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Annachiara Marangoni, da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti), con una Lettera ad Antonio Sagredo di Giorgio Linguaglossa

Gif Polanski

Annachiara Marangoni, veronese, di formazione sanitaria e umanistico – pedagogica, dirige a Trento una struttura riabilitativa per giovani affetti da disturbo dello spettro autistico. Fa parte del movimento poetico Realismo Terminale (RT), fondato dal maestro Guido Oldani.  Già autrice nel 2013 delle raccolte poetiche Nerooro e nel 2019 Il corpo folle, collana I Gigli, editi da Montedit (Mi), ha pubblicato nel 2021 per l’editore Aletti una plaquette realistico terminale raccolta nel volume Enciclopedia dei Poeti Contemporanei. Presente nell’antologia RT Il gommone forato curata da T. Di Malta, editore Puntoacapo, 2022. Ha pubblicato per la rivista Atelier, diretta da Giuliano Ladolfi, per la rivista Amicando Semper, diretta da Enzo Santese. Per il direttore della rivista La Terrazza, ha curato l’introduzione di un gruppo di poesie di Guido Oldani. Ha pubblicato per la rivista internazionale Noria, diretta dal prof. Giovanni Dotoli, sul numero 5, 2023, un articolo dal titolo Autismo e realismo terminale. Per la rivista polacca Bezkres ha pubblicato numerosi testi poetici ed articoli, traduzioni e cura di Izabella Teresa Kostka. Presente nell’antologia italo – polacca “Inter Amicos (Dobrota, Polonia 2023), curata dalla poetessa Izabella Tereza Kostka, con una plaquette di poesie realistico terminali. Suoi testi poetici sono presenti in alcune pubblicazioni, volumi e riviste culturali.

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da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti)

Tempo nostrum

Smunto come un ombrellone chiuso
il nostro tempo di promesse spente
piantuma intorno al pianeta tutto
alberi di cuccagna consistenti.
Seduta all’ombra aspetto il pacco dono
scaffai Amazon già continentale
poi ho l’INPS che mi scrive sempre
vedo il dopo da un occhiale opaco.

Il gomitolo

L’odio è un gomitolo di lana
stringe come l’acqua fredda in un inverno.
E allora lo lavori a maglia
con gli aghi piantati sotto pelle
addosso è un’armatura arroventata
ti scioglie come dado dentro all’olio.
Ma ci si abitua a diventare ferro
anche la voce è come una ciabatta,
e l’anima nel barattolo di latta
è un fagiolo dimenticato dentro al fondo.

Il direttore

È un termometro il traffico dirige
che i ghiacciai senza la corrente
sono appesi come gocce al vento.
E la terra con le sue cornicette
è una colata credo, di mercurio
in mezzo ai denti, arsa con gli insetti.
Dio su in alto è il condizionatore
fa cascare frescura nei container
dove la calca è priva di pudore.

Disumale

Le facce sono treni al finestrino
sfrecciano fino a farne un volto uno.
Poi stesi in corridoio all’ospedale
la banda la fa un vecchio quando russa.
Gli arrivano coperte come burka
per scaldare il nessuno che sta sotto.
Ed ora il tempo si misura adesso
mentre di sete muore il giorno stesso.

Annachiara Marangoni

Annachiara Marangoni

Il bisturi

La croce è una sala operatoria
dai camici simili a un sudario,
l’anestesia, imballaggio del dolore
spala ore fuori dal quadrante.
Steso con il sesso fuori,
è uno spiedo con le penne sparse
e la fiducia la cardiamo a mano,
mezzo vivo, prossimo e lontano.

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Il barbone

Il sole è il lampione della strada
che gli fa da materasso, pressappoco.
E i quadri sono le facce dei passanti,
che ogni giorno scambia tra di loro
le pareti di vento pari a ferro,
fanno da perimetro alla gente
che gira alla larga, ma fa niente.

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Tempi storti

Seduti davanti a un telo bianco
scorrono i secondi accartocciati
delle vite di quelli come noi.
Come spilli scordati nel vestito
le manovre dei potenti sono guai
tutti cristi, tempi storti, siamo noi.

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Niente

C’è gente in questo arso continente
il cui ventre è un piatto vuoto,
la faccia da palloncino sgonfio
e sono in tanti a non avere niente
sulla bilancia pesano una piuma
impastati con la trasparenza
sono spiriti senza ricorrenza.

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Legale ora

Spazzolata l’ora
come fa il tergicristallo con la pioggia
furto di buio, sottrazione d’oscurità
la sera è un mazzo di lampadine accese
palpebre schiuse come saracinesche
sono sorrisi in mezzo alla faccia.

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La fronte sullo specchio

Lo specchio stamattina
mi rimbalza un volto uguale a un’officina,
in cui le macchine sostano sdraiate
in attesa di essere aggiustate.
Una carezza asporta l’olio dalle dita
a ricordare le malattie subite,
un po’ tutti ci hanno messo mano
a rendermi gli occhi come lenti sopra il naso
che mirano al tutto da un puntino,
il mondo è meno grande del sogno di un bambino.

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Dash

Dopo il temporale litigammo
al deposito dei carrelli del super.
Ai ¾ di bianco della casa
apparivano i titoli di coda
di un’apologia atomica
ad oriente i riscatti
ad occidente i ricatti.
Offrimi un drink babysapiens.

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Carceri accaventiquattro

È agosto e si ribolle,
tra le sbarre incandescenti,
umani pressati aspettano gli sconti.
A decine le lenzuola stese sugli uscenti.
La bilancia li destina nella turca
lo stato dice non c’è spazio
e così la dignità è una Simmenthal
abbonata all’obitorio aperto accaventiquattro
ma fra tutti c’è chi se ne frega.

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caro Antonio Sagredo,

è vero, tu hai per certi aspetti anticipato gli esiti della «nuova poesia», ti sei costruito un «linguaggio-soglia» che non abita in nessun-luogo. Voglio dire che il concetto di «soglia» è la negazione di quell’altro concetto di «viaggio» inteso come «ritorno» (nostos). La «soglia» è una intuizione più antica di quella di «ritorno», il «ritorno» per ecellenza è il viaggio di Ulisse nell’Odissea, mentre nella «soglia» ogni nostro movimento, ogni nostro peregrinare che avviene per mezzo di avatar, di sosia, di doppi… è soltanto irreale, virtuale, onirico. La poetry kitchen è fatta di «linguaggi soglia» che non comunicano niente di essente, ma comunicano ombre, ombre di ombre. Certo, mette disagio nei letterati abituati e costruiti nelle certezze (dell’io, del noi, del voi, di questo e di quello etc.) scoprire che ci possono essere linguaggi-soglia, linguaggi-di-ombre… che là, nei «linguaggi-soglia» c’è una ricchezza inusitata che loro non potrebbero mai neanche immaginare.
Detto con le parole di Lucio Tosi: “La poetry kitchen ha il merito di aver individuato la durata di ogni pensiero, il suo passare (nel vuoto, spazio e tempo), e nelle parole il loro morire”.
Detto con le parole di Marie Laure Colasson: “Sostare sulla soglia, fare una poesia della soglia significa accettare l’instabilità e la precarietà dello stare sulla soglia (né dentro né fuori)”.

L’idea dell’io come semplice modalità deriva dalla Faktizität di Heidegger, e quindi dalla sua ontologia, che individua nella modalità dell’esser-ci la sua matrice più profonda, unitamente alla dialettica proprio-improprio da cui emerge la centralità della modalità quale caratteristica del Dasein.
Da qui all’«ontologia modale» di Agamben e alla «ontologia modale» della «nuova poesia» c’è solo un passo.
La poesia del «realismo terminale» ruota pur sempre attorno all’epicentro dell’io, anch’essa è costruita in parte su un «linguaggio della soglia». È l’io che costruisce la geografia e la topografia di questa poesia «terminale», dunque, si tratta di una poesia che mantiene ancora un legame, seppur tenue e in via di decostruzione, con quella della tradizione. Fatto a meno dell’io, messo tra parentesi l’io, ecco che si entra in un nuovo «condominio linguistico»: se viene meno lo shifter (io) viene meno anche l’istanza di discorso che lo shifter apre e legittima. E si aprono le possibilità del «linguaggio della soglia»

(Giorgio Linguaglossa)

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Antonio Sagredo, Poesie da Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022, traduzione in spagnolo di Manuel Martínez-Forega, Antonio Lopez Garcia, figure in una casa, 1967

ANTONIO SAGREDO (2)

Antonio Sagredo, foto di Enzo Ferrari

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Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022,2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudenkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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…Entiende Sagredo la poesía como lugar de mediación intelectual, materializa una terminología intelectual e intelectualiza la percepción pesimista de un entorno social e histórico agresivo al que desafía. Es, en consecuencia, natural la adopción de un lenguaje interpelativo, incluso autointerpelativo (un «autodiálogo» habría dicho Clara Janés), cuyo propósito no es otro que preguntarnos sistemáticamente por qué y para qué hemos llegado hasta aquí si la historia, la literatura, la religión, el desarrollo técnico, las herramientas tecnológicas… han prestado muy poca atención al centro mismo de su razón de ser: el hombre (el Hombre): «Cantare la vita ― io? / Per la memoria degli uomini?//» concluye preguntándose en 1969 en un hermosísimo poema autorreferencial que comienza «Morirò un giorno, lontano / dalla mia casa…» Víctima lírica de cuantos acontecimientos han marginado a ese hombre trascendental, la antropología histórica a la que me refería toma cuerpo en sí mismo; es decir, que la diacronía histórica es paralela a la suya propia y, si en el precoz poema sin título que comienza «Morirò…» hace referencia a este paralelismo, la coherencia ontológica que su obra posterior pone de manifiesto representa una prueba más de ser un corpus estéticamente inquebrantable cuando Antonio Sagredo se dirige a su alter ego para celebrar de nuevo al Hombre y, en cierto modo, la asunción de que también en la derrota se gana, como atestigua su poesía más reciente.

 Cantos del Moncayo constituye un auténtico regalo inédito en español hasta hoy. Escrito en 2005 en Italia, es producto, sin embargo, de una visita que el poeta había hecho ese mismo año a España y, más concretamente, a la Comarca de Tarazona invitado por el Festival Internacional de Poesía «Moncayo» que ese año conmemoraba el IV centenario de la aparición del Quijote. En estos Cantos recorre Sagredo caminos poco explorados a través de un lenguaje en el que el símbolo desempeña una labor estética nuclear: la imaginería cristiana; la iconografía lumínica; la toponimia literaria; el nominalismo mitológico; el sarcasmo, la irreverencia de un lenguaje sin concesiones ornamentales, duro a veces, cruento, desnudo, críptico en ocasiones… que persigue, en cierta manera, deconstruir el idealismo de los fundamentos religiosos y literarios, en este caso tomando como ejemplo a nuestro ‘Ingenioso Hidalgo’ sin que por ello deje de testimoniar su profundo amor por nuestra literatura (Sagredo es, dicho sea de paso, lector entusiasta de Lorca, de Juan Ramón, de Machado, del Quijote, claro…)

(Manuel Martínez-Forega)

CANTOS DEL MONCAYO (2022)

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Antonio Sagredo da Canti del Moncayo

C’è una ferita nell’acqua: è l’ala di una colomba
nella cisterna vuota e bianca la sua ferita,
come bianca è la colomba del Moncayo.
Nel deserto non batte più l’ala cava sull’acqua,
la serpe albina deforma roventi trasparenze.

Questa colomba sbiadita e biancastra del Moncayo
s’è distesa come il Cristo del Mantegna!

E la colomba è nera – clausura!
Ossario di bandiere!
Sudario di colombe oscene!
Pietra: acqua crespata del deserto!

Cisterne di occhi equini, placidi
come i defunti nella Notte delle Ceneri!
Ecate, i ventri-volti sono vessilli di fuochi lacustri!
Per il vino dei Borgia non si scordano i veleni!

Strillano galli ferrosi i tradimenti,
come banderuole!
Sulle torri anche le lacrime hanno ossa eretiche!

Dietro le quinte e sui palchi sono violati i sipari.
Sono di viola soltanto le tue ali – labbra!
Per gli arazzi sugli altari e sulle croci:
la settimana santa è impazzita!

Ah, notte d’Aragona!

Pietra del sorriso! Corpo impunito e folle!
Mai una Madonna fu vergine due volte!
Conobbe il meretricio dell’estasi gratuita… cuore del tuo sesso
è sesso di colomba!
Sono quattro ali le tue labbra!
Muore o non muore questa colomba!?
Non muore.
Oh, è morta!
Ah, notte d’Aragona!

É risorta!
No, non è risorta!

Hay una herida en el agua: es el ala de una paloma
en el aljibe vacío, y blanca su herida,
como blanca es la paloma del Moncayo.
Ya no bate en el desierto el ala hueca sobre el agua,
el reptil albino altera las ardientes transparencias.

Esta paloma pálida y blanquecina del Moncayo
¡está tendida como el Cristo de Mantegna!

Y la paloma es negra —¡clausura!—
¡Osario de banderas!
¡Sudario de palomas obscenas!
¡Piedra: agua encrespada del desierto!

¡Aljibes de ojos equinos, plácidos
como los muertos en la Noche de las Cenizas!
¡Hécate, los rostros-vientres son el estandarte de los fuegos lacustres!
¡El vino de los Borja no olvida los venenos!

¡Cacarean gallos metálicos sus traiciones!
¡Como grímpolas!
¡Sobre las torres también las lágrimas contienen heréticas osamentas!

Detrás de las cortinas y su escenario son violados los disparos.
Solamente tus alas son púrpura —¡labios!—
En los tapices de los altares y de las cruces
¡la semana santa ha enloquecido!

¡Oh! ¡Noche de Aragón!

¡Piedra de la alegría! ¡Cuerpo impune y loco!
¡Jamás una Virgen fue virgen dos veces!
Conoció la prostitución del éxtasis gratuito… corazón de tu sexo
¡es sexo de paloma!
¡Son cuatro alas tus labios!
¿Muere o no muere esta paloma?
No muere.
¡Oh! ¡Está muerta!

¡Oh! ¡Noche de Aragón!

¡Ha renacido!
¡No, no ha renacido!

Antonio Lopez Garcia Figuras en una casa 1967

Antonio Lopez Garcia, figure in una casa, 1967
[Guardate il quadro di Antonio Lopez Garcia, si tratta di un interno, metà del quadro è immersa in una debole luce e l’altra metà in una oscurità, dalla oscurità e dalla luce emergono dei visi, due figure, sembra una vecchia fotografia un po’ sbiadita, e invece è un quadro alla maniera tradizionale, quei volti vorrebbero dirci qualcosa ma non parlano, sono diventati muti, l’abitazione dove avviene questa messa in presenza è nient’altro che un luogo inospitale, in quel luogo le persone non possono più parlare, non possono dire più ciò che volevano dire. È questa l’allegoria dell’arte moderna, che essa non può più parlare, parlarci perché hanno perduto le parole, le parole che volevano dire sono state dimenticate o rimosse…]

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Fabiàn Casas, poeta argentino, Poesie della corrente oggettivista della poesía dell’America Latina. Dieci poesie. Traduzione di Giuseppe Talia. Con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Gif Metro in station

La migliore poesia vive sempre in uno stato di incertezza

Fabiàn Casas è nato a Buenos Aires, nel barrio de Boedo, nel 1965. Poeta, scrittore, saggista e giornalista, è una delle figure più rappresentative e distaccate della generazione argentina chiamata del ’90. Ha studiato filosofía e ha iniziato a lavorare come giornalista presso il Diario Clarìn a cominciare dagli anni ’90 del Novecento. La sua carriera letteraria è iniziata nell’ultima decade del XX secolo con la fondazione della rivista di poesía “18 Whiskys”, assieme ad altri poeti della sua generazione, come José Villa, Daniel Durand, e altri.
Tuca (1990), il libro d’esordio , è stato segnalato come emblema della corrente “oggettivista”.
Ha, inoltre, pubblicato i libri di poesía, El Salmon (1996), Pogo (2000), Bueno, es todo (2000); Oda (2003); El spleen de Boedo (2003); El hombre del overol y otros poemas (2007); Horla city en Horla city y otros (2010); El pequeño mecanismo de los acontecimientos (2012).
In prosa ha pubblicato il romanzo Ocio (2000); i racconti di Los Lemmings y otros (2005); i volumi di saggi Ensayos bonsái (2007) e Breves apuntes de autoayuda (2011). Nel 2007 ha ricevuto in Germania il Premio Anna Seghers con la seguente motivazione: “lirica straordinaria e la sua opera è una fonte di ispirazione per gli autori dell’America Latina.” Una antología di sue poesie è stata pubblicata in Germania nel 2009 con traduzioni di Timo Berger.  Nel 2014 ha ottenuto il diploma di merito al Premio Konex, uno dei maggiori e più prestigiosi premi di poesia in Argentina.

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La mejor poesía está siempre en estado de incertidumbre, y la gente no quiere comprar incertidumbre, compra certezas.” (Fabiàn Casas)
La migliore poesia vive sempre in uno stato di incertezza, però la gente non vuole comprare l’incertezza, compra, invece, la certezza.

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Appunto di Giorgio Linguaglossa

ho la sensazione che le cose non mi riconoscano

Così scrive il poeta argentino Fabiàn Casas. Poeta autentico questo Casas, poeta della «corrente oggettivista» argentina che Giuseppe Talia ci propone alla nostra attenzione con la sua bella traduzione. Senza dubbio, siamo all’interno delle problematiche che scaturiscono dalla meditazione intorno alle «cose» della migliore poesia e filosofia contemporanee.
Scrive Remo Bodei:

«Qualcosa… avviene nel nostro rapporto con le cose, specie nel campo dell’arte. Sul suo esempio, la filosofia è stata chiamata a comprendere la trasformazione degli oggetti in cose, a restituire loro l’eccedenza di senso sottratta dall’usura dell’abitudine e dallo sguardo oggettivante. entrambe, arte e filosofia, combattono quindi la desemantizzazione cui il nostro mondo quotidiano, ridotto a “deserto del reale”, è stato sottoposto e invitano, nello stesso tempo, a rinvenire nelle cose quell’aura che ce le avvicina, pur mantenendole la distanza [cfr. Benjamin 1966, 23-24].
È ora possibile intendere il territorio della fantasia artistica come atopia, luogo inclassificabile, irriducibile allo spazio della res extensa, che non appartiene né al dominio della realtà assoluta, e a quello – che ne è l’opposto speculare – dell’utopia, del non-esistente per definizione. È una zona insituabile in cui il desiderio, cognitivo e affettivo insieme, trova il suo più intenso appagamento (almeno per quel tempo limitato della “domenica della vita” in cui Hegel aveva racchiuso la fruizione dell’arte, sottraendola ai giorni feriali del lavoro e delle preoccupazioni dell’esistenza). Si manifesta in essa la paradossale lontananza prossima rappresentata dalla “patria sconosciuta”, di cui parlano Plotino e Novalis, o quell’arrière-pays intravisto da Yves Bonnefoy, spazio simbolico in cui non siamo mai stati, ma che ci sembra di conoscere da sempre…»1]

Possiamo quindi affermare che la migliore poesia contemporanea si occupa di «cose» e non di «oggetti»? Possiamo dire, più in particolare, che il luogo della poesia sia in quel limen che divide gli «oggetti» dalle «cose» e che ci racconta il misterioso percorso che trasforma gli «oggetti» in «cose»? Scrive Anna Ventura in una sua poesia che dobbiamo mantenere «la distanza dalle cose», ed è vero, dobbiamo in qualche modo difenderci dal ritorno simbolico delle «cose» ma dobbiamo al contempo anche sollecitare in qualche modo questo «ritorno delle cose», perché soltanto esse ci possono parlare, anche se in una lingua che non comprendiamo, soltanto le «cose» possono dirci qualcosa di significativo che la merceologia dei discorsi comuni oscura. In qualche modo tutta la poesia della nuova ontologia estetica si trova lungo questa linea di consonanza con il linguaggio delle «cose». Le «cose» stanno lì a guardarci dal loro luogo atopico e ci parlano, ci fanno intravvedere una eccedenza di senso, ci fanno familiarizzare ad un ordine simbolico che conferisce significato alla nostra esistenza. In questa direzione, la lettura della poesia di Anna Ventura ci sorprende per l’acutezza con cui ha saputo indagare in tutta la sua opera il luogo delle «cose» e quella loro lingua misteriosa.

Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, 2009, pp. 86-87

Gif station metro

ho la sensazione che le cose non mi riconoscano

Senza chiave e al buio

Era uno di quei giorni in cui tutto andava bene.
Avevo pulito la casa e scritto
due o tre poesie che mi piacevano.
Non chiedevo altro.
Allora andai sul ballatoio per buttare la spazzatura
e dietro di me, per un colpo di vento
la porta si chiuse.
Rimasi senza chiave e al buio
sentendo la voce dei miei vicini
attraverso la loro porta.
E’ transitorio, mi dissi;
però così poteva essere anche la morte:
un corridoio scuro,
una porta chiusa con la chiave dentro
e la spazzatura in mano.

Sin llaves y a oscuras

Era uno de esos días en que todo sale bien.
Había limpiado la casa y escrito
dos o tres poemas que me gustaban.
No pedía más.
Entonces salí al pasillo para tirar la basura
y detrás de mí, por una correntada,
la puerta se cerró.
Quedé sin llaves y a oscuras
sintiendo las voces de mis vecinos
a través de sus puertas.
Es transitorio, me dije;
pero así también podría ser la muerte:
un pasillo oscuro,
una puerta cerrada con la llave adentro
la basura en la mano.

Gif Finestra e volto

Viaggiavamo su treni che univano i nostri corpi
alla velocità del desiderio

Abbiamo avuto anche una guerra.
Ora siamo parte di Hollywood.
Quel ragazzo con la testa fasciata
che prima era Roli
dice di chiamarsi Apollinaire.

También tuvimos una guerra.
Ahora somos parte de Hollywood.
Ese chico con la cabeza vendada,
che antes era Roli,
dice llamarse Apollinaire.

*
Qualche tempo fa

Qualche tempo fa
fummo tutti i film d’amore mondiale
tutti gli alberi dell’inferno.
Viaggiavamo su treni che univano i nostri corpi
alla velocità del desiderio.

Come sempre, la pioggia cadeva in ogni parte.

Oggi ci incontriamo per strada.

Lei era con suo marito e con suo figlio;
eravamo il grande anacronismo dell’amore,
la parte rimanente di un montaggio assurdo.
Sembra una legge: tutto ciò che marcisce forma una famiglia.

Hace algún tiempo

Hace algún tiempo
fuimos todas las películas de amor mundiales
todos los árboles del infierno.
Viajábamos en trenes que unían nuestros cuerpos
a la velocidad del deseo.

Como siempre, la lluvia caía en todas partes.

Hoy nos encontramos en la calle.

Ella estaba con su marido y su hijo;
éramos el gran anacronismo del amor,
la parte pendiente de un montaje absurdo.
Parece una ley: todo lo que se pudre forma una familia.

*

A metà della notte

Mi alzo a metà della notte assetato.
Mio padre dorme, i miei fratelli dormono.
Sono nudo nel mezzo del cortile
e ho la sensazione che le cose non mi riconoscano.
Sembra che dietro di me niente si sia concluso.
Però sono di nuovo nel luogo dove sono nato.
Il viaggio del Salmone
in un’epoca dura.
Penso questo e apro il frigorifero:
un poco di luce dalle cose
che si mantengono fredde.

A mitad de la noche

Me levanto a mitad de la noche con mucha sed.
Mi viejo duerme, mis hermanos duermen.
Estoy desnudo en el medio del patio
y tengo la sensación de que las cosas no me reconocen.
Parece que detrás de mí nada hubiese concluido.
Pero estoy otra vez en el lugar donde nací.
El viaje del Salmón
en una época dura.
Pienso esto y abro la heladera:
un poco de luz desde las cosas
que se mantienen frías.

*

Una oscurità essenziale

C’è una oscurità essenziale in questa strada.
Un unico lampione illumina i dintorni
e alberi addomesticati, altissimi,
producono una musica in accordo al vento.
Guardo il mio cane,
una coscienza rasente il suolo
che scava e piscia nella terra
e penso tra me, affondato
nel linguaggio, senza opportunità
tenendo un guinzaglio che denota
ciò che è stato necessario per essere uniti.

Una oscuridad esencial

Hay una oscuridad esencial en esta calle.
Un único farol ilumina el contorno
y árboles domesticados, altísimos,
producen una música de acuerdo al viento.
Miro a mi perro,
una conciencia a ras del piso
que hurga y mea en la tierra
y pienso en mí, hundido
en el lenguaje, sin oportunidad,
sosteniendo una correa que denota
lo que fue necesario para estar unidos.

*

Dopo il lungo viaggio

Mi siedo sul balcone a guardare la notte.
Mia madre mi diceva che non valeva la pena
di essere depresso.
Muoviti, fai qualcosa, mi strillava.
Però io non sono mai stato molto capace di essere felice.
Io e mia madre eravamo diversi
e non ci siamo mai capiti.
Ad ogni modo, c’è qualcos’altro che vorrei raccontare:
a volte, quando ne ho nostalgia,
apro l’armadio dove sono i suoi vestiti
e, come giungere in un luogo
Dopo un lungo viaggio,
ci entro dentro.
Sembra assurdo: però, al buio e con quegli odori
ho la certezza che niente ci può separare.

Después de largo viaje

Me siento en el balcón a mirar la noche.
Mi madre me decía que no valía la pena
estar abatido.
Movete, hacé algo, me gritaba.
Pero yo nunca fui muy dotado para ser feliz.
Mi madre y yo éramos diferentes
y jamás llegamos a comprendernos.
Sin embargo, hay algo que quisiera contar:
a veces, cuando la extraño mucho,
abro el ropero donde están sus vestidos
y como si llegara a un lugar
después de largo viaje
me meto adentro.
Parece absurdo: pero a oscuras y con ese olor
tengo la certeza de que nada nos separa. Continua a leggere

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Mirkka Rekola (1931) Poetessa finlandese – Poesie e aforismi scelti traduzione di Antonio Parente

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Mirkka Rekola, nata nel 1931 a Tampere, poetessa di fama internazionale, pluritradotta e pluripremiata (ha esordito nel 1954 con il libro di poesie Nell’acqua il fuoco –
Vedessä palaa
), al quale sono seguite una ventina di pubblicazioni come ad esempio Gioia e asimmetria (Ho ja epäsymmetria, 1965) e L’orbita della quasi luna (Valekuun reitti, 2004) ha pubblicato anche diversi libri di aforismi che le hanno valso il prestigioso “Premio Samuli Paronen” alla carriera nel 2007.

La sua produzione aforistica comincia nel lontano 1969 con la raccolta Taccuino – Muistikirja che segna un punto di svolta nell’aforistica finlandese contemporanea. Seguiranno Maailmat lumen vesistöissä (1978), Silmänkantama (1984), Tuoreessa muistissa kevät e infine aforistiset kokoelmat (1987). Ha anche pubblicato nel 1987 un libro dal titolo Maskuja che è a metà tra la prosa, la poesia e l’aforisma e che contiene facezie, motti di spirito e detti umoristici.

Gli aforismi di Mirkka Rekola sono sapientemente concisi, con un uso davvero concentrato delle parole per esprimere significati complessi. Le singole immagini sono spesso ambigue e rivelano più significati di quanti il lettore potrebbe immaginare a prima vista. Come scrive molto bene anche Markku Envall nella sua antologia sull’aforisma finlandese Suomalainen – Aforismi (1987), ciascuno degli aforismi di Mirkka Rekola si presta a un sorprendente numero di interpretazioni, a differenza dell’aforisma tradizionale che – nella sua pointe paradossale e nel suo congegno ironico – si presta quasi sempre a una sola interpretazione.

L’effetto che deriva dalla lettura degli aforismi di Mirkka Rekola non è quello solito della battuta – il riso o il sorriso – ma piuttosto quello di uno spaesamento logico all’interno del fluire consueto del linguaggio quotidiano.

Presento qui di seguito al lettore italiano una scelta di poesie e aforismi di Mirkka Rekola. La traduzione è di Antonio Parente, che ha già tradotto in italiano presso alcune riviste letterarie una scelta di poesie di Mirkka Rekola. Poesie tratte da Poeti e aforisti in Finlandia Edizioni del Foglio Clandestino, 2012

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Mirkka Rekola

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

È evidente a chiunque la profonda affinità che c’è tra l’aforisma, il pensiero aforistico e la «nuova ontologia estetica», perché entrambi i modi di pensare il pensiero poetante puntano sulla essenzialità lessicale e l’essenzialità della immagine. L’aforisma è un «detto», un «atto», l’aforisma «agisce», proprio come fa la «nuova ontologia estetica», in essa, nelle sue frasi brevi e concitate, c’è il «detto», ma, tra le maglie del «detto» si aprono le voragini del «non-detto», del «non-pensato»; il «non-detto» e il «non-pensato» svolgono una funzione essenziale all’interno della nuova piattaforma di poetica, questo credo sia chiaro e inequivoco a chiunque legga questo nuovo modo di poesia. Nella poesia aforismatica di Mirkka Rekola abbiamo lo stesso procedimento di pensiero, non c’è sostanziale differenza tra i suoi aforismi e le sue poesie aforistiche. Lacan, pensando a Freud, scrive: «ogni atto mancato è un discorso riuscito, piuttosto ben girato, e che nel lapsus è il bavaglio che gira sulla parola, e solo di quel tanto che basta perché il buon intenditor intenda».1]

Ecco, appunto, in ogni parola mancata, si cela e si rivela la parola «detta», è l’inconscio che parla, è lui il soggetto s-centrato, il soggetto Altro che sgomita per farsi notare… È paradossale che l’inconscio parla meglio e più speditamente laddove c’è un «detto» chiaro e distinto. In fin dei conti, per chi non l’abbia ancora recepito, la «nuova ontologia estetica» predilige il «detto» chiaro e distinto.

1] J. Lacan, Scritti I, Funzione e campo della parola e del linguaggio, Einaudi 1970 p. 261

**

Abbasso la visiera del berretto smetto di guardare
i pensieri pronti alla partenza
siedo in questo treno lungo un viaggio.

(1065)

Al vento

Non c’è di che preoccuparsi. L’ombra
non può cadere. Si muove come l’albero
e ne segue ogni scatto.
Come fuoco è trascinata via nel vento
e scivola con leggerezza sopra ogni cosa.
Non c’è di che preoccuparsi. L’ombra non
può cadere. Si muove soltanto.
e quando si stacca un ramo dal tronco
lei lo sente e lo accoglie.

(1954)

Il salice

Sulla sponda
di una fresca corrente
ricordi
quel salice piccolissimo?
Quando andasti
la mia nuvola un tutto.
Adesso la cima resuscitata
la santità delle nubi
ferisce.

Non così

Non così. Non fune di aghi di pino,
se vuoi uno scabro cammino
attraverso fuoco, acqua e verso l’inespugnato.
Il sentiero si ammansisce nel fiacco remoto.
Attraversa la marcita
e ascolta il beccaccino,
vai attraverso la boscaglia verso l’ignoto. Continua a leggere

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DIALOGO A PIU VOCI SU VARI ARGOMENTI: La Nuova Ontologia Estetica, il Frammento, il Dopo Satura di Montale, Fernanda Romagnoli, Poesie di Osip Mandel’stam, Kjell Espmark, Anna Ventura, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Commento di Angelo Maria Ripellino a Osip Mandel’stam, Donatella Bisutti

foto palazzo illuminato

Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa

Giorgio Linguaglossa

16 maggio 2017

[…] Io, da critico militante (oggi il termine è caduto quasi nel ridicolo), della Nuova Ontologia Estetica, non posso che rivendicare la mia funzione non conciliativa, il diritto del critico a non assolvere ad alcuna funzione suasoria e conciliativa e di recitare in pieno la mia funzione di parte, non conciliativa, contraddittoria, che sa di portare in sé una istanza del contraddittorio e del diverso; insomma, per tornare a noi il critico non deve smussare gli angoli e le differenze che intercedono tra la poesia di Luciana Gravina e quella di Fernanda Romagnoli, per dire, ma deve porre la questione come questione problematica, sulla quale operare una scelta, delle scelte, nella consapevolezza che le differenze in poesia non sono un «indifferenziato» agnostico e anomico ma sono il sale della biodiversità della poesia.

onto Fernanda Romagnoli volto

Fernanda Romagnoli, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

Anna Ventura

16 maggio 2017 alle 10:25

Altamente lodevole, esemplare, l’attenzione critica che Donatella Bisutti finalmente rivolge ad una voce poetica, quella di Fernanda Romagnoli, trascurata dalla critica di regime,forte della sua stessa ignoranza.C’è tanto oro, nel grigio magma delle parole,oro ignorato e negletto, e che tuttavia talvolta si svena, se c’è qualcuno capace di operare il miracolo.

gino rago

16 maggio 2017 alle 12:06

Condivido in pieno i giudizi di Flavio Almerighi, di Anna Ventura e dello stesso Giorgio Linguaglossa sui finissimi valori di Poesia della Romagnoli e anch’io esprimo ammirazione per Donatella Bisutti per essersene meritoriamente occupata.
Ma in me lavora un tarlo. Che è questo: perché la Romagnoli parla di ‘Oggetti’ e invece Jorge Luis Borges, in un suo componimento tra i più riusciti, parla di ‘Cose’ (“Cosas”)?
L’Ombra delle Parole in più occasioni ha articolato persuasivamente le sue risposte. Ma sarebbero davvero gradite le risposte-meditazioni a questa domandina semplice di Sabino Caronia, di Claudio Borghi, di Salvatore Martino, ma anche degli altri agguerriti lettori del nostro Blog che, di solito, non lasciano commenti.
Non è questione oziosa stabilire ‘una’/ o ‘la’ differenza fra ‘oggetti’ e ‘cose’ nel fare poetico del Novecento lirico non solamente italiano…

egilllarosabianca Kartine

16 maggio 2017 alle 12:24

Avrei voluto non commentare ma, poi perchè no a mio modo Fernanda Romagnoli non é donna non un uomo non una madre si intrattiene molto dentro se e con altro il suo sguardo va oltre, quando lessi “Il tredicesimo invitato”rimasi senza fiato.
Questo é forse il più bell’articolo dell’Ombra per me.
Un poeta tra i grandi la Romagnoli e la Donatella Bisutti affronta argomenti, considerate ancora oggi zone di frontiera dai razionalisti quelli che stanno non solo coi piedi per terra e che nella terra sprofondano fino alla cintola,é questo il regime la linea di confine?

Andrea Margiotta

16 maggio 2017 alle 12:38

Altro critico che ha fatto spesso il nome di Fernanda Romagnoli è Paolo Lagazzi. Ha ragione Giorgio Linguaglossa: due opere poetiche molto lontane, quelle di Gravina e Romagnoli. Personalmente, non saprei per quale “partito” votare. Nei testi critici che contrappuntavano l’opera della Gravina, ho notato il nome di Mario Lunetta (che saluterei, se passasse da queste parti). Ricordo che venne come ospite in un mio programma televisivo, di poeti e cose poetiche, realizzato per la Rai, qualche anno fa. Eravamo praticamente opposti – come idee sulla poesia e, probabilmente, come idee sul mondo o come Weltanschauung – ma riuscimmo a dialogare con lucidità e ragionevolezza (forse perché sono stato, da ragazzo, un militante comunista? Andato via, un paio d’anni prima della caduta del Muro, dunque in tempi non sospetti; e molto prima dell’elegantone Fausto Bertinotti, che – strano scherzo del destino – mi mandò un sms per sbaglio, qualche anno fa…
Dico io: tra tutte le combinazioni numeriche possibili, beccò proprio il mio numero di cellulare?). Che esista un Dio delle cose, un po’ burlone? (Alcuni fisici non credono al caso…). Continua a leggere

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Sabino Caronia OTTO POESIE INEDITE alla maniera di… con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e una Citazione di Alessandro Alfieri

foto-donna-macchina-e-scarpaSabino Caronia, critico letterario e scrittore, romano, ha pubblicato le raccolte di saggi novecenteschi L’usignolo di Orfeo (Sciascia editore, 1990) e Il gelsomino d’Arabia (Bulzoni, 2000) ed ha curato tra l’altro i volumi Il lume dei due occhi. G.Dessì, biografia e letteratura (Edizioni Periferia, 1987) e Licy e il Gattopardo  (Edizioni Associate, 1995).

Ha lavorato presso la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Perugia e ha collaborato con l’Università di Tor Vergata, con cui ha pubblicato tra l’altro Gli specchi di Borges (Universitalia, 2000).

Membro dell’Istituto di Studi Romani e del Centro Studi G. G. Belli, autore di numerosi profili di narratori italiani del Novecento per la Letteratura Italiana Contemporanea (Lucarini Editore), collabora ad autorevoli riviste, nonché ad alcuni giornali, tra cui «L’Osservatore Romano» e «Liberal».

Suoi racconti e poesie sono apparsi in diverse riviste. Ha pubblicato i romanzi L’ultima estate di Moro (Schena Editore 2008), Morte di un cittadino americano. Jim Morrison a Parigi (Edilazio 2009), La cupa dell’acqua chiara (Edizioni Periferia 2009), le raccolte poetiche Il secondo dono (Progetto Cultura 2013) e La ferita del possibile (Rubbettino, 2016) .

 giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Nel mondo disincantato il fatto arte è… uno scandalo, riflesso dell’incanto che il mondo non tollera. Ma se l’arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica».1

Nel mondo disincantato anche la proposta di arte più feroce cade nella impostura del razionalismo globale che la vuole ammaestrata e ditirambica, mistica e soporifera, disincantata e perifrastica… È da qui che prende l’abbrivio la poesia carnascialesca e feroce di Sabino Caronia, peraltro cultore e autore di una poesia di idillici stati d’animo e di perifrasi amorose, vedi La ferita del possibile (Rubbettino, 2016). D’altro canto, per Adorno «la disartizzazione è immanente all’arte», «e questa discrepanza non è eliminabile mediante adattamento, la verità sta piuttosto nell’evidenziarla fino in fondo».2 La verità sta quindi nel ritracciare e riesumare i linguaggi già esperiti per evidenziarne, come nel caso in questione, la carica eversiva e scostumata. È quello che fa Sabino Caronia.

Caronia sa che il linguaggio è rappresentativo, instaura l’ordine del senso in luogo di quello dell’essere, inteso come pienezza chiusa, assoluta presenza. Ma allora, che sorta di rappresentazione è mai quella istituita da un significante così inteso?

Semplicemente, risponde Lacan, il significante (non) rappresenta nulla. O meglio, il significante rappresenta quel niente che il soggetto patisce una volta sottomesso alle leggi della parola. Un significante, in sé, non vuole nulla, cioè, non vuol dire nulla. E ancora: non esiste un in sé del significante, perché la significazione agisce nel coordinamento dei significanti tra loro.

L’unica differenza è che Lacan accorda al «soggetto» il posto evanescente del «significato», gli assegna il posto reso vacante oltre la barra, una volta introdotta cioè la scissione all’interno del segno linguistico. Ma se così stanno le cose allora il «soggetto» non è altro che quel nulla che il significante può rappresentare di volta in volta, quel significato che risulta, senza consistervi, dall’operazione differenziale della significazione.

La normalizzazione ha imposto in tutto l’Occidente un’arte, un romanzo e una poesia fattizia e fittizia, in una parola ideologica. Perché Sabino Caronia sa benissimo che c’è una ideologia del bel verso, una ideologia della bellezza, una ideologia per ogni cosa fungibile, e anche che una interiorità che si pretenda pura ha pure il suo loculo al banco dei pegni e il suo luogo nel mercato delle rigatterie; ecco perché Caronia impiega gli stessi stilemi e gli stessi mezzi dell’arte plebea, cafona e cafonesca di un Belli, ne risuscita il linguaggio feroce e imbelle, lo riaggiorna e lo reinventa. Incredibile ma vero, ormai i linguaggi si danno allo stato di frammenti significanti, sono dei corpi essiccati conservati in frigorifero che possono essere rivitalizzati con un buon magistero stilistico e un corredo stereofonico. È quello che fa Caronia.

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E poi c’è ancora qualcuno di noi che ancora non si capacita di questo stato della nostra civiltà, la quale si offre come un gigantesco ipermercato di frammenti, di universalia, e di fetenti e continua a pensare all’arte e alla poesia idealisticamente come ad un discorso immanente che ha un inizio e una fine, un’onda fonetica e altre bazzecole da libro Cuore. Caronia, il rarefatto poeta idillico, sa tutto ciò, lo dà per scontato, ha bisogno di rivolgersi ad un interlocutore concreto: il sottoscritto, il suo mentore, l’Alter Ego, per apostrofarlo in modo beffardo e ribaldesco: «A Giorgio Linguagro’, nun fà er cazzaccio»; il bello è che c’è presente anche il poeta Alfredo de Palchi, citato romanescamente così: «Sor De Palchi»; ed ecco le «settacce bbuggiarone» dei poeti sempre in conflitto e astio reciproco, ci sta il «monnaccio», «er croscione» [la croce che i fedeli portano in processione], l’invito a «Mostra li denti, caccia fora l’ogne». Insomma, c’è un’umanità lutulenta e facinorosa, quella dei poetastri da strapazzo, le poetine da gipsoteca e i poetini da talamo feriale…

Sabino Caronia rivela qui la sua magistrale capacità di metamorfosarsi e mimetizzarsi tra le catene significanti che costituiscono i linguaggi poetici in poeta idillico e in poeta belliano, a secondo delle circostanze. Anche questo rientra  tra le possibilità stilistiche del Post-moderno, questa camaleontica capacità di Sabino Caronia di sublimare e desublimare ad libitum i linguaggi artistici del tempo trascorso ridotti allo stato di frammenti significanti disartizzati e destrutturati.

SUL FRAMMENTO

di Alessandro Alfieri (nel saggio di cui a “Aperture” n. 28, 2012, scrive):

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.

Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.

1 T.W. Adorno Teoria estetica Einaudi, 1975 p. 85
2 Ibidem p.82

Er momoriale

A Giorgio Linguagro’, nun fà er cazzaccio,
svejete da dormì, brutto portrone,
Sor De Palchi t’ha ddato lo spadone
p’annà a rifà le bbucce a sto monnaccio.

Duncue, a tte, ffoco ar pezzo, arza quer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
serreje er tu Parnaso a catenaccio.

Mostra li denti, caccia fora l’ogne,
sfodera n’anatema eccezionale
da falli inverminì come carogne.

A n’omo come noi de carne e d’osso
te l’arivorti tutto, tale e cquale.
Coraggio, amico mio, taja ch’è rosso!

Na bona nova

Se sa, er sor Coso se la lega ar dito
ma mo, dice, se so pacificati.
Che casino! Ma mo’ tutto è finito,
mille scuse, e se so puro abbracciati.

Tra tante delusioni e fallimenti
sta bona nova proprio me consola.
Me dispiaceva ch’arestasse sola
sta pora fija a soffrì pene e stenti.

Dice, però, che prima de fa pace
l’amico nostro j’ha fatto l’esame
pe’ vede’ se sta donna era verace.

Dice che ne lo scritto è annata male
però va mormoranno quarche infame
che s’è sarvata co la prova orale.

Il Giubileo Vecchio

Rinfodera la spada
angelone mio bello
abbandona il castello
e va per la tua strada.

A compiere l’impresa,
Gloria in excelsis Deo,
c’è Santa Madre Chiesa
col Santo Giubileo.

Che giovani giulivi
sui prati a Tor Vergata,
quanti preservativi
e che bella scopata!

Piacere originale,
stato senza peccato!
Che fine ha fatto il male?
L’hanno sponsorizzato!

I miei amici

Dicono che il paese
dell’anima è l’assenza,
io ne ho fatto esperienza
e ne pago le spese.

Dicono che l’amore
ha un suo linguaggio muto
io stronzo ci ho creduto
e muoio di dolore.

Parlan d’amore fino,
d’amore alla lontana,
poi chiedono un pompino
alla prima puttana.

Se

Se veramente fossi
l’amore che tu ami
vorrei che fosse sempre,
che sempre fosse amore.

Ogni giorno sarebbe
il più bello dei giorni,
se veramente fossi
l’amore che tu ami.

Vorrei che fosse sempre,
che sempre fosse amore,
se veramente fossi,
ma sono quel che sono.

Perdono

A chi mi toglie tutto voglio ancora
regalare qualcosa, ultimo dono
che l’accompagni nel fatale andare
su questa terra e quindi oltre la vita.

Sento che sono vecchio e sono stanco
e che per me la fine è ormai vicina,
così, per debolezza, li perdono,
ma confido che Dio non li perdoni.

L’appuntamento

Tacita stella che di notte vai
sempre obbediente ai calcoli del cuore
dammi un appuntamento dove sai,
dove non c’è miseria né dolore.

Il vento ci porterà via

Nella mia breve notte il vento, ascolta,
corre all’appuntamento con le foglie.
Nella mia breve notte, messaggere
di lutto, in cielo passano le nubi.

A che serve un ricordo? Le tue mani
poni sulle mie mani innamorate
e col dolce calore delle labbra
scalda, ti prego, le mie labbra ancora.

Dietro quella finestra c’è la notte,
c’è la notte che passa e non ritorna.
Una notte e poi nulla, poi più nulla.
Domani il vento ci porterà via.

