno, si alternano nello scritto con grande efficacia. Il discorso procede senza delimitazioni tra detto e pensato. Qui la riflessione va alla prosa, perché penso serva una gran bella prosa per fare poetry kitchen, oltre che a un coraggioso scavo nel linguaggio. Una scrittura senza orpelli e inutili aggettivi, deve per forza di cose svolgersi contro se stessa, risalire la corrente dei pensiero esattamente come fanno nei fiumi i salmoni… Perciò, ma è solo la mia opinione, le costruzioni – verso con inizio e fine, punto e a capo – andrebbero considerare come basiche, elementari. Il pensiero non ha quella particolare cadenza, o ritmo.

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