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Edith de Hody Dzieduszycka POESIE da Cellule (Passigli Editori, 2014) “La questione del senso della vita”  “Unheimlich, il perturbante” “Un punto omega”; “Il treno che porta i deportati nei campi di sterminio nazisti” – Commento di Luigi Celi

cinema fotogramma

fotogramma film anni Settanta

D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.
Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano.
Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti. Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani. Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011. Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012. Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015,Trivella, Genesi, 2015, Come se niente fosse Fermenti, 2016; La parola alle parole Progetto Cultura, 2016. Dieci sue poesie sono state pubblicate nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016, pp. 352 € 18.
Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani. La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

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Commento di Luigi Celi

Cellule, di Edith Dzieduszycka, edito da Passigli, prefato da Stefano Gallo e Franҫois Sauteron, è un testo di poesie e un campo memoriale in cui, nota Sauteron, “non è necessario introdursi con effrazione”. Tuttavia nella sua scarna limpidezza, con versificazione verticale, dura, icastica, a cui non pone rimedio iconico l’enjambement, il testo scolpisce nel marmo delle pagine la drammaticità dell’esperienza, dominato, com’è, a monte, dal ricordo della morte del padre a Mauthausen, da quello della madre imprigionata e, certo, dal lutto per la perdita del marito. L’opera trascende l’esperienza del poeta e ci coinvolge. Ferite non rimarginabili partono dall’infanzia e governano, per freudiana “coazione a ripetere”, l’insistita rivisitazione allegorica del trauma, in uno sguardo sbarrato sulla storia e sul mondo. “L’ora del bivio” (p.63) è l’evento temuto e sempre rievocato della Weltanschauung di Edith – prospettiva e Ground luttuoso di ogni sua esperienza di relazione – crudamente comunicato con “Voglia di raccontarsi e desiderio di nascondere” (p.87). “Ianus” è “il doppio gemello obliquo” che crea maschere e trasparenze” (ivi), e come ogni double è Unheimlich, perturbante.

A partire da questo nucleo esperienziale e proiettivo, mnesicamente luttuoso, ma ambivalente nel suo porsi positivamente all’origine della scrittura, la poesia mostra il suo scenario tragico così che ogni elaborazione, ogni tentativo di convincersi del contrario è nuova trafittura dell’anima che fa sanguinare. Parlare della tragedia, a proposito di Cellule, non è andare fuori tema, ma cogliere il perno di tutta l’opera, la sorgente e la foce della versificazione. Tutto converge ad alimentare l’esperienza traumatica e quest’ultima, a sua volta, sta alla radice inconscia della tragedia. Parleremo dunque del tragico, perché non si può intendere questo libro se non si riflette sul tragico e perché, nella cultura contemporanea se ne è persa consapevolezza storica e filosofica. La poesia tragica e il teatro greco hanno posto alcuni cardini al tragico: uno è Ananke, la Necessità. Ananke non può essere oggetto di preghiera, perché non muta, essa governa uomini e dei. L’altro cardine è l’invidia degli dei per la felicità dei “mortali”; ancor più è castigo ineludibile la morte violenta e il dolore per la tracotanza (ybris) di coloro che “non stanno ai limiti”. La letteratura moderna, tranne in alcune eccezioni altissime – penso tra tutte all’opera di Shakespeare – non ha quasi mai inteso riproporre il tragico, se non nel “corpo cavernoso” del grottesco, gli ha preferito la commedia, e ancor più la parodia.

Oggi assistiamo alla volgarizzazione del tragico nel noir di cassetta, nel cinema horror, o all’insensata tracimazione di violenze esibite dalla televisione e dal cinema. In tutto ciò manca la Coscienza e il Pensiero del tragico. La poesia e i poeti come la Dzieduszycka possono farci recuperare questa coscienza, costringerci a riflettere. Se nel mondo greco il tragico ha fondo metafisico, nell’orizzonte ebraico cristiano, se pensiamo all’inferno, la tragedia è trasferita nell’eternità di Dio. Dove infatti starebbe l’inferno se tutto è in Dio?, “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”(Atti degli Apost. 17,28), e se fuori dalla sua volontà ogni esistente cade nel nulla da cui deriva? Tuttavia il Dio creatore, onnipotente e onnisciente, non prova invidia, è un Dio d’amore e di giustizia. Per la Cabbalàh luriana la creazione nasce dal volontario ritrarsi di Dio, il Tzimtzum; Dio, così facendo, fa il vuoto e da quel nulla crea. L’esistenza degli enti è ex nihilo e anche la libertà dell’uomo è possibile grazie al Tzimtzum. Ma è l’abuso della libertà, il tradimento del suo intrinseco tendere al bene, che rende fattibile il peccato e il male; anche questo è tragico, che il bene della libertà possa comportare il suo rovesciamento assoluto…  “Per invidia del diavolo, la morte è entrata nel mondo – scrive il libro della “Sapienza” -; Dio ha creato l’uomo per l’immortalità” (Sap. 2,23-24).

La questione del senso della vita – oscillante “tra un punto interrogativo/ e un altro punto interrogativo” (p. 117), scrive Edith – è ricorrente quando ci imbattiamo nel male. Si impongono da sé le domande: perché il male? Il mondo è creato da un Dio buono e onnipotente, o da un “regista/ oscuro/inafferrabile (…)/ dalla sua torva regia”? (p. 21). Qui ritroviamo un’eco Cartesiana: il “dio malvagio”, metodologicamente ipotizzato da Descartes nel “dubbio iperbolico”, che comporta la riflessione metafisica sull’idea di Dio da parte del filosofo e che lo conduce a rovesciare il dubbio nella certezza del Cogito, per cui Dio diviene il garante della Ragione matematizzante. Invece Edith canta il tormento metafisico dell’uomo tout court che “Si stupisce di non sapere/ si arrabbia di non capire/ piange/ si sente abbandonato/ perché Dio/ perché?”(p. 55). Il mondo è prodotto da un’evoluzione casuale, “antico giuoco/ sempre ricominciato/ duro cieco” (p. 37).

foto di Gianni Berengo GardinCi chiediamo se il suo andare per tentativi, per orrori ed errori non ci lasci sospesi su un baratro di sofferenza, per dirla con Leopardi e Schopenhauer, e quindi ci obbliga a tendere a “un punto omega”, a un porto di salvezza. Come è stato possibile l’ordine planetario, l’equilibrio dinamico che lo governa e che pur è innegabile, o la fisiologia dei corpi naturali e umani, a cui la stessa patologia ci riporta? Come è possibile l’uomo stesso, la civiltà, la cultura, la bellezza, l’aspirazione al bene, alla giustizia, in un mondo incivile, disumano, brutto, ingiusto? La contraddizione ci insidia, ma non ci impedisce di pensare, di operare, di lottare, di soffrire della nostra impotenza: “nudi/ patetici/ ci depone/ il mare/ su scogli inospitali… nel freddo gridiamo” (p. 23). il “grido” e le incalzanti domande coincidono con altre che riguardano sempre più radicalmente il “chi siamo noi, da dove veniamo, dove andiamo”. La crisi della metafisica, a partire dall’illuminismo, ha “gettato” l’uomo nel Dasein, ne ha fatto “un esser-ci per la morte”. L’esistenza dunque è soglia spalancata sull’abisso, sul nulla. Gli “dei sono fuggiti”, diceva Hölderlin; “Dio è morto”, gli fa eco Nietzsche; l’Essere, che non sia ridotto all’ente, come nella metafisica, secondo Heidegger, è obliterato.

Quest’ultimo filosofo si pone la domanda: “perché i poeti?”, e risponde che il valore della poesia consiste nel rendere possibile la domanda fondamentale sull’Essere, e ancor più nell’evocarlo, in contrasto al Ge-stell, all’imposizione della tecnica, e con ciò essa sola, il “pensiero poetante” riapre i “sentieri interrotti” dalla metafisica occidentale. … A meno che…, potremmo aggiungere noi, con la psicoanalisi – e ciò riguarda da vicino la poesia di Edith  – la ferita traumatica, non consenta più il Denken, il pensare autentico, né di scrivere poesia, come sosteneva Adorno, e tanto meno, nel “dopo Auschwitz – con Primo Levi – di “credere in Dio”…, e l’uroboros, il drago, il grande serpente si morde la coda e diviene protagonista. È questa la posizione tragica di Edith Dzieduszycka. Il suo canto e il suo grido, come quelli di Paul Celan, si dibattono nella “tetra tela”, ne “fili vischiosi” del “ragno invisibile” (p. 65), in una elaborazione coercitiva del lutto. Cambia pelle, Edith, come cambia pelle il serpente, ma non cambia la sostanza, il corpo doloroso della cosa. Edith depone “numerose/ le cellule morte della sua scorza”, nel “nascondiglio” segreto, nella “camera oscura”, nel “labirinto” dei propri versi (p. 31), ma l’uroboros, il drago,  l’ossessione traumatica che governa l’inconscio e la coscienza, ritorna su se stesso, “nel cerchio imperfetto” la cattura tra le sue spire, la rende tragicamente un tutt’uno con la coscienza lacerata del mondo.

Dalla “breccia” del cerchio si coglie solo “un azzurro vuoto”, fugge”ogni linfa” finché “giace/ solitaria/ una carcassa pallida” (p. 103). La vita è dunque per Edith quel “viaggio” infernale (p. 65 e p. 121-123), quel “percorso” (p. 69 e p. 121) e “traversata” (p. 121) che è un “cercare la chiave/ di porte/ sempre chiuse” (p. 57), in cui “non ci è dato scegliere” o sperare salvezza, “una porta miraggio” (p. 137), per quanto “Si protesero tutti/ verso un sogno/ un’idea di salvezza” (p. 139). Emblematica icona è il treno, nel bellissimo lungo testo poematico che inizia a p. 121, testo metaforico che ha grande forza rappresentativa. Il treno che porta i deportati nei campi di sterminio nazisti è simbolo della vita di ognuno, del “viaggio” senza destinazione e perché. Il linguaggio di Edith, in queste poesie, è quanto mai puntuto e tagliente, come si addice ad una rappresentazione dal vivo della sofferenza mortale dei deportati. Non riesco, perciò, a non rivisitare la domanda dell’Inno a Zeus dell’Agamennone di Eschilo, “soffrire per comprendere”, e a non chiedermi se essa sia riportabile alla ossimoricità del dolore e dell’orrore che abita questa raccolta. Come per Omero nell’Iliade, per Edith, l’”accecamento che rende insensati”, non è più “punizione della colpa”, ma è, come per il filosofo Paul Ricoeur, “la colpa stessa” e “l’origine della colpa”.

Edith Dzieduszycka da Cellule (2014)

Se da qualche parte
lontano
nascosto dalle nubi
qualche regista

oscuro
inafferrabile
contempla la scena ove
mosse dai fili inestricabili

della sua torva regia
effimere
vagano
strane marionette

forse si sta pentendo
del capriccio improvviso
che dando loro alito
ha socchiuso le porte

del recinto nel quale
prigioniere ancor
ancor inoffensive
ma pronte a muoversi

minacciose
frementi
aspettano
della recita l’ora.

.
*

.
Piangenti
fradici
fendenti aria e luce
senza fior
né pugnale

né memoria futura
della mano amica che
d’un taglio pietoso
la nostra barca
libera

nudi
patetici
ci depone
il mare
su scogli inospitali

isole brulicanti ove
a bocca aperta
polmoni dispiegati
nel freddo
gridiamo.

.
*

.
Lavagne immacolate

sulle quali all’istante
terreno vergine
violato subito

calano cifre lettere
s’incollano etichette
s’attaccano piastrine

si tracciano confini
s’infilano divise
volano volantini

a milioni si spargono
per non capirsi
parole

consumate dal tempo
che di nuovo
belanti nudi patetici

al niente ci riconsegna.
*
Ad ognuno
subito

il suo bagaglio
nascondiglio
camera oscura
ripostiglio segreto
labirinto solitario

dove a poco a poco
deporre
numerose
le cellule morte
della sua scorza

incrostazioni
scarti
peccati
rifiuti
altri residui

del suo terrestre corso
che senza quei pozzi fondi
ove poterli buttare
sprofonderebbe
sotto un peso

di grave densità
d’intensa gravità.

bello Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the 1

Patrick Caulfield was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the

A miei figli
Pesci rosa e lisci
senza lische né scaglie
nel mio grembo guizzati
una notte di luna

pinne minute dita
bussando all’improvviso
alle tese pareti
della conca profonda

alghe del mio giardino
seminate in segreto
tale dono imprevisto
all’ombra del mio seno

viaggiatori diretti
ormai senza ritorno
a varcare il Cap Horn
di mari sconosciuti

al tocco di primavera
a mezzanotte estiva
con forza proiettati
voi foste nella luce

fuori dall’antro chioccia
con grida lacrime
nel sangue d’una madre
e del mare il sale

a voi soli ormai
la sbarra
il timone
la bussola
le stelle

per una scia unica
solitaria avventura
dell’ancora da lama
reciso il cordame.

*

Gli amanti d’una volta
hanno la schiena stanca
dal peso di tanti abbracci
sospesi ai fili
tesi
della memoria

spalla contro spalla
in silenzio
lentamente
camminano
su sentieri segreti
paralleli

qualche volta
raramente
si girano
sorpresi
sfogliano degli album
sfiorano delle foto

non eravamo male
ci piacevamo tanto
sulle ombre tenue
di bersagli trasparenti
hanno occhi rovesciati
gli amanti d’una volta.

.
*

Cera molle sulla quale
non scriveranno più
tiepido tra di loro
s’insinua il silenzio

vaga distesa bigia
ove ondeggia
fragile
un’ombra di tenerezza

filamenti perlati
ancora sulle pelle
luccicano
tracce d’antichi giuochi

s’inarcano le bocche
quando strascicano
torpide gocce
parole anodine

e si scava il solco
ove s’interranno
brandelli
nebbia leggera

sudario di ore colte
ai giardini d’estate.

.
*

Si erige una porta
e stupita
la carne
ricorda oceani
e fiumi dilaganti

quando lontano
tremano
dormienti superficie
sulle quali ostinato
vibra un soprasalto

sopra pianure arse
dal vento abbandonate
si allungano solchi
che nessun soffio
attizza

spiraglio ora socchiuso
avanza un’ombra
fredda
a coprire il rumore
d’un convoglio in partenza

cacciando a tastoni
nel sonno prossimo
sfumature e contorni
in quell’attesa grave
sull’orizzonte spento.

cinema mani

Si stupisce di non sapere
si arrabbia di non capire
piange
si sente abbandonato
perché Dio
perché?

equilibrista
senza bilanciere
cammina
sopra stretti sentieri
per strade sconosciute
tra fondi precipizi

così s’inventa
cordami
parapetti
versetti
litanie
ai quali aggrapparsi

dèi a lui somiglianti
dai molteplici volti
d’amore
di perdono
divinità voraci
di offerte mai sazie

a tratti si rivolta
più spesso si rassegna
impotente e rinuncia
a cercare la chiave
di porte
sempre chiuse.

.
*

.
L’ora del bivio

la sapremo riconoscere
incolore
sornione
quando più numerose
sono le cose
che non c’importano
di quelle seducenti che
un tempo ci turbavano?

l’ora del bivio

la sentiremo suonare
prima impercettibile
leggera un soffio appena
espirato al quadrante
dell’orologio infallibile
tocco ben presto stridulo
imperioso richiamo
alle nostre carcasse
tremolanti e grigie?

.
*

.
Nell’intrico tracciato
fra gli squarci
sugli infimi raggi
vibranti di rugiada
si ferma
il nostro viaggio

insensibili ciechi
insetti derisori
dai sussulti mortali quando
rinserra la mossa minima
lungo fili vischiosi
la rete che ci avvolge

paziente immobile
nascosto in un angolo
il ragno
invisibile
di quel lauto festino
assapora l’attesa

presto potrà saggiare
la preda tant’agognata
pronta a soccombere
nella trappola tesa
dalla sua tetra tela.

Edith Dzieduszycka La parola Cop

Sulla riva dei tuoi sogni
approda una galera
vele estenuate
dopo lontani viaggi

d’una linea imprecisa
tra orizzonti e sensi
leggera
scivola
e scava una faglia
se poca la difesa

sprofonda tra le ossa
lungo canali oscuri
perigliosi e profondi
che percepisci appena
nella penombra blu
della sua scia tomba.
Edith Dzieduszycka Come_se_niente_fosse_
Archi sospesi
d’un ponte imprevedibile
frecce sparpagliate
dall’ignoto percorso

impreviste banali
temute forse sperate
alcune scadenza
sulla schiena dei giorni

a cavallina giocano

pulci insopportabili che
che sulla pelle lasciano
il rigonfio osceno
di un avido morso

e fedeli punteggiano
la strana partizione
da ampia sinfonia
a mesto ritornello.

.
*

.
Voglia di raccontarsi
desiderio di nascondere
dilemma senza risposta
alle intime mosse
della nostra essenza

Janus
figura d’ombra
come l’altra di luce
doppio gemello obliquo
sparso quanto segreto

maschere trasparenze
per celare ferite
che alla luce
libere
si tenta di guarire

duri blocchi di lacrime
che diamanti aguzzi
si tenta di tagliare
e regalare a chi
li saprà cogliere.

Alterna oscillazione
fuga
sottomissione
resa o
rifiuto

a meta strada pendolo
d’un incerto orologio
sul quadrante del quale
si contano febbrili
alcune ore nude

mentre senza più voce
straziate tacciono
le loro sorelle
sull’altra riva
andate.
*

Edith  Dzieduszycka  cinque-cinq

Edith Dzieduszycka Cinque-cinq, edizione bilingue, Genesi, 2014

Nel cerchio imperfetto
s’è aperta una breccia
e gli occhi interiori hanno mosso
lo sguardo verso un azzurro
vuoto
vibrante di silenzio

da quella faglia
lenta
a poco a poco
sono fuggite

la scorza
e poi la linfa
fuggite nella penombra
ove giace
solitaria
una carcassa pallida.

.
*

.
Futuro
presente
soprattutto
passato
degli antenoi nati
eterna trinità

dovrebbe pure
la mia anima
– ma si è rifiutata –
di qualche briciola
il ricordo
serbare

perché
senza memoria
né coscienza di sé
un giorno non un altro
scattò la mia scintilla
da uno strano niente

anime senza vita
prima di noi andate
avete forse scoperto
in quale dove sta
il raccordo celato
il passaggio segreto?
Edith Dzieduszycka cop Cellule
Si dibatte
l’io mio
si gira
e rigira

nel cavo più profondo
dell’introvabile letto
che lo stringe e trattiene
qual fodero la spada

vorrebbe volar via
verso verdi contrade
senz’odio
né memoria

ove leggero stendersi
e librarsi sereno
al di là delle ruote
dei roghi delle forche.

.
*

.
Del più o meno breve intervallo
tra un punto interrogativo
e un altro punto interrogativo

qual è il più bizzarro
l’intervallo
nostra strana presenza?

la nostra lunga assenza
passata e
futura?

ad intervalli me lo chiedo
ma fino alla fine del giorno
ostinato rimane

il punto interrogativo.

.
*

Viaggio
percorso
traversata
la vita
nel tempo epoca
nello spazio luogo

non ci è dato scegliere

neonati incoscienti
saliamo o piuttosto
veniamo accatastati
sul treno che ad un punto
arbitrario o no
arriva
ci si ferma davanti
in quel momento
nella stazione
di quella contrada

entriamo nello scompartimento
e scopriamo compagni
di viaggio che come noi
si trovano lì
in quel momento
su quel treno
fermato in quella stazione
non li possiamo scegliere
come neanche loro

ci dobbiamo conformare a
lingue credi usanze
che ci hanno lasciato
i tanti saliti prima
e già scesi ieri
o tempo fa
lingue credi usanze
che diventano nostri
ci sembrano ovvi
gli unici possibili

ci stupiamo perfino se altri
saliti in stazioni più lontane
precedenti o successive
non li condividono
se si conformano e adottano
lingue credi usanze
che ci sembrano strani

spesso vogliamo imporre i nostri
spesso pretendono
altri d’imporci i loro
il viaggio allora diventa terribile
succedono scontri
il treno costeggia precipizi
penetra dentro buie gallerie
dalla lunghezza imprevedibile

a volte si ferma nella neve
lanciando sbuffi di fumo
che appestano il cielo
numerosi quelli buttati giù
lungo le scarpate
che non si rialzano

altri tentano di riparare
ingranaggi e scambi
il treno allora riparte
verso altre stazioni
sempre ignote
nessuno sa gli orari
non ci sono cartelli
né destinazione
né tempi di percorrenza
possiamo soltanto dal finestrino
guardare il paesaggio
che davanti agli occhi si srotola
sempre uguale eppur diverso
desolato o splendido

possiamo anche chiudere gli occhi
per non vedere più
ma il paesaggio sfila lo stesso
e il treno ci porta
insieme nella notte
verso quello che
senza pensarci
senza capirlo
flusso inarrestabile
siamo soliti chiamare
caso o destino.

luigi celi

luigi celi

Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, (Scettro del Re, 2000); I versi dell’Azzurro Scavato (2003); Il Doppio Sguardo (2007); Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line).

È del 2014 un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia. Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa Progetto Cultura, 2016

Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su Hebenon, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (2002; La nuova poesia modernista italiana (Edilet, 2010); Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, (Scettro del Re, 2002); Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo (2007). Hanno scritto di lui tra gli altri: Domenico Alvino, Lea Canducci, Antonio Coppola, Philippe Démeron, Luigi Fontanella, Piera Mattei, Roberto Pagan, Gino Rago, Arnaldo Zambardi. Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.

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UNA POESIA INEDITA di Steven Grieco Rathgeb “Felice notte O Bon” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “«Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto”; “La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato”

Steven Grieco Epang-Palast

la Montagna degli Immortali

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Nel 2016 pubblica Entrò in una perla Mimesis Hebenon editore. Dieci sue poesie sono rinvenibili nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) indirizzo email: protokavi@gmail.com

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Che cosa ci dice Steven Grieco Rathgeb in questa poesia? Tutto e nulla. Ci parla di «sconosciuti» «giunti da così lontano», di «ospiti» che hanno abitato il «tuo pensiero: fluido, inafferrabile»; subito dopo parla del «volto delle principesse»; infine una notazione, un ricordo, una negazione della notazione: «No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri, / lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.»; accenna a una «distanza» che gli «occhi» sono «capaci di raggiungere». Ecco, siamo arrivati ad un punto chiave: si tratta di una poesia dello sguardo che tenta di raggiungere una «distanza», un «luogo». E poi, subito, una tranche di ricordo biografico: «Anni prima uno di loro era venuto a Firenze / nell’appartamento sui tetti». Quindi, «uno di loro», qui si parla di fantasmi, dei fantasmi della memoria, che ritornano. Poi ci sono dei soprammobili, delle masserizie, i libri di Li Baj, e poi si parla di un «serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale», una mostruosità che si insinua nell’interno dell’anima e del ricordo; e poi, di nuovo, l’intermezzo di un ricordo, che diventa immagine: «A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV»; e poi un’altra immagine ricordo, un misterioso «ospite»: «lui era l’anonimo sassofonista». La poesia continua così, con ricordi che diventano immagini e immagini che si presentano nella veste di ricordi. Tutto e nulla, misteriosamente, convergono. Ma dove? Forse, la fame di spazio e di luoghi di cui vive questa poesia è la stessa fame di luoghi e di spazio che ha abitato la persona di Steven Grieco, la stoltezza di ospitare degli «ospiti» privi di «spina dorsale», quindi anch’essi come disincarnati, alati aliti, immagini, eidola che diventano immagini di una fantasmagoria, di un caleidoscopio. E la poesia ha l’andamento pianissimo e il passo di visioni successive che si presentano una dopo l’altra proprio come in un caleidoscopio onirico. La poesia abita gli stessi luoghi della fantasmagoria del poeta. È viva in Grieco Rathgeb l’esigenza di liberarsi dalle convenzioni relative ai metri, agli spazi e ai tempi della poesia tonale lineare per rivolgersi alla poesia atonale, circolare. Le parole diventano suoni atonali, sono morceaux per pianoforte: parole enigmi che si susseguono ad altre parole o che sfuggono ad altre parole, come per restare in uno sfondo, un secondo piano mnestico, quasi fossero tappezzeria, arredamento della memoria che evanesce.

Da quando Cage ha stabilito che tutto è musica, i rumori sono diventati significativi, e con essi le immagini, i frammenti. I rumori sono frammenti di suoni un tempo forse nobili, e i frammenti sono nient’altro che rumori ricchi di un senso perduto, di echi, di tracce smarrite.

Dunque, ad un poeta del nostro tempo resta il compito di ascoltare e far «suonare» il «rumore» delle parole con le parole. In fin dei conti. «La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire», «La poesia è sempre la stessa». Il mondo, diventato un «acquitrinoso labirinto di lingue», non richiede più da tempo alcuna rappresentazione lineare o prospettica, l’unica struttura formale consentita è la raffigurazione a-prospettica e multiprospettica, la sovversione delle strutture temporali, un tempo ritenute stabili, la elusione di qualsiasi convenzione dei movimenti frastici impressi sul pentagramma convenzionale; il pentagramma della nuova poesia bisogna scoprirlo da soli, immaginarselo; possono sopravvivere soltanto la durata e l’intensità di ogni singola parola; come nella musica per pianoforte e archi di Morton Feldman; sopravvivono le immagini che si presentano alla memoria trascendentale come tessere di un mosaico che non sta al poeta disporre ma soltanto comporre.

Steven Grieco YuanJiang-Penglai_Island

YuanJiang-Penglai_Island

In tal senso la «Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto, scevro di qualsivoglia notazione simbolica, iconica, politica o religiosa. Quest’opera è tra le più singolari della poesia di Steven Grieco, e una delle più alte del contemporaneo; nel lungo movimento frastico a guisa di «serpente» privo di «spina dorsale», si svolge ed involge il moto elicoidale come la catena del DNA, si trovano varie voci e vari personaggi, al pari di una composizione musicale dove interagiscono il soprano, il contralto, il coro, una voce fuori campo, una viola, un Glockenspiel e percussioni sospese nel vuoto. È una poesia che ha per tema il «vuoto». È viva la sensazione di un tempo sospeso e della quiete monocroma alla Rothko Chapel di Morton Feldman. La poesia inizia con l’arcana impenetrabile sacralità di un pianissimo per svolgersi in una serie di movimenti musicali a contralto e a contrasto, come seguendo il respiro di una fantasmagoria che lievita verso l’alto.

C’è un moto che lievita, insieme al suono lento e sussiegoso delle parole. Ed ecco che appaiono i fantasmi: «gli sconosciuti giunti da così lontano»:

Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile […]

Affiorano come dall’ombra delle ombre i nomi immagini, le località note al poeta e a lui solo: Rappongi, Waseda, il Giappone, Tokyo, Aoyama, e poi Roma nominata per sineddoche per il tramite delle sue strade. D’improvviso, il monocolore del sogno della «felice notte» si apre alla polifonia delle voci e dei colori:

Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.

Dal carattere «statico» e «oggettivo» di questo stile, insomma, filtra con delicatezza orientale l’anima più in ombra di Steven Grieco Rathgeb, il lato in ombra, monocolore, e il lato al sole, multicolore. Gli studi appassionati del poeta sull’armonia vocale e sui principi della polifonia, sui waka, sugli haiku, sui tanka, sui poeti prediletti (Li Bai, Meng Hao Jan, il russo Aigi), sulla musica di Giacinto Scelsi e di Morton Feldman hanno reso il suo metro particolarmente adatto ad ospitare le grazie e la fuggevolezza della poesia cinese in una cornice occidentale in un particolarissimo stile che fonde insieme un che di «frivolo» (tutti i sogni appaiono frivoli dinanzi alla realtà) e di drammatico, di surreale e di allucinatorio. L’autore ricorre esplicitamente alla nominazione dei luoghi (Firenze, nell’appartamento sui tetti, Roma per sineddoche tramite le sue vie abitate da una varia multietnicità: via Buonarroti, piazza Vittorio, via Merulana dove la poesia è nata ed è stata composta) e di personaggi misteriosi che insistono in spazi circoscritti e diluiti insieme, inviolabili reperti della memoria nei quali le voci risuonano limpidamente e senza soluzione di continuità, rispondendosi e richiamandosi l’un l’altra nell’alternanza di toni complementari e sfuggendo ognuna per proprio conto in direzioni molteplici. E, d’improvviso, appare

E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste

Si verifica così una grande indirezione di tracce, di echi, di frammenti di sogni e di ricordi; e accade che il quadro d’insieme più viene arricchito di particolari più ne risulta sfumato, complicato, incerto, ibrido, insostanziale:

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo
ti cade sul selciato volta dopo volta, fracassandosi,
ricostituendosi.

Sarebbe inutile e stucchevole chiedersi se la poesia abbia un senso e quale, o molti sensi o alcun senso. La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato.

Breve nota introduttiva

In Giappone l’O Bon è il giorno in cui gli spiriti ancestrali tornano a trovare i loro discendenti. La festa viene celebrata il 15 agosto, dopo il crepuscolo, quando la gente scende per le vie delle città e va in processione con lanterne in mano.

 

.

Poesia di Steven Grieco Rathgeb

FELICE NOTTE – O BON

Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.

No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.

Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.

Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.

A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.

L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.

 

Con difficoltà respingesti il disagio, quasi un’allucinazione
fra le birre vuote sul tavolo, i piattini dei sottaceti.
Forse era soltanto il suo inglese malfermo,
o il tuo acquitrinoso labirinto di lingue,
la ricerca angosciosa di qualche aggancio con il tedesco.

Di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto, la presenza fremente del dio che inesiste.

Le immagini nacquero una dall’altra: strani nascituri,
ciascuna balzava fuori dalla precedente,
ingenerata dal senso di se stessa che non può sapere,
ma fortemente esprimere.

L’arco teso all’inverosimile, quando è scoccata la freccia
non era una freccia: sonorità armoniche, sovra-toni,
echi sparsi per tutta l’aria, dure schegge lucenti.

Poi, Roma. All’inizio, nemmeno lo riconoscesti,
eppure abitava qui, nel tuo stesso palazzo in via dello Statuto,
lo vedevi sempre uscire da una delle chiostrine interne.
Un moto di stupore: perché di loro pensavi non
avere più elementi, tutto passato, concluso.
Ma ecco il sorriso familiare, i baffi radi e spioventi,
l’I-pad, il gatto nero con gli occhi gialli elettrizzati
sempre appollaiato sulle sue spalle.

Un mattino il carro funebre lo aspetta giù nella via.
Nella notte un infarto l’ha trasformato in un riquadro
azzurro sopra i grattacieli di Aoyama.
Salutandolo attraverso il cielo, hai pensato, chissà
perché, a Aygi: lo stesso sentire traslato, l’anima
che trasumanando vola fuori dal corpo in diecimila forme.

Non transitare davanti alle loro stelle, non oscurarle.

E’ pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.

No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.

Nei loro mascheramenti, proprio qui l’hai rivisti,
quasi senza accorgertene. Per qual motivo così affranto?
Il sorriso, che stringe gli occhi fin quasi a chiuderli.

Perché loro indicano sempre l’altro di se stessi.
Quando l’espressione è troppo sofferta, genera fra mille
doglie il suo opposto. Come dire, il significato identico
ammicca, sorride. Non è mai lui.

Cos’è allora “l’originalità”? Dire quello che altri non
han detto? A lungo hai cercato negli angoli non frugati
gli incroci nascosti, da cui loro già ti venivano incontro.

Poi di colpo, scomparsi. L’hai ritrovati, un gregge,
mimetizzati sul fondo della sempre stessa via,
ramificata ormai in miriadi e miriadi di vie.
Così, l’udito ha visto; e la vista ha saputo cogliere
l’indecifrabile musica. Eri del tutto incredulo:
l’oceanico, diversificato intrico di waka
somigliava solo a se stesso.

Stai tornando la sera a casa. Non hai più niente.
Hai rischiato tutto per amore. La paura di ignote sciagure
ora ti fascia come un velo invisibile.

E’ proprio questo: l’uomo ha soltanto nostalgia di se stesso.

Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto tutte le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte – una notte
festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.

Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi i tuoi tempi passati:
la preziosità dell’enunciato, veloce come un fulmine, capace di
nascondere-rivelare strati di paesaggio ben più profondi.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e il poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadevano come neve.

Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro, non sai come, stai al largo di Suma e Akashi
splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia.

Aveva un senso, questo? O non lo aveva per niente.
Eran tutte cose che volevi fare. Poi sono finite,
perché vita e scrittura sono diventate terrificanti,
perché in te è nato il cigno di Eros-Thanatos,
finito il tempo dei sogni.

Un antico pianto sale, l’acqua sorgiva sale oscura dal profondo.
Quel verso coreano, come diceva? Ah, sì…
Gets ei sen kou –
“la luna si specchia nei mille fiumi”.

La poesia, dunque, è sempre la stessa. Non puoi volerla.
La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire.

Ma quel loro fare, i vestiti un po’ logori, ti sono del tutto familiari.
Sono quasi giunti all’angolo con Piazza Vittorio, magrissimi,
involucri vuoti, senza età. Li ami per questo: per i folti capelli
bianchi, le gonne e le giacche strampalate,
la cravatta sgualcita che vola via nel colpo di brezza.

E il non-divino. Lo sguardo ispirato.
Uno sguardo che in realtà non esprime nulla.
ROMA, Piazza Vittorio, marzo 2013 – agosto 2014

 

Note: 1. Roppongi, Waseda, Aoyama, tutti quartieri della gigantesca metropoli di Tokyō.
2. Il waka è una forma poetica giapponese (5-7-5-7-7 sillabe).
3. Aygi: il russo-ciuvascio Gennady Aygi (1934-2006) forse il massimo poeta in lingua russa della seconda metà del XX sec.
4. Utamakura: il “cuscino della poesia”: in un waka o haiku, parola o frase, spesso riferita ad un luogo geografico, che serve per evocare, dare l’avvio alla composizione. Matsuo Bashō: “perfino a Kyōto sento nostalgia di Kyōto – il canto del cucù.”

 

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Vincenzo Mascolo estratto da Canti della cosa in sé (inedito) “Il lato oscuro della luna”, “La stoffa dei sogni”, “Presagi del fuoco”, con un Appunto dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Eclissi

Vincenzo Mascolo, nato a Salerno nel 1959, vive e lavora a Roma. Nel 2004 ha pubblicato la raccolta Il pensiero originale che ho commesso (Edizioni Angolo Manzoni). Con la casa editrice LietoColle ha pubblicato nel 2009 Scovando l’uovo (appunti di bioetica). Nel 2010 un estratto del libro inedito Bile è stato pubblicato nell’antologia Lietocolle Orchestra – poeti all’opera (numero tre), a cura di Guido Oldani. Per LietoColle ha anche curato le antologie Stagioni, insieme a Stefania Crema e Anna Toscano, La poesia è un bambino e, con Giampiero Neri, Quadernario – Venticinque poeti d’oggi. Dal 2006 è il direttore artistico di Ritratti di poesia, manifestazione annuale di poesia italiana e internazionale promossa dalla Fondazione Roma. Alcune sue poesie sono state tradotte in francese per la pubblicazione sulla rivista letteraria Les Carnets d’Eucharis, diretta dalla poetessa francese Nathalie Riera.   

Appunto di Vincenzo Mascolo

 Ho iniziato a scrivere questo lavoro nel 2010 e ho completato i primi tre canti nel 2012. Attualmente sto scrivendo il quarto, ma vado un po’ a rilento perché nel frattempo mi sono dedicato ad altri due lavori, uno ormai terminato e in fase di revisione, che conto di pubblicare a breve, e un altro (di cui hai già pubblicato alcuni testi nella mia “autoantologia”) ancora in lavorazione.

La genesi dei tre lavori è unica e nasce da una ricerca sulla condizione umana che conduco da molto tempo. L’idea di partenza è che “tutto è uno” e che occorre, quindi, superare ogni dualismo per comprendere il significato dell’esistenza. Inevitabile per me coinvolgere in questa ricerca la poesia, che considero strumento privilegiato per la sua capacità di entrare in contatto con la “materia oscura” e di renderla visibile. Unificare corpo e anima, materia e spirito, luce e oscurità, ma anche umanesimo e scienza, questo il senso della ricerca. Dal lavoro che ti ho inviato spero che tutto questo traspaia. 

La mia, però, è anche una ricerca sulla poesia. L’intenzione è usare un linguaggio quotidiano per scrivere poesia “non quotidiana” in cui trovi spazio anche la scienza. Il tentativo lo avevo già fatto, non so se ricordi, con le mie quartine sulla bioetica. Era, però, un tema troppo specifico e, dunque, sto cercando di ampliare la visione e l’espressione poetica. Forse il lavoro che pubblicherò tra poco sarà ancora più chiaro al riguardo. 

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Eclissi

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Il paradosso della scrittura di Vincenzo Mascolo è questo: che sembra scaturita da una personalità assente, un autore impersonale, un artigiano artifex, in definitiva, un Nessuno, che adotta una delle funzioni del linguaggio, o che il linguaggio sceglie come una delle sue funzioni. Il paradosso non è poi un paradosso ma un luogo retorico, come ci hanno insegnato Maurice Blanchot e Jacques Lacan, secondo i quali una delle funzioni del linguaggio, e di quello letterario in particolare, è di azzerare il parlante, di designarlo come assente. Quello che i romantici indicavano con la parola «genio», altro non sarebbe che una assenza di soggetto, un esercizio linguistico decentrato, privo di centro, quell’esercizio del linguaggio decentrato di cui parla Blanchot a proposito dell’esperienza di Kafka il quale «fece il suo ingresso nella letteratura non appena poté sostituire l’egli all’io… Lo scrittore appartiene a un linguaggio che nessuno parla, che non si rivolge a nessuno, che manda di centro, che non rivela nulla».1

La sostituzione dell’egli all’io è la modalità scelta da Proust quando rinuncia all’egli troppo ben centrato di Jean Santeuil per l’io decentrato, equivoco, della Recherche, «l’io di un narratore che non è in effetti nessuno, né l’autore né qualsivoglia d’altri e che mostra benissimo come Proust abbia incontrato il suo genio nel momento in cui trovava nella sua opera il luogo linguistico ove la sua individualità poteva frantumarsi e dissolversi in Idea… Sarà parlare di quello che lo stesso Proust chiama “l’io profondo”, quell’io che… si rivela soltanto nei suoi libri e che… è un io senza fondo, un io senza io, ossia quasi l’opposto di quello che si suole chiamare un soggetto. E, sia detto di sfuggita, questa riflessione potrebbe togliere gran parte dell’interesse a tutte le controversie sul carattere oggettivo o soggettivo della critica: propriamente parlando per il critico… il genio di uno scrittore non è né un oggetto né un soggetto».2

Fatta questa premessa, possiamo entrare nella struttura del linguaggio poetico di Vincenzo Mascolo. Innanzitutto, una evidenza: Mascolo solleva una opzione, si affida alla funzione argomentativa del linguaggio, una opzione in favore delle qualità ragionanti del linguaggio e in terza persona. L’io qui è nient’altro che un mero luogo retorico che consente il rivelarsi di un discorso argomentato, privo di retorismi, che fa a meno di metafore e di metonimie, di simboli; un discorso che fa uso di un meta discorso, ma in modo quasi impalpabile, non visibile; un discorso che dà l’illusione di fare a meno del linguaggio poetico ereditato, come se esso non ci fosse mai stato; un discorso prosastico sobrio e piano, che procede in parallelo con la idea da esplicitare, direi un punto di vista-non-vista che assume il piano apparentemente minoritario e minimale del discorso-non-discorso per poter invece parlare in piena libertà. È, insomma, un discorso che si è liberato di ogni discorso e, soprattutto, del discorso poetico come lo abbiamo ereditato dai padri nobili del Novecento. Basta questo, credo, per far capire la portata dell’operazione perseguita da Vincenzo Mascolo, la cui gittata non è affatto da «viaggiatore» minimale come vorrebbe farci credere l’autore. Elusivo per non voler essere persuasivo, Mascolo adotta un discorso poetico che si sviluppa come in assenza di contraddittorio. Il discorso assume così la sembianza di un discorso letterale-referenziale, che vuole nominare le cose come e dove esse sono, o sembrano essere. Una scelta di campo, dunque. Una scelta estetica ed etica. Direi soprattutto una scelta politica di dire con il minimo dispendio linguistico il massimo di energia semasiologica.

Ora lo abbiamo capito, il problema per Mascolo non è più quello di proporre rinnovamenti linguistici o tematici, opzioni che, a suo avviso, hanno esaurito le proprie funzioni già nel tardo Novecento, quanto quello di riproporre una Idea di poesia fondata sul nesso letterale e referenziale.

 1 M. Blanchot Lo spazio letterario, trad. di Gabriella Zanobelli Einaudi, 1967
2 G. Genette Figure II La parola letteraria Einaudi trad. Franca Madonia Einaudi, 1969
vincenzo_mascolo

Vincenzo Mascolo

1.

IL LATO OSCURO DELLA LUNA

.
Da viaggiatore minimo quale sono e fui
– parlo del dato sensibile soltanto
perché insensibilmente io vado
avanti e indietro per il mondo –
percorro sempre in treno brevi tratte
mutandomi dal luogo che più eterno
non sembra che ci sia nel sublunare,
del quale come è noto né l’inferno
né il purgatorio e il paradiso fanno parte
e se qualcuno poi pensa il contrario
è solo perché in ogni verso e canto
così grande e sublime è la Commedia
che può dirsi la sua arte reale
(ho messo a riposare la mia mente
e proprio come i peccator carnali
che la ragion sommettono al talento
mi sono abbandonato alla lussuria
dei versi che non hanno ordinamento
facendone ampie ali al folle volo
verso il segreto della mia coscienza.
Ma non c’è da temere, vi assicuro:
è ben legata la mia vita al filo
che tiene stretto nelle mani Arianna,
lei che conosce il rischio che si corre
se ci si addentra nel suo labirinto
a occhi chiusi senza mai sognare
affidandosi soltanto a oscure profezie:
ibis redibis non morieris in bello)
And if your head explodes
with dark forbodings too
I’ll see you on the dark side of the moon.

(Pink Floyd, da The dark side of the moon)
2.

LA STOFFA DEI SOGNI

Negli anni è stato emblema del progresso
poi del futuro della velocità
allegoria del viaggio della vita
simbolo dell’io, della libido
del dinamismo e dell’evoluzione
dell’energia motrice a tutto tondo,
anche di quella che sviluppa il sesso
                                        il treno
è stato questo e altro ancora il treno
persino un urlo della mia generazione
          (ma intanto corre, corre, corre la locomotiva…
          chi non ricorda il canto di Guccini
e il sogno che con lui noi facevamo
di vincere per sempre l’ingiustizia,
chi non ricorda quando credevamo
che una poesia un verso o una canzone
avessero la forza di cambiare
non solo noi ma proprio tutto il mondo
potessero levarsi come un’onda
che poi si schianta al suolo con un rombo
e ogni cosa inghiotte e la trasforma.
Ma questo, per fortuna o per destino,
qualcuno tra di noi lo crede ancora
e io fra loro, non me ne vergogno,
confido che anche il verso, la poesia
a poco a poco possa edificare
quella città del sole vagheggiata
che ho nella mente in questo vaneggiare.
Non sono né un profeta né un messia,
non ho per voi nessuna altra novella
buona cattiva o quale che essa sia;
ma se mi dite “stai sognando”
rispondo che noi tutti siamo fatti
delle trame invisibili dei sogni
e aggiungo che in fondo ogni poesia
è soprattutto una magnifica utopia.
E a chi domanda sempre perché scrivo
posso svelare adesso finalmente
che voglio, sì, arrivare alla mia essenza,
assimilarla nella carne e nelle ossa
nel sangue e dentro le mie parti molli
e con i versi poi farla reale
così che unendo il corpo l’anima e la mente
io ricongiungo in me la terra e il cielo
          e posso trasmutare in oro il piombo
          che mi compone e insieme mi circonda.
          Vi sembra tutto questo niente?
          Non fa accadere nulla la poesia?
          Però scrivendo esisto per davvero
          il che, applicando il metodo induttivo,
          mi porta a dire cartesianamente
          che io scrivo e quindi sono
          vivo)

We are such stuff
as dreams are made on
and our little life is rounded with a sleep.

(William Shakespeare, La tempesta)

 

eclissi luna 1

Eclissi di luna

3.

PRESAGI DEL FUOCO

Dell’identità molteplice del treno
– forse, perché no, persino della mia
prima che il mistero rimanga chiuso in me
e il nome mio si sperda fra terra e discendenza –
parlerei con voi per ore e ore
approfondendo con scrupolo ogni aspetto,
analizzandola in ogni disciplina
che l’ha elevata a simbolo e ad emblema,
in un viaggio ideale che percorrendo l’arte
attraversi la psicoanalisi e la scienza
(e lo intraprenderei usando proprio i versi
perché credo in potenza sia tutto la poesia
e tutto possa quindi assumerne la forma,
sempre che una forma è vero che ci sia:
il non detto l’invisibile i fasti del sentire
ma anche i filamenti del pensiero razionale,
il brulicare oscuro di elementi primordiali
che si combinano e si legano tra loro
generando la composita materia
che non si crea e nemmeno si distrugge
ma da sempre di continuo si trasforma.
È tempo di vegliare anche noi notti serene,
di ritornare insieme ad osservare il cielo
per raccontare adesso con parole nuove
la profonda densità di quel mistero
che declina la vita dell’uomo e delle cose,
è tempo ormai che la poesia e la scienza
riprendano a parlare con una lingua sola
dei sentieri notturni del loro ricercare
l’immutabile principio originario
dell’eterna infinità dell’universo
          e di tutto ciò che è legge naturale.
          È tempo, sì, è questo finalmente il tempo
          di andare con lo sguardo oltre il confine
          che ora divide l’umanesimo e la scienza,
e di scrutare la natura delle cose,
tutte le cose visibili non viste,
          unificando ragione e irrazionale
          ipotesi concrete e fantasia
          la logica stringente all’utopia
          perché riunendo le due dimensioni,
          le due metà che formano il reale
          si toccano le viscere del mondo
          che come aruspici possiamo interpretare
in cerca dei presagi di quel fuoco
che fu per noi rubato ai primi dei.
          Andare verso l’Uno, questo è il senso
          condurre all’unità tutto il duale
          che ci compone e nel contempo ci separa
corpo e anima, vita e morte, bene e male
          notte e giorno, sole e luna, terra e cielo
          e chi ne ha di più ne aggiunga se lo vuole
          a questo risgranare opposti universali
          che si ripete uguale da quando è nato il mondo
          dai tempi del big bang e da prima forse ancora
          dal tempo in cui non esisteva il tempo
          quando era il caos a governare la materia
          prima,
          prima dell’ordine del Verbo
          che tutto, generando, ha separato.
          Di questo ci troviamo a conversare
con il mio amico Gigi nelle giornate estive
mentre cerchiamo di ingannare il tempo
– ma è lui a ingannarci con il divenire –
rimanendo immobili per ore
          a misurare con lo sguardo dalla riva
la distanza che divide l’orizzonte
dalla superficie curva della vita.
E se Gigi non mi sta in cagnesco
quando mi attardo nelle mie teorie
vostre eccellenze, non ci manca molto
perché lui abile chirurgo del cervello
è sempre la metà fisica del tutto
che privilegia nel nostro dialogare,
la forma di realtà che già conosce
la più rassicurante, abituale
che non richiede di scavarsi dentro
in cerca della fiamma originale
e come Giovanni Drogo nel deserto
nel corso del mio dire sul duale
asserragliato nella sua fortezza
al confine nebuloso del reale
scruta e riscruta in lontananza i segni
          dell’incedere nemico che minaccia
la difesa del suo credo razionale.
“Il mondo che disegni è molto bello”,
mi ha detto Gigi un giorno sorridendo
scuotendo però il capo lungamente
come a volersi scrollare dal cervello,
da quale degli emisferi poco importa,
ogni residuo delle mie parole
anche le particelle elementari
e la radiazione cosmica di fondo
emessa dalle mie onde vocali,
“la lotta tra gli opposti è suggestiva
e mi rimanda al mare dell’eterno
nel quale forse è dolce naufragare.
Ma io vedo intorno a me dolori atroci
io vedo grande sofferenza e pianto
e torno in quei momenti alle tue voci
sull’unità infinita che governa
la natura dell’uomo e delle cose
e a tutti gli altri tuoi racconti
sull’andare e venire dell’essenza
per unirsi alla coscienza universale
e allora penso che nell’esistenza
noi con la finitezza dobbiamo fare i conti,
          è quella la realtà, è lei la nostra sorte,
          nessuna tua parola, per quanto luminosa,
          potrà mai diradare il buio della morte”.
          Ci siamo salutati poi al tramonto
          stringendoci la mano un po’ più forte
          come volendo apporre nuovamente
          il suo sigillo al libro del mistero
          che sfogliavamo poco prima insieme
          ma ricordo che ancora dopo ore
          ripensando da solo al nostro incontro,
          alla voce di Gigi senza incrinatura,
          ho sentito più volte risuonarmi dentro
          l’eco lontana di quel suo dolore
          e nel guardare il cielo della notte
          per un istante o forse per mezz’ora
          del suo silenzio ho avuto come lui paura)

Cercai la scaturigine segreta
del fuoco che si cela nel midollo
della canna, maestro d’ogni arte,
via che si apre.

(Eschilo, Prometeo incatenato, tr. di Enzo Mandruzzato, ed. Rizzoli BUR)

 

 

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LETIZIA LEONE TESTI INEDITI TRATTI da “STRIGIARUM SYNAGOGA” con una Nota dell’Autrice sui lavori in corso: «Un olocausto di belle donne. Poesia storica o gotica, poema o frammento? Raccontare l’inquisizione o mettere in versi il “malleus maleficarum”?» – Con un Appunto di Maria Rosaria Madonna e un pezzo musicale di Eliane Radigue “Arthesis”

 

Escher Maurits Cornelis Drago

Escher Maurits Cornelis Drago

 

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”).
Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le qualiRosso da camera –Versi erotici delle poetesse italiane- (2012). Attualmente organizza laboratori di lettura e scrittura poetica.
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Nota didascalica di Letizia Leone
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I testi che seguono sono stralci di un poema sull’Inquisizione “Strigiarum Synagoga”, dalla travagliata stesura e in continua evoluzione, scritto circa dieci anni fa dietro la suggestione di un’idea di poesia gotica e pubblicato in modo sparso su riviste e blog letterari.  La storia è drammatica, spesso sabotata nelle fonti (documenti giuridici, atti processuali, testimonianze scritte) e affonda le radici nello strato magmatico del folklore europeo, del racconto orale, delle favole, dei culti di religioni precristiane tanto che la materia da trattare poeticamente si è rivelata immensa e il lavoro artistico potenzialmente inesauribile.
Un work in progress alimentato da un’idea di poesia come archeologia dello spirito oltre che dalla passione per la Storia, ponte di collegamento alle sofferenze di una collettività anonima. Gli accadimenti e gli eventi funesti della grande caccia alle streghe che infiammò l’Europa, all’incirca fra il 1450 e il 1750, sono i dati freddi e superficiali di un nucleo sepolto di energie incandescenti, l’inchiostro vivo per scrivere una memoria delle passioni, dall’odio per le donne al terrore panico di un contadino nell’ora meridiana… ora di epifanie demoniache.
Un poema sulle “streghe” e la natura, perché se “gli otto milioni di donne sterminate dai cristiani furono l’ultimo atto di una guerra millenaria”, per citare Elemire Zolla, il loro massacro fu accompagnato dalla distruzione delle foreste e degli alberi secolari, ricettacolo pericoloso di elfi, fate, folletti. Altari pagani di feste lubriche.
Un “non-finito” che con il passare degli anni e il mutare del gusto estetico è stato sottoposto a molte verifiche di stile. Cambiamenti, integrazioni, smontaggi e assemblaggi oltre all’assidua cesellatura fonetica e lessicale hanno stravolto il corpus della prima versione in ottave. I versi presentati in questa sede sono il risultato di un’ultima riscrittura teatralizzata in una ridda di voci, cori o grida che salgono dalle sale di tortura.
Poesia robusta, carnale, scabrosa che utilizza miti, fiabe (ad esempio quella della Baba Jaga), risonanze dell’epica e progetti elusi di grandi poeti del passato come l’idea del Leopardi di un “Poema didascalico sulle foreste” intercettata tra le righe dei suoi appunti e realizzata in un capitolo del poema. (Pubblicato su “L’Ombra delle parole” il 9 Marzo 2015). Mi piace l’idea di lavorare sugli scarti, sulle “poesie non lette”, su intuizioni e frammenti dell’immaginario, sulle figure di confine come   Azzo dei Porci, giudice del sistema inquisitorio (nomen omen) che irrompe dalla storia   con le sue parole feroci, riportate fedelmente nei versi, e diventa figura colossale. Regalandomi una soluzione stilistica felice, un dono della realtà che (almeno in questo caso) ha superato la fantasia.
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cornelius escher la colomba

cornelius escher la colomba

Appunto di Maria Rosaria Madonna
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Ho ritrovato, tra le mie carte, questo appunto inedito di Maria Rosaria Madonna degli anni Novanta, destinato ad un articolo sulla rivista “Poiesis” che poi non trovò luogo. L’ho riletto più volte. Non so bene cosa significhi ma credo che possa benissimo andare d’accordo con la poesia di Letizia Leone.

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(Giorgio Linguaglossa)
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La poesia è linguaggio dell’insolenza e della fraude. Non credete ai falsi untori del perbenismo. Forse la poesia è più assimilabile al cannibalismo dello Spirito che ad altre attività del corpo mentale. Un ricordo sublimato e civilizzato di quell’ancestrale rito cannibalico. In ultima istanza, la poesia non può essere rapportata alla poesia se non dal punto di vista puramente storico sistematico; nella sua essenza è attività di fagocitazione di mondo, internalizzazione degli oggetti del mondo tramite il sistema segnico-simbolico qual è il linguaggio. Forse, alla base della Musa, v’è una fissazione della libido allo stadio della cloaca, ciò che nell’età adulta si converte in sublimazione, conglomerato degli oggetti internalizzati in spirito linguistico, in fame di mondo, seppure di un mondo ridotto a lacerti fonematici che rammenta il mondo reale come lo specchio da toeletta rammenta lo specchio ustorio.
Dunque, è chiaro, la poesia può sorgere soltanto come risvolto negativo della prassi. La poesia è risvolto negativo della prassi e specchio ustorio.
L’ostinazione onanistica al volo poetico (un privilegio o una dannazione?), con il senso di colpa che l’accompagna, rivela l’intima natura requisitoria dell’attività artistica, il legame intermesso e rimosso delle pulsioni subliminali che le ricollega al pene simbolico. Di qui la strafottente diffusione di essa pratica ai giorni nostri, pratica di massa, onanismo di massa. Di qui l’accusa, di matrice zdanoviano-pretesca all’attività poetica quale mansione insulsa e parassitaria ai fini della compagine del «Nuovo Mondo».
Forse, il «Nuovo Mondo» che abbiamo costruito si regge proprio sulla grande menzogna di una estetica di matrice zdanoviano-pretesca.

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Letizia Leone in recita

Letizia Leone in recita

Letizia Leone testi tratti da Strigiarum Synagoga

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Qui ci ha dilavato il male
Apritevi tende di piombo:
Ecco un Medioevo matto di malarie
Nostro tenebrore mattinale
Un coro rauco di arcaiche vestali
Prova per un teatro di fiamme.

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Letizia Leone in recita

Letizia Leone in recita

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Medioevo femmina.
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Le foglie sono amare ad una spremitura
Dei boschi. Scricchiolano
Sotto il passo centauro scorano succhi.
Dov’è la Cieca Omerica
In questo tetro Creato carcere dei frutti?
Un buco d’anima ogni verdura nell’Anno Mille
E veramente il libro freddo del cielo e del mondo
Non si legge nei chiostri, si straccia nei fossi.
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Questo il racconto.
Potrebbe iniziare dai fiori
Dallo scrutinio delle ghirlande nelle cucine
Dai fetori delle bolliture un Miserere per contorno
Da un olio che fa volare – antichi scongiuri-
Ma forse è bolla, obliquo sonno dove
Si vanno a seguire i morti nel loro ritorno.
Qui c’è: “Guerre!” un pensare greve, gli strigidi
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Il giro girotondo di chimere e insetti
In quale spelonca casca il mondo
La ferraglia di notturni acuti
Non c’è inganno di false camomille.
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Le sorpresero così: in magicus sussurrus
A separare fiore da fiore e dolore
Dal dolore dal loro organo scabro.
Stirpi di donne al vento. Strie.
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Donne gracili spensero le braci mistiche
Dei Santi, esca e fomento di oscure
Dicerie. “Eppure sono cicatrici le nostre vulve
Vermiglie che bruciano accartocciate
Nel rammarico. E voi chiamate impurità
Di cuore il nostro soccorso? Serve noi siamo
Che calmano pazzie in forza di sudori infusi scorze
D’aria, l’effimero del mirto e delle viole.”
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Bruma burroni perimetri spinati
Ai fiori ardenti si nega fiamma
Incanto di fate: fare le lodi
Di ogni pesca sbozzolarla dal fango
Metterla in festa. Immolarono su pane
Di sughero un dizionario lucido di erbe
Per poi alzarne il cuore, rifarne
Della creatura il Cantico o l’ingiuria.
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“Incantagione!” gridano i cani luterani
“La femina bagascia a metà con gli alberi
E la schiena di corteccia!”. E Azzo dei Porci
“Ai ceppi” annotò “La divinazione no.
Non è permessa, pena la decapitazione”.
“E nella tortura” Azzo continuò “gli saranno
Scavati i fianchi con unghie di ferro.”
Troppo Cielo si apre alle sporcizie feminarum…
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Tutti i numeri fuori dall’utero
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Dispersi. Frammenti, indizi
Lettere perse: chi fa la cantilena, chi salta
Chi borbotta e muove solo la bocca
Chi si trascina come peso morto
Chi omette frasi e gli Inni sacri si sbrodolano
In versi di conigli, uccelli, cani. Al diavolo!
Sono avanzate liturgie di mille sillabe e bave
A questo labbro drammatico.
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Bestie di sete: o donne
(se)
Abbandonata la caldaia del cuore
Dogmi pietrificati e testamenti d’argilla
Tavolette del dettato apodittico
Un tempio di foglia cruda erge le sue colonne:
I pensieri dritti e zitti delle piante.
Non questa liturgia che vi minaccia
Chiude le aperture ai vasi, i venti offende
Nelle nicchie.
Delle Madri più antiche il coro
“Al buio leggiamo alfabeti strani. Un lavorio
Di notte, aprire il forziere dei nomi
Superbi, accendere lo spirito di gelate
Carcasse. Un ardire. Qualcosa di vivo ci tocca
Altro sangue aspro di clorofilla. Eucaristia
Di sassi. Piccoli scettri ottusi della luce.
Nude graffiarsi. Essere donne.
Rinominare il mondo
Con la lingua rattrappita dall’ortica
Gli spettri escono a morsi. Qualcuno
Ai vegetali parla. Alle canfore.
Conosciamo le resine, la stilla che inonda.
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La sparizione delle poesie non lette
Poche gocce mai avare di un millenario
Immacolato coro dalla pietraia,
Una guerra d’insonnia. Da cantare
Con piede equino. Custodire le bare dei semi
In barattoli le plutoniche forze
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…ma tu scrivi
Scrivi un farnetico
“Il tu delle rose”
Di certe forme inermi e noi più a fondo.
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Il Sabba, gioia atomica degli elementi

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Colmi di luna
In notti cadute come pigne planetarie
Ogni vacca è regina
Tra ruderi e erbe stanche. Le danze
Vie diseguali e contrarie
Sono lampi. Con spuma di fogna
Si deterge il divino.
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Si schierano tartarughe e anime basse
Di vermi muratori che remano dentro la terra
Tutt’intorno le rotazioni al fuoco
Di adoratrici sui tacchi. O fuoco
frate iocundo robustoso foco in calce lenta,
Un incendio di stracci.
Quali svolazzi di paglia spazzata la congrega
Si alza e più somiglia a un gatto.
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Con zampe di gallo e fruste di sambuco
Si batte l’aura delle sepolture
Fiammiferi, fuochi i fatui i segni
Di visite spettrali: la processione
Di cadaveri legati ai cani
L’offerta è nei boccali. Un febbraio dei sepolcri
Vino mosto ma a quelli serve sangue
Dalla stazza fumante
Della Bestia.
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Che strepito attorno alla pietra
Lenta d’altare. Con tutto il tempo
Che ha avuto per stare Disabitata.
Aprite! La Sepulchrorum apertionem
Esse noxiam: su aprite a vampiri
Beoni carne di maiale
A mosche e ramarri insieme ai godimenti
L’orgia è corrente fa lievitar le rocce strizza onde
Fin nella pietra
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Si vola in plurimo e infinito corpo
Occhio di un altro nella reincarnazione
Dei sensi e voce in più di mille lingue
Suadente. Più in là
In silenziose vastità del sonno
Con un solo piede torto un solo occhio
La mazza lo zoccolo ecco risorto Pan.
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Queste durezze invitano donne stellari
Ai troni cortei nuziali ai cori, siete morti?
Allora succhiate sangue ad arte
Che il diabolus è alcolico
Una caldaia. Vescica gonfia. Vampa della malora
E festa dei crepati!
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M.R.Madonna

M.R.Madonna

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata coniugata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento.
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(nota di Giorgio Linguaglossa)

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DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
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mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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(2)

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

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Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
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Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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valerio magrelli 4

valerio magrelli

Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

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Giorgio Mannacio DIECI POESIE SCELTE da “Gli anni, i luoghi, i pensieri” (Libri di Resine, 2015) con uno stralcio della prefazione di Silvio Riolfo Marengo, una Riflessione dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

città vecchio tram

tram anni Quaranta

Giorgio Mannacio
Sono nato nel 1932 in Calabria ma – salvo una parentesi, peraltro significativa, durante la guerra trascorsa nel paese natale – ho vissuto sempre a Milano. Sono stato per oltre 40 anni magistrato. La mia seconda vita- se così si può definire – è quella trasfusa nelle mie poesie e in qualche meditazione semifilosofica. Tale è dunque la mia bibliografia. Recensioni? Quasi nulla e non mette conto parlarne. Ho pubblicato su qualche rivista, molto saltuariamente (Almanacco dello Specchio, Lunarionuovo, Marka, Alfabeta, Il Caffè….). Ho incontrato nomi famosi della poesia, ma non ci siamo fermati a parlare neppure un attimo. Qualche contributo teorico sulla poesia è uscito su Molloy , Monte Analogo e sul blog Poliscritture. In poesia ha pubblicato: Comete e altri animali – Resine – Quaderni liguri di cultura – Sabatelli editore – Savona 1987;  Preparativi contro tempi migliori – Aleph Editore srl – Torino-Enna 1993; Storia di William Pera – Campanotto editore – Pasian di Prato ( Udine ) 1995;  Fragmenta mundi– Edizioni del leone – Spinea -Venezia 1998; Visita agli antenati – philobiblon edizioni – Ventimiglia 2006; Dalla periferia dell’impero – Edizioni del leone – Spinea – Venezia 2010.
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città la Seicento taxi anni Sessanta

la Seicento taxi anni Sessanta

Note di Giorgio Mannacio
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Il punto di partenza ( il fiat lux ) è costituito da una emozione che precede il pensiero ed è altro da quest’ultimo. Ma già in tale avvio è contenuta una approssimazione , comunque inevitabile. Non si discuterà mai abbastanza se esista un nudo fatto  scindibile da una elaborazione emozionale. Ci sentiamo più rassicurati dall’idea che esista una divisione soggetto-oggetto e che vi sia , in un dato momento e a date condizioni, un incontro  tra i due termini. Alla nostra esperienza la fusione appare già avvenuta e che il piccolo fatto quotidiano ( così diceva Sanguineti, ma il piccolo fatto può essere anche un grande fatto ) e già dotato, per sé stesso, di una carica emozionale. Anche qui va chiarito un equivoco. Non è dato distinguere , oggettivamente, tra fatti dotati di tale carica e fatti non dotati di essa. Può essere messo in discussione , rigorosamente, lo stesso termine emozione , carico di ambiguità. Volendo distanziarsi da esso, può essere più utile parlare di un nucleo di sensazioni provenienti da campi di esperienza diversi . Con una certa carica provocatoria possiamo dire che essi spaziano dal primordiale riflesso di difesa  all’ultimo amore o libro letto.
Chiamiamolo fatto significativo.
[…]
E’ certo che esso si colloca nel tempo che è una delle condizioni del nostro conoscere. Ma il rapporto tra tale fatto significativo e il tempo successivo assume modalità diverse. A volte esso viene messo da parte ( immagazzinato, per così dire, nella memoria a lungo termine ) o del tutto dimenticato. Altre volte produce subito la catena delle associazioni e dei richiami che verranno a costituire la trama del testo.
Questa distinzione ha un valore meramente descrittivo. Non vi è una differenza teoricamente significativa tra fatto memorizzato e fatto immediatamente suscitatore di catene associative. Nell’uno come nell’altro caso il fatto originario si arricchisce di associazioni e richiami. Queste associazioni non sono necessariamente programmate , cioè sempre e totalmente coscienti. Esse spesso si verificano in virtù di altri fatti significativi che funzionano come catalizzatori nell’esperienza poetica del fare.
Ma anche in questo passaggio bisogna essere cauti. Anche se non programmate, le associazioni non sono incontrollate, come vorrebbe un certo surrealismo di maniera ( il disordine programmato resta un’opzione della ragione ). Esse subiscono interventi di organizzazione .
 Il termine del testo è anche un termine cronologico, ma solo nel senso banalissimo
che una poesia si completa all’ora x del giorno y. La pratica di segnare data e luogo ( il Belli , ad esempio, annotava pignolescamente persino la  stesura in carrozza di alcuni suoi sonetti ) può interessare solo un biografo, ma è insignificante per chi scrive.
Ma la parola fine riferita ad un testo poetico ha un significato diverso  che prescinde dal calendario, dall’orologio e dalla geografia anche se si colloca in tutti e tre questi punti di riferimento.
La fine è individuata dalla parola che conclude  il processo di gestazione e la vittoria del testo perfetto. Rispetto all’assimilabile ( per metafora ) processo fisiologico  il poeta non ha il riscontro della normalità della propria creatura rispetto ad un modello naturale e non ha neppure la perentorietà di un termine cronologico che l’avverta che il processo è compiuto. In tale momento il poeta è giudice di sé stesso  nel senso tutt’affatto particolare  dell’individuazione che la conclusione di fatto ( il testo ) non tollera prosecuzioni. Mutuando dal gioco degli scacchi si può dire che tale momento è quello dello scacco matto , punto in cui ogni mossa ulteriore  è impossibile.
[…]
Se è corretto vedere nella stesura di getto una sorta di inganno dei sensi, il discorso ritorna a quell’altra modalità che richiama l’esperienza ( psicologica e fisiologica ) della memoria a lungo termine. Rilke , ad esempio, nei Quaderni di M.L.Brigge  raccomanda di rimuovere il ricordo  perché neppure i ricordi sono esperienze. Questa testimonianza sottolinea, in modo radicale, la necessità che l’emozione ( che è istantaneamente ricordo e solo come tale diventa oggetto di meditazione ) si sviluppi, nel tempo, in una catena di associazioni e di connessioni di un vissuto ed acquisti così la propria significatività.  Essa chiarisce che non basta sentire qualcosa e ridere e piangere per qualche cosa trascrivendo il nesso causale tra il sentire e il reagire ad esso in qualche modo.
L’emozione che torna, va iscritta nel codice del presente che implica una esperienza matura.
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foto donna di stradaStralcio dalla prefazione di Silvio Riolfo Marengo
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“È un felice ritorno questo di Giorgio Mannacio che, dopo aver esordito con due epigrammi satirici sui numeri 4 e 5 del Verri ( 1959 ), nel 1987 aveva affidato alle edizioni di “ Resine “ la sua prima raccolta di versi, Comete e altri animali. Ad accoglierlo, con attenta e cordiale premessa al volume, era stato Vico Faggi,validissimo autore teatrale e poeta di vaglia, chiamato alla guida della rivista dopo la scomparsa di Adriano Guerrini che l’aveva fondata….
Vico Faggi aveva ravvisato la nota più singolare della poesia di Mannacio nel procedere “ per sintesi fulminee in grado di accostare luoghi e tempi lontani, presenze ed assenze, sensazioni e ricordi di sensazioni “. E’ un modus operandi che governa anche questa sua nuova raccolta…
Ed è il tempo, l’antico Cronos dai pensieri tortuosi a dettare i cambiamenti di tono che in questa raccolta si avvertono rispetto alle prove precedenti di Mannacio, anche se resiste incolume la chiarezza di un impianto meditativo continuamente vivificato da dubbi, interrogativi, passioni e soprassalti gnomici. Un riepilogo dell’esistenza, dunque, stretto ad unità anche dalla misura controllatissima dei versi – endecasillabi e settenari, il naturale respiro della poesia italiana – giocati …sull’uso calcolato di rime, rime interne, assonanze, allitterazioni. E tuttavia, questa sapienza metrica non turba mai il premere della vita che le sta a monte come radicamento familiare, legame affettivo con i luoghi e le persone vive e scomparse. Sentimento, si badi, e mai sentimentalismo perché Mannacio ha dalla sua la… capacità di oggettivare le situazioni più diverse… Poesia forte e discreta per scavi e sottrazioni, potremo dire, aggancio di esperienze individuali  al destino comune ma sempre per accostamenti imprevedibili, lampi ed evocazioni istantanee… È dunque il fluire del tempo, che cambia continuamente la visione delle cose e ci impedisce di raggiungere la loro essenza senza mai smettere di ricercarla, il leitmotiv di questo libro che trova la sua chiave di lettura nel concatenarsi di amore e di pietà, di ragione ed enigmi irrisolti…. Il dio di Mannacio, sempre in minuscolo, si identifica col destino, con l’inesausta speranza di eternità legata all’agire poetico e la consapevolezza dell’inevitabile disperdersi delle foglie ( dei fogli ) nel vento agitato dalla Sibilla cumana. A chiudere il cerchio è ancora una volta il rimando alle fonti classiche della poesia nella loro manifestazione più alta, Omero e Dante citati in exergo.
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foto casa in disordineCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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È noto che il modello della prosa scientifica ha avuto un ruolo determinante per la poesia che è stata scritta a Milano fin dal 1952, data di esordio di quei “Lirici nuovi”, antologia curata da Anceschi, dai quali iniziò l’inversione di tendenza dell’egemonia poetica in Italia, che si spostò dal centro sud al nord. Quella prosa poesia di carattere didascalico e di derivazione scientifica che ha avuto la prima evidenza con il libro di Giampiero Neri L’aspetto occidentale del vestito del 1976. Si impose così all’attenzione generale un tipo di scrittura neutra, volutamente spoglia di effetti stilistici, tendente ad uno stile dichiarativo, quasi scientifico. Si veniva scoprendo che la struttura della poesia permetteva questi esperimenti, anzi, che quei tratti segmentali la poesia non li detiene in proprietà privata ma li condivide con altri generi letterari e, in primo luogo, con la prosa scientifica. Di qui venne quel sospetto con cui si guardava ad ogni tentativo che volesse perseguire un linguaggio «emozionale» o «emotivo» nell’ambito della poesia. Cohen ha chiamato «connotazione» questa caratteristica del linguaggio poetico che, secondo la sua visione, viveva dell’antagonismo con la «denotazione». Due sistemi di significazione in rotta di collisione reciproca. Questa concezione della poesia vedeva nella connotazione un sistema di significazione che si collegava ad un sistema di significazione primario, quello della denotazione. Fatto sta che una linea di ricerca poetica che si è fatta a nord, e precisamente a Milano, ha preferito premere sul tasto di una poesia denotativa, subordinandole la funzione poetica basata sull’espressività dello stile affettivo (o emozionale), quella connotativa.
In questo libro di Giorgio Mannacio si avverte con chiarezza il nodo problematico di un certo pensiero poetico: sostanzialmente una struttura elegiaca basata su un fondamento denotativo. I suoi momenti più alti la scrittura di Mannacio li attinge quando introduce il traslato, un metalinguaggio nel linguaggio, quando parla d’altro per non dire qualcosa che non può essere altrimenti detto. Insomma, quando introduce la funzione invariabile del «tempo» (gli anni) che interagisce sulle funzioni variabili (i luoghi, i pensieri). Degno di nota è il lessico desublimato e prosaico con il quale Mannacio ci consegna la meta poesia di apertura del libro. Non si tratta certo di «arredamento», come spiega ironicamente il titolo, ma, in un senso, sì, si tratta di un vero e proprio «arredamento»: c’è una «Regina» e un «lui»;  è un tema esistenziale, dunque, e il percorso a ostacoli intrapreso dai due soggetti dell’arredamento dell’essere è la felicità. Ma è un tema che non si può affrontare se non per via indiretta e per traslato, quello che fa, appunto Giorgio Mannacio in tutto il libro, mette in scena una procedura euristico-ironica:

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Consigli di arredamento

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Sul tavolo immenso e fermo,
non argenti, soltanto una penna, fogli innocenti
e in un angolo lei, la Regina,
del tempo imperturbata pedina.
È facile disporre
nel limitato spazio altri oggetti usuali
secondo i capricci o le convenienze dell’ora.
Di là, prossimo, un letto accogliente
quello di ormai perduta
vita comune
seme delle speranze a somiglianza.
Lui vuole ancora, nonostante tutto,
segnare col proprio corpo
i luoghi della memoria;
seguire col proprio corpo
altri moti apparenti e ineludibili
compresi nell’assorta geometria
d’un pensiero, d’una finestra.
Stanotte, almeno, non la vedrà sparire.

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Giorgio Mannacio.

Testi da Giorgio Mannacio “Gli anni, i luoghi, i pensieri (Poesie 2010-2013)”, 2015

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Appunti di astronomia
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Diversa, nei propri nomi,
un’identica stella oggi si mostra
in due diversi punti. In questo è il senso
dell’unico, solitario suo splendore.
Si sdoppia nell’annuncio
d’una resurrezione e di un declino
svelando prima del suo breve giro
la luce millenaria del mattino.
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Vita e destino
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Se alambicchi segreti distillando
veleni provvidenziali sono complici
di amorose carezze o di mortali
ferite là dove batte il cuore,
non è soltanto questa la ragione
del pianto e del sorriso.
Altri percorsi impongono
la gioia ed il dolore
contorti, inesplicabili e, alla fine,
arrivano alla meta, una finestra
aperta all’avventura.
Un grido o una canzone l’attraversano
perdendosi nell’aria
dove scheggiata dall’azzurro brilla
la stella del mattino, solitaria.
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L’ultimo dei giusti.
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1.
L’ultimo trono vuoto in paradiso
è destinato a lui, l’ultimo giusto.
Poi finisce la storia risucchiata
nell’abisso che allora
chiamavano eternità.
Lui completò la strage, nessuno fu risparmiato
e nessuno ricorderà.
2.
Vestivano di lino
i prìncipi innocenti
nei lunghi, quasi infiniti, giorni d’estate.
E le correnti pigre, impaludate
stagnavano colori di malattia,
sfibravano il fiore azzurro
quelle donne cantando quasi con allegria.
3.
Sembrava, ma non era
la luna a galleggiare tra gli alberi del giardino.
Fermarono così la breve attesa
di quella luminosa mongolfiera
nello stupore di una mano tesa.
Ci fu un comando, non una preghiera
e nessuna pietà dopo la resa.
4.
Dove andrete, bambini, quando
si torceranno ardendo
i rami cui appendeste l’altalena ?
Niente deve restare ed anche voi nel fuoco
sarete ridotti a cenere.
Se l’anima è una fiamma
anch’essa si spegnerà tra qualche istante.
5.
E’ legge che sia distrutto
anche il seme e così sepolta
la radice della memoria.
Se nessuno ricorda, niente è la storia
oltre la mongolfiera e sotto la luna piena.
Più in alto ancora nell’indifferenza
l’ultimo dei giusti ostenta la sua innocenza.
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giorgio mannacio Gli anni,i luoghi, i pensieri.
Tra tombe ed eroi
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In questo slavato sole trova consolazione
il suo circospetto vagabondare.
Non si cura del resto. Non ha mai letto
I grandi cimiteri sotto la luna,
non ha lasciato impronta alcuna
sulle spiagge di Normandia,
non è interessato ad indagare
identità e differenze
tra corsie bianche di croci e qualche stella di Davide.
Le vuole accostate insieme un giardiniere asettico
che cura alla perfezione
una verde, ordinata, equanime dissoluzione.
Con la luce che sembra eterna e poi muore
si dilata il potere magico
dei suoi occhi di giada: lo spazio si fa destino.
In esso appariranno altre vittime,
nuove consolazioni
al suo orientato cammino
.
Gli incanti della notte
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Gli piaceva aggirarsi
nelle stanze svuotate dal sonno,
fermarsi
presso l’ago sottile
che promette o minaccia un tempo sereno.
Sono lontani, velati, i dolori del mondo;
anche dio sogna
per sé stesso e per gli altri diversa fortuna.
I concetti si fanno immagini,
figure di un teatro tra domande e risposte
senza pretesa di verità.
Soltanto i libri allineati tentano
l’inganno di mille e una notte.
Nell’aspettare l’ultima
ad occhi aperti non c’è miracolo
come si favoleggia.
Si spera soltanto, invece,
che nell’intricata trama essa sia presa
e benevola sosti ( quanto? )
a donarti la grazia dell’attesa.
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Il viaggio rinviato
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Quasi fosse vangelo
mi leggeva “ La Pipa “ accanto al fuoco,
l’amore sfarina in giuoco
tra i sacchi di granturco giù in cantina.
Mi chiedi perché sono
così restio a tornare,
tu che vuoi dare senso all’equazione
tra lo spazio che ci separa e la perduta
nostra stagione.
Io ho smesso di contare
il numero dei giorni e di quei sassi
in bilico sul torrente
al peso dei nostri passi.
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Altro equinozio di primavera
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La coda dell’inverno oggi colpisce ancora
tra forsizie già in fiore.
E’ l’astuto serpente che non vuole
alcuna resurrezione
a stendersi sul confine. Sono eguali,
sulla traccia che lascia, buio e luce.
Con un colpo di vento arriva
l’inizio della fine
perché sono ormai dischiusi
sugli alberi i germogli, sciolte in alto
le nevi da cartolina. Cosa resta
alla felicità delle radici?
.
Solstizio d’inverno
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Il mare è grigio, fermo.
Immobili sulla spiaggia deserta
freddi uccelli di varia specie.
L’armonia delle sfere regala
l’illusione di cosa sia
o possa essere l’eternità.
Non memoria né progetto,
solo estatica confusione
di un punto inesteso in cui si rivela
il suo indefinibile aspetto.

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La stanza degli dei
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Stanno
marmorei ed immobili
in perpetua dissoluzione e in perpetua fissità
loro,
i custodi del nostro destino arroccati
in una innocente malvagità.
Non degnano d’uno sguardo
la foglia che, prima, ondeggia e, poi,
trascolora,
il sorriso mutato
nel silenzioso naufragio di un’ora.
Ma in quel dipinto di antica scuola
qualcuno ha socchiuso la porta: uno di loro
si è voltato al debole scricchiolio;
il disegno arresta l’istante che è un cenno.
D’attesa, d’addio?

 

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Luigi Manzi Fuorivia Ensemble, Roma, 2013 pp. 90 € 15 con poesie dell’autore. Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Esperimento di Composizione e Ricomposizione di una poesia di Luigi Manzi in 4 brani o momenti

roma Fayyum-Portrait-II

Fayyum-Portrait- 120-140 d.C.

Luigi Manzi Fuorivia Ensemble, Roma, 2013 pp. 90 € 15

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Riprendo, con piccole integrazioni, un articolo già pubblicato in altro blog.
In una discussione svoltasi sul blog moltinpoesia.wordpress.com Laura Canciani mi ha rivolto la solita domanda: «“Che cos’è la poesia?”»; ed io ho risposto: «Una nuova immagine del reale che si aggiunge al reale che già sapevamo, una costruzione di immagini in parole che non avevamo previsto e che non sapevamo». Nel prosieguo della riflessione collettiva, Ennio Abate si chiede che cos’è che fa della «immagine» in poesia una «bella» immagine?. Domanda legittima, che presupporrebbe una estetica e una critica dell’economia estetica, oltre che una critica dell’economia politica, per il semplice fatto che il «bello» non può essere disconnesso, nella mia visione, dalla critica del «bello». Non voglio però sottrarmi alla responsabilità di dare una risposta.
Se leggiamo una poesia di Luigi Manzi tratta dal suo ultimo libro: Fuorivia, ci accorgiamo di quanto la sua poesia sia lontana dai concetti correnti di ciò che si intende per «poesia» ( immediatezza, soggettività, reale, poetico, etc), di quanto sia estranea alla amministrazione da elettrodomestico qual è diventato oggi lo «stile» cosmopolitico della koiné maggioritaria che mescola il privato alla cronaca, la cronaca nera alla cronaca rosa, magari con un quantum di eventi privati, con il colluttorio della chat da telemarket, etc. – Il «soggetto» è scomparso, sostituito dal surrogato alla moda: il «privato». C’è nella poesia di Manzi una trasfigurazione dello Spirito del tempo in qualcosa che sta di al di là del «soggetto», qualcosa di irriconoscibile, quasi che a bordo della macchina del tempo gli abitanti del pianeta terra fossero stati precipitati in pieno Medio Evo:

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Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
.
Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie. Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.
foto Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection

Raffaelle Monti, medidados del siglo XIX. Devonshire Collection

L’ultima parola è quella che dà la chiave del componimento: «fotogramma», ovvero, «immagine», riproduzione fotologica del “reale”. Dunque, la poesia è un discorso su un «fotogramma». Guardando dentro il «fotogramma» noi possiamo spiare quello che accade lì dentro e lì dietro: c’è un personaggio, l’io che cammina senza voltarsi indietro (ecco l’eterno mito di Orfeo che cammina ma non deve voltarsi altrimenti perderebbe per sempre Euridice!). Tutto il componimento è fatto da un susseguirsi di «immagini» collegate, immagini indirette che alludono a una natura sconvolta fin nelle fondamenta.
Ora proverò a scomporre la poesia in 4 momenti o brani o fotogrammi in movimento (come se fosse in azione una macchina da presa in lento movimento: 4 lunghe inquadrature) e a ricomporla secondo un diverso ordine di fotogrammi. Manzi è un poeta «musicale», le sue strofe sono orientate verso movimenti musicali: inizia di solito con un «andante», poi prosegue con un «largo», sovente seguito da uno «stretto» e, a volte, da un «allegro». Le sue strofe fotogrammatiche sono quindi movimenti musicali che possono essere smontate e rimontate secondo una diversa successione:

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1) M’allontano fra le siepi del sambuco tormentato
dalla merla, carico di bacche sanguinose. Il passo
ci divide. Procedo cauto
fra le bisce che succiano i coralli lungo gli argini
e il ramarro disteso nel turchino
a occhi socchiusi.
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2) Torno dove un tempo ero già stato. Da qui ti chiamo
senza voltarmi; vado incontro all’orizzonte
carico di nubi vorticose.
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3) Dimmi di chi è rimasto
fra i meandri rugginosi;
o si muove guardingo sotto gli ovuli grigi delle cupole;
o nel bianco nitore dei fulmini,
che appaiono e dissolvono,
si contrae esterrefatto
dentro un fotogramma.
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4) Però tu in città salutami gli amici; raccontami
il livore di chi, lungo le strade,
cerca un rifugio disperato
alla piena che travalica i ponti, tracima
dalle caditoie
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roma Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

La «natura» è passato mentre il presente è quello dove si muove il «soggetto», il personaggio che guida la poesia verso la sua conclusione. Il protagonista può essere Orfeo nelle vesti redivive dell’uomo contemporaneo che si muove in una città immaginaria abitata da un diverso spazio-tempo: l’Evo della Grande Recessione. Ebbene, il poeta romano si muove nell’orbita concettuale e imaginale della Grande Recessione spirituale; è come se nei quaranta anni precedenti di attività poetica si fosse addestrato per scrivere questo libro testamento rivolto ai contemporanei. E certo è che se leggiamo questo libro con gli occhiali del minimalismo saremmo costretti ad archiviarlo come un’operazione bizzarra e fuorivia, se lo leggessimo con quelli dell’esistenzialismo posticcio del «corpo» di moda oggi, non capiremmo niente di questo libro, lo riporremmo nel cassetto dei numismatici. Allora, occorrono altre coordinate concettuali e di pensiero poetico: saper entrare in questa poesia con la circospezione con la quale si entra in un negozio di cristalli di Murano, in punta di piedi, facendo attenzione alle «chiavi» che il poeta dissemina nel libro qua e là, come segnali indicatori del faticoso cammino che il lettore deve intraprendere.
Noi non possiamo (e forse non ne abbiamo neanche il diritto) di chiedere al poeta maggiori lumi su quello che succede in città, «lungo le strade» di chi «cerca un rifugio disperato», più di questo il poeta non può dire, non ne ha il diritto, forse, o, molto più probabilmente, non reggerebbe la nominazione, pena la caduta nel retorico e nel banale. Qui si arresta il poeta, il quale chiede all’oscuro interlocutore: «Dimmi chi è rimasto» fra i vivi. Adesso è chiaro, è un dialogo che si svolge nell’oltretomba, sia il poeta che il suo interlocutore sono già morti. Siamo noi lettori che siamo morti insieme a loro. Ciò che resta di tutto il componimento, dei vivi e dei morti, è nient’altro che un «fotogramma». È tutto lì dentro.
In un altro componimento intitolato «L’ospite» c’è scritto:

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Ti mozzeranno la lingua con un colpo,
la daranno in pasto alle larve senza lingua
per mutarla in altra lingua. Solo i dispersi
ti presteranno ascolto.
O coloro che in silenzio
procedono sul bordo.

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roma Fayyum portrait d'homme

Fayum ritratto di uomo

È chiaro che qui il poeta è consapevole di parlare in un’altra «lingua», che la «lingua» che lui parla la «mozzeranno» «con un colpo»: che non è ammessa, non è consentita; è una lingua straniera parlata da «coloro che in silenzio procedono sul bordo». Ma «bordo» di che cosa? Perché proprio il «bordo»? E in quale direzione procedere? Ma sul «bordo» ci sono solo due direzioni: avanti e indietro, il futuro e il passato, mentre la poesia di Manzi è tutta inchiodata nel presente, in un presente astorico che vive sul «bordo» sottilissimo di ciò che appare. Ma ciò che appare è inconoscibile e irriconoscibile:

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Al mercato il giocoliere
pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci.
Di lato, la baldracca mostra la pancia al lenone
che titilla la catena d’oro
sul riquadro del petto. Un giovane indù
versa albicocche nel cesto,
poi lo solleva e se ne va.
Un rospo attraversa la piazza;
una rondine cuce e scuce
il cielo a zig-zag.
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C’è odore d’acetilene nella cisterna;
gli operai con la testa che penzola
fanno luce sul fondo. Se si osserva bene,
il bimbetto che si sorregge allo sporto
ingoia il filo e riemette
un gomitolo.
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C’è un «giocoliere (che) pettina una scimmia lurida fra rossi pagliacci», una «baldracca che mostra la pancia al lenone», etc. Sembra di guardare un quadro di Chagall dove al posto del violinista che vola per aria c’è un «giovane indù (che) versa albicocche nel cesto». La visionarietà di Manzi oscilla tra Chagall e Bosch, tra la deformazione cannibalica di volti e l’illibata freschezza della natura. Tra natura e cultura si è ormai scavato un solco non più redimibile, per Manzi siamo entrati nell’Evo della Recessione, dove la parola manca e la cosa si sottrae; e allora si tratta di andarla a snidare la parola con gli strumenti di un tempo: con la vanga e il piccone. Occorre ritornare infanti, perché solo così «il bimbetto… ingoia il filo e riemette un gomitolo»; e il gomitolo ci porterà fuori del Labirinto. Non è ancora venuto il momento del ritorno alla infanzia beata, l’uomo deve ancora percorrere la strada sterrata in salita. Il Moderno è un miraggio che si è dissolto come neve al sole.

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Le gru osservano la città dall’alto;
sanguinano nel vespro,
come rosolio in un cucchiaio.
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C’è sempre, nell’aria di «crepuscolo», una vista dall’alto (ma senza prospettiva) e una vista di fronte; c’è il panorama e il minuscolo dettaglio in rilievo, c’è l’arco temporale e l’attimo, c’è il truculento di visioni sanguigne e sanguinose e il candido di immagini attiche, delfiche; una terra chiamata «esarcato» disseminata di «colchici», «giusquiamo», «lemuri», «palissandri», «starne», il «falcocervo», il «fliocorno», «il fischio matematico del merlo», «fiori carnivori»: animali fantastici e uccelli dell’Evo Mediatico si scambiano segnali come i poeti si scambiano segnali su Marte. Ma il gomitolo è piuttosto il batacchio di un «giocoliere» che fa volare le cose su un fondale di cartolina o di cartapesta. E il tutto «ritorna nello specchio» dal quale, forse, un tempo lontano è venuto. È come se fossimo nel bel mezzo di una regressione totale dall’Aufklärung e ci ritrovassimo in una fiaba de-poetizzata che ci narra di quel che un tempo fu: «brividi di perle, barbagli di diamanti».

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roma Fayyum-Mummy

Fayyum, ritratto maschile Mummy 120-140 d.C.

Filamenti

Quarto di luna, occhio di pernice, coda di pavone.
Il baio s’impenna – salta
nella tenebra del bosco. Il cavaliere curvo
lo sferza ai fianchi, lo sprona al galoppo:
sul suo viso notturno
brividi di perle, barbagli di diamanti.
Ha le vene gonfie di bile verde, e furente
ogni mucosa del corpo.

Lei porta tra i capelli un nido d’usignolo,
ondula il seno fra filamenti d’astri
e scie di sete.
Il cavaliere, ebbro di sangue, prima di dissolversi
solleva il capo grondante di meteore;
si comprime il petto.

Ritorna nello specchio.

*

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Hybris

Questa è terra d’esarcato,
dominio altero dell’occidente.

Il residuo dei monili rende più fulgido il petto dell’eunuco,
illumina i lembi estremi del volto.

(I colombi ascendono al culmine,
depositano il messaggio)

La lussuria raffigurata nell’encausto
giace reclina sul fianco: col viso che riposa sul palmo,
fissa l’eternità. Il panno immenso
che le avvolge il petto è intriso di vortici,
di azzurre galassie.
Negli interstizi supremi degli astri
lei poggia le braccia sul vuoto cosmico;
le pudende erompono
dai suoi fianchi celesti.

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Memoria

Svelto, più svelto d’un lampo,
nella pianura un destriero scavalca recinti e torrenti.
La donna si volta e l’osserva. Le torna in mente
quando un tempo fu giovane e altera:
ebbe pudore del petto, dell’anca; lasciava nascosta la pelle
come una ghirlanda preziosa.

Il bianco si vela d’opaco.
L’uomo col chiuso mantello cavalca furioso;
oltrepassa la selva, salta nel chiostro. Fu lui un giorno
che la sospinse nel portico
e nel buio le sciolse il nero corsetto.
Il presagio è un tumulto. La memoria
spariglia le carte.

L’uomo notturno cavalca sul cupo destriero;
la donna
è scomparsa.

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L’araldo

Bussa l’araldo. Il messaggio è stato consegnato.
Nel turbine il corsiero si dilegua.

Gli uomini al villaggio leggono nell’apocalissi:
dunque, nella fuga troveranno riparo.
Risalgono i crinali, s’affacciano sui botri.
Li flagella il vento inesorabile.
In cima ci sarà soltanto il buio. In cerchio –
di fronte ai fuochi – patteggeranno con le belve;
gli consegneranno in pasto
alcuni di loro.
Il resto – seppure lo invocano –
è racchiuso
nel rimbalzo dei dadi sul muro,
nel suono metallico
del tempo futuro.

 
roma Fayum portrait compared with Picasso's self-portrait

Fayum portrait compared with Picasso’s self-portrait

caro Lucio Mayoor Tosi,
io sono da sempre un ammiratore della poesia di Luigi Manzi… ho faticato non poco agli inizi, circa venti anni fa, quando iniziai a leggere la sua poesia, a recepirla in un mio quadro mentale storico-critico. In seguito, con gli anni, e le ripetute letture della sua poesia anch’io mi sono convinto della assoluta riconoscibilità della sua poesia. Mi piacerebbe fare un gioco: che qualcuno metta in un bussolotto dei cartigli recanti alcune poesie di autori vari, dai più grandi ai meno, e tra di essi inserire una poesia di Manzi; ecco, io credo che non avrei difficoltà a riconoscere la poesia di Manzi per l’unicità del suo lessico, del suo stile, per il combinato disposto di paratassi e immagini immobili, direi per la dialettica di immagini immobili di cui è ricca la sua poesia. Questa immobilità, sottolineata da un lessico desueto e raro (da non confondere con il prezioso!), è accentuata dalla folgorazione dei gesti (degli umani e delle bestie)… i gesti sono come sospesi in attesa di qualcosa che non avviene… non c’è prospettiva escatologica né salvifica in quei gesti, non c’è, oserei dire, neanche una specificità semantica: intendo che non vogliono dire nulla, neanche il significato del proprio esserci semantico: tra semantica e mantica si è così aperto un divorzio assoluto (e non solo nella poesia di Manzi). Un certo chagallismo unito ad una religiosità tutta laica per la gestualità della civiltà contadina, contribuiscono a conferire a questa poesia un’aura di inattualità e di anacronismo. Tutto ciò dà alla poesia di Manzi quel caratteristico colore di immagini pittoriche dove non c’è nulla di pittoresco o di arcadico: le immagini si materializzano appunto già de-materializzate, e in virtù di questa de-materializzazione escono davanti agli occhi del lettore con tutta la loro carica di enigmaticità. E certo questo è un libro di elevata caratura e di intensità straordinaria. Manzi è uno di quei poeti che se potessi decidere io lo chiamerei subito nella collana bianca di Einaudi.
Giorgio Linguaglossa

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Luigi Manzi sorrideLuigi Manzi è nato nel 1945. Vive a Roma. Ha esordito in Nuovi Argomenti nel 1969. Ha pubblicato le raccolte di poesia La luna suburbana (1986), Amaro essenziale (1987), Malusanza (1989), Aloe (1993), Capo d’inverno (1997), Mele rosse (2004), Fuorivia (2013), con note introduttive di Dario Bellezza, Dante Maffia, Giò Ferri, Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Gian Piero Bona, Gezim Hajdari. E’ stato tradotto in varie lingue. E’ stato antologizzato in Rosa corrosa (2003) traduzione macedone di Maria Grazia Cvetkovska (pref. A. Giurcinova), Il muschio e la pietra (2004) traduzione albanese di Gezim Hajdari (pref. P. Matvejevich). Ha vinto vari premi letterari fra i quali il Premio Internazionale Eugenio Montale per l’edito, il premio Alfonso Gatto, il premio Franco Matacotta, il premio Guido Gozzano. Per l’haiku ha vinto il Chairman’s Prize Of the Organizing Committee nel The World Haiku Contest in occasione del Trecentesimo Anniversario di Okuno Hosomici e, appena recentemente, il Gran Prix Tsunenaga Hasekura riservato alle lingue europee e giapponese, in occasione del Quattrocentesimo Anniversario del viaggio per mare del samurai Tsunenaga Hasekura. Ha partecipato a festival internazionali e italiani, fra i quali il Festival Serate Poetiche di Struga 2001, in Macedonia, e il Festivaletteratura di Mantova. E’ presente in varie antologie, fra le quali Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970 – 2000, Garzanti 2001

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Alfredo de Palchi (Verona, 1926) TESTI SCELTI da NIHIL (Stampa2009 Azzate, Varese, 2016 pp. 108 € 14) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – “vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso…”

alfredo de palchi Grattacieli di New York

Grattacieli di New York

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove ha diretto la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Minturno, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
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Giorgio Linguaglossa Alfredo De_Palchi serata 2011

Alfredo De Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. “vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso…”
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Poco tempo fa, una rivista milanese mi ha chiesto di scrivere un saggio di critica psicoanalitica sul primo libro di Alfredo de Palchi, La buia danza di scorpione scritto dal poeta ventenne nei penitenziari di Procida e Civitavecchia dal 1947 al 1951 e pubblicata in italiano soltanto nel 1993. Mi sono accinto a questo compito con curiosità e timore ed ho scoperto tra le parole del libro, un modo di vocaboli, di immagini, di totem, di frantumi, relitti del suo inconscio di giovanissimo recluso che lottava disperatamente per sopravvivere, frammenti dell’inconscio e di conflitti irrisolti, che nessuna cura psicoanalitica potrà mai risolvere (per fortuna!), frammenti testamentari del rapporto con la madre del poeta e con il padre (che io non sapevo assente). Vasi incomunicanti di frammenti che tra di loro parlano, comunicano, anche se parlano lingue diverse e incomunicabili. Questo è l’inconscio di un poeta che si riversa in un libro di poesia(!?) E tutto mi si è fatto chiaro all’improvviso. Devo dire un grazie alla rivista milanese (nella persona di Donatella Bisutti) che mi ha commissionato il lavoro. Ho mandato il saggio a de Palchi il quale, appena letto, ha commentato: «ma tu mi hai messo a nudo! Nessuno ha mai scavato così in profondità nel mio inconscio!».
Ecco, io penso che il critico di poesia debba andare con la lanterna di Diogene alla ricerca dei frammenti sparsi e dispersi che neanche il poeta sapeva di avere messo dentro le proprie poesie. Fare una indagine quasi poliziesca, alla ricerca delle parole e dei simboli nascosti o appena dissimulati.
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Sono ormai più di cinquanta anni che la poesia di Alfredo de Palchi vive di un conflitto tra suono e senso, suono e significato che si configura come slittamento fonologico tra attante ed epiteto in guisa che l’epiteto entra in rotta di collisione semantica con l’attante; di qui il prevalere di fonemi acuti dal suono scabro e vetroso di contro a modulazioni lievi di altri, pochi, attanti dalla sonorità acuta. Più che alla sinestesia tra suono e senso, de Palchi ricorre all’opposizione fonematica e semasiologica tra le parole per restituirle alla loro compiuta visibilità linguistica. L’utilizzo degli avverbi è sempre postato in modo diagonale alla significazione, indica sempre una modalità impropria del modus, e sono serventi alla de-automatizzazione del linguaggio. Nella poesia depalchiana non c’è solo un disaccordo tra il suono e il senso, l’autore preferisce sempre la soluzione di un intervento effrattivo, frontale, quasi una effrazione della lingua di appartenenza come indizio di una estraneità ad essa e di un esilio patito fin dagli anni della sua adolescenza. È una procedura di effrazione che de Palchi pone in essere. È il contesto dunque che modifica il suono, graffiato e sgraziato «diesizzandolo» e «bemollizzandolo», come insegna Jakobson, per contagio lessicale e contiguità semantica. De Palchi adotta l’azione inversa che consiste nel flettere il senso per adattarlo all’espressione, dato che la parola è per sua essenza malleabile poi che è composta da un insieme di semi. È in questo impiego del verso, del sintagma poetico, che la poesia depalchiana trova la sua ragione di esistenza come un incantesimo all’incontrario, non più di tipo simbolistico (ormai impossibile e irraggiungibile) ma di tipo post-simbolistico post-modernistico. Un «incantesimo» effrattivo attento alla chimica delle parole, alle faglie, alle gibbosità delle parole. De Palchi interviene sul contesto fonematico e di senso facendo cozzare l’uno contro l’altro i semi del linguaggio, facendo scaturire scintille non già tra i significanti ma tra i significati, distorti e agglutinati fino all’inverosimile. Siamo lontanissimi da ogni suggestione mallarmeana e vicinissimi alla metolologia tipicamente modernistica volta alla espressività fonica e fonematica attraverso il senso dei semi violentato e infirmato.
alfredo de palchi Nihil cop
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È lo stesso de Palchi che ci informa all’inizio con questa didascalia: «L’invito a ritornare ai territori acquatici della mia nascita e della mia crescita fino al diciassettesimo anno arriva più di mezzo secolo dopo; l’accetto per curiosità, per scommessa con me stesso e arroganza… le seguenti intime variazioni nostalgiche scritte al momento … illustrate da poesia che informano sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza».

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Quanto basta per capire che qui si tratta di un ritorno alle Origini, quel trauma personale e storico che infirmò e firmò per sempre, quasi un imprinting della sua forma-poesia, il suo essere-nel-mondo, una sorta di caustica informazione aggregata al segmento di DNA della sua poesia che ritorna, compulsivamente, anche dopo cinquanta anni, a operare nel sottosuolo della superficie linguistica.
Ci sono strati tettonici che cozzano ed entrano in attrito con altri sottostanti e soprastanti strati tettonici, eruzioni linguistiche di origine vulcanica; smottamenti, fratture, fissioni, frizioni, stridori lessicali.
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Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Ecco qui un suo autoritratto:
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vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso; dignitosità che mi veste sartorialmente. Si guardi il suo viso regale, superbo, nobile, che non progetta indizii di pusillanimità; non il volgare muso di chi si presume superiore al “leone” e alle nobiltà della natura per eliminarle; così si vorrebbe eliminare il vecchio leone che sono
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È incredibile come un autore quasi novantenne riesca ad essere così fresco e sorgivo, scrive Maurizio Cucchi nella prefazione. E in effetti, è incredibile, ma solo per chi non abbia seguito la poesia di De Palchi in questi cinquanta anni. De Palchi affattura le parole come un musicista le note che componga al di fuori dello spettro del pentagramma, con parole-rumori, lessemi distorti, frasari implausibili. Si va dal giganteggiamento dell’io all’io-universo, dalla osservazione panoramica a quella attenta e ossessiva dell’interlocutore chiuso nella sua neutra alterità.
Con il conseguente, di nuovo, giganteggiamento dell’io:
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non ho dio e religione e giustamente prevedo con odio verbale che il pianeta si sgancerà dalla sua centrifuga forza; benché io abbia forza interiore nego di sostenerlo sulla schiena; il suo involucro non mi aggancerà al girotondo mentre scoppia a brandelli per l’abisso; il  mio soffio all’ involucro di spilli è  il soffio al “dente di leone” da cui svolazzano i fili bianchi che mai più potranno ripollinarsi
alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

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ci sei da sempre eppure a te non importa la materia oscura, quella misteriosa invisibile sostanza pesante più del visibile universo; che effetto hanno l’esplosioni delle supernova e stelle neutrone; che proponi quando una stella massiccia esaurito il proprio fornimento di combustile nucleare inizia il suo permanente libero cadere; una stella massiccia che cade permanentemente dentro un buco nero senza mai raggiungere il fondo, l’infinito infinito; con il tuo potere di disfare presumo tu non abbia nessun attimo d’intuizione matematica; sei soltanto la spoglia
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nessuna intenzione di denigrarti; l’osservazione è che stai lì curiosa di me quanto io di te appolliata ad avvoltoio  sullo schienale della sedia che i miei gatti usano per starmi vicini; d’istinto sanno chi sei, cosa attendi, che fai, chi rappresenti; ci pensano esprimendo dal loro triste muso il tuo linguaggio, e seppure tu stessa sei l’iniziale vittima della vita, irrispettosi non temono il tuo aspetto di avvoltoio, dio-morte; l’antenato gene che si spaccò dividendosi dallo scimmiesco, evoluzione evolve la meninge che inventa l’orrifico dio  a propria immagine per abolire i proprii terrori e per terrorizzare i viventi delle specie; morte è dio, il dio-morte, l’umano evoluto a perfetto predatore
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la vicina m’invita in un campo  arato durante un furioso temporale di tuoni lampi e saette; al momento che rotoliamo nel fango e la pioggia torrenziale ci lava tette e pube, mi sorprendi, ripudi l’infedele che nella melma del  campo ti affronta con . . . l’Estate di tuoni lampi saette e acquate delle “Quattro stagioni”  vivaldiane; ma tu  già progetti come meglio controllarmi il prossimo Autunno
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non ho la furbizia di competere con la tua, in tale maniera mi annullerei, competo con tenacia contro il tuo disorientare persino il malvivente; quindi rispettami quel tanto per empatia che abbandoni un’ultima volta se confronto il tuo intento finale
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incinta? possibile tu lo sia, il tuo assiduo pancione è il mappamondo con    carcasse d’ogni specie e carogne di umani ingoiate con ingordigia per vomitarle da madre spudorata, denigrata e rigeneratrice
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la mente non mi lascia un attimo. . . mandrispinte con terrore nei macelli; giornalmente compi l’obbrorio, la profonda fatica di squartare, sangue a torrenti che cela il felice supplizio; potessi abbracciare ciascuna vittima, gorgogliare con il mio sangue la definizione del loro iniquo olocausto
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starò con la testa schiacciata tra le mani per non essere stordito e ferito dai chiassi di destinati al solo vero impotente olocausto quotidiano; non c’è dio che regga il disagio e la caparbietà malefica della spoglia umana
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sei l’invincibile dei miei desideri ridotti a scaglie e ghiaia lungo passaggi stretti di muraglie strepitosamente intasate di sangue coagulato, ruggine dei viventi bacati prima di sorgere dal ventre; per questo imbroglio sei l’invicibile paziente, farfalla, verme, grumo oleoso, fossile
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nei miei confronti assumi un tragico aspetto e ti mostri tale perché hai la rettitudine dell’antica tragicità punitiva; è imbarazzante che tu entri il palcoscenico sempre all’ultimo istante con la bravura dell’attore che si approppria del significato completo dal primo all’ultimo vagito; non ci siamo ancora scontrati io e te per quella scena antipatica
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sedicimila pianeti simili alla terra ciascuno con il sole e satelliti abitano la nostra parte di universo; chi sono e come reagiscono gli abitanti; tu non ci sveli niente, conduci l’immanenza da esatta professionista senza orario; io che ce l’ho non sono mai d’accordo se prenderti sul serio o riderti in faccia, universale affronto
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. . . lungo il Terrazzo un’abitazione sull’argine annuncia “vendesi barca”; con le poche palanche risparmiate l’acquisto a prezzo di svendita; non intuendo il peggio salpo con la barca per colmare un capriccio di adolescente salgariano incosciente locale che affronta il freddo di novembre; alle prime remate la barca traballa e si capovolge; mentre mi arrampico su per la scarpata dell’argine sento sganasciarsi dal  ridere la famiglia completa; anticipava la scena? Sicuramente, rido anch’io per non  piangere e sentirmi derubato; inzuppato e infreddolito a casa mia madre sgrida “incosciente!”––
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dai pali del telegrafo e della elettricità sulle  strade deserte dietro mura tiro sassate mirando chicchere di vetro e di porcellana; il mistero dell’universo è raccolto in quelle chicchere e nel ronzìo come il mistero della  vita è rinchiuso nelle acque; l’abissale concetto. . .
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Al palo del telegrafo orecchio il ronzìo / il sortire incandescente da quando / le origini estreme / provocano la terra //  ––percepisco / accensioni e dovunque mi sparga / chiasso d’inizio odo
 
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Zagaroli Alfredo de Palchi Venezia 2011

Antonella Zagaroli con Alfredo de Palchi, Venezia 2011

da OMBRE 1998
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L’invito di ritornare ai territori acquatici della mia nascita e crescita fino al diciasettesimo anno arriva più di mezzo secolo dopo;  l’accetto per curiosità, per scommessa con me stesso e arroganza; e con pudore leggo a voi centocinquanta firmatari assiepati nel salone di questo piccolo locale Museo Fioroni, le seguenti  intime variazioni nostalgiche al momento le ho scritte per questa occasione, illustrate da poesie che informano  sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adole- scenza;  nient’altro, oppure––perché sono ancora quale mi descrivo ma senza più timidezza––un accenno  sparso dove capita per curvarvi sulla insincerità dei compagni che tradirono la mia e la loro fanciullezza e adolescenza; il conto finale è che da oltre mezzo secolo non mi abbisognano  questi territori nemmeno alle spalle, piuttosto è il paese che ha bisogno di me, e non ci sono. . . soltanto l’Adige è dentro di  me. . .
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Potessi eliminare l’enorme dubbio / che mi assilla la mente francescana , / ma tu, Adige, / raccogli la ghiaia lungo il profilo delle rive / e nel liquido delle reti / acchiappa il luccio che guizza luccicante / nella corrente insabbiata dal pomeriggio / assolato, enormemente / quanto è buio il mio dubbio; / poi, sereno ancora, arriva alle curve / alte di erbe e di arbusti, e qui vortica, / buttandoti addosso ai piloni dei ponti che sbalzano arrugginiti, / fino a espanderti calmo verso lo spazio, / proprio là dove non esiste––
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è il mio mitico fiume ed è mia intenzione di scendere con aneddoti e versi nella giovinezza degli anni prima che accadesse la caccia alla vita e spinto a un esilio di vituperi d’invettive sevizie accuse prigionia cronache malvage di anonimi vili reporters, creazioni abolite poi dalla legge; rimangono le ferite e sei anni spenti; ma qui, invece gli aguzzini usurpano ancora persino il loro funebre fosso

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Alfredo de Palchi POESIE INEDITE da  “NIHIL” sezione “Ombre II”  (2008) con uno scritto di Luigi Fontanella e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Alfredo De Palchi -7

Alfredo De Palchi

Da uno scritto di Luigi Fontanella:

«Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vitti­ma di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfre­do, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima pro­duzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affron­tare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si conclu­se esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul qua­le, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collabora­zionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)

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alfredo de Palchi_1

Alfredo de Palchi

Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.
alfredo de palchi italy 1953

alfredo de palchi in Italia, 1953

Commento di Giorgio Linguaglossa «Il problematico è l’indicibile dell’ordine assertorio»

 Il testo di Alfredo De Palchi è dichiarativo perché il locutore teme che esso possa essere equivocato dal lettore risponditore. Ecco perché il locutore De Palchi si esprime mediante una proposizionalità dichiarativa. Una frase dichiarativa è tale quando dichiara con la massima precisione il proprio oggetto. Al limite, anche una iperbole può essere dichiarativa, anche un insulto, perché riguardano immediatamente un oggetto. Quindi, dichiarativo nel senso di non interlocutorio, non ambiguo (nel senso di Empson dell’ambiguità connaturata al linguaggio poetico), anzi, dichiarativo nel senso di letterale, che evita il figurato per sfiducia nelle qualità denotative che il discorso figurato ha.

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L’ordine assertorio esclude l’indicibile dal logos. Lo stile dichiarativo sta all’ordine assertorio come due sorelle siamesi; ma c’è un terzo escluso: l’indicibile che ritorna con il ritorno dell’ombra mnestica e scompagina lo stile dichiarativo.

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Alfredo de Palchi opta per un discorso dichiarativo, dove il locutore tenta, attraverso una messa in ordine del discorso, di evitare il figurato mediante la pronuncia di una parola che non rimandi ad altro da sé, che non rimandi a nessun non-detto implicito. Ma è una pia illusione. Anche tra le maglie delle espressioni dichiarative, il non letterale, il figurato si insinua ripetutamente con il ritorno del rimosso. Il rimosso c’è fin quando vuole celare l’Altro, l’Estraneo. Come non c’è gerarchia tra il letterale e il figurato, così si dà una diversa problematicità a secondo della pressione che si fa sulla letteralizzazione o, al converso, sulla de-letteralizzazione. È la natura problematica del logos che sta a fondamento della ambiguità semantica, non quindi il significante sganciato da un soggetto, quanto il significante per un soggetto che, a sua volta, è in rapporto con un altro significante e con un altro significato.

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È il tema dell’Altro, o dell’Estraneo che pone la necessità di chiederci se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».1 La risposta di Lacan sarà che il luogo del soggetto è radicalmente eccentrico in quanto esso nasce come campo dell’Altro. Luogo della catena differenziale dei significanti, il soggetto nasce con il significante, nasce diviso. Il soggetto che si costituisce a partire dall’Altro, è sempre un soggetto alienato, separato. Una struttura analoga la si ritrova in Heidegger, dove l’Ereignis (l’evento appropriante) è insieme e indissociabilmente Enteignis (espropriazione). L’Altro di Lacan è innanzitutto l’Altro del linguaggio come catena significante, così come per Heidegger il linguaggio è la «casa dell’essere» e «il modo più proprio dell’Ereignen», dunque l’ambito stesso in cui accade l’appropriazione reciproca di uomo ed essere. Questo rapporto si sostiene sulla priorità e autonomia del linguaggio rispetto all’uomo: come Heidegger afferma che innanzitutto «il linguaggio parla» e non l’uomo e che l’uomo è uomo in quanto è all’ascolto e corrisponde a questo linguaggio che sfugge al suo potere; così per Lacan «è il mondo delle parole a creare il mondo delle cose […] L’uomo parla dunque, ma è perché il simbolo lo ha fatto uomo».1

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Il testo dichiarativo per eccellenza è un testo testamentario, là dove il locutore deve attenersi con il massimo scrupolo alle esigenze della letteralizzazione proprio per evitare le ambiguità del discorso fonosimbolico. Il paradosso è che in questi testi della raccolta inedita Nihil di De Palchi, il locutore si esprime con un linguaggio apodittico, testamentario, nel senso di testamentum, di dichiarazione ultimativa delle volontà ultime del locutore.

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E qui de Palchi pronuncia le sue volontà definitive, si esprime senza curarsi del risponditore, il quale non dovrà fare altro che accettare il legato testamentario di una parola tellurica e tellurizzata da una ferita inferta ab origine. De Palchi ritorna all’engramma, alla ferita primordiale, a quando fu accusato dalla giustizia italiana di omicidio, subendo sei anni di carcere preventivo per poi essere prosciolto per non aver commesso il fatto. Il poeta in questi cinquanta e più anni è rimasto fermo a quella sconvolgente esperienza, a quel trauma. È il ritorno del rimosso che qui ha luogo. Una pulsione desiderante guida il discorso poetico di de Palchi per un riscatto che nessun risarcimento potrà mai acquietare. Un engramma profondo che ritorna alla coscienza e richiede una elaborazione secondaria del rappresentante ideativo. Appunto, è questa la funzione del discorso poetico di de Palchi, il suo essere un sostituto necessitato dell’engramma originario, il travestimento del rappresentante ideativo.

.

La declinazione dei verbi al presente di tutta la raccolta poetica depalchiana, riflette questo ritorno dell’engramma, questa modalità di ripresentazione dell’Estraneo in ogni attimo della temporalità.
E la violenza effrattiva del lessico depalchiano è una spia dell’investimento psichico intervenuto a far luogo da quei lontani anni di ingiusta prigionia. Il soggetto depalchiano è un soggetto scisso, diviso, originariamente appartenente al campo dell’Altro. Proprio perciò il soggetto depalchiano è un soggetto desiderante in quanto «il desiderio è la metonimia della mancanza ad essere».2 Il desiderio, nel suo carattere eccentrico, è l’espressione di questa mancanza-a-essere, di questa negatività che attraversa il soggetto e gli impedisce di essere fondante e fondato. Ritengo questa problematica importante perché getta luce sul modo di procedere della poesia depalchiana e sulla sua natura effrattiva, frizionale, vulcanica. Non pacificata, insomma.
1 Lacan  Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychalalyse (1964) Seuil, Paris
2Ibidem
Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014

Poesie di Alfredo De Palchi da Nihil (2008–2013)

Idi di marzo
dalle fogne con coltelli
nel grembiule di macellai
da pugnalare la mia schiena di Giulio
che da oltreoceano conquisto arte
e Calpurnia ancora nel mistero della sua casa

non stringo mani insanguinate per macchiarti appena

ti raggiungo per rotolare insieme lungo la via
imperiale di archi musicali

poi non “si muore”
perché dalla gola smercio lo sputo definitivo.

*

Trema la terra della pagnotta e la mia si scuote
di bifolchi

si riconoscono nel sangue barbaro che insozza
e in chi sciacqua il coltello nell’Adige
tra la dissoluzione dei ponti l’eroica
viltà degli sfuggenti dal cranio sfuggente

prima del vagito segui gli eventi di amata alla deriva
nella corrente fluviale butti i fiori e struggente
corri tra la casa e la tomba di giulietta

le costole diventano pietre di procida
la volontà della mente frantuma la muraglia
ed è mediterraneo che diluvia sale

europa delenda est
non per tua causa di amata che tra dissidi
e onori errati eviti l’amato
invano lo disconosci come aberrazione girovaga
del tuo longineo corpo tellurico

delenda est per te oppure
rinascita après le déluge d’avril nelle Venezie.

*

pellerossa quanto la terracotta
s-centrato dal dottor calligaris

con olio di serpe unge e avvelena i funghi cosmetici
che cucini per cibarmi di orizzonti
a rasoterra dove l’humus cresce di vomiti
e predatori in camicia bianca
nell’antico otre di terracotta si raggruma
acqua piovana polvere del deserto
semenza arida che svuoti all’alba––
con mani di penelope
mi sfili attorno filo di lana per giacere
nella barca di fiume stretti dalla nostra ombra

l’onda veloce dopo onda ci srotola
sulla riva frastagliata due statue d’argilla
con la conchiglia falsa all’orecchio.

*

Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
di foglie che spiccano voli
da raffiche di vento sotto alberi
che passano accanto tra panche deserte . . .
in simili giorni abito il parco di Union Square dove

la folla indegna del bel tempo
mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
cartocci plastica giornali sputi
da disgustare i piccioni . . . e canestri vuoti di rifiuti

a nord sul piedestallo Lincoln
è il turista slavato che porge
grani a uccelli invisibili––
lo ringrazio con un cenno di mano

a sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
alla marmaglia nello sguazzo
strappando le ombrelle––
lo ringrazio con un cenno di mano

a est il desolato Lafayette mano destra al cuore
con la sinistra indica al suolo la saving bank
di fronte in greek revival fallita––
lo ringrazio con un cenno di mano

a ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
dallo spicchio d’acqua
“preparati per la scalata”…
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso dalla montagna”.
Il lavoro nobilita la belva alla vita
trascorsa a grattare il salario della paura
in una giungla di lapidi

si legge, qui giace dio il mediocre costruttore
e qui Cleopatra con una serpe in mano––giglio
offerto a Marcantonio

più in là giace un raccolto di ossi
attribuito al farabutto amico François
accanto a quello di Francesco impazzito di cristo
e della sua Chiara che per boschi giunge a Todi
da Jacopone, il più folle

e laggiù sotto quel rettangolo di letame
l’altro mio amico Arthur
giace con un abbraccio di zanne invendute

amata amica figlia madre sorella
prontamente perfetta per il mio arrivo
allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.

 

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STIGMATA, Antologia bilingue italiano-inglese Shearsman Books, Bristol, trad. Cristina Viti. Presentazione il 9 febbraio 2016, h 19,30, a Swedenborg Hall, 20/21 Bloomsbury Way, Londra. Presentano il libro: l’editore Tony Frazer, Cristina Viti e Ian Seed (prof. all’University of Lancaster and the University of Cumbria). È presente l’Autore. – Gëzim Hajdari / Erbamara Barihidhët Cosmo Iannone Editore, 2013, Dodici poesie, con un Commento di Giuseppina Di Leo

Gezim Hajdari Stigmata, Shearsman Books, Bristol 2016Shearsman Books – Gezim Hajdari – Stigmata Translated by Cristina Viti. Bilingual Italian/English edition. Published November 2015. Paperback, 142pp, 9 x 6ins. ISBN 9781848614413 [Download…

SHEARSMAN.COM

http://www.shearsman.com/…/pr…/5914-gezim-hajdari—stigmata

http://www.shearsman.com/shearsman-reading-events

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Hajdari Gëzim / Erbamara Barihidhët Cosmo Iannone Editore, 2013 con un Commento di Giuseppina Di Leo

Hajdari Gëzim / Erbamara Barihidhët – 1. ed. – Isernia: Cosmo Iannone Editore, 2013 (Kumacreola: Collana di parole migranti e studi transculturali diretta da Armando Gnisci). – pag. 83 € 10,00. Testo albanese, con traduzione a fronte. In appendice: Monumento dell’erba amara, di Andrea Gazzoni.

Nota dell’autore

 Erbamara, scritta nel 1976 mentre frequentavo l’ultimo anno delle superiori nella città di Lushnje, in Albania, non venne pubblicata dall’editore del regime “N. Frashëri” di Tirana.

Secondo la censura: «i testi della raccolta non trattano il tema del nostro villaggio socialista; l’eroe delle poesie è un solitario che sfugge ai suoi coetanei, all’Associazione dei Pionieri, alla realtà; inoltre nei versi sono assenti le trasformazioni che hanno portato il socialismo in campagna sotto la guida del Partito…». A quell’epoca la silloge aveva come titolo Il diario del bosco. Ho tradotto i testi in italiano nel 1999. Due anni dopo, nel 2001, l’opera è stata pubblicata per la prima volta da Fara Editore. Questa nuova pubblicazione è ampliata ed include testi nuovi rispetto alla prima edizione. Offrendo ai lettori questi versi è come se tornassi indietro di molti anni nel gelido e inospitale inverno della dittatura albanese dove ebbe inizio il mio percorso poetico.

Gëzim Hajdari

gezim hajdari_foto

Gezim Hajdari

Commento di Giuseppina Di Leo

«Sogno la morte ogni volta / che torna la primavera. / I gemiti si perdono piano piano / nella nudità della pioggia. //…». La condizione di profugo si avverte immediatamente sin dalla prima poesia della raccolta Erbamara. Ci sono versi «gioiosi e tristi», di una nudità panica, nei quali il senso della perdita prevale come coscienza di un’età incisa nei segni del corpo («Di fumo e alcool / odora così presto il mio corpo…»).

È una paura antica, di morte, che si fa strada e il poeta la nomina, quasi per scongiurarla: «Chissà quale mare oscuro un giorno / stroncherà la mia voce.». Allora a premere è la precarietà della dimensione umana, che si richiama alla dimensione del tempo e al suo scorrere. Eppure, in questo caso, la parola si fa messaggero del corpo. Il poeta ne è cosciente, e come Eliot in The waste land, vede la morte in ciò che la vita, esibendosi, ci  modella a suo piacimento con i nostri cambiamenti.

Il poeta sa che a sostenerlo e guidarlo è la parola, portatrice del canto della sua terra; mentre, se venisse a mancargli la voce la terra, da materna, acquisterebbe una dimensione famelica, che incessantemente lo divorerebbe. È come se nascondesse un fondo oscuro e ambiguo la poesia della lontananza di Hajdari, una quasi non-esistenza nel disgregarsi del corpo-parola, conseguenza diretta della separazione fisica dai luoghi d’origine. Di tanta morte il poeta continuerà a cantare, e per quella terra che non rivedrà ne avvertirà incessantemente la nostalgia,: «…Percorrerò per l’ultima volta / la strada dove correvo nell’infanzia. / Se sarà al crepuscolo, / le lucciole illumineranno la nuova dimora.» (Mi troveranno nei campi trebbiati).

Si direbbe quasi che un disegno premonitore sia al fondo della vita di Hajdari (la data di nascita del poeta coincide con la morte del dittatore Stalin). Un evento ineluttabile è dunque la poesia, che è poesia del dolore, del distacco dalle origini e perdita della parola. Una parola che era già eco nel suo pronunciarsi («Gli stornelli che scavavano nella roccia / come se fossero impazziti…»).

Persino la morte si mostrerà spietata, né porterà riscatto all’esistenza: «Anche nell’aldilà mi suonerà / la maledizione nell’alba: / «Non avrai mai fortuna, che tu possa morire / per strada, come un cane!…» (Anche nell’aldilà mi suonerà). La morte, nella sua accezione di annullamento del ricordo andrebbe intesa come pensiero immanente che trova il suo posto nel luogo della poesia: essa condurrà un corpo giovane tra le rovine, per riportare in vita, in maniera, se possibile, ancor più atroce, i richiami ancestrali della terra-madre. Solo così agendo, luogo e memoria diventeranno tutt’uno e quasi legami imprescindibili e, in tal modo, con essi, più dolorosi si faranno i ricordi.

I due temi  ricorrenti in Erbamara, tempo e ricordo, sono al centro di tutta la produzione del “contadino” Hajdari. Come scrive Andrea Gazzoni: «L’erba dei campi di Darsìa è amara, ma più vera e più durevole di quell’allucinazione collettiva che è il potere. […] Aruspice che legge i segni delle colline di Darsìa, il poeta di Erbamara colleziona e annota i vaticini per trovare una chiave capace di rompere la maledizione di un presente sempre uguale, a cui ci condanna il «fango incanutito da secoli», il fango che «si unisce all’eterno» impastando la stessa illusoria permanenza del regime dittatoriale. Ma ogni presagio colto è tanto più sinistro quanto è nitido per i sensi. …».

Gezim Hajdari nel suo studio

Gezim Hajdari nel suo studio

Dal momento che ogni cosa è andata perduta e man mano che il ricordo si perde «sul volto del tempo», «Come una pelle nera», il poeta s’impone la ricerca costante de perché, mentre intorno persino i frutti del suo giardino, cadendo, fanno eco «come brutti sogni.» (Nulla albeggia).

Una elegia del dolore è Erbamara: la brutalità degli anni dittatoriali è infissa nel corpo e risuona nella voce. Il destino sembra dunque segnato e lo perseguiterà «come ombra». Eppure la morte non gli fa paura, se consente la libertà del ricordo: «Due cose porterò con me / nel paradiso promesso: / i pianti in primavera delle prede / e i canti dei gitani.» (Ora vago tormentato nel paese).

«Immensa come te, collina, / è la mia angoscia. / Ogni verso ardente che m’ispiri / è amore e tormento.» Il poeta rievoca ovunque l’habitat naturale come termine di paragone della propria esistenza, immedesimandosi con la natura e con gli esseri che la abitano. In particolare, sono le creature della notte quelle che sente a lui più simili, quando si liberano nell’aria e danno vita a «sogni e speranze nel nulla», fino a al confondersi di «grida e voci» (Immensa come te, collina).

Tempo e memoria sono irrevocabilmente persi in «incendi e abissi». Al poeta non resta che domandarsi che fine abbiano fatto i suoi anni giovanili, così lontani come la giovinezza: «Dove si nascondono i miei anni verdi? / Da collina a collina, / la pelle dell’infanzia perduta / suona e trema al vento.» Gli echi del paesaggio della Darsìa chiamano il poeta quasi a volerlo consolare per la distanza che lo separa; solo un dialogo immaginario gli permette di rispondere dicendo che la sua presenza è sempre lì.

L’andamento piano è una costante delle liriche di questa raccolta, ne misura insieme forza e capacità espressiva. Ma, la poesia, è in grado di esaudire il desiderio? Sembrerebbe di no. Difatti, alla domanda: «Mia patria, / perché quest’amore folle per te?», il poeta nega possa esserci un risarcimento per mezzo dei versi che, anzi, segnano la lacerazione tracciandone maggiormente la ferita:

Mia patria,
perché quest’amore folle per te?
Tu mi hai fatto nascere
per essere la tua ferita.
I miei versi m’inseguono
come vecchi assassini.
Ogni notte si rompe qualcosa
nel profondo del mio ghiaccio.
Gezim Hajdari a Udine 2011

Gezim Hajdari a Udine 2011

Meglio però non lasciarsi ingannare, poiché è dal tormento dei versi che nasce il bisogno comunicativo del poeta. Quando la poesia eleva il «luogo» essa funge da anello di trasmissione di un’idea che diventi «condivisibile», come magistralmente sottolinea Gazzoni: «Esilio in patria ed esilio fuori dai confini si richiamano l’un l’altro attraverso la ricorrenza, nell’opera di Hajdari, di posture, situazioni, gesti e stilemi. Ma ora fermiamoci qui, sulla soglia finale di Erbamara, senza addentrarci nella poesia che Hajdari ha composto in seguito. Lasciamo al lettore il gusto di prendere in mano i singoli volumi o l’antologia delle Poesie scelte, leggendo i testi in sequenza come un unico ciclo poetico, coerente e compatto pur nelle sue trasformazioni, tutte direttamente o indirettamente legate alla terra di Darsìa e alla sua memoria. Proprio questa centralità del luogo nella poesia di Erbamara (e poi di tutta l’opera hajdariana) rivela un’istintiva affinità con i poeti che cominciano dal loro luogo particolare, per quanto marginale sia, per farne poi nel linguaggio e nella memoria della letteratura un luogo di tutti, un luogo comune (dicibile, condivisibile, in una parola: traducibile)…».

Nessuno sa se ancora resisto
in quest’angolo di terra arsa
e scrivo a notte fonda ubriaco
versi gioiosi e tristi.
Sogno la morte ogni volta
che torna la primavera.
I gemiti si perdono piano piano
nella nudità della pioggia.
Come brucia in fretta
la mia giovinezza senza richiami!
Ovunque dintorno mi sorridono
rose e coltelli.
Di fumo e alcool
odora così presto il mio corpo.
Chissà quale male oscuro un giorno
stroncherà la mia voce.
*
Mi troveranno nei campi trebbiati
senza respiro tra le labbra,
sdraiato sulla paglia che adoravo
con i colombi che beccano accanto.
Sul volto il fazzoletto bianco di mia madre,
mi porteranno nella stanza natale:
«Povero ragazzo, quanto ha sofferto!»
dirà la gente intorno al mio corpo.
Dopo avermi lavato
con l’acqua fresca del pozzo,
mi metteranno sul carro del grano
tirato dai buoi di campagna.
Percorrerò per l’ultima volta
la strada dove correvo nell’infanzia.
Se sarà al crepuscolo,
le lucciole illumineranno la nuova dimora.
Gezim Hajdari, Siena 2000 (1)

Gezim Hajdari Siena 2000

Anche nell’aldilà mi suonerà
la maledizione nell’alba:
«Non avrai mai fortuna, che tu possa morire
per strada, come un cane!»

Ricorderò con timore
il mio dio crudele,
la melagrana spaccata
sotto la luna piena.

L’anatra che si tuffava nel lago,
i tori insanguinati.
Come un segno lugubre
il richiamo della volpe nel buio.

Gli stornelli che scavavano nella roccia
come se fossero impazziti,
le spine nere che cacciavo con l’ago
dai piedi di mia madre.

*

Ora vago tormentato nel paese
come uno spirito accoltellato.
Non mi fa più paura la morte
né il freddo della sera.

So chi mi ha amato
nella collina delirante.
Un amore eterno:
il fango e il buio invernale.

Dietro le spalle m’insegue
come ombra il destino.
Tra i calmanti notturni scelgo
il veleno della vipera.

Due cose porterò con me
nel paradiso promesso:
i pianti in primavera delle prede
e i canti dei gitani.

*

Nulla albeggia
sul volto del tempo.

Come una pelle nera
la notte balcanica.

Nell’abisso della valle
polvere i miei desideri,
cenere le mie stagioni.

Cosa cerco
in cima alla collina
di un paese tormentato
e di ubriachi?

Fuori, nel giardino,
il vento fa cadere le cotogne nel fango
come brutti sogni.

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Appoggiati al muro della casetta,
nell’ultimo giorno d’autunno,
prendiamo il sole che picchia,
io e una lucertola senza coda.

Nulla accade in questa provincia,
gli stessi uomini, gli stessi i volti.
Tutto si trascina con fatica
nel fango incanutito da secoli.

D’ora in poi, nell’arena del gelo,
ci sentiremo soli nella collina cupa.
Io e il falco combatteremo
con i denti e gli artigli.

Sdraiato sulla terra umida
assaporo l’erbamara dei prati.
Negli abissi dei cieli impazziti
si perde il mio sguardo.

Non lontano dalla mia dimora,
dove si fecondano i fulmini,
il vento del mare porta come misericordia
le voci degl’internati nei Campi .

*

Non m’interessa
quale sarà il mio destino.
Se si nasconde qualcosa intorno
no, non voglio saperlo.

Ho vissuto così a lungo
nel mio terrore.
Ho vagato per le strade Hajdaraj
come nella mia tomba.

So ciò che mi attende
dietro ogni crepuscolo.
In un mondo di coltelli
non chiedo di salvarmi.

*

Spesso a notte fonda
entra una strana voce nella mia stanza,
giunge sempre alla stessa ora
dal profondo di un pozzo scuro.

Siede accanto al mio letto
cupa e minacciosa.
Quante volte mi sono svegliato
in ansia e spavento.

«Non ti spaventare fanciullo –
mi ripete ogni volta al buio –
le ombre che ti si affacciano nei sogni,
non sono che chimere.

Vivrai a lungo da guerriero
tra vipere e corvi.
Per compagni di viaggio avrai
solo spine e pietre.

Vai avanti per la tua strada,
non dar retta ai finti oracoli.
Il tuo seme di contadino
inciderà sul fango albanese.»

Poi si dilegua nel buio
del fondo del pozzo scuro,
per tornare ogni notte alla stessa ora
più cupa e minacciosa.

Gezim Hajdari, Siena 2000 (2)

Gezim Hajdari, Siena 2000

Luna,
è fuggita anche questa stagione
senza un bacio
nella notte bianca.

Cielo,
è passato anche quest’anno
senza una ragione,
con la sete dei pozzi prosciugati
nelle nostre labbra nere.

Valle,
sta andando anche questo secolo
come un toro abbattuto,
con il tempo che ci scivola tra le dita
e il canto del cuculo da collina a collina.

*

Non piangere,
è il pettirosso che corre
sul ghiaccio del ruscello.

Presto fiorirà il mandorlo
e gli uccelli lirici ci canteranno
nelle vene.

Non piangere,
ho percorso la tua ferita
per raggiungerti.
*

Mia patria,
perché quest’amore folle per te?

Tu mi hai fatto nascere
per essere la tua ferita.

Dove nascondermi
nella collina brulla?

I miei versi m’inseguono
come vecchi assassini.

Ogni notte si rompe qualcosa
nel profondo del mio ghiaccio.

*

Gli anni si sciolsero,
ad uno ad uno si persero.
A stormi le rondini
nei cieli volarono.

Nel cortile lasciarono
piume e richiami.
Sulle grondaie delle casette
nidi e rumori.

Altri anni giunsero
di tuoni e gioia.
Altri voli di rondini
abbandonarono i nidi.

Nelle colline di Darsìa,
di buio e freddo,
invano attendiamo
una chimera all’orizzonte.

Le primavere fuggirono,
per gli abissi gocciolarono.
Come i cieli grigi
anche noi invecchiamo.

Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.
In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.
Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.
Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.
La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.
È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone.
Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3.
Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari.
Dal 1992, vive come esule in Italia.
Opere
Ha pubblicato in Albania
  • Antologia e shiut, “Naim Frashëri”, Tirana 1990;
  • Trup i pranishëm / Corpo presente, I edizione “Botimet Dritëro”, Tiranë 1999 (in bilingue, con testo italiano a fronte).
  • Gjëmë: Genocidi i poezisë shqipe, “Mësonjëtorja”, Tirana 2010
 
Ha pubblicato in Italia in bilingue
  • Ombra di cane/ Hije qeni, Dismisuratesti 1993
  • Sassi controvento/ Gurë kundërerës, Laboratorio delle Arti,1995
  • Antologia della pioggia/ Antologjia e shiut, Fara, 2000
  • Erbamara/ Barihidhët, Fara, 2001
  • Erbamara/ Barihidhët, (arricchita con nuovi testi rispetto alla prima edizione). Cosmo Iannone Editore 2013
  • Stigmate/ Vragë, Besa, 2002. II edizione Besa 2007
  • Spine Nere/ Gjëmba të zinj, Besa, 2004. II edizione Besa 2006
  • Maldiluna/ Dhimbjehëne,Besa, 2005. II edizione Besa 2007
  • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, Fara, 2005,
  • Poema dell’esilio/ Poema e mërgimit, II edizione arricchita e ampliata, Fara 2007
  • Puligòrga/ Peligorga, Besa, 2007
  • Poesie scelte 1990 – 2007, EdizioniControluce 2008
  • Poesie scelte 1990-2007, II edizione (arricchita con nuovi testi). EdizioniControluce 2014
  • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007 (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2008
  • Poezi të zgjedhura 1990 – 2007, II edizione (versione in lingua albanese di Poesie scelte), Besa, 2014
  • Corpo presente/ Trup i pranishëm, Besa 2011
  • Eresia e besa/ Nur. Herezia dhe besa, Edizioni Ensemble 2012
  • I canti dei nizam/ Këngët e nizamit(i canti lirici orali dell’800,con testo albanese a fronte). Besa Editrice 2012
  • Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista/ Rroftë kënga e gjelit në fshatin komunist (con testo albanese a fronte). Besa 2013
giuseppina di leo1

giuseppina di leo

Giuseppina Di Leo. Nasco a Bisceglie (Bt) nel 1959, sono laureata in Lettere; frutto della mia tesi di laurea (2003) è il saggio bio-bibliografico su Pompeo Sarnelli (1649-1730), dal titolo: Pompeo Sarnelli: tra edificazione religiosa e letteratura (2007). Ho pubblicato i seguenti libri di poesie: Dialogo a più voci (LibroitalianoWorld, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010); Con l’inchiostro rosso (Sentieri Meridiani Edizioni, 2012); Il muro invisibile (LucaniArt, 2012). Mie poesie, un racconto e interventi di critica letteraria sono ospitati su libri e riviste (Proa Italia, Poeti e Poesia, Limina Mentis Editore, Incroci), nonché su blog e siti dedicati alla poesia.

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GUIDO CAVALLI: DIECI POESIE  da “Nel castagneto” (Diabasis, 2015) dalla Postfazione di Giovanni Ronchini “Cercando un altro inizio”, “I lupi tornano sull’Appennino settentrionale”

pittura Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98

Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98

Guido Cavalli è nato nel 1974 a Parma. Coautore dei romanzi e dei racconti di Errico Malò (tra i quali Cielo di paese, Scaramuccia, La veglia, La neve ai cancelli) collabora con la rivista di filosofia Kasparhauser. È del 2005 la sua prima raccolta di versi, Piccolo canzoniere selvatico (Manni).

Dalla postfazione di Giovanni Ronchini, Cercando un altro inizio (o del bisogno di appartenere)

I dieci anni trascorsi tra la prima raccolta, Il piccolo can­zoniere selvatico, e la seconda, la coerenza di temi e di ac­centi tra i due libri ‑ sebbene, in questo, sembri che quei temi e quegli accenti siano oggetto di un ulteriore scavo, una discesa per certi versi più profonda e dunque più sma­scherante ‑ inducono a domandarsi dove nasca la poesia di Guido Cavalli, quale sia la sua matrice, da dove essa venga generata.

Ci sono infatti un bisogno e una necessità a indurre Ca­valli a scrivere versi: il bisogno di costruire una identità, un’appartenenza e dunque di contro la necessità di deci­frare i contorni della propria inappartenenza; innanzitutto la mancanza del padre, la sua sparizione, ha reciso i rami dell’albero genealogico, rischia di escludere Guido dalla sua storia famigliare:

Ancora adesso io confondo il fruscio / delle foglie e il bi­sbiglio del sonno / in cui calavo come fossi già senza padre / e senza me stesso creato, non generato, / risvegliato alla coscienza ma non nato / da te o da corpo umano

e ne ha per lui resa più complicata la possibilità di accoglier­ne le eredità, di sentirsi riconosciuto ‑ più che di riconoscer­si ‑ nelle proprie radici.

Sanare questa ferita, ricucirne i lembi sfrangiati, ricostru­ire la solidità di un vincolo di appartenenza (quello dei le­gami famigliari ‑ la condivisione di una stessa aria, di uno stesso linguaggio, di quella stessa “inguarita ferita” ‑ e del legame con la natura, vero e proprio punto di incontro con le proprie radici biologiche) e ingaggiare una lotta contro l’esclusione, questi appaiono i motori principali della poesia di Cavalli. Ciò può avvenire, sebbene non più in modo defi­nitivo, per sempre consapevole della cacciata dal paradiso, attraverso una rigorosa ripetizione di riti sedimentati nel tempo e depositati in fondo alla memoria inconscia.

Quello della natura è forse il principale dei lin­guaggi necessari alla ricostruzione del vincolo, una sorta di lasciapassare, la chiave per ricostruire e comprendere il re­sto; non tanto, si badi, la natura come “libro”, ma proprio come insieme di segni, una specie di ventre semiotico, una disposizione di elementi che uniti significano (e che dun­que vanno letti e interpretati), una Lingua madre di un paese ormai remoto, / cancellato dagli atlanti della storia, / verde casa dell’infanzia […], che per essere decifrata deve essere percorsa e tradotta (fare poesia, pertanto, è camminare tra i segni della natura, pre-sentire, cioè disciplinarsi all’ascol­to, all’osservazione attenta, alla costruzione dei nessi di una vera e propria sintassi): così la ghiandaia che occhieggia tra i rami è sospesa come una parola scritta, le cime lontane in un giorno sereno sono come parole che sulla pagina ristanno / inaccessibili, e il ghiaccio delle cime è un “foglio bianco”, così, ancora, il castagneto è una comunità di parole, “che tutto possono compiere”:

Ora qui ci incontriamo. / Tra le parole, come in un bosco / dove i faggi salgono diritti / e le radure s’aprono cieche / e l’incuria ha cancellato le carraie / che dalle ultime case del paese / vengono su. / […] Immersa nel folto, questa pagina / sia il luogo convenuto / per il nostro appuntamento.

Guido Cavalli Nel castagneto copertinaLa condizione di poeta è perciò una condizione privile­giata: è il poeta il solo che può instaurare un rapporto con­fidenziale con la natura:

Erano i giorni in cui cambia l’autunno. / Durante un’escur­sione solitaria / ecco la risposta: “sarai tu / il mio confidente”. // Restai a vagare a lungo / sotto gli sguardi accigliati / di certi abeti bianchi, / finché un cenno di rami poi non venne / a indicarmi da dove discendere

È il poeta l’unico in grado di pre-sentire, cioè possedere quelle “virtù premonitrici”, quella sensibilità più spiccata, più vibrante, che gli consentono di esercitare un ruolo quasi sacrale, religioso, vedere, prima degli altri, con occhi diversi i segni della natura, disporli secondo una logica grammati­cale e dare loro un significato, dunque interpretarli, capirne il senso.

Senza questa capacità e senza la volontà di farne uso, la natu­ra rimarrebbe un insieme disorganico di fenomeni, una lingua morta; è il poeta a liberarla dallo stato di “idea”, secondo una visione che sembra discendere direttamente da Schopenhauer, e a individuare ciò che essa rappresenta: in questo modo il poe­ta è anche l’unico in grado di ricostruire quella catena di vincoli per ripristinare l’appartenenza e l’identità perdute.

La poesia, però, richiede un’abilità manuale, la capacità di disporre le parole, di indirizzarne il senso, di scoprirne i suoni e la musica, di allacciarle alle tradizioni. Nel castagne­to, a differenza del Piccolo canzoniere selvatico, è un eserci­zio sull’endecasillabo, sulle sue virtù musicali; è, ancora, una sperimentazione delle infinite possibilità delle simmetrie, secondo una strategia che le adopera utilizzando una varietà di soluzioni. L’endecasillabo di Cavalli, specie strutturato in versi sciolti, il metro più frequentemente utilizzato in questa raccolta, è sinuoso, raramente franto da poche opportune cesure, modulato su una accentazione perlopiù canonica (sulla quarta o sulla sesta sede), e su un uso estremamente parco della rima (frequente, però, la rima al mezzo e talvolta le assonanze e le consonanze), variamente alternato a versi più brevi, soprattutto il novenario o il settenario: ecco allora presentarsi alcune forme della tradizione ‑funzionali al dia­logo che il poeta vuole riaprire con il proprio albero genea­logico, non solo pertanto quello famigliare, ma anche quello poetico ‑, a volte anche soltanto riecheggiate: la canzone, ad esempio, (che in certi casi sembra potersi sciogliere nel po­emetto narrativo, come nel testo eponimo Nel castagneto), ma anche il madrigale e, almeno in un caso, la filastrocca di origine popolare (si veda Il sentiero risale il fianco lento, con quel particolare ricorso alla rima baciata).

I testi, poi, sono un reticolo di simmetrie e ripetizioni, ottenute attraverso l’insistenza su alcune figure come l’allit­terazione, in pochi ma significativi casi la paronomasia, la ri­presa di termini o sintagmi da una strofa all’altra (una specie di coblas capfinidas volutamente imperfette) e soprattutto, massicciamente, la similitudine (come, ad esempio, proprio Nel castagneto, dove le stanze del testo sono costruite in due sezioni ‑un’ombra, forse, di fronte e sirma ‑anticipate dalle due chiavi della similitudine, appunto: “come”/“così”).

pittura Antonio Ligabue Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Il risultato, anche alla luce di un lessico e di una sintassi sfrondate dalle ipoteche sia di oscurità ed espressionismi d’accatto, sia dal vizio della retorica:

Allora noi cercheremo un poeta, / uno che non ammali le parole, / uno che non le affami d’aria vuota, / che non rida a vederle zoppicare / come una bestia ferita, una ruota / piegata (Da una lettera di Karl Heinrich a Georg Trakl)

è un delicato ma acuto impressionismo, una poesia visi­va, descrittiva non immemore di alcune eredità fondative del verso novecentesco, primo tra tutti Pascoli. Oppure, seppure in misura minore, Jahier (quello di Ragaz­zo, in particolare nei versi dedicati al mistero del suicidio del genitore, come in A colloquio con il padre, dove si può leggere un distico come questo: Non è per solitudine che si uccide / ma per un senso di giustizia). Ma più d’ogni altra cosa è riconoscibile il fitto reticolo di elementi riconducibili al luogo di origine (non a caso si parlava, prima, di tradizioni e non di tradizione): il patrimonio popolare delle fiabe, dei culti pagani e pre-cristiani, la Bibbia rimasticata dai vecchi, il côté lessicale e narrativo della montagna (per certi aspetti non dissimile da quello sintetizzato nella poetica di Rigoni Stern), il Bertolucci alpestre di Casarola (alcuni versi, come già nel Piccolo canzoniere selvatico, sembrano rubati al poeta di Viaggio d’inverno), il Bacchini poeta scienziato, il lirico delle pietre fossili (O l’eco dell’abisso, custodita / nell’inca­vo della conchiglia fossile […]) a cui ci pare Cavalli faccia esplicito riferimento invocando “la Musa selvatica, antico sgomento”, lo Zucchi di Tra le cose che aspettano (seppu­re con minore partecipazione, limitatamente alla presenza totemica e metaforica dei lupi). E soprattutto la prosa del narratore antropologo parmigiano Mario Ferraguti (penso soprattutto a due sue opere, Dove il vento si ferma a mangia­re le pere, Diabasis 2010) e a Ti segno e ti incanto del 2012): con Ferraguti, Cavalli condivide la sensibile osservazione delle comunità dell’Appennino, quella umana – dei vecchi, dei racconti, delle fole, della mitologia della montagna, delle “antiche vergini silvane” “coronate di bacche selvatiche”, e dei loro riti magici – e quella naturale, la presenza discreta degli animali, dei vegetali, le loro tracce, la loro lingua, il messaggio che essi comunicano; con Ferraguti, infine, Cavalli con­divide anche la stessa età, così che forse si può pensare a un carattere generazionale al quale i due scrittori stanno dando voce: la polverizzazione delle identità e delle appartenenze (sociali, culturali, politiche, religiose, famigliari) e il tenta­tivo, da parte di chi ne avverte la mancanza, di un difficile restauro, una costruzione ex post, una vera e propria ricerca dell’identità perduta, un bisogno di appartenere:

Oggi che vivo in questo tempo incolto, / cammino insieme a tanti senza parte. / I vecchi sono morti e queste cose / le scrivo senza dover incontrare / il loro sguardo. (La discendenza)

pittura Antonio Ligabue Autoritratto 5

Antonio Ligabue Autoritratto

Da: Guido Cavalli, Nel castagneto (2015)

I lupi tornano sull’Appennino settentrionale.
Piccoli branchi compaiono all’orlo
dei boschi. Scendono lenti tra i campi,
fiutano l’aria dei paesi vuoti.
Sentono che non c’è più odore d’uomini
e allora vengono senza paura.
Girano intorno alle fontane asciutte.
All’aperto dei sagrati si coricano
e immobili nell’ora della sera
somigliano a grigie statue romaniche.

Un uscio vecchio sbatte per due volte.
Un cesto vuoto rotola nell’orto.
Un secchio gocciola sotto la fonte.
Intanto noi dove siamo? Perché
abbiamo preso la sembianza d’ombre
impigliate ai vetri delle finestre,
d’orme nei letti di polvere e cenere?

*

In mezzo all’erba incolta del pometo
frutti maturi che la troppa attesa
ha reso ormai amari. Qui a marcire
ristanno e bruni scioglieranno in terra.

Dalla casa di pietra abbandonata
non viene più nessuno a raccogliere
le mele e sotto il castagno spezzato
il padre e il figlio non siedono più.

Solo un rumore di pioggia echeggia
nell’aria azzurra. Nemmeno le anime
sono rimaste di chi è vissuto qui.

«Sempre recente nasce la natura,
mentre il nostro segno è già trapassato.

Ma se curiosità avessi di cosa
andavamo l’un l’altro conversando
seduti sotto il castagno spezzato,
dimmi, a chi mai potrei domandare?»

Con la notte viene il primo gelo.
Spaccherà la lucida corteccia
del melo, giù fino alla radice.

*

La sera in cima ai borghi di montagna
quando rabbuia, odore di legna
e l’aria si fa scura e sulla pietra
che un tempo stava in fondo al mare appare
dolce il colore del lillà. Intorno
tutto è fermato e sembra presagire
un ritorno a quell’epoca archeana:
già inabissano i vecchi cippi, sparsi
lungo i bordi dei campi incoltivati.
Poi in fondo alla notte della terra
si trasmuteranno in nuovi elementi,
parole rifulgenti come il sale.

*

Piove nel bosco. Rabbuia il cielo.
Tra i rami corre il lamento d’un vento
straniero. Forse è l’autunno che viene?
In alto le foglie bagnate specchiano
ancora l’ultima luce del giorno.
Forse qui intorno o già in fondo al sentiero
presto risuonerà un passo lieve.

*

Oltre l’ultima svolta del sentiero
finalmente appare ciò che precede
ogni attesa – io salivo distratto
per il bosco luminoso di maggio,
e c’era odore di foglie bagnate
e umidore di terre feconde.

pittura Antonio Ligabue Falcone bianco

Antonio Ligabue Falcone bianco

Piccole colonie di betulle bianche
sparse in alto lassù
lungo le dorsali dell’Appennino.
Giovani comunità cresciute
tra le valli mentre intorno
svettano faggeti e abetaie.

Le incontro appena dietro una falsa cima
e m’accorgo d’esserci dentro solo quando
la luce è familiare,
le foglie basse trattengono l’aria
e l’eco di certe confidenze
che avevo dimenticato tornano
alla mente suggerite dai rami.

Fuori, nel bosco dei sempreverdi,
l’occhio resinoso delle cortecce
osserva severo il viandante
seduto a riposare un momento
sotto le betulle bianche.

*

Si mostra di nascosto la natura
e ciò che resta più in alto.

Anche addomesticata la sua forza
e dedotta dal caso la sua grazia,
nella sua voce è un dire ch’è parola –
la incontri nel folto del bosco
se lasci alle spalle
la favola del mondo.

«Perché non sediamo tra i faggi
e gli abeti, io e te l’un l’altro accanto?»

*

Riprendo in mano il libro del filosofo,
il suo colloquio con le parole
camminando per sentieri di montagna.

La pagina si apre e lo sguardo
si alza verso il vero e verso il paesaggio
dov’è ancora visibile la lotta
tra ciò che rimane e ciò che rovina.

«Ma la parola è custode. Ascolta
e ti indica dove guardare».

Finalmente la pioggia viene
sulla terra, sulle foglie e dove
l’autunno distenderà a marcire.

Rincasando in fretta chiudo il libro.
Spegne l’eco del dire e presto la cenere
del detto. Per oggi è conclusa
la scuola del presentire.

*

Così vado attraverso la natura:
senza toccarla, senza trattenerla
seguo il sentiero che porta più in l’alto,
risoluto alla ripida salita
salgo fino alle cime, all’abbandono
del riparo, all’esporsi dell’aperto.

*

Ora qui ci rincontriamo.
Tra le parole, come in un bosco
dove i faggi salgono diritti
e le radure s’aprono cieche
e l’incuria ha cancellato le carraie
che dalle ultime case del paese
vengono su.

«Scrivi, Grisha. Credi alle parole,
che tutto possano compiere, tutto
accada nel loro presente».

Immersa nel folto, questa pagina
sia il luogo convenuto
per il nostro appuntamento.

*

In quella casa accanto alla fontana
passammo insieme un’estate tranquilla.
Le bimbe raccoglievano nei prati
certi rari fiori d’arnica bianca.

Nelle ore più calde scendevamo
nel greto calcinato del torrente.
Oppure in mezzo ai boschi di nocciole
cercavamo ramaglia da intagliare.

Quando veniva la sera, sul colle,
quel paese stretto al suo campanile
bruniva al ridiscendere del sole
oltre il profilo acuto del crinale.

La notte, al sonno poi ci accompagnava
il discorrere prossimo dell’acqua.
Una luna silenziosa svoltava
tra costellazioni ferme e serene.

*

In alto scuotono le foglie secche.
Domani, l’ultimo colpo di vento,
e poseranno altrove,
cose tra le cose.

Intorno, quasi addormentate, battono
parole minerali, antichi salmi
e anche noi ce ne andiamo per la via
mentre già risuonano canti
di radi profeti.

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PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini”

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

 Riprendiamo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”  sempre secondo Gianfranco Contini, perché a nostro avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni e tutte le questioni come linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri.
(n.d.r.)

giorgio linguaglossa

21 dicembre 2015 alle 11:42 Modifica

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Gino Rago

21 dicembre 2015 alle 16:31 Modifica

L’invito alla lettura di Campana fa onore a Pasquale Balestriere e a L’ombra che lo ospita e lo propone. Dalla ricerca incentrata sui Canti Orfici (1914), si avverte in tutto il suo tragico incanto il senso di una sostanziale fusione fra l’artista e l’uomo, fra una vocazione d’arte e la parabola di una esistenza. Così come rumoreggia fra le parole di Pasquale Balestriere la storia d’un singolare “déraciné”, fratello spirituale dei poeti maledetti francesi, amante ed esperto di Wagner, di Masaccio, di Giotto, della grande tradizione plastica toscana, ma con l’occhio, ben educato all’arte, rivolto anche a De Chirico, ai futuristi, ai cubisti.
La precisazione di Giorgio Linguaglossa, estratta dal suo Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, è quanto mai opportuna nel suo carico di verità… Neanche Gianfranco Contini, fra gli altri, comprese la grandiosa scommessa campaniana di sporgersi oltre la musica e la plastica, per giungere in quel luogo misterioso dove suono e visione si fondono per farsi una cosa sola. Sibilla Aleramo, amandolo fino alle soglie della follia, aveva chiara in sé, nel teppismo, nel nomadismo di Dino Campana, la forza d’un uomo disposto a varcare monti e a solcare oceani nel coraggio supremo della fedeltà alla poesia, senza preoccuparsi né del pane né dell’avvenire, ma guardando al fanciullo di Whitman come mito segreto a chiudere i Canti Orfici “…erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo.”
Una pagina indimenticabile. Grazie Pasquale, grazie Giorgio.
Gino Rago

giorgio_caproni

giorgio caproni, foto di Dino Ignani

Pasquale Balestriere

29 dicembre 2015 alle 0:56 Modifica

E pensare, gentile Gino Rago, che Gianfranco Contini, peraltro finissimo lettore e notevolissimo rappresentante in Italia della critica stilistica, ha addirittura etichettato Campana come un poeta “visivo, che è quasi la cosa inversa” rispetto a “veggente” e a “visionario”!
Stupisce constatare come l’acuto Contini non veda con chiarezza (come pur dovrebbe) una cosa elementare, lapalissiana, e cioè che il dato visivo (quando c’è, la qual cosa accade -a dire il vero- piuttosto spesso) non è mai fine a se stesso ma è solo iniziale, propedeutico e funzionale allo sviluppo torrenziale dell’impeto creativo di Campana che si concretizza e trova la sua maturazione nella fase del poeta veggente e/o visionario. Contini, insomma, si ostina a negare l’evidenza di un atto poetico di rara potenza, che trova la sua più evidente realizzazione e conclusione in un deragliamento sensoriale nel quale, quasi miracolosamente, si compongono in meraviglioso concento le percezioni più diverse della vita (spazio, tempo, suoni, colori, forme, rumori, voci…).
E spiace anche che Contini, nella sua visione riduttiva della poesia campaniana, non abbia tenuto conto dei pareri positivi di altri illustri critici, come Boine, De Robertis, Cecchi, Solmi e dello stesso Montale, per non dire di altri, contemporanei e successivi.
Pasquale Balestriere

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

giorgio linguaglossa

29 dicembre 2015 alle 8:27 Modifica

Caro Pasquale Balestriere,
il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi “politici” a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato”La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico” (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà molte novità e approfondimenti. A mio parere la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

L’identificazione di una Linea dominante è un atto critico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il più grande poeta dopo Montale. Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne “La beltà” del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria, avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.

Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

campana_dino1

Dino Campana

Pasquale Balestriere

29 dicembre 2015 alle 13:55 Modifica

Sono sostanzialmente d’accordo con quanto sostieni, caro Giorgio Linguaglossa, soprattutto nella parte finale del tuo intervento. Quello invece che da tutti i critici, ma in particolare da uno del livello di Contini, mi sento di pretendere è la totale onestà intellettuale, messo da parte ogni motivo “politico” o anche qualsiasi teoria precostituita o presunta, finalizzata a raggiungere uno scopo predeterminato. L’atto critico deve essere operazione aperta, senza altro limite che non sia richiesto dalla competenza e dalla serietà dell’indagine.
Pasquale Balestriere.

 

 

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LETIZIA LEONE: DIALOGO TRA ERODIADE E UNA SCHIAVA. PALAZZO DI ERODE. Testi tratti da “Rose e detriti” (fusibilialibri, 2015) con una Nota redazionale sulla situazione politica e sociale della Galilea e della Perea al tempo di Erode Antipa (4 a.C. – 39 d.C.)

salomè re dei re, film 1961

salomè re dei re, film 1961

Nota redazionale sulla situazione politica e sociale della Galilea e della Perea al tempo di Erode Antipa (4 a.C. – 39 d.C.)

Erode Antipa (4 a.C.- 39 d.C.), verso il 27 d.C., aveva conosciuto Erodiade a Roma, dove viveva, e l’aveva convinta a lasciare il marito Erode Filippo (“senza terra”), violando le severe leggi d’Israele (Lv 18,16; 20,21), poiché i due Erode erano figli dello stesso padre Erode il Grande.

Non solo, ma l’Antipa (che aveva ripudiato la prima moglie) era anche zio e cognato di Erodiade, in quanto questa era figlia di Aristobulo, altro fratello dell’Antipa (Erode il Grande aveva avuto sette figli da diverse mogli. Nella sua famiglia tali unioni consanguinee erano frequenti e spesso caratterizzate da eventi delittuosi).

Erode Antipa -dice Marco- aveva fatto “arrestare e incarcerare” Giovanni Battista a causa di Erodiade, nella fortezza del Macheronte, situata non lontano dalla riva orientale del Mar Morto, ai confini della Perea.

Giovanni non stava organizzando una rivolta armata contro Erode. E tuttavia la sua popolarità era troppo grande perché questi non temesse che la contestazione, pur condotta in ambito etico-giuridico, non rischiasse di trasformarsi, nelle mani del popolo, in occasione per ribellarsi al suo potere dispotico.

salomè film king-of-kings-1961

film king-of-kings-1961

Lo storico Flavio Giuseppe lo dice chiaramente: “Attorno a Giovanni si era radunata una moltitudine che si entusiasmava a sentirlo parlare. Erode temeva che una tale forza oratoria potesse suscitare una rivolta, dal momento che la folla pareva disposta a seguire tutti i consigli di quest’uomo. Preferì perciò assicurare la propria persona prima che si dovessero verificare delle sommosse contro di lui, piuttosto che pentirsi troppo tardi per essersi esposto al pericolo, una volta che fosse avvenuta una sedizione. A motivo di questi sospetti di Erode, Giovanni fu spedito a Macheronte”(Antichità giudaiche, XVIII, 118-119).

E’ dunque solo per motivi indirettamente politici che l’Antipa decise di incarcerare il Battista. Marco, con l’espressione “a causa di Erodiade”, preferisce accentuare i motivi “legali” del conflitto, poiché lo scopo del suo vangelo è quello di spoliticizzare la figura di Gesù e le persone che gli ruotano attorno. Non a caso nei Sinottici la vicenda del Battista è stata costruita sulla falsariga di altre due narrazioni: quella accaduta al profeta Elia, anch’egli perseguitato da una regina pagana (cfr 1 Re 19,2; 21,4s; 21,18s.), e quella accaduta allo stesso Gesù Cristo, accusato non dal governatore Pilato, bensì dai sommi sacerdoti.

  1. 18) Giovanni diceva a Erode: “Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello”.

Giovanni non rimproverava a Erode il divorzio né, tanto meno, il suo modo di governare la nazione: semplicemente gli constatava una violazione della legge ebraica.

Ma perché Giovanni s’interessava così tanto alla situazione giuridica del tetrarca? Per quale motivo aveva indirizzato le sue accuse al sovrano, quando fino a quel momento aveva preso di mira solo gli scribi e i farisei? E perché aveva cominciato ad attaccare il potere politico filoromano quando si era sempre limitato ad attaccare quello dei capi religiosi? E perché proprio quello di Erode e non quello, molto più importante, di Pilato? Come poteva sperare che l’Antipa si sentisse indotto ad osservare, lui che era legato agli interessi di Roma, le prescrizioni veterotestamentarie in materia di diritto matrimoniale?

Qui si può pensare che il Battista, probabilmente, si era ormai accorto di aver raggiunto una popolarità tale per cui non poteva più fare a meno d’interessarsi anche della situazione (in questo caso etico-giuridica) del vertice governativo della Perea (il territorio ove il Battista aveva prevalentemente agito).

Oltre a ciò bisogna considerare che dopo la cacciata dei mercanti dal tempio, ad opera di Gesù, molti seguaci del Battista avevano deciso di diventare “nazareni”, per cui il Battista necessitava di recuperare un certo ascendente sulle masse, dal momento che non aveva accettato di collaborare attivamente col Cristo.

roma Tiberio La città prende il nome dall'imperatore Tiberio, quando nell'anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

iberio Tiberiade, La città prende il nome dall’imperatore Tiberio, quando nell’anno 20 circa, Erode Antipa, decise di costruirla in suo onore

E comunque il Battista non cercò -come si suol dire- il “martirio”: se così fosse stato, avrebbe certo usato un linguaggio più diretto ed esplicito. Da ciò che appare nel testo egli sembra essersi limitato a costatare i fatti, mediante una critica “indiretta”, cioè pre-politica, suggerendo un modo “legale” per tornare alla “normalità”. La sua insistenza sembra essere dipesa semplicemente dalla indiscussa autorità che il popolo gli riconosceva.

Tuttavia non bisogna dar troppo peso alla versione dei vangeli. Se Giovanni avesse ottenuto l’obiettivo sperato, la sua popolarità sarebbe diventata assolutamente eccezionale, ed è difficile pensare che Giovanni non potesse prevedere un caso del genere e come avrebbe pensato di gestirlo. Lo stesso Antipa non poteva non pensare che la vittoria avrebbe dato a Giovanni l’occasione per avanzare nuove rivendicazioni, questa volta anche esplicitamente politiche.

Esiste inoltre un’evidente contraddizione nei vangeli circa l’operato di Giovanni. Da un lato egli affermava di non essere degno di “sciogliere il legaccio del sandalo” di Gesù (Gv 1,27); dall’altro invece egli si sentiva degno di “fare le scarpe” all’uomo che gli erodiani volevano far passare come “messia d’Israele”. Da ciò sembra apparire che la deferenza dimostrata da Giovanni nei confronti di Gesù, sia stata volutamente esagerata dalla primitiva comunità cristiana, e che in realtà Giovanni, proprio a partire dalla contestazione a Erode, stesse cominciando a porsi come “messia politico”.

  1. 19) Per questo Erodiade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva,

Erodiade era una donna senza scrupoli: come aveva accettato d’abbandonare il marito “senza terra” per un uomo padrone di una “quarta parte”, così avrebbe fatto di tutto per conservare e, se possibile, aumentare il proprio prestigio di regina. Di qui l’odio nei confronti del Battista anche per motivi “personali”, tanto che – tanto che, dice giustamente Marco – voleva “ucciderlo”, stimando insufficienti i provvedimenti presi da Erode.

In fondo se per Erode il matrimonio costituiva una delle sue numerose nefandezze, e lo scandalo, se non fosse stato per il Battista, non gli sarebbe pesato più di tanto; per Erodiade invece il matrimonio era stato il mezzo migliore per realizzare delle ambizioni e acquisire un potere.

salomè King of kings 1961

King of kings 1961

Erode non aveva bisogno di giustiziare il Battista per restare sul trono e per essere temuto come tetrarca, a meno che la protesta di Giovanni non avesse assunto delle connotazioni politiche vere e proprie. Erodiade invece, se voleva guadagnarsi il formale pubblico rispetto, restando al potere, doveva a tutti i costi far tacere la bocca di quel grande accusatore. Avrebbe forse potuto vivere a rimorchio del marito, fingendo, coperta dall’autorità di lui, una normalità che di fatto non esisteva? Certo, se Giovanni avesse rinunciato a ricordare la violazione compiuta, il peso dell’autorità di Erode col tempo avrebbe costretto il popolo a dare il dovuto onore alla moglie regina, ma chi avrebbe creduto a un ripensamento da parte del legalista Giovanni?

  1. 20) perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.

Secondo la versione romanzata di Marco, Erode aveva un atteggiamento ambiguo nei riguardi di Giovanni: lo ascoltava volentieri, ma non si convinceva; lo temeva, eppure lo aveva incarcerato; sapeva che era “giusto e santo” e tuttavia preferiva vigilare su di lui.

Lo aveva rinchiuso in una prigione lontana molte miglia dalla Galilea, perché, conoscendo la sua grande popolarità, non si sentiva di giustiziarlo subito, e, nel contempo, sospettava che la moglie, con l’inganno, lo volesse fare al suo posto.

Come ogni re di questo mondo, che ostenta di tanto in tanto la propria magnanimità, mostrava rispetto per i profeti, quasi si vantava di averne uno personalmente interessato alla sua condotta morale e di aver rinunciato a sbarazzarsene quando quello cominciò a contestarlo duramente.

L’atteggiamento di Erode descritto da Marco oscilla fra il timore superstizioso, la curiosità intellettuale e la simpatia umana: nel suo comportamento c’è poca strategia politica.

salomè Brigid Bazlen in Salomè in King of kings 1961

Brigid Bazlen in Salomè in King of kings 1961

E’ qui che si ha la netta impressione che questa descrizione voglia ricalcare quella riferita alla passione di Cristo, dove Pilato, che afferma l’innocenza del “re d’Israele” (Gv 19,6b), non è molto diverso da Erode, e dove i sommi sacerdoti, con la loro invidia e gelosia (Mc 15,10), non sono molto diversi da Erodiade.

In realtà la versione di Flavio Giuseppe è molto più attendibile. Erode aveva fatto arrestare Giovanni non tanto per esaudire i desideri di Erodiade, o per proteggerlo dai suoi intrighi, quanto per impedire che la protesta di lui venisse usata da movimenti sociali e politici che mal sopportavano il suo collaborazionismo con Roma e che indubbiamente erano molto più ostili del movimento battista.

  1. 21) Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea.

Era costume orientale che si offrisse un banchetto per il compleanno del re, cui invitare le persone più in vista del regno, benché nell’A.T. sia riportato un solo esempio di questo, quello del Faraone d’Egitto (Gen 40,20).

La festa venne tenuta proprio nella fortezza del Macheronte. Il motivo per cui Erode non avesse scelto Tiberiade va ricercato forse nel fatto che uno sfarzo del genere, in quei momenti di grave crisi sociale, avrebbe potuto provocare risentimenti popolari, ma si può anche pensare che la scelta del luogo fosse finalizzata a un piano particolare.

Ciò che appare strano è l’invito dei maggiori funzionari politici, militari e amministrativi della tetrarchia per celebrare una festa che, tutto sommato, non era così importante. Vien quasi da pensare che Erode volesse in realtà “ufficializzare” il suo matrimonio, risolvendo una volta per tutte la difficile situazione in cui il Battista l’aveva posto. Forse voleva dimostrare che il suo interesse per Erodiade era superiore a qualsiasi divieto giuridico e che, in tal senso, sarebbe stato anche disposto a liberare Giovanni, se tutta la corte l’avesse chiaramente appoggiato contro le rivendicazioni popolari. Era forse un’ipotesi peregrina quella di credere che qualcuno, in seno alla corte, poteva anche approfittare delle critiche al suo matrimonio illegittimo per soddisfare proprie ambizioni di potere?

  1. 22) Entrata la figlia della stessa Erodiade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: “Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò”.

Nell’antichità, durante i banchetti, le danze erano molto in uso, ma vi si prestavano soprattutto le prostitute. Qui, essendo Salomé una principessa, la cosa appare, a dir poco, alquanto insolita.

Se l’episodio è davvero accaduto, la ragazza evidentemente ballò col consenso della madre, anche se di questo Erode non diede mostra di stupirsi; anzi, il fatto che lui abbia saputo subito approfittare delle prestazioni artistiche della giovane, promettendole una cosa che a nessun commensale avrebbe promesso, fa pensare che, in qualche modo, egli non dovesse essere del tutto estraneo alle sorprese che il banchetto avrebbe riservato.

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Salomè, film 1961

Se effettivamente Erode voleva che la sua relazione amorosa fosse sanzionata senza indugi, allora il ballo di Salomé nella sala del convito stava appunto a confermare queste sue intenzioni e la promessa fatta alla ragazza non faceva che rincarare la dose. Egli in sostanza voleva far capire che il suo legame con Erodiade era così solido che avrebbe potuto concedere qualsiasi cosa alla figlia di lei.

Peraltro di Salomé Marco dice che era una “ragazza” (di 13-14 anni?): Erode non poteva temere di farle una promessa spropositata.

  1. 23) E le fece questo giuramento: “Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno”.

Il giuramento di Erode, considerato ch’egli dipendeva da Roma, appare come una vera e propria “spacconata” e, come tale, sembra ricalcare il modello letterario di Est 5,3 e 7,2, in cui un re di Persia (anche in questo caso in un banchetto) rivolse alla regina Ester l’espressione: “Fosse pure la metà del mio regno”.

Qui non si deve pensare, se il giuramento è stato fatto, che Erode volesse far mostra di uno sfrenato autoritarismo, stimando il proprio regno come un qualsiasi oggetto da usare ad libitum. Sarebbe stato assurdo che Erode promettesse a Salomé la metà del suo regno per il solo piacere della danza e proprio davanti a tutti i rappresentanti del suo potere.

Erode può aver fatto quella promessa in stato di semiubriachezza, alla fine della serata, convinto che Salomé non gli avrebbe effettivamente chiesto la metà del suo regno, ma un regalo molto meno impegnativo. Nel caso invece l’avesse preso in parola, Erode avrebbe sempre potuto giustificarsi in vari modi per non rispettare, alla lettera, il giuramento (il primo dei quali era che il regno non apparteneva a lui più di quanto non appartenesse a Roma).

Resta comunque curioso il fatto che Erode abbia voluto confermare la promessa con un esplicito giuramento: evidentemente voleva mostrare assoluta sicurezza in quello che diceva.

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    24) La ragazza uscì e disse alla madre: “Che cosa devo chiedere?”. Quella rispose: “La testa di Giovanni Battista”:

Ci si chiede: Erode era già d’accordo con Erodiade sull’idea di far ballare Salomé e sul finale tragico del banchetto, oppure non aveva considerato l’eventualità che Erodiade potesse approfittare del suo giuramento “pubblico” al di là delle sue aspettative? Detto altrimenti: dietro questo episodio vi è stata una regia o tutto è avvenuto casualmente? Allo stato attuale delle fonti, nessuno è in grado di rispondere a questa domanda.

Facendo il giuramento Erode aveva messo alla prova la fiducia dei commensali nei suoi confronti, poiché se il suo matrimonio fosse fallito, la metà del suo regno sarebbe finita in mani estranee. Erodiade però fa di più: mette alla prova Erode di fronte a tutti. Egli infatti deve dimostrare che, se è veramente disposto a cedere la metà del regno, dev’essere altresì disposto a cedere ogni altra cosa che appartenga al suo regno, inclusa la testa del Battista.

Salomé si rivolge alla madre perché così le era stato detto di fare o perché non voleva rischiare di sprecare questa grande opportunità? Non rifiuta la proposta del patrigno, né si limita a chiedere qualcosa di simbolico e neppure sembra essere convinta dell’effettiva possibilità di chiedere quello che le è stato promesso con giuramento. Di fatto Salomé è nelle mani della madre, che può fare di lei quello che vuole.

  1. 25) Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: “Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista”.

Condividendo la decisione della madre, perché coinvolta indirettamente nello scandalo, Salomé rientrò in fretta nella sala e, con altrettanta solerzia, chiese che la testa del Battista le fosse portata “subito” su un vassoio.

Tutta questa premura sta forse a dimostrare che Erodiade temeva qualche ripensamento, ma può anche far pensare che effettivamente Erode non si aspettasse una richiesta del genere, non foss’altro perché non poteva pensare che l’odio della moglie per il Battista si sarebbe spinto fino al punto da mettere lui in evidente imbarazzo davanti a tutti gli invitati.

  1. 26) Il re divenne triste; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
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Qui i casi sono tre: o Erode era d’accordo con la moglie sin dall’inizio e questa sua tristezza è una finzione; oppure egli pensava di liberare il Battista servendosi del banchetto e dell’approvazione ufficiale dei commensali alle sue nozze con Erodiade; oppure quello che dice Marco è vero: Erode non era d’accordo con la moglie, non aveva intenzione di liberare il Battista e decise di eliminarlo solo perché aveva fatto un giuramento davanti a testimoni di prestigio.

L’unica cosa certa in queste tre ipotesi è la seguente: uccidere il Battista significava aspettarsi dei tumulti popolari, non farlo significava dimostrare di temerli (e questo sarebbe stato sconveniente di fronte ai suoi funzionari di corte).

Se Erode effettivamente temeva dei tumulti e, per tale ragione, non s’era ancora deciso a eliminare il Battista, è semplicemente incredibile che abbia deciso di farlo in un’occasione così frivola e mondana. Di fronte alla richiesta di Salomé il giuramento poteva ancora costituire un obbligo morale? Possibile che il giuramento avesse più importanza come “forma” che non come “sostanza”?

Supponiamo che Erode si fosse servito del banchetto per dimostrare la perfetta intesa matrimoniale con la moglie, il fatto ora di dover uccidere il Battista non doveva forse servire a dimostrare sino in fondo il valore di tale intesa?

Se le cose stanno così, il Battista è stato ucciso per motivi politici, a prescindere dalle circostanze in cui ciò è avvenuto, proprio perché per Erode il suo matrimonio con Erodiade, pur essendo stato dettato da motivi personali e non da interessi di potere, aveva assunto un risvolto chiaramente politico.

Nel testo di Marco invece si ha l’impressione che Erode abbia fatto uccidere il Battista controvoglia, perché, come Pilato, raggirato da persone più astute di lui.

  1. 27) Subito il re mandò una guardia con l’ordine che gli fosse portata la testa.

Per timore che i commensali fossero testimoni di uno spergiuro o di un dissidio in casa reale, circa la sorte del Battista, o di un’ammissione di debolezza, di fronte alla paura di conseguenze politico-sociali, Erode trasforma immediatamente i commensali in testimoni di un delitto.

salomè 1La versione di Marco è poco attendibile. Benché “triste”, Erode non chiese spiegazioni di sorta, non tergiversò, non s’indignò, non rifletté neppure molto sul da farsi: “subito” -dice Marco- inviò la guardia. E tra i commensali nessuna voce di protesta, neppure la più piccola considerazione di opportunità su una decisione così grave.

  1. 28) La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, lo diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre.

Secondo Marco, Erodiade fu la vera artefice della morte del Battista (avvenuta nel 27 d.C.), lei il vero “motore” di tutta la macchinazione: si servì di Salomé prima e degli invitati dopo, per convincere Erode, e di Erode stesso per uccidere Giovanni. Come se i motivi “personali”, di fronte a un caso nazionale come il Battista, potessero prevalere su quelli più strettamente “politici”, per i quali responsabile ultimo della morte del Battista altri non poteva essere che Erode.

  1. 29) I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.

Non ci furono tumulti, non si approfittò della morte del grande profeta per provocare delle ribellioni: Erode aveva forse dato al movimento battista un’importanza che non aveva? S’era forse macchiato di un inutile delitto?

Stando alla versione di Marco sembra proprio di sì. In realtà Giovanni costituiva un pericolo per Erode e la forte insofferenza dei galilei per i governi filoromani non poteva permettergli di rischiare più del necessario.

Resta tuttavia il fatto che il Battista è morto per la sua fedeltà rigorosa alla legge: nel testo di Marco non si nota ch’egli avesse un ideale più alto.

Il vangelo del Battista

Altri testi

Umano e Politico. Biografia demistificata del Cristo
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Salomè Veruschka in Salomè

Veruschka in Salomè

ROSE E DETRITI
Primo Episodio
In una sala del palazzo di Erode. Schiava ed Erodiade.

SCHIAVA

(A parte)

Non riesco a guardarmi intorno.
La luce sembra umida
sulle pareti di questo palazzo.
Luce feroce di un incendio freddo.
O saranno le rose?
Luce che rende chiari e giovani
anche i morti in questa catacomba
in questa festa buia della lussuria.

Baci come piume combuste
da bocca a bocca e lingue calde:
questo è godere. Nulla più.
Qui non c’è niente da vendere
tra schiave: siamo donne mitologiche
figlie dello stupro.
La dignità? È cosa liquida
che si scioglie al primo calore
e il nostro boia tiene il ferro arroventato sempre pronto
basta un niente, basta un cenno,
basta una mezza frase
o la sua voce di cuoio ed io
mi preparo
ad ogni gioco
ad ogni giogo muoio.

Ma questa notte
abbigliata del bello
sono la puttana di fila che accompagna
Erodiade: per lui,
uomo di così debole bellezza
eppure uomo così debole
alla nostra bellezza.

E poi ad un imperatore
ci si deve immolare senza spine
augurandogli buon divertimento
fiere del nostro strazio.

ERODIADE

Schiava, dove sei?

SCHIAVA

Sono qui, mia Regina, in attesa di esser comandata.

ERODIADE

Vieni, accompagnami:
una donna di veli e una di stracci.
Le torce ardono
in queste camere di roccia
per l’apparizione dei fiori agonici…
Ma questi sono fiori fantasmi.

SCHIAVA

(A parte)
Quando lei chiede,
in queste strane tenebre di meraviglia
devo iniziare a vegliare
intrecciare danze
ballare
ballare leggera
tirare diagonali nell’aria immortale
tra cumuli di occhi narici mani.

ERODIADE

Vedi,
la fortezza del piacere
è abitata da rose robuste
è abitata dal profumo dolciastro
di fiori rubati ai cimiteri
e se adesso dobbiamo festeggiare
che almeno la morte ci assista con la sua ultima portata
su un vassoio di sangue
questa testa annegata
del profeta dilaniato
decapitato.

SCHIAVA

Ho paura, mia Signora: troppi spettri,
ma le starò al fianco, la seguirò in punta di piedi.

ERODIADE

Come? Che dici? Spettri?
Si, forse hai ragione: l’aria pensa
qua dentro.
Questi petali cominciano dagli orli
a piagarsi, il rosso sgargiante si smorza
nel cinabro
e un nastro nero li raccoglie: sarebbe così facile
agguantare i mazzi e gettarli fuori
dalle finestre blindate di questo palazzo, pulire l’aria
ma l’odore mi stringe la gola.

SCHIAVA

Si, tetre queste rose, regina Erodiade
come tributi di sangue,
poco sangue vibrante regalato alla sete
di una febbre acida e segreta.

ERODIADE

Andiamo.
Passare da una stanza all’altra
è aver già attraversato metà del nostro
regno, seguimi tra le sale e le scale
immerse in questo odore crudo:
sai, i petali sudano altra rugiada la notte
e mandano voci

la voce di uno che grida nel deserto,
la senti? Di uno che scrive nel deserto.
Poeta e profeta insieme, quasi a un crocevia.

Ma è quest’aria irritata di umori
che risucchia i morti da chissà dove
e li fa ancora parlare
Elia…Orfeo, con la testa mozzata sotto il braccio
galleggiano nel mio occhio.

Seguimi, corri, entriamo nelle sue stanze
il Tetrarca è il gigante con l’occhio grande
vede poco e divora
aiutami con la sua voglia ora, bella signora.

(Entrano nella sala della festa.
Erode, Erodiade,Schiava, musica, soldati e ancelle…)

SCHIAVA
(A parte)

Già mi tiene,
non sono ancora entrata nella sala del banchetto
che si è avventato addosso
col fiato vinoso e amaro, mi ha stretto
mi ha promesso qualcosa all’orecchio
avrei preferito lo spettro dal capo mozzo
tutto l’orrore della sua apparizione.
Ma forse è colpa di questi fiori radianti
che mi serrano le narici
e poi lentamente cominciano a far patire a tutta la carne
la loro nausea
mentre mani callose mi sollevano da terra.
Il mio piacere di prostituta è solo nelle dita
che lisciano velluti o magari
qualche leccata di animale sul collo
per il resto, fastidio
se non dolore.

ERODIADE
(A parte guardando Erode ubriaco)

Mi ha fatto chiamare,
perché?
É forse annoiato dalla musica, dal vino, dalle danze?
Non ne avrà per molto
manca poco all’alba.
Non è soddisfatto,
non è sazio del sangue
versato sulle nostre vittorie?
E poi questo spettacolo della testa
si annuncia già nella puzza.
Guardatelo come canta:
L’abbiamo messa al centro e poi giochiamo al girotondo,
♪ giro, giro, tondo, tondo…♪
♪..ora cantate anche voi donne belle di tutto il mondo..

Basta, rivoglio la mia schiava!
Rivoglio queste mie donne
dalle mammelle straziate,
bottino di guerra che mi fu destinato
e che mi è stato strappato.
Spente tutte le voglie
ormai non è più tempo di canti
ma di veglie.

No, risponde ed urla, mi chiama
E r o d i a d e,
mi insulta
vecchia troia,
dov’è, dice, la gracile Salomè?
Da mille foglie affogate nel vino
ha distillato fino all’ultima goccia il piacere e ora parla così!

Riprenditi questa schiava,
Dov’è Salomè…che balli lei per me.
Dov’è tua figlia?
Mia figlia per te?

(Andando verso le donne e gli uomini ubriachi)

Mia ancella, liberati da questi abbracci
torna al mio fianco.

SCHIAVA

Obbedisco mia regina,
via da qui,
da questi volti impenetrabili
da questi corpi di muschio e cicatrici.
I maschi
con le coperte di pelo si avvicinano
dapprima con sguardi festanti, ma subito
un impeto li divora…

ERODIADE

È il ruggito di una fame eterna tra i denti
il deserto ne ha fatto sciacalli
nello strazio di notti di luna magra
dove avrebbero voluto covare a lungo
una donna.
Questa è la festa dell’espiazione
del loro digiuno,
e voi, mie ancelle, prede mute nell’ombra
con sacchetti di cannella
al collo, qualche perla
sembrate malate di luce.
Lo so, le tenebre sono una piaga
intasano l’aria:
come lana di polvere si possono palpare
nell’ora più avara.

SCHIAVA

Guerrieri notturni e un imperatore
bisogna piegarsi
cedere il fianco al vincitore.
Ma questo padrone ha occhi di brace
ha una lingua oscena.
Dicono sia bello, io non oso
immaginarlo.
Lo vivo attraverso l’odore
attraverso le correnti umide
del suo fiato di uovo:
solo così lo godo.
Tra fetori, candele
gocce bollenti di cera luminosa

letizia leone museo archeologico  di Anzio

letizia leone museo archeologico di Anzio

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Nel 2016 dieci sue poesie sono state pubblicate nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura). Collabora con numerose riviste letterarie e organizza  laboratori di lettura e scrittura poetica.

 

 

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ROSSELLA  CERNIGLIA “Antenore” (Poemetto inedito) con una Nota dell’autrice e una Postilla redazionale

Rossella Cerniglia è nata a Palermo il 14 ottobre 1949, dove vive. Laureata in Filosofia è stata a lungo docente di materia letterarie nei Licei della stessa città. La sua attività letteraria ha inizio con la pubblicazione di Allusioni del Tempo, ed. ASLA – Palermo 1980; seguono Io sono il Negativo (ed. Circolo Pitrè – Palermo 1983; Ypokeimenon, ed. La Centona – Palermo 1991; Oscuro viaggio, ed. Forum/Quinta Generazione – Forlì 1992; Fragmenta, Edizioni del Leone – Venezia 1994; Sehnsucht, ed. Bastogi – Foggia 1995; Il Canto della Notte, ed. Bastogi – Foggia 1997; D’Amore e morte, stampato a Palermo nell’anno 2000; L’inarrivabile meta, ed. Ila Palma – Palermo 2002; Tra luce ed ombra il canto si dispiega (antologia e studio critico comprendente anche i testi di altri quattro autori palermitani, a cura da Ester Monachino), ed. Ila Palma – Palermo 2002; Mentre cadeva il giorno, ed. Piero Manni – Lecce 2003; Aporia (, ed. Piero Manni – Lecce 2006; Penelope e altre poesie, ed. Campanotto – Pasian di Prato 2009. In ultimo, nel giugno del 2013, per l’Editore Guido Miano di Milano, ha pubblicato un’Antologia che propone un breve saggio delle prime dodici sillogi poetiche, con disamina di Enzo Concardi.  Altre opere sono in attesa di pubblicazione. Nel 1999 ha, altresì, pubblicato il romanzo Edonè…edonè. Nel 2007, ancora per l’editore Piero Manni di Lecce, viene stampato il suo secondo romanzo dal titolo Adolescenza infinita e infine, per l’Editore Aletti di Villalba di Guidonia, il libro di racconti Il tessuto dell’anima. È presente con alcune poesie nella Antologia Il rumore delle Parole a cura di Giorgio Linguaglossa EdiLet, Roma, 2015. Collabora ad alcune riviste ed ha ricevuto favorevoli riconoscimenti e attestazioni da parte di numerosi critici e letterati. Suoi versi e profili critici sono presenti in antologie e riviste letterarie, tra cui L’Altro Novecento (vol. II e III) a cura di Vittoriano Esposito edito da Bastogi, 1997; nella rivista Poesia dell’editore Crocetti di Milano; in Poeti scelti per il terzo millennio (2008), in Storia della Letteratura italiana (vol. IV,  (2009)  e in Poeti italiani scelti di livello europeo ( 2012), dell’Editore Guido Miano di Milano.

grecia Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre

Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre

nota redazionale

Nell’Iliade, Antenore viene descritto come un vecchio eminente e saggio troiano che implora i suoi concittadini affinché essi restituiscano Elena al marito, Menelao, per scongiurare il conflitto con gli Achei. Tale richiesta resterà inascoltata, per il prevalere del partito favorevole alla guerra, riunitosi intorno all’altro consigliere di Priamo, Antimaco.

Antenore sposò Teano, adottando Mimante, il bimbo nato da un precedente matrimonio della moglie, e da lei ebbe poi numerosi figli, tutti maschi, che presero parte alla difesa di Troia: a Coone, il maggiore, seguirono Glauco, Agenore (padre di Echeclo, pure lui guerriero benché ancora giovinetto), Archeloco, Acamante, Eurimaco, Elicaone, Polidamante, Demoleonte, Laodamante,

Laodoco, Anteo, Polibo, EIfidamante, l’ultimogenito. Una versione lo dice padre pure di Lacoonte. Si unì anche ad una schiava, dalla quale ebbe un figlio di nome Pedeo, allevato con affetto da sua moglie legittima. Nei cinquanta giorni di guerra narrati nell’Iliade, Antenore perde sette figli ed il nipoteEcheclo.

Da molti autori classici e medievali Antenore è indicato come un traditore. Ad esempio secondo le versioni di Ellanico, Servio o Ditti Cretese, Antenore tradì i Troiani, consegnando ad Ulisse e Diomede il Palladio, talismano della invincibilità troiana, avendo in cambio salva la vita per sé e la propria famiglia. Dopo la distruzione di Troia, Antenore raggiunse il nord Italia (è infatti considerato il fondatore di Padova e il capostipite dei Veneti). SecondoTito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà dagli Achei grazie al ruolo moderato che avrebbe svolto durante la guerra. Comunque siano andate le cose, egli giunse nel Veneto con la moglie, i figli superstiti e alcuni alleati dei Troiani (i Meoni di Mestle e i aflagoni rimasti senza guida dopo la morte del loro comandante Pilemene), e fondò Antenorea, denominata in seguito Padova, dove poi morì. Qui sorgerebbe anche la sua tomba.

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TRIPODE raffigurante Apollo

Nota  dell’ Autrice

Con l’accumulo degli anni, visioni nuove vengono ad instaurarsi, inediti assetti si determinano quali aggiustamenti che tentino una nostra ricollocazione nel mondo, in un equilibrio che consenta una qualche stabilità al nostro essere, un’integrazione, insomma, che ci consenta ancora la vita.

I fulgori della giovinezza sono ormai lontani, gli ardori acquietati, la vita è rimasta fuori di noi come un fiume che dispiega le sue acque tranquille sulla nostra contemplazione. Tutto è remoto, non restano che quiete e nostalgie. Non restano se non i fantasmi che un tempo bruciarono l’anima, le sirene che incantarono i nostri sensi, i miti cui si ancorava il nostro destino per non sfaldarsi e non precipitare. La loro eco dura nell’anima, resiste in una calma incontrastata, diviene leggendaria visione, diafana forma che fu un tempo di viva fiamma, desiderio caustico e inestinguibile, resiste a testimoniare le effigi di un lontano passato, la ricerca vana, inesauribile di sconfinamento e perfezione, l’idea e il sogno di una bellezza che viva incontrastata e di un amore come sublimazione e inarrivabile conquista dell’Unità negata.

È l’orizzonte cui rimandano i versi del poemetto Antenore, nella rappresentazione di un eros come infinita tensione, irraggiungibile totale appagamento in uno sconfinato protendersi del desiderio. E giovinezza e bellezza ne sono sostanziali premesse, quasi sinonimiche necessità. Rivive l’ideale perenne, nostalgico, di un passato che ci appartenne e che ritorna sempre nuovo: la Sehnsucht di una terra lontana, arduamente immaginaria ed eternamente cara alla memoria, il luogo della limpida perfezione e dell’incontaminata purezza.

Le Altre poesie si distaccano da questo quadro di quasi rasserenante idillio e di acquietato anelito. Quelle della prima sezione sono l’esito di una disincantata visione del reale, le rimanenti sono, in gran parte, accensioni di un dolore dalla pregnanza cosmica.

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Rossella Cerniglia                                       

  Antenore

Io, Antenore, che fui giglio d’ Oriente,
fulgido di bellezza come un dio, ambra la pelle,
ebbro del nettare e sazio dell’ambrosia degli immortali.
Mortale carne in vellutato corpo, per uomini
che in nulla cedevano all’Olimpo.
Antenore, grandi occhi fanciulli, lo sguardo
remissivo, tumide le labbra per i baci nati
nel cuore dell’alcova, quando, spente le luci,
uno solo, il mio dio-signore le riempiva
del miele che addolciva la sua bocca.
Timido fanciullo infatuato dell’amore
( e che l’amore fosse un dio fatto persona )
a te, io vecchio, dedico l’ultimo languente
sguardo, l’ultimo invidioso saluto.

Ora rincorro memorie e vane ossessioni,
la mente ne diviene prigioniera.
Sorgeva piena, lì di fronte al mare, la luna.
Noi due, io e te, Palemone, eravamo trepidi,
mano nella mano. Nell’aria un tenue vento
bisbigliava. Parole che non volevano affacciarsi
all’orizzonte dei pensieri, erano calde come la stagione,
come l’affanno che pulsava nei cuori.
Io ero tuo, tua pianta, tuo germoglio, avevo ancora
la voce del fanciullo, la voce di chi ama
più virili accenti e più pregni di vigore.
Una nave levava l’ancora nel porto e viepiù
s’allontanava donando nuovo impulso alla tristezza
e un nuovo ardore che m’induceva a ricercare l’altro,
mio compagno, come avessi da rifugiarmi
sotto una protettiva ala. Così il mio cuore
rinasceva nuovo, perennemente innamorato
della forza di quelle forti membra, della suprema
maestà del gesto, del vivido suo nobile profilo
che mi stringeva, come in un pugno, il cuore.
Sentivo che il respiro suo era mio, che l’anima
che s’aggirava prigioniera nei segreti sentieri del venerato
corpo, mi apparteneva con urgenza e lui voleva
donarmela intera perché, bevendola insieme al suo respiro,
insieme stessero, anch’esse avvinte come i corpi.
Un giorno ce ne andammo in riva al fiume.
Lui mi sollevò con gioia nel suo possente abbraccio,
poi si tolse i calzari sulla rena. Rotolava quieta l’onda
sopra l’arenile. Io felice corsi a bagnarmi, mentre,
sdraiato sui ciottoli, lui certo ammirava la mia
giovane vita, le mie gambe più esili, il mio busto
flessuoso, e femmineo quasi, e tutte le mie forme
che cantavano gioventù e bellezza.

Ma poi amai altri uomini, altrettanto vittoriosi
nel mio cuore, il nerbo della loro forza, l’elementare
bellezza altera ed arrogante, quasi che amarli
fosse, per altri, un destino. Così tu, Salomon,
ebreo dal collo taurino e tu, Oreste, possente
come un giovane Eracle… Ma forse no, forse
mi tradisce la memoria, forse a voi solo toccò
la parvenza dell’amore, poiché non amai
che la sicumera dei vostri corpi perfetti,
archetipi d’immaginari gladiatori, reziari
e secutori a lungo bramati nell’ardore.
Vi depredai del piacere che i vostri corpi mi donavano,
con voi dissipai in fretta la lussuria e ogni desiderio.
Pochi anni rimase accanto a voi la mia adorabile ricciuta testolina,
la mia corporatura mingherlina, esile e gioiosa, e il mio
indicibile sorriso che molti baciavano e credevano di possedere
attraverso le mie labbra, e altri, sapendo ciò impossibile,
ne serbarono un indomabile tormento.

Ma ora tutto mi sfugge, talvolta i ricordi
volano dalla mente. Per vivere debbo riacciuffarli,
farli vivere in me come se l’ieri fosse oggi,
finalmente tornato a invadere questa giornata
di buia tristezza, come un sole che splenda,
un attimo, tra nubi, o i cui raggi s’insinuino
nella tenebra, ben più profonda, d’un vecchio pozzo.
Con fatica ricordo brevi fatti, eppure, ne son certo,
che segni ne lasciarono sul mio corpo come nella mia mente
e nella mia, a lungo, vergine anima. Mutarono il sorriso
e, lentamente, la mia gioia in tristezza.
Ora, tra tutto, mi torna in mente un lungo viaggiare
per terre e per mari, alla ricerca, sempre, d’una felicità
che s’adombra ogni tanto. La felicità che inseguivo
era Eliodoro perduto, andato per mare
dopo uno spasmodico addio, dopo una notte
piena di dolcezza che mai i divini amplessi
possono eguagliare. Io lo amai perdutamente
credendo smarrita la mia vita per un sogno lontano
che mai sarebbe rifiorito. I miei calzari
andarono tra la polvere di sconosciute contrade,
io invocavo il suo nome, evocavo i giorni dell’ardore
senza che la stanchezza, a fine giorno, non m’infondesse
(oh, spietata!) un languore dell’anima, struggente.
Eliodoro era ciò che il nome prometteva: un dono del sole;
caldo vivido sole! Per sempre amai la sua luce,
la sua ardente fiamma ormai lontana.

Rossella Cerniglia

Rossella Cerniglia

Poi fu il tempo degli occhi di cielo… (Quando la tempesta
fu passata, quando Eliodoro fu, in qualche modo,
relegato nel compianto paese della nostalgia ).
Allora venne, con occhi d’azzurro cristallo,
il marinaio macedone, un bronzo brunito,
temprato dall’ardore di una fiamma che era del desiderio.
Un ardito, uno spericolato per mare e per terra
(quando giungeva l’ora dell’amore ).
I suoi splendidi occhi erano il cielo e il mare,
un mare di un azzurro cristallino come ci appare,
in un giorno di sole, il nostro Egeo.
Io non potevo, attratto come sempre fui, dalla bellezza
sensuale di forme e di colori, non amare
quello straordinario sguardo che mi rimescolava
il sangue nelle vene e nel cuore.

Una notte, da Cipro a Tiro veleggiammo baldanzosi.
Era una notte tiepida e tranquilla; nell’alba, dolcemente
vacillante nei miei occhi, lo vidi che ammainava una vela,
agile ombra ancora tutta nera nel mattino incerto.
Mi destai con voluttà e lieve lieve comparì l’aurora
che prese a stendere sul cielo e sulle acque
tenui veli di rosa. Abbracciati, in quella eterea parentesi
di cielo ed acqua, mirammo quanta bellezza
ci destinava l’ora, e con commossi accenti lui mi disse:
“Godi, fanciullo, quanto i tuoi occhi vedranno
ancora per poco, godi questo raro momento di vita!
Osserva il luogo, deliziati dell’amicale compagnia,
l’inebriante freschezza e la pace di questo sogno
generoso e puro, che finalmente vivi, non scordare,
inebriati, senza alcun pudore, della grazia che viene
dai nostri corpi denudati, giunchi novelli plasmati nell’aurora.
Osserva quanto sublimi siano nel risveglio.”

Da allora quanti giorni e quante notti
ho sospirato i baci e le carezze sul mio corpo,
quelle ruvide e dolci carezze posate, con tocco gentile,
sulla mia pelle infuocata, a lungo così vive e palpitanti
nel sensuale richiamo di un corpo voglioso e affranto…
Ora, come altri momenti felici di un tempo, giacciono
senza un brivido di passione, in un lontano ricordo.

Ecco ciò che fui: un vezzoso amante, da tutti desiderato
e innamorato io stesso del bello che ci sovrasta
e ci confonde e sconvolge l’anima ed il cuore.
Viso di fanciullo dal profilo etereo, dall’incarnato
intatto, immacolato; fulgente come nelle statue
di marmo pario è effigiato l’efebo, un’enigmatica figura
d’ambigua bellezza che vuol significare l’essere,
ma quasi troppo puro per incarnarsi nella vita.
Ed io ero sognato dormiente, ignaro
di quella forza erotica che erompeva dalla mia
noncuranza, da una posa infantile e lasciva a un tempo,
astratta ed insensibile come in un dio
dimentico della sua deità.
Amai e fui amato, rubai amplessi e baci, dilapidai
i piaceri che mi giungevano dai corpi
vinti dall’amore; e anch’io fui depredato
degli stessi piaceri che dà la carne. Ma non solo questo
mi attraeva negli uomini che incontravo;
bensì, talvolta, il frutto d’una mente sagace,
un raffinato sentire, un mistero che non voleva donarsi
e mi tentava con le docili spirali dei sensi,
mi fu fatale. Ho venerato un uomo non più giovane;
fu il mio glorioso amico, visitato dalla fama,
onorato per la sua sapienza e per i versi
che lo incoronavano poeta. Bello per l’alloro
a lui destinato che gli profumava le tempie.
Bello per le visioni e i sogni che ricreava in me.

Ma nel trascorrere degli anni divenne stanco
il mio corpo. I desideri non più mordevano
l’anima ed il cuore, mentre sentivo che la vita
era un lento inabissarsi, un venir giù quietamente
in acque fosche. Ecco, la vita gioiosa è ormai lontana,
vano dolore è rimembrare. Sono così divenuto un vecchio:
non i bei corpi mi allettano adesso, non le turgide carni
di delicate sensuali fragranze, ma ne sento la mancanza tuttavia
nella nostalgia del bello sempre più lontano.
Per questa nostalgia un poco invidio il mio corpo
di allora, le delizie che donava e riceveva.
Ma troppi, troppi anni son passati, mi sono incanutito
ed intristito, né ci sarà, per me, un cantore
della mia fulgida bellezza, uno che mi conobbe allora
e potrà testimoniare quanto felice e breve
fu la mia dolce stagione.

 

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MARIO M. GABRIELE SETTE POESIE da “Ritratto di Signora” (2014) “Cara Juliet”, “Piombo fuso”, “Glossario terapeutico” con un Commento di Giorgio Linguaglossa: La “poetica del vuoto del Dopo il Moderno”, “Poesia e metapoesia”, “Glossario terapeutico” “La morte della poesia”, “La Post-poesia”

foto henri cartier bresson

foto henri cartier bresson Cara Juliet

 Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura”e pubblicato diversi volumi di poesia tra i quali: Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (con prefazione di Domenico Rea (1982); Il giro del lazzaretto (1985); Moviola d’inverno (1992); Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002); Conversazione galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di signora (2014) e L’erba di Stonehenge (Progetto Cultura, 2016) Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Ha curato monografie e saggi sui poeti molisani e contemporanei

E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poeti di Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Interventi critici sulla sua poesia sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier e  L’Ombra delle parole. Cura il blog di poesia italiana e straniera isola dei poeti.blogspot.it

foto donne con altalena

Commento di Giorgio Linguaglossa “La poetica del vuoto del Dopo il Moderno” di Mario M. Gabriele

Credo che nella situazione del Dopo il Moderno alla poesia non rimanga altro da fare che sopravvivere in attesa di tempi migliori. È questo l’assunto di base della poesia di Mario Gabriele, un poeta della periferia, relegato nello sperduto Molise, a Campobasso, lontano dagli echi delle fucine poetiche di Roma e di Milano. In questa condizione, allontanatisi gli echi dello sperimentalismo novecentesco e le ipotesi di mini canoni che, tra l’altro, nel Sud non avrebbero ragione di essere, per Mario Gabriele l’essenziale era ripristinare il contatto con il lettore, ripartire dal correlativo oggettivo di Eliot, ricucire gli strappi inferti alla forma-poesia del secondo Novecento, suturare le ferite con la tintura di iodio, elaborare una «materia» poetica che facesse uso della narrativa e della saggistica per irrobustire il dettato poetico. Il registro stilistico di Ritratto di Signora viene così improntato a una decisa propensione per la metonimia, sostenuto dalla giustapposizione di elementi dissimili o incongrui, di digressioni e di inserti narrativi che offrissero nuove possibilità di significazione per mettere in evidenza ciò che sta oltre la tradizionale parola poetica, lontano dalle associazioni semantiche tradizionali, magari corredata da una fitta interpunzione, di citazioni implicite ed esplicite, di riferimenti toponomastici ed onomastici, corredata da associazioni ed elencazioni coordinate per asindeto e per paratassi, il tutto volto a raffigurare il disagio e lo spaesamento esistenziale del mondo moderno, non solo dell’io, il caos del mondo, mediante correlativi oggettivi e traslati e cablaggi spaesanti.

Sta qui l’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta qui la rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo, che da noi è stata interpretata come una possibilità di scrittura poetica finalmente privata del pentagramma tonale e timbrico della grande tradizione metafisica, come un rompete le righe e un gettate le armi, con una cultura nutrita di scetticismo piccolo-borghese. Una resa alla democrazia parlamentare della forma poetica e del discorso poetico. Mario Gabriele riprende da qui, innalza il tono prosodico mentre che abbassa il lessico.

Sintomatico di tale percorso è l’ultima poesia qui presentata: «Glossario terapeutico», dove è evidente che l’autore ironizza con una abbondanza di citazioni e di rimandi sulla propria materia poetica prendendone le distanze, ironizza sulla desertificazione del linguaggio poetico di oggi, non più in grado di veicolare una lirica che non sia post-lirica, dalla quale viene bandito ogni riferimento ad una presunta «bellezza» e al «poetico». Si ha la sensazione che l’oggetto della riflessione di Gabriele sia «la morte della poesia» e una «poetica del vuoto». In un certo senso, questa è una poesia che medita sulla propria morte annunciata, una metapoesia, una poesia che sta fuori della poesia, che si situa a distanza dalla poesia. Metapoesia sulla metapoesia, dunque, come nella composizione di apertura «Cara Juliet» che rifà il verso a una raccolta di Alfredo Giuliani del 1965, Povera Juliet.

Il titolo della raccolta, anch’esso ironico, Ritratto di Signora (2014), riprende un topos classico, un titolo adottato dalla scrittura narrativa, in ciò perseguendo con la poesia lo stesso tragitto ermeneutico seguito dal romanzo, da quello famoso di Henry James (The portrait of  a Lady) fino al recente  Foto di gruppo con Signora (1971) di Heinrich Böll.

foto donna mascherata

Mario Gabriele da Ritratto di signora (2014)

1
Cara Juliet,
qui dove l’inverno dura più della barba di Santa Claus,
ci siamo arresi al freddo di dicembre
come quei piccoli clochard ai bordi delle vie,
senza bandiere e né futuro;
mi viene da pensare alle notti di Stoccolma,
alle renne venute a cercare gli avanzi di Natale;
tutti abbiamo festeggiato l’anno che passava;
il tempo come uno sparviero
sui pinnacoli di un’America battuta,
l’urlo di Munch
era un passepartout per un inferno alle porte:
le lunghe ore a parlare del punto morto del mondo,
l’anello che non tiene,
sempre in fede obliqua
mi venne uno strano freddo allora,
come una ipotermia
sotto la cupola avvolta dalla neve,
per poi rinascere nei giardini di marzo,
perché i più bei fiori dell’anno
sono i non-ti-scordar-di-me.
2
Il tempo non ha concesso nulla alla Pasqua.
Sciolte le campane
si sono visti soltanto mouse e viperette.

Ho spento il notiziario,
dimenticate le formule dei cartomanti:
je ne veux rien savoir de la vie
e di tutte le tragedie
che s’attorcigliano come veleni
e spade acuminate.

L’ultima volta che ho visto Madame Bernard,
era di sabato e aveva il fascino
di chi sa legare il cuore ai lacci.

Arrugginito dagli anni
il carillon ha smesso di contarci le ore.

Sembrerà un giro di banderuola
ma il passaggio dell’inverno
non è stato indolore.

Rotondetta, tanto da ricordare le donne di Botero,
la Katiuscia di Kiev
ha messo piede nella casa
e nella nostra squilibrata età,
anche se amiamo ancora gli aquiloni
e i kayak per superare il mare.
3
Accendi la TV a vedere se hanno ucciso il gobbo,
ritrovato nel bosco il corpo di Jonny Boy,
il V-Day a Piazza San Giovanni,
la Storia siamo noi,
noi il Nulla, i morti da dimenticare,
se nevica ancora, se continua
nel buio luminoso, l’infantile disastro del mondo,
sbiadito nello specchio il doppio di noi stessi.

La sera ci guardiamo mentre affondano le rughe.

Prova a cercare, con il cordless o con il palmare,
se nel profondo degli spazi
ci sono ancora Nonno God e Mister Prufrock.
4
Per una festa la Caterina si è messa in moto
portando souvenir, il breve filamento delle cose.

Si sente che c’è Aprile, nuovo d’ali e di beccucci.
Qualcuno si siede sul sofà,
guarda i quadri alle pareti,
gusta sorbetti Carte d’or.

Arrivano messaggi, anime,
si scruta la lista degli assenti.

Il tempo stringe, vola la civetta,
qualche filo si spezza,
passa di mano il libro di Ken Follett,
effetti speciali nell’equilibrio della sera,
e fermo immagine con ricordo di famiglia,
non abbiamo innocenza né colpa,
solo il probabile evento del caso,
il breve filamento delle cose.
5
La sera ci colse di sorpresa
mentre batteva ai vetri
la rabbia del mese.

Domani la gazza
supererà di nuovo il muro di cinta
portandosi via i kelloggs al ketchup.

Il panorama non è più quello di prima
e dove c’era il busterbook
ora splende una villa.

Es una casa muy especial, disse Paco,
y valiosa porque la construyeron mis padres
con muchos esfuerzos.
Tiene dos pisos y una buhardilla
en la zona de noche.

Sombra y sueno a volte tornano
a coprire la zona dolore
del nostro passato.

Nel verde che avanza
potrebbero starci anche una chiesa
o una maison con draps,
e serviettes de toilette,
e qualcosa che ancora rimane della nostra vita.
foto donna in stile

6
PIOMBO FUSO

Sono anni, Louisette, che guardi la Senna,
come un uccello il bianco dell’inverno.

Non ti dico, quanta neve è caduta sullo Stelvio!

Nelle cabine c’erano avvisi di keep out,
una guida turistica del Rotary Club,
e un cuore di rossetto
firmato Goethe.

Il gelo ha impaurito i passeri forestieri,
inaciditi i mirtilli nelle cristalliere.

Da nord a sud barometri impazziti,
ghiaccio,
fosforo bianco su Gaza City,
tra artigli di condor sulle carni,
Mater dolorosa,
che facesti rifiorire il biancospino sulla collina.

Gennaio ha riacceso i candelabri
nel concerto dei morti,
tra toni bassi e controfagotti

Non so come tu abbia fatto a recidere le corde,
se il più sottile e amaro della vita
è il ricordo.

A monte e a valle
profumo di tulipani, briefing.

Eppure se ci pensi, capita di morire ogni giorno,
di passare più volte sotto il ponte di Mirabeau!

Ti dico solo che all’improvviso,
finito il piombo fuso su Jabaliya
si sono di nuovo accesi i lampi nella sera,
i fantasmi della Senna.

7
GLOSSARIO TERAPEUTICO

L’acne ha scavato il derma, doctor.
Bisognerà passare all’ablazione,signora,
prima delle devozioni della sera.
Non vi è altra speranza, altra cura
dopo il Differin Gel, e il peeling,
non allergenico, non comedogeno,
con Salicylic Acid e Lactamide Mea.
Bisogna aver pazienza, Madame,
aspettare il Big Ben
stando con monsieur K allo chateau d’Orleans.
Questa è opera di dèmoni e cherubini, di riti Voodoo.
Prima di dormire non segua il Gossip, le lezioni di Baricco,
La solitudine dei numeri primi, le staminali,
le ali dei rondoni, il Catamerone di Sanguineti,
le morti dei poeti ottuagenari.
Ci rallegrano le short stories dei Dream Songs.
Per il septemberfest preghi Dante di non farla incontrare
Farinata degli Uberti; chieda una terzina al lotto.
A Flintstones House, c’è un – tetto bianco a cupola,
muretti di pietra vulcanica, interni freschissimi.
E a Santorini, vi è pure un’ex dimora rurale –
ed un pendio per l’aldilà.
Oh le vocali di Rimbaud: A, come Allegory,
E, come Enjambement, I, come Ipèrbato, O, come Ossimoro,
U, come Underground!
Avevo una volta, mani dolci e cuore gentile,
le azioni Generali finite male nel Mercato Globale,
gli ossi di seppia, le seppioline al sauvignon.

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Patrizia Stefanelli OTTO POESIE da Guardami Rupe Mutevole, 2014 “Della bellezza”, “La carne”, “Il respiro del mondo”, “Lo sguardo”, “Piovono stelle” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

cinema Alain Delon e Monica Vitti

cinema Alain Delon e Monica Vitti

Patrizia Stefanelli nasce il 10 aprile del 1960 a Formia (LT). Vive tra Gaeta e Itri (collina del Campanaro). E’ vice presidente e regista della Associazione Culturale Teatrale Mimesis. Dopo il diploma universitario in scienze infermieristiche, si laurea a pieni voti al  DAMS, presso la facoltà di Lettere e filosofia di Roma Tre, in   regia  teatrale – organizzazione di eventi, con il Prof. Raimondo Guarino, storico del teatro. La sua tesi svolge riflessioni su “Storia del teatro e feste popolari nel sud pontino”. Direttrice Artistica del  Premio Nazionale Mimesis di poesia,  oggi al XIX anno.  Il premio, intende portare la poesia al pubblico e prevede la presentazione degli autori finalisti e vincitori nella cornice del castello di Itri. Direttrice del festival “Parola nel mondo” per la serata di Itri -2015 che ha raccolto la voce di poeti da tutta Italia sul tema della Pace. Promuove e presenta scrittori in recital di poesia e musica. Muove i suoi primi passi poetici sostenuta dal Prof. Renato Filippelli docente di letteratura al S. Orsola di Napoli e  ha ricevuto consensi critici, interviste e articoli su:“ La Repubblica”, “Avvenire”, “Il Messaggero”,“ Il Tempo”, “Rai International” “Latina Oggi” , “L’osservatore romano”.  Per il teatro, ha scritto e rappresentato le commedie: Non scherzare con il morto? (migliore regia,  sceneggiatura e interpretazione – festival FITA); Tre tazze e una zuppiera; Qui si sana?; Cantando il tempo che fu  (tradizioni e canti popolari del Sud Pontino); Il mistero di Don 2012. Inoltre, ha curato la regia del testo: Fra Diavolo, di Nicola Maggiarra. Sue poesie sono presenti in numerose antologie. E’ giudice in diverse giurie letterarie. Nel 2014 Pubblica il libro di poesie Guardami febbraio 2014, Rupe Mutevole; nel 2015, Rosanero con lo stesso editore.

foto Ghada Abdel Razek arab actress

Ghada Abdel Razek arab actress

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Non siamo proprio alla teatralizzazione dell’«io» come avviene nel genere di poesia frequentata nell’occidente dell’epoca della stagnazione, ma in un sotto-genere che elegge il «tu» quale destinatario dei testi-missiva. Patrizia Stefanelli opta per l’esplicita forma dialogica del «tu» e parla con un misterioso lettore «implicito», una specie di «doppio» (?) della propria coscienza, ovvero, con il lettore spettatore. Non c’è dubbio che è una poesia che riscuote il plauso della sfera razionale del lettore senza penalizzare, direi, neanche l’emisfero deputato alla immaginazione, perché è una poesia narrante. Patrizia Stefanelli racconta sempre un evento preciso con risparmio di parole e di elusività, ecco la ragione della incisività del verso lineare di questa poesia, che termina proprio lì dove deve terminare, ma il significato dov’è?, si trova quasi sempre nella parola che segue, nel verso successivo, si nasconde in una omissione, in un implicito, nella elusione, nel non-detto. Di frequente, il lettore viene dunque posto davanti ad un evento non-detto, un inesplicito E quale conclusione si può trarre da questo tipo di poesia?

Non c’è un versante edificante in questa poesia, il lettore non viene disturbato con eccessi enfatici o fàtici. E questo è un punto a vantaggio dell’autrice che mostra una gentilezza di dizione e una icasticità del lessico di accorta fattura. È una poesia di inazione, di impliciti commisti a fraseologie espressionistiche. E l’espressionismo, si sa, è una costante nella poesia del secolo scorso, una costante che ritorna, sintomo di un disagio profondo. Poesia come esercizio spirituale:

L’angelo del silenzio

L’angelo del silenzio ha ali stanche
vola nella fragilità abbandonata
della gente che non ha nome
di chi ogni giorno
fa il primo passo:
una preghiera

Alla nudità dell’indifferenza
porge le ali e la muta presenza
che pure porta, dentro, uno spasimo…

cinema fotogramma

fotogramma film anni Settanta

Se prendiamo ad esempio la composizione base della poesia di Patrizia Stefanelli, ci accorgiamo che l’autrice compone come riprendendo il filo di un discorso abbozzato in un pensiero precedente, e così via, il libro si può leggere a ritroso, dall’ultima alla prima composizione e nulla cambierebbe del senso complessivo. La Stefanelli è troppo accorta per forzare le poesie ad un senso complessivo che non c’è, si accontenta di sostare nell’attimità. Si entra subito nel tema dialogico: c’è l’introibo ad un obiectum eisistenziale, per lo più un «negoziato», un «patto» tacito, un sortilegio; si rinviene la tematica della inadeguatezza delle parole a rappresentare il «vuoto» dell’esistenza.

Non riesco a scrivere, nulla,
niente che valga la pena di essere letto.
Scrivo di niente allora, vuote parole che non sono parole.
Muto pensiero non m’abbandoni
non cedi, non molli la presa.
Lasciami dire.
Ahi, l’oppio delle parole non basta
ché non sono parole queste.
sono lettere, segni che scorrono e non hanno voce.
L’incipit non regge non traborda sensazioni
chiaramente non dispone.
Forse, ancora, la curva del sole trattiene,
imprime parole sciogliendo la cera…
parole… come stravaganza di tempo.

C’è una componente «sacrale» in questa procedura, un «sacro» nutrito di stato laicale. «Non si dà vera vita nella falsa» scriveva Adorno in tempi non sospetti in Dialettica dell’illuminismo. La Stefanelli lo sa ma non può fare a meno di stilare versi dove protagonisti sono l’io ed il tu. Nel frattempo, il mondo è diventato integralmente «falso», immagine fasulla dell’io, e l’«io» è nient’altro che un riflesso di questa negatività; anche il «tu» è una immagine riflessa del «falso». Il significato si nasconde nell’assenza più che nella presenza. Direi che in questo genere di poesia è prioritario l’atto della investigazione. La poesia si costruisce come descrizione e interpretazione del non-detto, del non-accaduto. Il momento dell’analisi precede appena d’un soffio il momento della deduzione; l’analisi è, insieme, retrospezione e prospezione, osservazione del dettaglio e visione dell’insieme, visione panoramica dell’io e del tu. Di qui l’abbondanza di particolari di luogo che sono una spia delle problematiche relazioni che si organizzano intorno al «soggetto», che costituisce il principale punto di riferimento, il semaforo «significazionista» e relazionale della poesia della Stefanelli.

Ai miei figli

I miei figli sono le mie ali ogni tanto
nel mio piccolo mondo la mia storia migliore
il fiato più dolce al mio tacito parlare
li ho cresciuti con perle di miglio
con il nettare più puro della mia casa d’ape
e ho portato sulle braccia il loro profumo
quale dono più grande o mio Signore.

.
Piovono stelle

La maglietta sul letto.

Gli occhi chiusi spengono la luce
si piegano le ginocchia e si seggono.

È sera. L’ombra, la mia, ha salito scale
ha lasciato un piccolo segno
distratto dal volto da passi, veloci,
di chi gira in fretta l’angolo buio del vicolo stretto,
quello di un gioco.

Lo specchio mi riporta bella nella sua magia,
appena profumata la pelle,
il profilo controluce non nasconde il desiderio.

Piovono stelle, meraviglie, me ne accorgo,
gli occhi chiusi tracciano comete,
una coda di luce, tra le tende socchiuse.

Lo sguardo

Qua, dove l’albero innesta i suoi rami
a dita che al cielo versano capelli
che vento scompiglia a carezze delicate
siede Dafne leggera e scrive: ai suoi bei fiori
bianchi, rosei o gialli
ai profumi d’estate che da Penèo
sono effluvio alla terra che li accoglie.

Siede, nascosta allo sguardo di Apollo
che pure tra i rami assapora
e cinge i suoi capelli, fino a farsi corona.

patrizia stefanelli

patrizia stefanelli

Il respiro del mondo

Ancora una volta
quest’albero che guarda la mia finestra
ha lasciato alla terra le sue foglie.
Tra i rami gialli
vivono e muoiono, in questo giorno,
gli occhi, cresciuti sul tronco.

Non so, quanti mattini li hanno guardati
e non so perché ho fatto la metà delle cose che ho fatto.

So, che ogni giorno ho seguito un fiato,
il respiro del mondo
che alita sulla mia fronte e porta il pensiero
a chi non è più in questo mondo…
semmai, ce ne fosse un altro.

E mi segno la fronte mentendo, sapendo di mentire,
immersa nella natura, la mia, che trova
fuoco sulla neve d’inverno
e calore in acqua gelida.

.
La carne

Disfarsi dentro, ebbra di vita eppure morta,
al tempo stesso.

Lento incedere di me in me, attraverso
la bocca, gli occhi, il verso, la messe dei giorni
balordi e gelati, nella terra degli specchi
distorti e liquefatti.

Ho divorato la mia carne in fondo al pozzo
quale padre con i suoi figli.
Che sia dannato in eterno
senza discolpa.

.
Oltre la soglia

Non parlare d’amore
nel vacuo porgersi delle cose del mondo
l’inno al tempo vissuto depone corone
e lascia profumi speziati d’ambra e limoni
ad un sole rinsecchito.
Perle invernali di ghiaccio lambiscono
inutili ferite
cadendo distrattamente
da un improbabile bocciòlo di roselline d’autunno.
Niente stagione, niente tempo di rose, niente brillare
oltre la soglia
mattini distratti saranno la meta
e sere
e silenzi.
Patrizia Stefanelli Guardami

Della bellezza

… ho conosciuto per le vie di Damasco uomini puri;
di Dio, hanno fatto una bandiera che sventola il vento…
Ho conosciuto donne come maddalene
adornare il capo del loro Signore.
Ipocriti senza fede in grado di spargere vigliaccheria
su un NOME , fino a consumarlo nella stoltezza.

La gente di Dio ha la bocca rossa
gli occhi spalancati
le mani a pugno
e la voce che non dice.

Ho visto uomini prostituirsi per un pugno di gloria
e segnarsi la fronte quando passa una puttana.

Ho visto uomini rubare il pane ai propri figli
per sputarlo in un bicchiere
e donne, piegate sulla vita ad imbastire giornate di niente.

Ho visto uomini aizzare le folle
e la follia dilagare in fumo acre.

Ho visto capi di stato sul liminare del mondo
e sangue sparso sulla gente povera.

Fuori dal cerchio non c’è pietà
la casa di Dio è vuota
l’eco risuona i passi del tempo del nulla
e la voce di un uomo che piange.

Soltanto negli occhi dolorosi di un bambino
ho potuto vedere la bellezza
dove per un attimo la mia si è specchiata.

La sua vita nelle mie mani disposte a croce.

.
Avrò

Sto rannicchiata in fondo… in fondo non importa…
in fondo al pozzo dei desideri; troverò perfetta la lampada.
L’ho nascosta mille notti fa,
al fiato del tempo che inganna,
alla grazia delle fate d’agosto,
al mantice scarlatto di un vecchio focolare.

Avrò occhi nuovi, e la mano sinistra piena d’allegria,
mentre la destra, a pugno chiuso, stringerà le gocce…
che non ho potuto lasciare.
Le spargerò sul mare, in una notte ancora
e attenderò le stelle e sarò con te,
nei tuoi mille volti di dolore, nel tuo grido d’amore,
nella piccola coda della tua luce, anima mia.

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Tomaso Kemeny brani scelti da “Incontri con la prosa e la poesia” “Incontro con il linguaggio”, “Incontro con Dio”, “Incontro con Prometeo”, “Incontro con Scimmie”, “Incontro con la Donna Barbuta e il Califfo”, “L’incontro con “Morte”, “Incontro con il caos” – Edizioni del Verri, 2014 pp. 163 € 12 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 

pittura Jean Metzinger

J. Metzinger

 

Tomaso Kemeny (Budapest, 1938), professore ordinario di letteratura inglese all’Università di Pavia, ha pubblicato dieci libri di poesia tra cui Il libro dell’angelo (Guanda,1991), La Transilvania liberata (Effigie, 2005) e Poemetto gastronomico e altri nutrimenti (Jaca Book, 2012), Una scintilla d’oro a Castiglione Olona e altre poesie (1014). Traduttore di Byron, Jozsef Attila e Ch.Marlowe, ha ideato numerose “azioni poetiche” e ha scritto il testo drammatico La conquista della scena e del mondo (1996). Con il filosofo Fulvio Papi ha pubblicato un libro di poetica Dialogo sulla poesia (Ibis,1996) e ha scritto un romanzo Don Giovanni innamorato (ES,1993). E’ uno dei fondatori del movimento internazionale mitomodernista e della Casa della Poesia di Milano. Come anglista ha pubblicato libri,saggi e articoli sull’opera di Coleridge, Shelley, Carroll, Dylan Thomas, Pound e James Joyce.

pittura Jean Metzinger, Anachronisme, c. 1927

J. Metzinger Anacronismo, 1927

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Come si può notare dagli stralci del volume che presentiamo, si tratta di un libro singolare nella forma e nel modo di esposizione della narrazione. Ispirazione del libro è il mondo con tutta la sua volubilità e tutte le sue sfumature di oggetti e di personaggi; i colori sono sempre sovraccarichi, i toni della più vasta gamma, dai toni cromatici a quelli metallici a quelli in chiaro scuro; i colori sono sovraesposti ad una luce diretta, la struttura frastica è altalenante, incalzante, con improvvise accelerazioni e improvvisi rallentamenti. Il ritmo a onde lunghe fa emergere e, insieme, sommergere, impressioni, emozioni, ricordi, sussulti, traveggole, ossessioni, oggetti fobici, oggetti del desiderio, relitti libidici, disquisizioni libidiche, personaggi, dettagli colti in un fluire vorticoso e verticale; ogni attante viene usato, inghiottito e, subito dopo, dimenticato, eruttato, espulso, espanso, dura il batticiglio di un attimo, e trapassa nel passato remoto. C’è come un grande inghiottitoio deputato ad ingoiare centurie di parole e di frasari, come un orlo nero, un orizzonte degli eventi che trangugia tutto e tutto riduce il bollori bluastri. Il prosimetro di Kemeny da ebbrezza, non sai mai se punta in verticale o se in orizzontale, se punta in alto o in basso; si ha l’impressione che il poeta tenti di amalgamare elementi e ritmi contraddittori e ingovernabili, intermittenze incerte e provvisorie, reticenze e dichiarazioni ultronee, surrealtà e surrazionalità. Nella sostanza, direi che è un libro narrativo, con una voce narrante fuori campo che opera da direttore d’orchestra, ma è un’orchestra strampalata e stralunata, dove ciascun musicante va per contro suo o sembra seguire il capriccio di un momento o di una emozione, e il verso, che non è più un verso, si dilata e si raccorcia, oppure, si distende sulla misura della narrazione sincopata e forsennata. È un tipo di scrittura che vuole fondere insieme verticalità e orizzontalità, dilatazione e restrizioni, e riesce ad inghiottire anche il lettore, a renderlo partecipe di questo mega universo di parole in ebollizione, un «linguaggio impenetrato», un «sublime panorama lunare», portato al diapason  «finché il dolore diventa insostenibile». Siamo all’interno di un ingranaggio di porte, aperte, chiuse, girevoli, e di scale che salgono e che scendono alla Escher, di segrete e di celle oscure alla Piranesi, in uno spazio eminentemente curvo, curvato da una mano maldestra e maligna di un demiurgo ozioso e infame…

Uno dei rari libri della nostra letteratura davvero espressionista, crudele, disperato, appassionato. Un libro espressionista, dicevo, appunto nella misura in cui nella poesia italiana del Novecento è mancato un movimento espressionista. Ecco la ragione di questo espressionismo diffuso, molecolare in quanto là dove la parola manca o tende a mancare, ecco che un poeta è spinto a ricorrere alla deformazione, all’espressione diretta e immediata. In breve, alla deformazione dell’espressione.

 

Tomaso Kemeny

Tomaso Kemeny

Tomaso Kemeny

Incontro con il linguaggio

   Entro nell’ultima delle sedi terrestri prima che il volo cosmico abbia inizio. Aspirato sopra una foresta di braccia, con il cappello traccio grandi otto nell’aria prima di diventare invisibile agli altri. Da un nembo s’abbassa un lampadario di cristallo a prismi luccicanti mentre il sole viene coperto da un tappeto morbido a larghe bordure.

   Minuscoli corpi celesti a forma di bilia urtano contro la luna anche lei invisibile producendo un armonico tintinnio. Aquile che carezzano in cerchio l’aria tiepida mi fanno perdere la coscienza del terreno; con un gesto che non finisce mai getto nel cielo lontano il linguaggio lardellato di eufemismi e altre incrostazioni retoriche, solo allora mi sfiora il volo di un angelo dalla forma simile a una cassa automatica: mostra la sua manovella aggraziata, una profonda fessura e un quadrante rossastro sul quale appare un cuore sanguinante.

   L’angelo ha occhi verdi, naufraghi, mi sistema un minuscolo cuscino aleggiante sotto entrambi i piedi e poi enuncia un ordine :”Devi eseguire l’incrocio dell’addormentato con salto”. Prendo confidenza con lo spazio che ora mi pare inoffensivo e immateriale; tasto il vuoto, assaporo, fremendo, la traversata ascensionale (Addio, monotonia orizzontale, la linea verticale che sto tracciando non ha misura!).

   E’ giunto il momento giusto per girare la manovella aggraziata dell’angelo: gli astri cominciano a girare; un duro schiocco e si realizza il crollo del linguaggio vincolato al buon senso comune.

   Mi rendo conto che lo scrittore diminuisce a ogni parola che scrive e a ogni parola perduta s’illude di avere superato i confini del cosmo conosciuto . Si inginocchia in un impeccabile saluto ai posteri, ma subito dopo si rende conto di non trovarsi che a quindici metri dal punto di partenza.

   Mi sento prigioniero di questa ascensione senza parole e senza la visione del sublime panorama lunare. Continuo a esercitarmi in volo, con delicatezza e ostinazione finché il dolore diventa insostenibile. Solo allora il linguaggio impenetrato si apre- sollevando sempre più in alto il mio corpo per accogliermi finalmente dentro di sé.

Incontro con Dio

Sono sul marciapiede che marcisce prima del tramonto. Viscide vipere m’impediscono di sopravvivere ulteriormente. Dall’alto scende una carrozza d’oro-volante e mi trasporta in un campo di defunti in attesa di giudizio.

Dopo un’attesa di venti secoli, un angelo inquisitore mi stacca entrambe le braccia con una sega elettrica e nelle spalle m’inserisce ali candide perché io possa volare al di là del tempo. Vertigine.

Entro nella luce divina.

Vorrei fermarmi a risplendere nell’armonia celeste. Ma mi sveglio al vecchio vento che mi trascina là dove c’è un altro futuro.

Incontro con Dio

Prima del tramonto affogo nel tempo
aperto a scandalose
introspezioni: mi sento Principe
dell’Ignoto, artificiere vano,
commediante ipnotizzato
dalle viscide vipere
annidate nelle profondità
per spuntare all’improvviso
in forma di parole
a dire che le cose non possono restare
così, con le porte chiuse per me
dal lieben Gott:
né mi sento destinato
alla deportazione
nel campo dei defunti
in attesa di giudizio.
Nulla di più molesto e irritante
per me dell’Angelo Inquisitore che mi
interroga sul mio pormi
in testa ai condottieri
del piacere. La verità è
che ogni sorriso dell’Amata
m’inonda dello sfolgorio
di un Dio procreatore eterno
della bellezza certa in cielo e in terra.
Amen.
pittura Ernst Ludwig Kirchner, 1911

Incontro con Prometeo

Un urlo, un urlo disperato, un urlo acuto come un chiodo gigante, angosciante attraversa la porta imbottita della mia cella. Forse è uno impazzito a urlare così, è facile perdere la ragione in una cella che ti esclude dal mondo civile, in una prigione che esclude le visite, l’internet, la TV, i giornali. Poi durante la giornata non si ha il diritto di stendersi: dopo le cinque del mattino il letto deve essere alzato contro il muro e ci rimane attaccato fino le nove di sera. Il carcerato in piedi viene sorvegliato meglio.
Il mio regalo di Natale penetra attraverso le assi che accecano la finestra. Scorgo la campagna innevata, grandi alberi candidi illuminati dalla luna piena. Incatenato a un lampo rossastro scaturito dalle viscere gelide della luna all’improvviso appare Prometeo “Giustizia madre mia, soffro da millenni. Insorto contro gli Dei per dare agli uomini il fuoco, la libertà, le arti e la tecnica vedo masse inquiete sulla superficie infetta della terra e mi viene la nausea ad osservare quella umanità resa prigioniera dalla metafisica nefasta di un progresso suicida”.
Ascolto le parole dell’eroe, con la pazienza di un indio. L’acciaio delle manette mi penetra le carni e in certi punti mi fa sanguinare la carne tumefatta.
“Prima di sprofondare nel ventre gelido della luna parlai agli uomini, ma guardandomi non mi videro, ascoltandomi non mi udirono, il mio esempio non ha vita in se stesso, il mio mito non è da studiare nelle scuole, ma deve venire incarnato dagli uomini che desiderano la liberazione della specie, da uomini in rivolta senza compromessi.”
Stringo i pugni. Un lume al soffitto consente ai secondini di vedermi-spiarmi attraverso un minuscolo foro praticato nella porta. Sono diviso da tutti quelli che potrebbero sostenermi nella lotta per la bellezza. È natale anche per i forzati della libertà negata, tradita. Vola una farfalla, nera. Com’è arrivata qui? Non sono più solo. Ma due custodi mi tirano all’indietro il braccio destro, due quello sinistro. Vengo steso a terra, con le mani strette all’altezza delle scapole.
Merda. Eccomi nella nuvola, la cella è divenuta intensamente opaca. Mi precipito, dal centro della titubanza, in un varco sul confine dell’inconscio, vincolato alle sbarre dell’ingiustizia globalizzata.

Incontro con Prometeo

“Merda! Prigioniero di una cella di ghiaccio
pur lontano dalla morte qui si muore
qui l’insondabile inseguimento della luce
si travasa in inadempiuta liberazione.
Sprofondato nel ventre gelido di un carcere
il mio nome, Prometeo, è inciso nel ghiaccio,
a un lampo prolungato incatenato
la mi carne si dissolve in uno stormo
di farfalle nere in grado di attraversare
emozioni intersiderali , ma incapaci
di attraversare le mura del carcere di ghiaccio
ove lontano dalla morte si muore
in una notte chiomata
più alta di ogni luna
ove la differenza tra morte e vita
in ogni momento viene carbonizzata.”

Incontro con scimmie

Rimonto in sella e pedalo furiosamente.
Abbandono la bici sul prato in pendenza e di corsa giro intorno al portico. Le scimmie danno un party, i loro genitori essendo via.
Hanno appeso lumi dappertutto e hanno smontato il tavolo del soggiorno per dare spazio alle danze.
Una Gorillina di collina, sbadatuccia, rovescia un vasetto di begonie sul pianoforte.
Un Gorillone metropolitano, con un panciotto fantasia, per non essere da meno, spegne uno spinello in un piatto di porcellana cinese.
Vivaci le percussioni del complesso Simias Coalas dal muso schiacciato e dalla vezzosa coda terminante in un ciuffo rosa.
La Scimp con decolletage pelosa mi trascina alle danze quando la luce va via. La musica ci avvolge in spirali lamentose, poi cessa di colpo.
“È un blackout?” chiedono voci.
Liane ci avvolgono e ci legano alla foresta vergine. “Jamus tatane dans le dodo!” mi sussurra la Scimp. Divento leggero tra le terzine della Divina Commedia tradotte in scimpanzese.

Incontro con Scimmie

Nel 1952 scrissi:
“Siamo scimmie
con disperazione aggrappate
al ramo della vita…
io umile non sarò
di attendere di cadere senza forze
ma unica libertà,
lascerò la presa,
allargherò le braccia,
angelo dal volto d’animale
e il volo
avrà il colore
della mia ebbrezza”…
ma eccomi a pedalare furiosamente
nel fumo dei rami incendiati nel 2014
verso un party di scimmie adolescenti
i genitori si sono perduti nella giungla
la casa è libera. Una scim., Cimpy
dalla vezzosa coda
mi trascina a ballare al buio
ai ritmi del complesso Coas-Scimm
il ritmo ci avvolge in spirali
di oscenità prescolare.
Tremano le fronde nella foresta di lacrime
brulicante di sguardi di giaguaro
mentre le liane ci stringono
in endecasillabi danteschi tradotti
in scimpanzese e la coda di Cimpy
lacera il chiaro di luna
mentre cozzano gli astri in brindisi celeste
“Alla salute di voi scimmie,
viviate felici finché gli alberi
non scodellino le loro foglie avvizzite
sui vostri genitali in fiore!”
Balliamo finché il buio si ritira
poco
a
poco

pittura mimmo paladino 1

Mimmo Paladino

Incontro con la Donna Barbuta e il Califfo

La gonnella audacemente corta a mostrare un lembo del torrente tracima l’epidemia nel talamo del Califfo. La gonnella è portata con disinvoltura da una passeggiatrice barbuta dallo sguardo vitreo sotto un cappello di paglia. Tutta la sua vita è stata una lotta per non essere in regola. Tutto ciò che le bolle in mente viene a galla. Talvolta a parole, talvolta in gas. Gas di fogna. Gas di fogna simile all’afflato divino che sale dal cadavere puzzolente dell’Idea.
Il Califfo si contorce, si sente in un mondo dove non c’è posto per muoversi. Si sente in una prigione viscerale. Sogna la resurrezione del suo tubo digerente. Tutto il mondo si riduce a escrescenze difficilmente distinguibili sulla superficie di un cosmico intestino. Tenie frugano nel taschino del panciotto del Califfo per trovare la sua anima. Invano.
Gli dico “Caro Califfo, la Donna Barbuta, un esempio impressionante di umana miseria abbattutasi su una infelice di ottima famiglia, è venuta per cucinarti un pranzo memorabile.”
Come un rottame di naufragio il Califfo in pigiama si alza per sperimentare il risveglio della sua anima e per nutrirla come una spugna che si imbeve di luce eterna. Osserva con orrore la Donna Barbuta in minigonna che mescola una sbobba di pan bagnato con carne di cavallo macinato sottile. In cambio il Califfo le inserisce zoccoli ferrati nell’utero per cavalcarla meglio e conchiglie vuote tra i seni a pera.
Di colpo la Donna Barbuta si veste da Idolo Giavanese. In mano tiene un teschio dalle cui orbite cave esce il gemito di un vento che fa gelare il sangue nelle vene del Califfo, che, ondeggiando, viene verso di me e con uno spruzzatore mi schizza addosso una nuvola di parole di accesso all’inferno. Noto che i suoi capelli brulicano di minuscoli topi.

L’incontro con la Donna Barbuta e il Califfo

In ogni caso l’immagine
delle cupole dei seni
della Donna Barbuta
non lascia presagire
nulla di buono!
Il languore innalza in pietra
il sembiante di questa passeggiatrice irsuta
su un letto di marmo stesa
in pieno abbandono e in attesa
di un amadore ignoto.
Cavità sonore nel marmo
ove il giorno gioca
a evocare la Donna Barbuta
mentre si muta in Idolo Giavanese.
E il mondo intero
stende le sue membra annose
sul talamo del Califfo erto
ad incrociare in pigiama la sua anima
evasa dalla prigione viscerale
a riscattarsi dall’intestino cosmico
(intestino al servizio del divino cannibalismo)
pronto a digerire
la provocante maturità
della sua preferita
dalla vita sottile tanto
da fare risaltare i suoi seni-
anima evasa anche
per riuscire a risorgere dai borbottii
del tubo digerente trascendentale.
Dallo sguardo vitreo della passeggiatrice,
dalla Donna Barbuta sale
un gas da fogna
simile all’afflato dello Spirito Santo
e analogo al fetore
emanato dai cadaveri delle Idee.
Il Califfo si contorce,
dalle sue orbite cave
spira un gemito di vento
a fare gelare il sangue
nelle vene dell’irsuta
proprio quando sta per sentire
il pene di lui vagare
tra le pieghe della sua minigonna
facendole scorrazzare minuscoli
topi nei capelli e facendoli emergere dalla vagina:
tutto viene a galla
in questa età di prodigi,
non più idoli piangenti
ma discorsi pubblici e faccende
a forma di sbobba di pan bagnato
e di carni di sauro
macinati fino la fine della tua indifferenza,
caro lettore che hai l’estrema fortuna
di potere contare su un eresiarca come me
nei tuoi meandri mentali e ranghi.
Il Califfo ora solleva
l’orlo della sottanella della Barbuta-
sottanella che come un estivo ombrello
lo insapora d’odor silvano
“Che estate meravigliosa” pensa il despota
“di aure, di ombre raspose, di silenzi
intafanati di selvaggio ardore
al di là di ogni vento che livella!”

moda caffèL’incontro con “Morte”

Ogni critica della condizione umana presagisce la capacità di potere immaginare un ordine esistenziale superiore.
Per pensarci meglio del consueto cammino nel bosco con la neve alta fino alle ginocchia, non è come camminare tra auto parcheggiate in divieto, tra sacchetti di spazzatura, su marciapiedi sporchi di cacca di cane, tra case spalmate da figurazioni che parlano di modeste vite autodistruttive.
In una radura scorgo un palco quadrato, delimitato da un triplice ordine di corde fissate su quattro pali disposti agli angoli. È un ring.
Mi aspetta il Campione Mondiale dei Pesi Massimi, sulla cintura porta la sigla atroce della morte. L’altoparlante mi chiede qual è il mio ultimo desiderio. Tuttavia le cose si mettono in moto. Imperterrita “Morte” comincia alla grande, scaricandomi addosso la sua furia. Mi sento spacciato. Mi fa rabbia che Dio se ne stia soddisfatto nell’alto dei cieli. Per la rabbia trovo la necessaria determinazione per reagire, metto in pratica le mosse giuste…Non mollo un attimo, schivo, attacco allo stesso tempo concentrandomi di coprirmi meglio possibile.
Il sangue scorre in me con la forza di mille indomabili primavere. Si mette a piovere. È tempesta, però, questa. La durata della resistenza fisica conta di più della verità stessa. C’è però un problema: mi ha fratturato il naso, ma voglio continuare anche se so che pensare di essere imbattibile è un clamoroso errore.
“Morte” non sta ad aspettare che mi riprenda, ora tira colpi pesantissimi…ogni volta che mi colpisce in faccia mi sembra di infilare la testa intera in un’enorme presa della corrente. Disperarsi non ha senso. Mi sento forte e coraggioso come non mi sarei mai aspettato di potere essere. Con baldanza mi dissolvo in una vita infinitamente più vasta e bella della vita riservata agli uomini esposti alle comuni difficoltà quotidiane.

Incontro con “Death”

Abbandono la mia città saccheggiata
da Ali Babà e i suoi 40.000 ladroni.
Oltre le montagne di spazzatura
entro nel Bosco Sacro-
avanzo nella neve
fino alla radura
dove sul ring risplende Death,
l’imbattuto Campione degli Extra Strong.
Al primo scontro
la sua furia mi frattura
entrambi i metacarpi e il naso.
E ora non rimane che attivare
“le mosse giuste”:
schivo, attacco, mi copro come posso
attacco, schivo…
so che rimango vivo
solo finché resisto
alla serie dei colpi pesantissimi.
Non mollo, non arretro,
finché non m’inghiotte l’istante tetro
nel quale mi dissolvo
per una vita infinitamente più vasta
riservata a chi combatte con onore
fino all’ultimo round.
Incontro con il caos

Il mio orecchio è addestrato a percepire i soffi ignei del furore, ma si tiene all’erta e sa mettere la sordina all’urlo barbarico dell’essere.
Ascolto il dolore del mondo destinato a non durare e cerco di percepire il principio e origine di tutte le cose.
Ma basta indugiare, raccolgo una conchiglia marina scagliata dal buio dei flutti (“flung out of the obscure dark chaos“). Altri di me più saggi disquisiscano sull’Apocalisse e altro.
Apro le finestre e getto questa cicca in cortile; tra alcune pattumiere la mia sigaretta si spegne sibilando in una larga pozzanghera gialla. Poi cerco i portali d’accesso al mondo sotterraneo, la dove la coppa del Re degli Incubi lampeggia e le onde oniriche s’infrangono sul litorale dei tempi.
Il Re apre il palmo della mano ossuta e sul muscolo adduttore del pollice leggo la parola “caos”.
Dopo avere tentato di frequentare con ostinazione molti di quei generi letterari che possono dare l’illusione di un potere illimitato sulla rappresentazione, scopro in questa parola uno strumento di salvezza, “caos”, uno strumento di ascesi, una terapia. Nel caos si superano le inquietudini per una forma , il terrore del cattivo gusto, le superstizioni di uno stile tendente, alla pur relativa, perfezione.
Quando si ama il linguaggio come l’amo io, sopravviverle è un disonore.

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Annalisa Comes, POESIE SCELTE da Il corpo eterno, con tre fotografie di Vasco Ascolini, Gazebo, Firenze 2015 “Specchio”, “Assenza”, “Abbiamo solo noi stesse” “Marmi” – “C’è una indirezione di luogo, una distopia, una discronia” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Henri Matisse 1939

Henri Matisse 1939

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Con la poesia di Annalisa Comes siamo già oltre i confini del Moderno, in pieno Dopo il Moderno, nell’epoca del modernariato e del vintage e dello stile ultroneo. Il suo stile di poeta è una elegante e sobria forma di manierismo critico, di mimetismo retorico, di positura autoironica e ipocondriaca che oscilla tra gli opposti poli del disimpegno, della parodia, dell’autoironizzazione, e l’esercizio scrittorio e il ludus, il tedio. Nella poesia della Comes siamo già oltre il «corpo», siamo nel «corpo eterno», nel mito tutto moderno dell’eterna giovinezza o dell’eterna insipienza,  e il poeta non è né un dandy, né un eroe romantico né un vincitore e neanche un perdente, ma una persona affetta da labirintite, tormentata da anodine regressioni infantili e crisi di panico, esantemi dell’epidermide e idiosincrasie stilistiche. Ormai in letteratura (romanzo e poesia) la posta in gioco è l’intrattenimento, magari elegante, malizioso, ozioso, nichilistico, manieristico dove il poeta non può più essere neanche un clown o un prete o un predicatore, tantomeno un maestro di cerimonie o un ammaestratore di pappagalli o un istruttore di scimmie, quanto un commercialista delle proprie rendite di posizione e della propria dichiarazione dei redditi. «Forse c’è un aldilà», così inizia, con tono blasé, una poesia della Comes, tra scetticismo e rimpianto, come se si parlasse di moda o di facebook o di shopping. Noi abbiamo a che fare con questo «corpo» ingombrante, un oggetto misterioso che fa quello che lui vuole e non obbedisce più ai comandi dell’io perché «tutti hanno un corpo», a tutti accadono le stesse cose insignificanti, a tutti il «corpo» sfugge, ha le sue strategie di difesa e di offesa, le sue disparizioni, le sue idiosincrasie:

L’impronta sulla poltrona.
Il bicchiere posato sul comodino.
Il libro che stavi leggendo
con il segnalibro rosso
le annotazioni a margine
fermo a pagina 23
il libro di John Fante – Aspetta la Primavera
immobile a pagina 23.

La vita quotidiana sembra fatta di impronte, di copie di copie, di repliche, di surrogati, di involucri e ne riesce normata, normalizzata, edulcorata, ripetibile, prevedibile; le cose stanno al loro posto o, almeno, sembrano, i corpi anche, o, almeno, sembrano. Tutto è così, ma potrebbe essere anche diversamente.

Il vento è già passato fra i capelli.
Il vento continua a passare.
e le foglie vi cadono leggere
e la neve quando c’è,
scivola sulle spalle.
Ma più che scivolare, canta,
frammentando pause e fruscii.

Vi sono iscritti graffi e fessure
Il panneggio si è scurito
Il volto
ha tatuaggi di gocce e licheni.

E quando ti aspetto,
ti aspetto
sotto questi marmi, ora chiarissimi,
la mia posa gli assomiglia.
Come tutta la gente in attesa.

Henri Matisse 1941

Henri Matisse 1941

Non si sa bene se il «corpo» stia qui o stia lì o in altro luogo, se vi sono «iscritti graffi e fessure», e quando «ti aspetto / ti aspetto»; non si sa bene cosa accade, o meglio, forse non accade niente, «come tutta la gente in attesa». È passato anche il tempo di Godot, e adesso non c’è niente, si sta in attesa del nulla. C’è una indirezione di luogo, una distopia, una discronia, si avverte la eco di una labirintite esistenziale e stilistica e sociale, un instabilità, una fluttuazione degli eventi linguistici ed extralinguistici, che accadono, forse, o che possono accadere, come anche non accadere, mentre «Dio guarda incerto / sul da farsi» e noi non sappiamo «se il calcolo è esatto», se ci sarà un prosieguo o si è giunti al termine di «questo dio che illumina, cuce, disfà / l’orlo delle cose». «Guardate com’è facile […] dirsi addio»; «tutto appare ordinato, pulito», c’è anche «il riparatore di orologi». È incredibile come la vibratile e sensibilissima antenna di Annalisa Comes intercetti i minuscoli tremori di lontanissimi bradisismi, la instabilità e la fragilità di un mondo che, a prima vista, appare inalterabile e compatto, ma in realtà è fragile e convulso. «Non, finire, non, durare, / solo rimanere ferma con te all’angolo delle cose»; quasi una preghiera laica affinché le cose non appaiano, cessino, dismettano la loro funzione e finzione di apparire, di essere altro da ciò che esse sono. Continua a leggere

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Giuseppe Conte POESIE SCELTE da “Poesie 1983-2015” Oscar Mondadori pp. 372 € 22 “Il progetto novecentista del poeta ligure”, il “Grande Progetto”, “La fuoriuscita dal Novecento”, “La funziona risarcitoria e salvifica della poesia”, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

mimmo paladino matematica

mimmo paladino matematica

Nato nel 1945 a Imperia, Giuseppe Conte si è laureato nel 1968 all’università statale di Milano. A Milano per Feltrinelli pubblica nel 1972 il saggio La metafora barocca. Ancora a Milano pubblica la sua prima breve raccolta di poesie L’ultimo aprile bianco (Società di poesia, 1979) seguito dalla più ampia raccolta L’Oceano e il Ragazzo (Rizzoli, 1983). Insegnante di lettere in una scuola superiore di Sanremo, Conte si è dedicato sia alla traduzione (da Whitman, Blake, Shelley e Lawrence) sia alla narrativa nella quale dopo l’esordio con Primavera incendiata (Feltrinelli, 1980), pubblica Equinozio d’autunno (Rizzoli). Nel 1988 presso la Biblioteca Universale Rizzoli pubblica la raccolta di poesia Le stagioni. Negli anni Novanta, dopo aver abbandonato l’insegnamento intensifica l’attività in prosa con i romanzi: I giorni della nuvola (Rizzoli, 1990), Fedeli d’amore (ivi, 1993), L’impero e l’incanto (ivi, 1995) Il ragazzo che parla al sole (Longanesi, 1997) e Il terzo ufficiale (ivi, 2002); con i saggi: Il mito giardino (Tema celeste, 1990), Terre del mito (Mondadori, 1991) e Manuale di poesia (Guanda, 1995) contenente riflessioni sul comporre in versi; con le antologie poetiche: La lirica d’Occidente. Dagli inni omerici al Novecento (1990), La poesia del mondo. Lirica d’Occidente e d’Oriente (ivi, 2003). Ha pubblicato le raccolte poetiche: Dialogo del poeta e del messaggero (1992 e Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) entrambe edite da Mondadori, seguite da Nuovi canti (San Marco dei Giustiniani, 2001). Nel 2015 esce il volume Poesie 1983-2015 negli Oscar Mondadori.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

Commento di Giorgio Linguaglossa

Il progetto novecentista della poesia di Giuseppe Conte. Il Grande Progetto

Gli anni che hanno fatto seguito al ’68 hanno visto la poesia con la “p” maiuscola eclissarsi in un fenomeno di massa. Era accaduto che lo sperimentalismo aveva aperto i rubinetti dell’improvvisazione e dell’interludio. La poesia diventa un fenomeno di massa, col risultato che un sempre maggior numero di autori si auto definisce poeta, ci si comporta da poeti, si richiede la dicitura di poeta. E la poesia rinasce come «poesia-confessione», «poesia della contestazione», «poesia dell’opposizione», «poesia visiva» «poesia corporale», come se il sostantivo da solo non bastasse a designare quella cosa misteriosa che si traduce in tanti vestiti linguistici che replicano le mode del momento in base ad una eclettica euforia espressiva, esibizione narcisistica, stilematica postavanguardistica ormai priva dei freni inibitori dello stile. Il Postmoderno fa irruzione nella società di massa, massificando ed omologando anche la poesia, anzi, rompe gli argini della forma-poesia della civiltà letteraria che si stava congedando, quella, tanto per intenderci dei Montale, dei Pasolini, dei Luzi, per dar luogo ad una pseudolirica informe ed abnorme. Anche Pasolini e Montale contribuiscono, indirettamente e contro la loro volontà, a favorire questo processo col non-stile dei loro ultimi libri e l’adozione di un «parlato» pseudo giornalistico. La prima fotografia di questo pubblico di massa che bussa alle porte della poesia è datata 1975 con l’antologia Il pubblico della poesia, nella quale i giovani curatori, Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, inseriscono un gran numero di autori diversissimi per stile e per maturità poetica. Si narra che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni degli autori inseriti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come notò Berardinelli, era visibile una dimidiata coscienza critica degli autori inseriti, ciascuno di essi si credeva poeta per il solo fatto di esserci. Si era in presenza di una democrazia poetica del tutto autoreferenziale. I presupposti, come notò Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

In questo contesto, l’autopromozione diventa una attività a tempo pieno per quegli autori che vogliono differenziarsi dalla massa, ad essi spetta il premio della canonizzazione editoriale, un cronachismo lirico sempre più pervasivo egemonizza la koiné poetica colta. La «poesia privatistica» e l’autoreferenzialità delle pose poetiche di molti autori di punta monopolizzano il gergo poetico che diventa qualcosa di refrattario al senso dei lettori e, soprattutto, diventa un linguaggio corpo separato, un linguaggio per iniziati da profferire durante il rito sacro della rappresentazione orale. I poeti diventano la personificazione di atti di fede, e si comportano anche come tali. Surrogano la un tempo rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, pose, liturgie, conformismi. L’aura perduta del testo viene interpolata e sostituita dal mito dell’Autore. L’Autore diventa il testo.

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È in questo giro di anni che si forma la personalità intellettuale di Giuseppe Conte. La reazione del giovane poeta alla democratizzazione della poesia  è immediata e perentoria: rifiuto della massificazione della poesia e la ferma decisione di riproporre una poesia esoterica, mitica, panica, mitomodernista, innica che saltasse la democrazia lirica del decennio precedente per riagganciarsi alla tradizione del D’Annunzio dell’Alcyone, al Foscolo mitico e neoclassico, insomma alla più alta tradizione poetica italiana. Organizza  numerosi episodi mitomodernisti, tra i quali ricordo il convegno “La nascita delle grazie”, un evento organizzato a Riccione dai poeti Giuseppe Conte, Rosita Copioli, Mario Baudino, Roberto Mussapi, Tomaso Kemeny e da Stefano Zecchi. Il poeta ligure ripristina e persegue una poesia che inglobi in sé il Mito e lo «spirito dell’utopia». Scrive Conte nel Manuale di poesia del 1995: «la scomparsa della poesia dalle società occidentali non testimonia una crisi della poesia quanto una patologia di quelle società stesse». Il Novecento è «un secolo di nulla e di morte» (Lettera, 2000), di qui la sua polemica contro quei critici, come Ferroni, che teorizzavano negli anni Novanta una «poesia postuma», Conte polemizza contro la povertà della poesia, contro la demitizzazione della poesia, scrive che «la poesia non è mai stata postuma» (Poiesis 1997), e rivendica per essa un ruolo di guida, una funzione alta. Le Muse «sono correnti di energia vivente che ci richiamano il brivido sacro da cui tutte le arti nascono, lo scandalo, la persistenza del divino nella nostra mente (…) il poeta incontra le Muse ed ha commercio con loro». (Manuale di poesia)

Il primo libro di Conte, L’oceano e il ragazzo (1983) viene salutato da Calvino e da Citati come un libro di svolta della poesia italiana. Vi si trova tutto quello che caratterizzerà la poesia del poeta maturo: il mito del mare e della gioventù, il mito della natura, della fauna dei boschi, il tema del vento etc:

Ho dimenticato tutto, scrivo
perché dimenticare è un dono: non
desidero più che alberi, alberi, prode
di vento, onde che vanno e tornano, l’eterno
rinascere sterile e muto delle
cose

Mimmo Paladino

Mimmo Paladino

È una novità per la poesia italiana. Il timbro delle parole musicali, la voce antica ed austera, la positura certo non demotica, il tono oracolare-prosodico, tutto ciò viene subito interpretato dai contemporanei quasi come un’offesa alla poesia che si faceva in quegli anni, perpetrata ai danni di un pervasivo sperimentalismo. E poi il giovane poeta non perde occasione per sostenere le proprie tesi, di entrare con decisione nelle discussioni sulla poesia, ovunque se ne dia una occasione. Oggi, con il senno degli anni trascorsi, sopite le polemiche di quegli anni, possiamo tracciare una quadro più ponderato della poesia di Giuseppe Conte. Quella poesia era una novità, ma una novità che guardava al passato, che operava uno strappo e una ricucitura con la tradizione recente. Oserei dire che, paradossalmente, la poesia di Conte diventa oggi riconoscibile per via della sua irriconoscibilità; la sua lirica endecasillabica che apparve negli anni Ottanta una provocazione, in realtà riecheggiava quella della alta tradizione del primo Novecento, Conte gettava a mare tutte le impalcature ideologiche che gli ingombravano il passo e si lanciava, lancia in resta, contro le disordinate retroguardie degli sperimentalisti e degli epigonismi rilanciando una funzione risarcitoria, salvifica della poesia di contro alla cultura della barbarie e dello scetticismo.

Il successo arride da subito alla controproposta di Giuseppe Conte che, in una certa misura, viene incontro ad un bisogno diffusamente sentito di reazione alla invasione del post-sperimentalismo. Inoltre, Conte è anche un abile regista di una guerriglia a tutto campo contro le parole d’ordine ormai consunte degli sperimentalisti. E anche questo è un punto decisivo a suo vantaggio, coopta nella sua battaglia per la Bellezza e il Mito una numerosa schiera di poeti e di letterati e ne diventa l’alfiere e il condottiero. Fin qui la strategia pubblica. Per la poesia il discorso da farsi è più sfumato, quell’endecasillabo sonoro e modulato che il poeta ligure adopera con perizia acustica, è il portato di una tradizione illustre, il prodotto di una tradizione lunghissima che affonda le proprie radici fino alle Rime del Petrarca. Non apre una nuova stagione della poesia italiana, piuttosto la chiude, prosciuga i pozzi della tradizione lirica traducendo quella forma lirica in forma lirico-prosodica. Alla fine, al poeta ligure resterà uno stile inequivocabile, distinguibilissimo, maturo, un endecasillabo articolato, ricco di aggettivi e di sfumature coloristiche e acustiche, che non può, però, più essere sviluppato dall’interno, uno stile che d’ora in avanti si prolungherà, oserei dire, grazie alla propria forza d’inerzia. Infatti, le poesie del primo libro non presentano elementi di distinguibilità rispetto agli inediti di questi ultimi anni posti in calce al volume, segno che non c’è stata una peristalsi interna, non si sono verificati sviluppi in quello stile mirabilmente acquisito.

Il mio gusto personale guarda con interesse e favore alla poesia dei Canti d’Oriente e d’Occidente (1997), in particolare nelle parti in cui il poeta ligure abbandona il suo endecasillabo sonoro per abbracciare una forma prosodica aperta, la forma innica però dimidiata con l’ausilio di un pedale basso, quasi prosastico, con il che fa scaturire attriti tra la frase nominale piana e diretta e l’andamento della forma innica che tende a far lievitare verso l’alto il tonosimbolismo della frase nominale. È il modo personalissimo con il quale Conte whitmaneggia e omereggia, assume la posa e la voce del bardo, gonfia il petto e parla gridando a pieni polmoni. Ecco l’incipit del poema «Oh Omero, oh Whitman”:

Oh Omero, oh Whitman, che cosa celebrare, e come posso io ora celebrare, oh mondo, oh notte!

Come posso alzare questa voce avvilita, come posso riempire le cavità dei miei polmoni rattrappiti

e farne due cieli gonfi di nuvole che volano e di foglie invase e rose dall’autunno

e dire «io sono il poeta, il distruttore, io sono il poeta, colui che salva»

e vedere ancora con quale elastica immobilità gli alberi sono intermediari tra l’azzurro e la terra

e mettere il loro ritmo nella carne e nel sangue di un verso – perché ha sangue e carne un verso –

e sentire le città che si offrono alla poesia come una bocca si offre a mille altre bocche in un bacio

e possedere le strade, le piazze, le automobili, le insegne della pubblicità, i grattacieli, le chiese

i ponti, le strade, le cupole, le colonne, i portici, i tetti, i grandi magazzini, i cinema

essere tutti i passanti, i negri, i cinesi, i maghrebini, gli indiani, i rasta, i vietnamiti, gli slavi

sentire tutto vivente come potrebbe essere se in noi la nostra anima cantasse ancora, oh mondo, oh notte!

E io, l’uomo più arido, più solo, io che non credo, io che conosco le vie della disperazione

e io, l’uomo più arido, più libero, io che non faccio nient’altro che fermare parole su un foglio

come potrò aggiungere le mie parole alla distruzione – perché la poesia è rovine, resti, ormai

Non sono d’accordo con chi, come Giorgio Ficara, nella prefazione al volume, individua nella poesia di Conte «una poetica ostinatamente antinovecentista», anzi, al contrario, direi che la ricerca del poeta ligure si è mossa ordinariamente tutta all’interno del Novecento, con l’accortezza di ritagliarsi un proprio segmento di esso che da D’Annunzio passa per Sbarbaro di Pianissimo al Montale degli Ossi rivisto e corretto tramite un «riduttore» narrativo ospitando il traliccio del racconto mitico, per arrivare ad un neoclassicismo tutto suo. C’è, è innegabile, una continuità novecentista, non vedo l’utilità ermeneutica di doverla negare o dimidiare.  E in questa continuità sta, a mio avviso, la forza e il successo del magistero stilistico di Giuseppe Conte. Indubbiamente, quel progetto stilistico di «uscire dal Novecento» (Poiesis, 1997) caldeggiato in più occasioni dal poeta ligure, rimarrà una nobile aspirazione, quel progetto di sortire fuori dal «conformismo dell’arco costituzionale della poesia italiana» (Poiesis, 1997), è rimasto un progetto incompiuto, e non poteva essere diversamente, in considerazione che la via imboccata e perseguita da Giuseppe Conte era tutta all’interno della poesia novecentesca. Per quel Grande Progetto è mancata la forza e la profondità dello strappo, ma, probabilmente, non poteva e non può un poeta singolo, anche il più grande, operare uno strappo di tale portata. Conte ha tentato una rifondazione del linguaggio poetico, ma i tempi non erano forse maturi per questo progetto. Siamo arrivati ormai ai giorni nostri, e quel Grande Progetto, lucidamente intravisto dal poeta ligure, è rimasto incompiuto ed attende ancora oggi chi possa incaricarsi di doverlo riproporre.                                    

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Parole estranee a sua moglie

Saranno state le due le tre l’altra
mattina quando sono entrato nel letto e ti ho
parlato. Tu dormivi e ho premuto la
mia palpebra contro la tua calda. Volevo
dirti parole che ci sono estranee, quelle
dell’amore che eterna: era tragica
la mia resa: le regole del gioco cadute. Così dietro
le nostre palpebre non gli occhi, le orbite. Le
nostre dita di pietra i nostri fianchi fondali e
laghi i nostri piedi fluiti e ormai viticci
e nidi per le civette. Non saremo più
insieme. Non ne parleremo mai più. Futuri
venti soffieranno sulle nostre finestre dal mare
lontano noi saremo topi meduse
fiori.

Animali etruschi

Entrano nella morte con i capelli
raccolti dietro la nuca, in un sorriso
prosciugato, abbandonati
su un fianco, inclini a scendere
senza ricordi, hanno mani
estranee, cadute; in molti reggono
lo specchio dentro la destra.

entrano dove non si muore più. Traversano
buio e profondità. riaffiorano
sugli orli di un mare smosso da delfini
volanti, da draghi, da quadrighe
di grifoni.

Non fu un «uomo» questo che vedi sgretolato
in foglie, cortecce, calcinacci, intorno
a un teschio. Fu gioia senza nome, leggera,
di pietre, di ali, di sole.

*

Il grifone dal becco d’aquila, dal corpo
smagrito, più di cane che di destriero,
calato sul dorso del cervo tenero
lo divora.

Ha dorso arcuato il cervo, gambe
di canna. Cade eppure non piange. La sua corsa
finisce davanti al silenzio
di un albero – foreste
nascono da un solo albero, avrà acacie
d’oro e mattini per sé ancora.

Il grifone ha occhi vuoti, ali
ferme, randagio ma ormai di pietra;
non odia, non vuole nulla, non sa
perché: uccidere per lui è un sogno
inevitabile.

Che cos’era il mare

Che cos’era il mare? Aveva
code d’acqua e zampe d’acqua tra le
rocce, levigava i ciottoli, faceva
sigle di luce sulla sabbia: era
profondo ma insensibile, si diceva, e
celibe, individuale, sterile.
In onde riottose o calme
maree saliva e discendeva, circondava
le terre, lui lunare, lui freddo, irriducibile
nel suo votarsi al movimento e all’aridità.
Le navi lo solcavano in lunghe scie.
Ora si è persa la memoria delle tempeste
e dei fari, dei velieri e dei transatlantici, dei
naufraghi, dei carichi di porpora e
di carbone, di Tiro, di Londra.
Era profondo ma insensibile, si diceva, dimora
delle conchiglie, delle famiglie dei
pesci, estinte, ora: aveva fondali viscidi, crateri e
alghe, e coralli.
Tagliava i promontori, reggeva le isole.
Giocava, lui muto, sprezzante, inservibile,
felice nei suoi movimenti
vitali.

da L’Oceano e il ragazzo, Rizzoli, Milano, 1983

Giuseppe Conte cop

Riaverti

È così facile riaverti?
ritrovarti anche dopo l’abbandono
dopo che ti ho derisa, che ti ho detto
odiosa, e che imputavo a te la grazia
mancata di ogni carezza e di ogni bacio.
Oh, allora lo volevo essere un daino
solitario nell’alba, che sa puntare
le narici al tepore di calendula
dei primi raggi. E ti scacciavo, come
se tu fossi infedele al mio desiderio
tu che di tutti i desideri sai
la fonte. Ora sei tornata.
Sei nuova e sei con me, vicina,
anima.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

Alle origini

Riaverti così, sentire
in me che tu sei simile
al vento e agli anemoni.
Alle origini. Riaverti
dopo il tempo dell’abbandono
dopo gli oltraggi e l’odio
senza pentimenti, senza perdono.
Sono stato lontano da te
per anni come uno che
vuole essere solo, più
solo di un muro diroccato
più immobile di un sasso
che non lambisce il mare.
Poi abbiamo incominciato a viaggiare.
Dove ci siamo incontrati,
anima? In che piazza di
città, in che prato,
in riva a che torrente?
E ora sei qui, da sempre
simile al vento, ai fiori, ai vulcani.
Alle origini.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

In endecasillabi

A sedici anni, lettore poiché era giusto
allora soltanto di Catullo e di Shakespeare
scrissi per una compagna di liceo
versi come «Nessuna donna mai
fu amata tanto,/ quanto tu sei…»
Dio, non sapevo niente di donne, di amore.
Quella ragazzina bruna, dalle labbra
sporgenti, gli occhi grandi come
due albicocche, ci erano usciti tutti
con lei, fuorché io, il suo cantore.
Io la guardavo, sperduto. Come avrei
voluto abbracciarla, tempestarle
il capo di quel segreto che erano i baci.
Io la guardavo a scuola, per strada,
la domenica alla messa nella Chiesa
detta dai frati. Poi tornavo a casa, aprivo
i libri, Lesbia, Rosalinda, Ofelia
e lei, e i sogni su lei, in endecasillabi.

.
Pallide, cedevoli ragazze inglesi

Da ragazzo, quando mi apparivano
polvere e assurdo il mondo e il mio volto
né alberi né mare mi parlavano.
Non sapevo come chiamare
le agavi torreggianti, il rosso raccolto
in spighe dell’ aloe, non avevo
occhi per loro. Ma leggevo i poeti.
E amavo pallide, cedevoli
ragazze inglesi. Le sognavo nei quieti
e lunghi pomeriggi d’inverno, ricordavo
i baci ricevuti e quelli promessi
e se l’angoscia – quella ineludibile
angoscia d’esser vivi, cui forse è pari
soltanto la gioia in intensità –
se non mi soffocava allora, era per
loro, Mallarmé, Baudelaire,
per la loro musica vera,
e per le pallide, cedevoli ragazze inglesi.

da Dialogo del poeta e del messaggero, “Lo Specchio” Mondadori, 1992

mimmo paladino

mimmo paladino

C’è una dolcezza giù nella vita
IX
C’è una dolcezza giù nella vita
che non cambierei con niente
di ciò che appartiene al cielo.
È quando chissà da che, perché cominciano
fra due bocche estranee sino ad allora
i miracoli tiepidi d’aurora
dei baci.

da “Canti di Yusuf Abdel Nur”, in “Giuseppe Conte, Canti d’Oriente e d’Occidente”, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1997

1

Non finirò di scrivere sul mare.
non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.

e se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.

Inedito da Poesie (1983-2015) Oscar Mondadori 2015

Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino Gezim Hajdari 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro “Delta del tuo fiume” aprile 2015 Bibl Rispoli

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e Three Stills in the Frame Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York. nel 2016 cura l’Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, sempre nello stesso anno pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  – Il suo sito personale è: http://www.giorgiolinguaglossa.com

e-mail: glinguaglossa@gmail.com

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Donato di Stasi “note su La tribù dell’eclisse di Giulia Perroni” (Passigli 2015)   con una selezione di brani poetici dal libro di Giulia Perroni

bello ritratto di donnaIl Poema dello Überall e del Nirgends di Donato di Stasi

Ci sono ancora nella scrittura poetica cose ineffabili che non si possono spiegare, un residuo di mistero, un qualcos’altro che continua imperterrito a mormorare alla coscienza insoddisfatta del poeta, alla verità incompleta della sua ragione. Questo qualcos’altro è il lato metastorico, inesauribile della realtà: presenta un carattere dubbio e anfibolico e non smette di interrogare con il suo mutismo, con i suoi balletti di ombre (la skiagraphia platonica).

La tribù dell’eclisse riguarda per un verso il mondo che non c’è più (la Sicilia favolosa dell’infanzia, l’infanzia storica ottocentesca di quest’Italia tribolata, la passione sociale e l’emancipazione delle donne), per altro verso argomenta del mondo che non c’è ancora (la certezza vivente della trascendenza, la presenza di una sfera intangibile, ma pienamente attingibile dal discorso poetico).

Nello sguardo rivolto al mondo che non c’è più si assiste a un ripetere dei fatti (gli studenti toscani che a Curtatone nella prima guerra d’indipendenza salvarono i piemontesi dall’accerchiamento austriaco, sacrificando le proprie giovani vite), si giunge a constatare verità dolorose (i ricordi familiari, la disfatta del nido, i rimpianti dopo la morte dei genitori), ci si dispone a rispecchiare le proprie ansie e i propri desideri in urto con l’ordinarietà omologante che dilaga in tutti gli strati della società.

Con il ricorso a uno straordinario e innovativo flusso poematico, work in progress  fitto di frammenti e di lacerti di senso, Giulia Perroni inaugura  a suo modo, e di suo pugno, un mondo che non è ancora venuto, stante l’attuale processo storico e il suo decorso temporale, totalmente preda del materialismo più distopico e annichilente, a cui è possibile opporre, salutarmente, l’indicazione di una smagante utopia, definita nei termini di non-luogo e non-tempo, esattamente com’è leggibile nei toni favolistici e mitici dell’incipit, messo lì non a caso:

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

Visione astrale Giuseppe Pedota acrilico su perplex anni Novanta

C’era una Biancaneve che pativa
l’alba non appariva
in verde prato solo i nani compivano
il tormento di essere fatui e bimbi

(…)

Una guerra di lame inconsistenti
come le ombre che conquista il sole

Mia prigione che fa delle magnolie
un indugio di terra

E della donna e del rapporto antico
nella triade impetuosa non si parla (pp. 13-14)

Giulia Perroni forza il linguaggio, tenta di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che l’individuo sembra avere dimenticato, soprattutto nella sfera morale e nella dimensione dell’indicibile. L’impegno etico dell’Autrice risulta così intenso che riversa tutta la tensione nella parola, affinché riacquisti forza espressiva, attraverso un sapido mélange di suoni  e una concreta riabilitazione della struttura essenziale dei significati.

Da pagina 13 a pagina 167 scorre un ininterrotto fiume eracliteo di frammenti oscuri e chiarissimi, descrittivi e riflessivi, narrativi e astratti in senso mallarmeano, storici e atemporali, sociologici e assolutamente intimi, antropologici in senso culturale e biologici in quanto riferiti all’esistenza naturale del mondo e della donna che pronuncia il pronome personale io  e il pronome possessivo mio.

Ciascun frammento produce un duplice scatto intellettivo e volitivo, come se lo spirito fosse tornato ad abitare la casa dell’essere, pur con un diverso modo di incedere, rispetto al suo passato storico, riuscendo infatti a costringere in un’unica torsione esistenziale particolarità  e universalità.

Ciascun frammento fornisce una debita provvista di materiali, una spinta semantica tesa a percorrere i sentieri remoti dell’inconscio che, via via, affiorano in direzione di un racconto epico-archetipico:

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Mnemosyne di Dante Gabriele Rossetti

Eppure in me la vita era bellissima
come una dea da sacrifici umani
implacabile mostro che ghermiva
l’implacabile bimba che sognava

(…)

Conosci la ferita
Essa rimane tanto quanto il mio amore
Il Nirvana dell’albero risuona
si scolora la rabbia si allontana
l’ingrandito ruscello e nella mano
titilla i desideri (p. 15)

La sfera oscura e imprevedibile del sé nascosto viene fatta collidere con la dimensione superficiale delle cose, ne scaturisce un intenso sentimento della vita che spalanca una dimensione verticale e  perpetuamente innalza l’atto poetico al cielo della metafisica.

A una realtà impotente, contraffatta, disperata, Giulia Perroni sostituisce l’istante fatale e decisivo del suo linguaggio che progredisce per frammenti verso la totalità, troppo commovente, troppo esaltante per non essere colta: Überall (ovunque) e Nirgends (novunque, in nessun posto) costituiscono gli estremi confini tra i quali si svolge il viaggio della dickinsoniana Tribù dell’eclisse. Nel corso del tragitto l’istante si radicalizza, si sottrae alla temporalità, per farsi concreto e esistente, per manifestare (una volta vissuto) l’aspirazione inconcussa all’unità, al fondamento, all’assoluto.
Frammenti vicini tra loro, irregolari e asimmetrici (versi ipometri e ipermetri, strofe di diversa lunghezza, distici, terzine, quartine, sestine, ottava rima, ecc.), disegnano un percorso lento e accelerato, fino a che l’ultima parola si spegne in un silenzio gravido di verità.

Frammenti non preordinati, prosainversi mutevole, frutto di una scrittura raffinata, disposta su differenti piani espressivi che risalgono dall’impercettibilità inconscia alla chiarezza significante della coscienza.

Giulia Perroni alza un canto dolcissimo, a tratti ruvido, tenue e fragoroso: suoni e sillabe di altezza sempre mobile, dentro microintervalli di senso, mai statici, dinamicamente centripeti, volutamente centrifughi, proprio a imitare il battito della vita, diastole e sistole di una ragionata e casuale irradiazione di significanti e significati.

Frammenti non univocamente interpretabili, enigmatici senza nascondere nulla, chiaroveggenti senza la stucchevolezza del profetismo, realistici senza mai perdere il riferimento al significato ultimo delle cose:

Giuseppe Pedota, L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota, L’universo acronico, anni Novanta

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca
Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno (p. 81)

Giulia Perroni pratica i suoi esercizi di respirazione, immergendosi nella complessa articolazione del divenire, assecondando la polivalenza del tempo: riepiloga le forme assunte dalla Storia e le distrugge,  ribadisce il valore della vita e il suo logoramento, si lega al principio della stabilitas loci (la Sicilia nel verso Il suo giardino ha sette stelle e spade) e assomma un fitto tessuto di paradossi (Il nostro sogno è il sogno). Permanenza e mutevolezza si piegano all’erranza degli anni attraverso altri luoghi (Roma in primis), così il tempo può fungere da trincea arcaica dell’essere in forma di itinerarium verso il trascendente (Il pozzo il suo sublime) e di descriptio di vicende biografiche individuali e collettive (E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori, Il brulicare i tulipani d’oro). Sempre Giulia Perroni alimenta il pathos con il suo ritmo incantatorio, arabescando una peregrinatio animae, un’agnizione, un riconoscimento delle pulsioni più profonde attorno a cui si muove uno sciame di pensieri dolenti e naufraganti.

Se l’opera del Tempo deve essere analizzata a dovere, allora il viaggio terreno non può che essere retrogrado: nulla torna e se torna è solo leggenda, favola, filastrocca. Il tempo è sempre altro: impassibile, ridicolo, tragico, farsesco. Il tempo non torna indietro anche se tornare è indispensabile, e per questo occorre rivolgersi alla poesia, l’unica in grado di farlo, l’unica capace di riaprire porte, di salire e scendere gradini, di accarezzare con lo sguardo luoghi perduti, battaglie combattute contro la malattia e la morte, contro i blocchi inseparabili di ingiustizia e solitudine.

Proprio perché il reale si disarticola, se ne cerca il filo, secondo la spinta unitiva a configurare il proprio microcosmo mitico nel macrocosmo storico, perciò si delinea la conciliazione tragica degli eventi tra l’infinitamente spirituale e il finitamente materiale:

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Giuseppe Pedota Panorama di pianeta spento, anni Novanta

Il fato oscuro che accompagnava i reprobi

L’angoscia millenaria dei popoli

Ed io vidi che tutto era silenzio

(…)

E quell’incendio mite che occhieggiava
Portando le radici oltre lo stento
Portando in giro i morti (p. 87)

Giulia Perroni abbandona le forme chiuse  e slarga la scrittura con l’ardore più vivo e più tenue, a seconda che l’espressione tocchi la visceralità o la riflessione. Vinta la forza di gravità il  flusso poematico può cadere in alto e in basso, in uno spazio isotopo dove è possibile porre ogni singolo evento al posto giusto, vale a dire nella totalità che tutto regge e legittima. Senza un intelletto assennato e organizzato e una volontà altrettanto dissennata non esiste perfezione espressiva, non esiste la poesia.

L’essere tautologico si apre alle infinite antinomie, ciascuna segnata da un’occasione  esistenziale e resa con una straordinaria catena analogica che tocca ogni genere letterario (il reperto realistico, la cronaca quotidiana, l’empito lirico, l’eccesso espressionistico, il resoconto sociologico): in  sostanza una scrittura minimale che si accende di visionarietà e oltranza metafisica.

In certe pagine più silenziose il ductus poetico si libera dalle sue finzioni abituali, diventa più perspicace e d’improvviso appare la vita in se stessa, diversa da quella che percepiamo normalmente, oltre lo possibilità dello sguardo, al di là delle forme consuete  e rassicuranti della ragione.

La scrittura fa il vuoto e il vuoto si allarga, non senza crudezza e paura, allora le immagini si scindono e frantumano, sprofondano in un loro abisso e con esse le cose, riconnesse tra loro e riallacciate al soggetto che scrive.

Giulia Perroni non teme di affacciarsi su questo paesaggio interiore: ne distingue gli attimi, ciascuno dilatato fino all’eterno. Vertigine  e stabilità si succedono in modo rocambolesco, all’apparenza casuale e incomprensibile (la forma poematica del libro). Le parole-idee si distendono agostinianamente fra ambizione e miseria: la vita torna a essere grande, insolita, una fantasmagoria di ricordi e fantasie, cronache  e riflessioni. È questa la certezza della vittoria sull’oblio, il miracolo di un passato ripetuto per fotogrammi a sostenere e a legittimare il presente:

Una neve cadeva da alti rami, una svelta clessidra ne induceva
voci di rabbia unite a quei vulcani che inneggiano alla vita
era l’Immenso la chiocciola in disuso la fontana il dubbio
adamantino di certezze, era il pastrano delle nuvole buie

(…)

L’estate come un pioppo o una vernice di smisurato crederci

O un enigma affacciato sul brivido (pp.142-143)

Giuseppe Pedota L'universo acronico, anni Novanta

Giuseppe Pedota L’universo acronico, anni Novanta

Giulia Perroni esce fuori dalla finzione che è divenuta la poesia del fare poesia, di più frammenta e critica la poesia autoreferenziale, riuscendo a comporre un inusitato poema incentrato sul concetto di poematicità, vale a dire scrittura lacerata, molteplice presenza di voci divaricate, impiego voluto di materiali poveri, enunciati da un nuovo soggetto lirico, spossessato, decentrato come se fosse una terza persona, o meglio una quarta persona singolare.

Il lettore potrà notare una scrittura più libera, più plastica, inclusiva dell’extraletterario, problematica, incompiuta, al pari dell’incompiutezza dell’epoca contemporanea. Non si lasci ingannare dalla struttura frammentaria, perché il poematico possiede la sua propria narratività e la sua evidente discorsività che ovviamente non possono essere quelle della prosa stricto sensu.

Risaltano, si contrappongono e si amalgamano classicità  e tradizione in una ridda di archetipi, stratificazioni, generi multipli e canoni extra-ordinari, nei quali non è difficile imbattersi in erotismi, epigrammi funebri, sentenze, cronache di case regnanti (gli Stuart scozzesi p.es.), tutto pur di restituire l’uomo all’umano.

La tribù dell’eclisse  va letto come un tutto, esso si mostra prototipo di complessità e unicità. Parlare di complessità tocca il substrato di una scrittura plurale, polisemica, sentimento della maggiore profondità possibile. Parlare di unicità allude al salto dal nulla al qualcosa, dal mutismo catatonico della massa omologata alla voce dispiegata e originale dello scrittore, in questo caso particolare di una scrittrice fra le più caparbie e più autenticamente in cerca di una forma veramente moderna di poesia.  

Nereidi, nottetempo, appena dopo l’equinozio d’autunno

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse copGiulia Perroni da La tribù dell’eclisse (Passigli, 2015)
(…)
Io bevevo la pioggia sacrosanta come le zolle in cielo
e mi stupivo che la bellezza fosse nelle strade
oscura nella forza

Mi stupivo che fossi io la bellezza

La vittoria di serpi di corallo

Voi date onore ai morti, cavalieri

Cavalieri che nelle lance mai perdete il giorno

Giulia era bella nel soffitto d’oro

Malinconia d’un tempo

Cavalieri che forse veleggiate
alla ricerca della vita bionda
del calice che imprime la sua fine
non uccidete gli uomini già morti

Ci fu un tempo ora l’anima è stravolta
la gran virtù s’è fatta titubanza
pepita d’oro e attimo violento
nella stanza degli echi

La ferocia è la paga dei vigliacchi
l’estirpare rinfocola la notte
e il grigio buio aliena le sorgenti

Non ci sarà speranza

Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido

E il corpo che non muore

(La tristezza)

Lapidato come un’estasi tranquilla nella pace dei sogni

Squartato come un sacco

E Giulia ha il collo vergine e stupendo dell’umiltà dei fiori

Il suo giardino ha sette stelle e spade

Il pozzo il suo sublime

L’orologio la quintessenza d’arca

Il brulicare i tulipani d’oro

E questo è tutto

Il nostro sogno è il sogno

L’ossessione che naviga nel cielo

E questo è tutto

Origine del vero

C’è silenzio quando origlia la notte

Era tabù la stanza di orologi
di fucili di lame di fanfare
brillava solo il mondo solo il mare
e l’abbraccio magnifico e stupendo
con la vita del tutto

Solo il mare

L’immensità che canta

Il mare azzurro denso d’amore e quieto

Penzolava una rosa dal giardino
dalla soglia si nutre la speranza
anche oggi un fiore rosa
penzola all’aria fuori dal cancello

Anche oggi è la vita
mescolata ai colchici dell’ombra

Ezra rimane duro e battagliero
solitario e profondo
ed anche chi non seppe dire il mantra
che popolava i secoli

Dorme con me la vita

Gli sconfitti hanno una giara che riabbaglia il senso
la pregnanza che illude le chimere

Abbiate pace tutti quelli che vissero

Ogni cosa serve per essere

Venne la pietra a contrastare l’acqua, il fuoco la vertigine
il riparo fu nel sole bellissimo la vita quando l’arte ci avvolse
e in quei momenti come dentro l’amore si discinse
il giorno con la pioggia

E in quei momenti di mezzo sole l’arte fu fulgore

Per la vita strapperò le catene

Anche mia figlia è sogno

Per la vita datemi un nodo per i lestofanti
forse ne avrò pietà
ma non c’è forza che oscuri in me l’Amore
che possa dire smetti di sognare

Io non potrò lasciarle nella casa il sandalo dei lumi o l’impreciso
bianco sconforto delle tele bianche nelle attese ghiottissime
dei nembi non potrò con sveltissimi riguardi tambureggiare
varchi e gelsomini né capriole di nubi oltre lo sguardo ma dirle
che l’eccelso può apparire e darle pace e un’ottima carezza

I lestofanti sono indistinguibili
ma tu per me rimani
accetta il sole sopra ai mandarini
è un disegno di vita

Per favore rimani

Dal deserto sorgono fiabe dentro visi scuri

Rimani, ogni cosa avrà corso

I lestofanti fuggiranno più svelti della luna
quando i cervi camminano e singhiozzano
sulle radure d’api e cinghialini
faranno d’aria i monti

Fuggiranno e tu sarai regina

Te lo prometto

Anche se il male grida
vivrà sempre nel mondo la speranza

I pacifisti hanno nel raggio amaro ribattezzato il fascino
la luna in sette spade c’è silenzio un messaggio cifrato
per chi ascolta

La bellezza verrà te lo prometto

Lo promette lo Spirito alla folla

Nel discorso che viene da montagne

E resiste l’immagine dipinta
sotto cui ero solita mangiare
la fiamma con la luna la fierezza
i cavalieri usciti da quel mare

Tutto così sognante

Poi la vita

La guardo in occhi di ferocia e argento
e ho paura del buio
così come nessuno potrà mai riempire
il mio essere donna

C’era bellezza intorno
nonostante lo stridere dei ferri

C’era un’asse e una luce

La giustizia

Lontana e indispensabile

L’aurora

Necessaria ferocia del linguaggio
ora che tutto è aperto

L’albero incauto a cui mancò una foglia

Altezza del coraggio

Il suo nome fu quello

Quello solo

Coraggio

Come se i sogni nutrano
e passeggino
in un sogno deciso

Olga e Giulia a braccetto
ed io tremante come un nudo fagiano

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

La bellezza

Io piccolina

Olga e Giulia e la donna
che sputava in faccia ai suoi carnefici la vita

C’era un giardino un giorno
una volta sì c’era

C’era una volta

Un principe e una luce

Un guardiano di faggi

Un promontorio

Una lucciola spersa tra le foglie

Una eresia

Un incanto

Una carrozza che possedeva i suoi lingotti d’oro

Sono perduta e ascolto: così assurdo il linguaggio

Così acceso il cantare e il mormorio che fa di sale la cintura d’oro

Ho cento rapimenti

Lincoln ucciso, ucciso Petrosino ed ucciso Giuliano

E tanti ancora moriranno nel dubbio

Chi colora i rami della pioggia?

La bellezza fuori dal mondo viva

(…)

Una neve cadeva da alti rami, una svelta clessidra ne induceva
voci di rabbia unita a quei vulcani che inneggiano alla vita
era l’Immenso la chiocciola in disuso la fontana il dubbio
adamantino di certezza, era il pastrano delle nuvole buie

Qualcosa andava come preghiera al laccio
o all’evidenza del rosa delle origini
un pasticcio dentro quel me d’osceno
e tante immagini o persone che escono dal mare
in disincanto come fossero gemiti riflessi del colore del buio

Come poteva dirsi ancora sole quell’estate indolente
e il suo confine nel corallo di fiaba?

La maestria franosa del Vedente, l’onore primordiale delle piazze

L’estate come un pioppo o una vernice di smisurato crederci

O un enigma affacciato sul brivido

(…)

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida a un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Sì, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli Inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore del silenzio

C’è luna piena ancora

Giulia Perroni

Giulia Perroni

La ricordo

Uno Stuart sposò quell’antenata
( signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle Veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie
chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone
all’armi incredibili più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi
con tutti i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’ Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

(…)

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Giulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino Edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “Appunti critici” (Roma 2002), per lei un saggio e ancora in “Poiesis” (n. 23-24) scrive su La cognizione del sublime. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su «Poeti italiani verso il nuovo millennio», Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in «La maschera e il vuoto», Aracne 2005  e in «Tra esotismo ed esoterismo», Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su «La Mosca» di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su «La Gazzetta di Parma».

I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana.

Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

Donato Di StasiDonato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)

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Giorgina Busca Gernetti SEI POESIE tratte da “Echi e sussurri” (2015) Commento di Marco Onofrio

raffigurazione dei misteri eleusini

raffigurazione dei misteri eleusini

Giorgina Busca Gernetti è nata a Piacenza, si è laureata con lode in Lettere Classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore  di Milano ed è stata docente di Italiano e Latino nel Liceo Classico di Gallarate (Varese), città dove tuttora vive. Ha studiato pianoforte nel Conservatorio di Piacenza. Pur avendo composto poesie fin dall’adolescenza, ha iniziato tardi a renderle note. Ha pubblicato i libri di poesia Asfodeli (1998), L’isola dei miti (1999), La luna e la memoria (2000), Ombra della sera (2002), La memoria e la parola (2005), Parole d’ombraluce (2006), Onda per onda (2007), L’anima e il lago (2010, con rassegna critica 2012²), “Amores” (2014); “Echi e sussurri” (2015). Inoltre ha scritto il saggio su Cesare Pavese Itinerario verso il 27 agosto 1950 (in “Annali del Centro Pannunzio 2009; in estratto 2012) e i racconti Sette storie al femminile (in “Dedalusn.1, 2011; in estratto 2013).

Saffo

Saffo

Giorgina Busca Gernetti è una “sognatrice dell’essere” che cerca l’eterno nel tempo, e questo è il movimento del suo sguardo: inseguendo la chioma della sua stella, affonda gli occhi in cielo e scopre l’iridescente complessità che innerva ogni atomo del mondo. Le materie e le energie innumerevoli della totalità – orizzonte sempre irraggiungibile – vengono da lei articolate sotto forma di scansione puntuale dei singoli portati, cioè di analisi infinitesime delle sfumature, di appercezione dei passaggi nevralgici, di lettura delle soglie critiche, e così ricondotte – attraverso le innumerevoli stratificazioni dello sguardo – ad essere poesia, nella condensazione eidetica ed epistemica dell’esperienza che il percorso delle sessantaquattro composizioni raccolte in questa nuova silloge (Polistampa, 2015, pp. 120, Euro 10) svolge e racchiude, a mo’ di sintesi esemplare.

gioco della palla pittura parietale stile pompeiano

gioco della palla pittura parietale stile pompeiano

Il segnacolo di questo percorso è già nel titolo. Gli echi ci introducono al cosmo dell’“eterno ritorno”, ovvero a un’idea fondamentale di immutabilità ciclica nell’impermanenza. C’è un residuo ontologico al fondo del perenne divenire, per cui «tutto scorre come un fiume», ma ciò che è accaduto è incancellabile (neanche Dio può far sì che non sia accaduto): resta e ritorna per sempre. I sussurri alludono alla vocazione linguistica (tra lo svelarsi semiotico e il ritrarsi simbolico) del reale, per cui tutto comunica incessantemente, liberando l’essenza del proprio essere ed emettendo il segnale della sua presenza, nella conferma temporale dello spazio. Il vento, ad esempio, è «affabulante», racconta le fatiche degli uomini, la sofferenza eterna della vita. E le stelle sono «trama di miti / intessuta d’eterno»: linguaggio cifrato di «segni arcani» che «effondono una casta / ineffabile quiete» e, insieme, un brivido di orrore. Il presupposto della poesia è la disposizione all’ascolto. Occorre raggiungere il silenzio, cioè staccarsi dalle sovrastrutture, gli inganni, le false voci dell’io. Svuotarsi delle interferenze. Trasformarsi in «orecchi che ascoltano», come scrive Rilke citato in apertura di libro: solo così è possibile ritrovare la «traccia infinita» del «Dio perduto». Il silenzio, in realtà, è pieno di magie segrete da sfogliare come infiorescenze, «voci impercettibili», brividi, fremiti, riverberi. Il silenzio parla e sussurra con le «mute vibrazioni del tempo» che il poeta percepisce e raccoglie, iniettandole dentro le parole. Ecco perché il percorso poetico nasce dalla notte (“Fiori della notte” si intitola la prima sezione) intesa come spoliazione, sprofondamento, varco per raggiungere l’essenza. La notte è sacra, è madre, è amica. La poetessa aspira ad annullarsi nel suo alveo originario, in guisa di regressione uterina: «Accoglimi nel seno / del tuo corpo materno, sacra notte». La notte, inoltre, è un simbolo spirituale che esprime, suggestivamente, un’ascesa dentro la discesa: occorre affrontare e attraversare l’ombra per placare le «tenebre dell’anima», poiché «solo nel buio» può spalancarsi la radura luminosa dell’essenza. È nel buio, peraltro, che «germina il seme»: «la gemma nel buio / la vita dalla morte attende». Impossibile rinascere, se prima non si è disposti a morire. Giacché la realtà è impastata di metamorfosi, è un caleidoscopio di energie impegnate nella trasmutazione eterna della materia. La “machina” del divenire è come la bocca di un’immensa impastatrice che tutto rimescola incessantemente: «Tutto trascorre dalla vita a morte / da morte a vita forse in altra forma» in un ritmo cosmico di «vita e morte, rinascita e ancor morte», come il ciclo delle stagioni. Al centro di questa metamorfosi c’è il Logos, il plesso nodale che raccorda le energie e il raggio multiverso delle loro direzioni. È la divina necessità: «la mole / che grava sulle cose», le regge da dentro e le fa andare come devono. La stessa forza per cui nella clessidra i «granelli di sabbia non si fermano. / Non c’è parola magica / per interrompere quel flusso tragico / della vita che fugge inesorabile». Lo sguardo del poeta funge da raccordo olistico tra le figure del nascente che sorgono («tenera foglia danzante nel vento»; «parola che sboccia»; «vibrante a nuova vita») e quelle moriture che scompaiono («Si sta spegnendo quella luce fioca»; «eco vanescente»): le ricompone in superiore armonia dialettica, oltre il conflitto dei loro contrari.

ORFEO e EURIDICE rilievo Napoli

ORFEO e EURIDICE rilievo Napoli

La lirica di Giorgina Busca Gernetti ha incisa, negli apici del suo “entusiasmo” panico e del suo ardore creativo, una radice “epica”, di apertura cosmica e meditazione metafisica, che utilizza la parola per consentire alle cose di manifestarsi, di incarnarsi in suono. Il mondo appare alle parole in ragione della loro capacità di circoscrivere “un” mondo, anzi: di farsi mondo. Le cose salgono vivide dalla pagina poiché distillate dopo lunga macerazione e raccolte nel pieno della loro maturità. È un tipo di canto che raggiunge la potenza delle sue visioni attingendole da una sorgente arcana e profonda, dimorante nei pressi dell’Essere, oltre la soglia dei sentieri fallaci, il rumore delle chiacchiere, la crosta delle inutili apparenze. Sfondare la superficie significa addentrarsi nel regno polisemico della complessità, senza dirimerne le aporie o fugarne le ambivalenze. Cade per conseguenza la barriera divisoria tra dentro e fuori, ricordo e sogno, soggetto e mondo. È allora che, da lì in poi, si esplora il buio. Si affrontano baratri. Si percepiscono misteri. Si raccolgono sgomenti. Il fuoco mentale è uno specchio interiore che rende traslucido lo sguardo e dona la forza di sfiorare corde profondissime, per musiche sublimi. Le cose “ascendono” nel canto del poeta, sorgono nel suono illuminate. In questo libro si celebra ampiamente la potenza trasfigurante del canto, che il poeta non inventa a capriccio, ma raccoglie dal cuore stesso delle cose, e ascolta, e trascrive con fedeltà necessaria, come sotto dettatura, impossibilitato a fare altrimenti. La musica «nasce nell’animo» come un «soffio divino» che «sfiora labbra ridenti». Il poeta deve abbandonarsi confidente al cuore delle cose, se vuole che esse gli porgano il cuore – per confidenza, per sovrabbondanza di energie.

DocHdl1OnPTRtmpTargetSi avverte l’amore sconfinato che Giorgina Busca Gernetti, forse a contrappeso dell’origine padana, nutre per la dimensione geografica e storica del Mediterraneo. Natura e cultura in accordo di “echi”, racchiuse e oltrepassate nella superiore sintesi umana. Ecco il vento, il sole, l’acqua (elemento primordiale, «grembo materno», origine «fremente di forza / vitale»), e la bellezza sublime del mare, dove l’anima «si ridesta / alla serenità, alla dolcezza» e il cielo benigno «sorride e avvolge il mondo»; e allora il «meriggio dell’Ellade assolata», l’ora divina e panica delle apparizioni, e l’infinita solitudine di Capo Sounion, già cantato da Byron; e la Grecia del Mito – Corinto, Micene, Olimpia – che ha posto le pietre angolari dell’Occidente, con il fascino dell’antichità, lo splendore dei secoli, le rovine che parlano al tempo di memento mori, significando la loro eternità. L’attrazione per il mondo classico non è solo questione di gusto, di educazione estetica, ma obbedisce a un impulso etico fondamentale: la ricerca della pace, dell’armonia, del “ritorno a casa” («Vorrei avere anch’io una mia Itaca») alla fine della deriva «verso oscuro abisso», laddove invece esistere è «vagare senza rotta certa». E allora «dimenticare la disarmonia / (…) abbandonarmi / e perdermi nel favoloso Mito» che non è qualcosa di remoto e irrecuperabile, ma un nucleo «palpitante» poiché eternamente vivo dentro noi. C’è un movimento doppio e talvolta simultaneo, sul “nastro trasportatore” della percezione poetica: se il presente sprofonda fino alle scaturigini del mito, il mito può a sua volta emergere dal presente, attualizzandosi nell’attimo del suo manifestarsi. Come quando l’autrice si sente chiamare tra la folla della Plaka ad Atene: «Giorgina, vieni! Sono Menelao». C’è un sospiro nostalgico senza tempo all’origine del porsi sospeso di questa scrittura, in equilibrio precario tra incanto e disincanto. Gli echi e i sussurri del mondo con cui si entra in risonanza conducono alla «quiete assorta» del presagio, a un “allarme” di stupefazione. Emergono irradiazioni oniriche, figure, epifanie, «sagome traslucide», attraverso cui ha modo di apparire il «colore del sogno», la «mistica parvenza», «l’incanto di magico oblio», l’«estatica felicità». La percezione oscilla tra l’«eco del ricordo» e il «sogno del presente», entrambe le dimensioni trasumananti, apportatrici di gioia e profondità. Ma la luce apollinea è turbata dall’inquietudine delle «voci difformi»: l’«arcana armonia» è tanto più efficace e convincente quanto maggiore è la lotta sostenuta per con-tenere la dialettica degli opposti (la vera cultura classica nasce dall’agonismo).

ombra-sera

ombra-sera

E il retroterra “classico” e “letterario” (con gli infiniti echi di letture assimilate) non soffoca il vitalismo innato della voce poetica, con la sua impronta inconfondibile, ma anzi la fortifica, dandole corpo e peso di memoria, attraverso un ritmo interiore che solidifica l’apertura in fondamento. L’armonia finale non è un guscio prezioso sovrapposto da fuori, ma il frutto organico di una conquista umana, esercitata nell’arduo tirocinio dello stile. Con questo libro di classico nitore, intriso di umori romantici distillati e plasmato al fuoco liquido di una passione purissima, Giorgina Busca Gernetti propone un itinerario poetico dirompente e felicemente inattuale, nella misura in cui non rinuncia a priori alla dicibilità del mondo, alla fede nella parola, alla possibilità di affrontare con efficacia, lasciando una traccia, i temi più importanti. Ed essere inattuali, in tempi di insulso minimalismo, è forse quanto di meglio possa augurarsi oggi un poeta.

(Marco Onofrio, tratto dalla Prefazione al volume)   

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

Giorgina Busca Gernetti

LA CLESSIDRA

Di vita gli attimi nella clessidra
del tempo scorrono lenti-veloci
come sottile sabbia che discende
sul fondo e non risale per la mole
che grava sulle cose.

Impietosa clessidra questa vita
chiusa in un piccolo cristallo fragile
che all’umile mortale
inconsistente, lieve come un’ombra
uno spazio più vasto non concede.

I granelli di sabbia non si fermano.
Non c’è parola magica
per interrompere quel flusso tragico
della vita che fugge inesorabile
verso un baratro oscuro, un nero abisso.

Abisso che sprofonda in un abisso.

ALLA NOTTE

Notte, mia chiara notte di lucenti
stelle trafitta nel tuo manto oscuro,
avvolgimi ed annullami nel tepido
rifugio del tuo limpido, infinito
spazio incommensurabile.

Quali soffici nuvole i tormenti,
sfilacciate nel bruno a coprir stelle
per attimi impalpabili, a svelarle
nella loro armonia, trama di miti
intessuta d’eterno.

Tace la luna nuova.
Il suo buio silenzio un vuoto imprime
nel tuo spazio divino, tra le stelle.
Ma più chiare le faci del tuo regno
scintillano ad accogliere il mio voto.

Accoglimi nel seno
del tuo corpo materno, sacra notte;
via dal pensiero le nuvole scaccia
sì che la luce splenda senza un’ombra
nel mio annullarmi in te, mia notte amica.

.
ALBA DELL’ANIMA

Nel lucore dell’alba
l’anima lieve si libra nell’aria
– tenera foglia danzante nel vento –
candida e pura, dall’ombra mondata
degli angosciosi tormenti di ieri.

Fresca rugiada sull’erba, sui rami
dei meli in fiore, dei mandorli e peschi,
tutto ristora, disseta, risveglia,
rafforza e fiero vigore v’infonde
per la lotta del vivere.

Rugiada scende limpida nell’anima
– puro lavacro in sacrosanto rito –
e pace effonde, luce più serena,
intima forza ad affrontare il giorno
senza tetri timori.

TYRRHENUS

Il dio Tirreno m’accoglie paterno
tra le sue sacre braccia cristalline.
Ecco di nuovo i pesci a me d’intorno
guizzanti senza tèma
del corpo mio di terrestre creatura.

Nel giorno torrido della Canicola
improvvisa una gelida corrente
per donarmi frescura m’accarezza
nell’azzurro tepore dell’abbraccio
di Tirreno divino.

Acqua, mia amica limpida e fedele,
eccomi nel tuo grembo
più sicura e serena che tra gli uomini
sulla terra, creature indifferenti,
incuranti di chi vive tra loro.

Nel tuo grembo materno, acqua, ritrovo
il caldo affetto troppo raramente
goduto per gli abbracci degli umani
nella mia triste infanzia solitaria,
muta di luce e amore.

.
TRAMONTO SULLO JONIO

Accecava la luce, rispecchiata
dal vasto mare che l’agile brezza
lievemente increspava e sulla rena,
sulle rocce rugose, sugli aguzzi
scogli emersi dall’acqua la sua candida
schiuma a trina spargeva.

Ma fu il tramonto. Il mare s’imbruniva
sempre più rapido verso il crepuscolo
che distende il suo velo cupo e triste
sulle cose del mondo, fin nell’animo
di chi sente le mute vibrazioni
del crudo Tempo edace.

Gelido vuoto intorno si diffuse
e le rocce, la rena, il mare, il cielo
parvero tristi e amari come l’animo
privo di calda luce che ristora
dall’angoscia e il tormento della vita
spegne finché c’è il sole.

Il buio invase la distesa equorea,
la rena scura e fredda, la scogliera
ormai invisibili. Solo sciacquìo
triste dell’onde sulle rocce nere,
voce del mare che pare rimpiangere
la diurna aurata luce.

.
SULL’ACRÒPOLI D’ATENE

Dimenticare tutto sull’Acròpoli
d’Atene, nella luce cristallina
dell’Ellade ventosa e fascinosa,
dal cielo azzurro vivo come il mare
guizzante di delfini.

Tra due colonne, seduta nell’ombra
del bianco sacrosanto Partenone
che splende di bellezza
e cinge di silenzio chi vi sosta,
ho interrogata la mia vita amara.

Perché la morte in guerra di mio padre
nel fiore della gaia giovinezza
prima che il soffio vitale e la luce
il mio volto animassero
in un sorriso forse già intristito?

Perché il pianto segreto di mia madre,
lontana dagli sguardi e dai conforti,
invece della gioia e dei sorrisi
che fan sbocciare fiori profumati
nella culla ridente intorno al bimbo?

Dimenticare tutto sull’Acròpoli
– echeggia nel silenzio l’arpa eolica –
confidando l’angoscia
alle Kore che l’architrave reggono,
il bel volto sereno di sorriso.

Dimenticare la disarmonia
della mia oscura vita
nell’armonia divina dell’Acròpoli
sull’orma lieve della Dea Poliàde
che invisibile ascolta il mio lamento.

Dimenticare tutto, abbandonarmi
e perdermi nel favoloso Mito
sbocciato come un fiore in tempo antico,
ma vivo e palpitante nel mio animo:
sacro Mito immortale.

Mythos, Mythos, Mythos…

    

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Giorgio Linguaglossa: «La Riforma del Discorso Poetico post-Montale»,  l’«immediatezza espressiva dell’estetica post-letteraria delle odierne scritture poetiche», «pseudo-letteratura», «post-presente», «super-post-fantascienza», «post-fantasy», «Paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico» La «forma-poesia» della poesia Dopo il Novecento

bello figura femminile con gazza 

Richard Millet ne L’inferno del romanzo (2012) parla di «autenticità dell’immediatezza  dell’estetica post-letteraria» del nuovo romanzo; e così prosegue:

«Nel postletterario, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio», o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico». L’autenticità data dall’immediatezza sarebbe quindi l’obiettivo dello scrittore post-letterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria»; «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento».

Con le dovute differenze, credo che possiamo estendere la categoria dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria anche alla poesia contemporanea. Anch’io ho parlato spesso di «post-contemporaneo» e di «post-poesia», intendendo sostanzialmente un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato anche la debolezza delle direzioni di ricerca di quello che ho definito «minimalismo». Lo ammetto, meglio sarebbe stato aggiornare tale definizione con quella di «post-minimalismo» delle scritture poetiche di massa, nel senso che oggi in tutto ciò che accade sembra d’obbligo far precedere l’etichetta «post»: post-sperimentalismo quindi,  post-esistenzialismo, post-chatpoetry, post-del-post. Tutto ciò che avviene nella pseudo-letteratura del tempo mediatico sembra presentizzato in un post-presente, il presente diventerebbe la dimensione unica, una dimensione superficiaria unidimensionale, ciò che sembrerebbe confermato anche dalle tendenze del romanzo di intrattenimento che dal fantasy e dalla fantascienza sembra spostarsi verso le forme ibride di intrattenimento di post-fantasy e di super-post-fantascienza. Quello che tento di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca sono impegnate in una forma-scrittura dell’immediatezza, quasi che l’autenticità del romanzo e della scrittura poetica  la si possa agganciare, appunto, con l’esca dell’immediatezza espressiva.

Cinzia Pellin I Migliori Anni, 2009, olio su tela, cm79x149

Cinzia Pellin I Migliori Anni, 2009, olio su tela, cm79x149

Nulla di più errato e fuorviante! Per quanto riguarda la mia tesi del paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico, entro il quale la quasi totalità delle scritture poetiche contemporanee rischia di periclitare, detto in breve, volevo alludere non al concetto di «egemonia», fuorviante e inappropriato quando si parla di poesia contemporanea, ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca, del diario e del quotidiano) sarebbero perfettamente digeribili dalla lettura della post-massa acculturata del Medio Ceto Mediatico. Certo «professionismo dell’a capo», come stigmatizza il critico Sabino Caronia diventa l’arbitrio di un a capo che può avvenire in tutti i modi, con le preposizioni, con le particelle avversative, con i pronomi personali, e chi più ne ha più ne metta. Vorrei però prendere le distanze da una facile tendenza a voler stigmatizzare la «dittatura del Medio Evo Mediatico» in quanto questa posizione sottintenderebbe un approccio moralistico al problema del paradigma moderato e unidimensionale che sembra aver preso piede negli uffici stampa degli editori necessariamente impegnati in una difesa delle residue quote di mercato editoriale dei libri.

La situazione descritta sembra essere ancora più grave per la poesia, che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità anche ai piani alti della cultura poetica italiana, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta non hanno più creduto possibile una difesa della forma-poesia: Montale, Pasolini, Sanguineti e altri di seguito. Da questo punto di vista, paradossalmente, una difesa della forma poesia è più evidente nei Quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, il più drastico atto d’accusa del «sistema Italia», che non ne La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, il quale si appoggia ad una struttura strofica e timbrica ancora tradizionale, ma è una difesa della tradizione che va in direzione di retroguardia e non  di apertura all’orizzonte dei linguaggi poetici del futuro. È un po’ tutto l’establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa, credendo che una sorta di neutralismo o di prudente e ironica apertura nei confronti dei linguaggi telemediatici costituisse un argine sufficiente, una misura di sicurezza verso una forma-poesia aggiornata, con il risultato indiretto, invece, di rendere la forma-poesia recettizia della aproblematicità dei linguaggi telemediatici.

Anna Ventura copertina tu quoqueQuel neutralismo ha finito per consegnare alla generazione dei più giovani una forma-poesia sostanzialmente debole, minata al suo interno dalle spinte populistiche e demotiche provenienti dalla società della massa telemediatica. La storia della poesia degli anni Ottanta e Novanta sta lì a dimostrare la scarsa consapevolezza di questa problematica da parte della poesia italiana.

A questo punto, ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto da chi sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche della poesia del Novecento. Non escludo che ci possano essere nel prossimo futuro dei poeti di valore (e ce ne sono), quello che escludo è che finora nessun poeta italiano degli ultimi quarantacinque anni, cioè dalla data di pubblicazione di Satura (1971) di Montale, è stato capace di fare quella Riforma del discorso poetico nelle dimensioni richieste dal presente stato delle cose. Certo, ci sono stati l’ultimo Franco Fortini di Composita solvantur (1995), Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca (I quanti del suicidio del 1972), e poi Maria Rosaria Madonna (con Stige, 1992), Anna Ventura (Antologia Tu quoque 1978-2013), Roberto Bertoldo (Pergamena dei ribelli, 2011), ed altri ancora che non posso nominare, poeti di indiscutibile talento che si sono mossi nella direzione di una fuoriuscita dal novecentismo aproblematico, ma resta ancora da scalare la salita più ripida, c’è ancora da sudare le sette fatidiche camicie. In una parola, c’è da porre mano alla Riforma di quel discorso poetico ereditato dalla impostazione in diminuendo che ne ha dato Eugenio Montale. Leggiamo una poesia da Pergamena dei ribelli:

Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.

Antonio Sagredo cop

Ad esempio, per la poesia di un autore ancora inedito in volume in Italia, Antonio Sagredo, di cui però è uscito in edizione bilingue per la Chelsea Editions un volume antologico della sua poesia a New York, ho scritto di recente: «la parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutoria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso». Ecco una poesia dell’ultimo Antonio Sagredo:

Prove mostruose
(8)

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

Ed ecco una poesia di Anna Ventura apparsa di recente su questo blog:

La vergine di Norimberga*

La Vergine di Norimberga
non avrebbe voluto straziare
il bel giovane che già stava lì, per terra,
in catene,
ad aspettare la morte. Ma lei
era la Vergine di Norimberga
e doveva ubbidire al suo compito.
Perciò quando immaginò il sangue dell’uomo
scorrere lungo le sue membra ferrate,
immaginò il pallore del suo volto,
gli occhi già rovesciati alla morte,
invocò su se stessa
l’aiuto degli dei, e delle dee,
specialmente di queste ultime:
perché, essendo donne,
avrebbero meglio compresa la sua pena. Ma quelle
avevano altro da pensare.
Fu Cupido, invece,
a raccogliere il pianto della Vergine,
lui così attento
a qualunque sospiro d’amore.
Poiché era un dio,
poteva anche fare un miracolo: fece in modo
cha la Vergine si coprisse di fiori: tanti fiori
da rivestire le punte delle lance.
Il che, tuttavia,
non ottenne altro che allungare la pena.
Alla fine, fiori e sangue si mescolarono
sulla terra bruna: un intrigo
non più complicato
di tanti altri.

*notizie storiche sulla Vergine di Norimberga

La Vergine di Norimberga, chiamata anche vergine di ferro, è una macchina di tortura inventata nel XVIII secolo ed erroneamente ritenuta medioevale, a causa di una storia raccontata da Johann Philipp Siebenkees che sosteneva fosse stata usata per la prima volta nel 1515 a Norimberga. Non esistono prove che tali macchine siano state inventate nel Medioevo né utilizzate per scopi di tortura, nonostante la loro massiccia presenza nella cultura di massa. Sono state invece assemblate nel Settecento da diversi manufatti trovati nei musei, creando così oggetti spettacolari da esibire a scopi commerciali.

La macchina consiste in una specie di armadio metallico a misura d’uomo e di forma vagamente femminile, più o meno grande a seconda dei casi, pieno di lunghi aculei che penetrano nella carne senza ledere organi vitali.

Il condannato ipoteticamente veniva fatto entrare in questo “sarcofago” e, chiudendo le ante, veniva trafitto dai suddetti aculei in ogni zona del corpo, morendo lentamente tra atroci dolori. In realtà simile strumento non è stato usato almeno fino al XX secolo (un’apparecchiatura di tale tipo è stata trovata durante un reportage televisivo a casa di Udai Hussein, il figlio maggiore dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein).

*

Per tornare al nostro discorso, intendevo dire che una riforma linguistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di immediata riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di rottura determina necessariamente una solitudine stilistica e linguistica di chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di  naufragi. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.

 

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Bartolomeo Bellanova DUE POESIE INEDITE “Tremano gli affreschi” “Il compianto – variazioni sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Edward Burne Johns Destino

Edward Burne Johns Destino

Bartolomeo Bellanova nasce a Bologna il 2 settembre 1965. L’attenzione ai temi sociali e di denuncia civile caratterizza il cammino di narrativa e poesia dell’autore che fa parte del Gruppo di poesia bolognese multiVERSI che organizza eventi letterari sui temi più “scottanti” inerenti al cambiamento sociale e ambientale (emarginazione, nuove povertà, migranti, diritto alla casa …). La fuga e il Risveglio (2009) è il suo romanzo d’esordio Il secondo romanzo “Ogni lacrima è degna” (Inediti – Aprile 2012) si è aggiudicato una mozione di merito nel Concorso letterario Insieme nel Mondo Edizione settembre 2012 – Sezione Narrativa Edita. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie. E’ di imminente pubblicazione la raccolta poetica A perdicuore (David and Matthaus Edizioni) che contiene una scelta di testi scritti tra il 2011 e il 2014 e di riflessioni critiche.

Commento di Giorgio Linguaglossa

Resto un po’ sconcertato, sorpreso e anche sedotto da questo vasto affresco di Bartolomeo Bellanova il quale ha il coraggio che soltanto la sicurezza sui propri mezzi espressivi può dare ad un artista. Bellanova traccia qui un polittico dove ogni predella rimanda alla seguente e si riallaccia alla precedente in un racconto alla maniera di un amanuense, che verga il manoscritto con mano sicura da una miniatura all’altra, da un affresco all’altro in un crescendo di rimandi pittorici che creano il punto di climax, una colonna musicale che ha la tranquilla estensione di una sinfonia wagneriana con suoni ampi e ondeggianti, con volute musicali imperiose e seducenti. Il bello è che Bellanova raggiunge tali esiti senza profferire neanche una rima, neanche al mezzo o casuale che sia; anzi, la rima, «la relazione della gioia», è bandita da questo affresco che sembra conoscere soltanto le ampie distese canore di un coro. Bellanova non inserisce neanche un personaggio, è una poesia senza personaggi questa, l’autore si consegna ad una poesia dall’andamento prosodico severo e indulgente ad un tempo. Tutti sono personaggi del Tutto, di un polittico che li ricomprende e li cancella ad un tempo, in un tempo senza tempo e senza spazio. Sono qui presenti il Giotto del ciclo della Cappella degli Scrovegni, la Madonna del cardellino di Raffaello, il Califfo nero dello stato islamico, la veduta del Canal Grande del Tintoretto, la nascita di Venere e la Primavera del Botticelli, San Francesco che ammansisce il lupo di Gubbio, l’Arcangelo Gabriele dipinto da Leonardo da Vinci nella Annunciazione. Sono presenti tutte queste figure e tutti questi colori, non come intarsio di citazioni illustri ma come una messa funebre di una tradizione di cui il poeta si sente derubato, spossessato, fino al punto di climax posto al centro della poesia, fino a quella gondola nera che appare come lugubre annunzio di un eccidio a venire o che si è già compiuto.

Una gondola sinuosa e nera
lascia le acque del Canal Grande[1] addobbato a festa

Da questo momento in giù la poesia sembra discendere in un andante largo e disteso verso il delta finale come un grande e tranquillo estuario di un fiume denso di ombre e di colori.

[1] Veduta del Canal Grande di Antonio Canal, detto Canaletto (1726-1728) ) – Firenze Galleria degli Uffizi

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova

Tremano gli affreschi

Tremano gli affreschi sulle volte di cielo della Cappella 2),
i pastelli cerulei e oro di Giotto languiscono nell’ansia.
San Francesco hai ammansito il lupo di Gubbio,
ma gli uomini lupo sono in agguato per sbranarti.
Delle tue stimmate gli adepti del califfo nero 3)
vogliono fare bersaglio per la loro mitraglia.

Che tonfo al cuore ti stringe,
che pena di lacrime ingoiate ti comprime il petto,
Madonna del Cardellino 4) che accarezzi incessante il bambino,
curano i tuoi polpastrelli la sua pelle lattea.
Pregano pazienza le tue dita
e dalle tue labbra socchiuse non esce suono,
leggi distratta, sillabe e accenti più non comprendi.

S’alza Zefiro 5) cupo, si ritorce, soffia lapilli e cenere, tossisce.
Venere 6) grondante di gocce d’ambrosia incandescente
rientra elegante nella conchiglia dorata.
Nettuno coi muscoli di bronzo, fa che si schiuda lontano
dal Mediterraneo dov’echeggia terrore,
lontano dalle sponde, risacca di ossa inermi,
lontano dallo sguardo oppiaceo dei crocieristi
ballerini sul cimitero liquido.

Piume e parole ingoia insieme
l’Arcangelo Gabriele 7) di profilo inginocchiato,
la mano inferma benedice la madre ignara
e le ali strappa a morsi
schiacciato, esile figura, da cupi presagi.

Una gondola sinuosa e nera
lascia le acque del Canal Grande 8) addobbato a festa.
Cerca rifugio sotto l’ombra dei ponti sottili,
s’insinua nel tremolio libertino di luce,
scia sui riflessi sbiaditi di calle, campi e porticati, non trova pace.
Straripano domande senza risposte
per le stanze tutte della Galleria,
incredule vertigini di vita e di morte.
Sono usciti dal ventre infecondo di Lucifero quei neri spettri
con le pupille affamate di sangue?
O sono stati partoriti dagli incubi notturni
della nostra cattiva coscienza?
Rituali, sacrifici umani somministrano ogni giorno,
trivellano senza sosta la nostra mente confusa.
Hanno usurpato il colore del sole,
d’arancio ora si veste la morte che conduce al supplizio
i condannati con le pupille assetate di pietà.
Teste impagliate di uomini, di donne, di fanciulli
esibiti nel salotto mediatico ostaggio della loro follia.
Od Dio, Allah, Yahweh, cada la lama dalla mano alzata di Giacobbe,
sopravviva Isacco legato all’altare,
sopravviva l’agnello nudo legato alle nostre colpe inconfessate.
Noi che lo sterco del diavolo ci comanda ogni gesto,
noi che abbiamo gettato dalla rupe Tarpea milioni di uomini
per continuare a ingozzarci di foie-gras.

Mia cara, com’è soffice la colata di marmo bianco
sui nostri corpi protesi in un bacio,
tu Psiche, io Amore possiamo spiccare il volo
dal piedistallo, fissi gli occhi negli occhi,
stretti in un vortice immune al tempo, che buca ogni spazio.
Passione umana, più forte d’ogni sozzura,
d’ogni martellata degli attori della barbarie,
passione che redime il sangue delle loro brutture.

Allora vola Amore mio, accendi le pagine di un libro di casa in casa,
di riva in riva, da valle a valle, sia un coro, un canto in piena,
un contrappunto di parole libere.
Non potranno fare falò dell’immaginazione felpata,
non potranno impallinare la sfrenata fantasia
coi loro fucili di precisione.
Ci hanno provato i kapò dagli stivali neri e le suole nere,
milioni d’uomini hanno schiacciato come moscerini
e col loro sangue abbiamo fatto trasfusioni di libertà e di “mai più”
e abbiamo magnificato destini di barocca vacuità.

Mi guardo intorno intirizzito,
la memoria si è nascosta nel convoglio lattiginoso
delle nuvole basse e la nostra vista va
a intermittenza come i nostri pensieri.
Catturiamola viva, catturiamola subito,
prima che si disperda nella bruma per sempre.

[2] Ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni – Padova,  terminati da Giotto nel 1306
[3] Abu Bakr al Baghdadi, il Califfo nero dello Stato islamico (Isis)
[4] La Madonna del Cardellino, celebre dipinto di Raffaello (1506) – Firenze Galleria degli Uffizi
[5] La Primavera di Sandro Botticelli (1482) – Firenze Galleria degli Uffizi
[6] Nascita di Venere di Sandro Botticelli (databile tra il 1482 e il 1485) – Firenze Galleria degli Uffizi
[7] L’Annunciazione, dipinto attribuito a Leonardo Da Vinci (databile tra il 1472 e il 1475) – Firenze Galleria degli Uffizi
[8] Veduta del Canal Grande di Antonio Canal, detto Canaletto (1726-1728) ) – Firenze Galleria degli Uffizi

Il compianto – variazioni sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca [1]

Quel volto di terracotta infrange l’aria,
un refolo di vento lambisce il mio orecchio.
E’ vivo di sangue e vene gonfie quel collo
e muscoli tirati quel corpo proteso.
I vestiti le balze, le pieghe,
nulla può rallentare la sua corsa scaccia morte
dallo sguardo del figlio.

Riconosco la smorfia potente
d’impotente dolore d’uomo ovunque,
d’uomo qualunque, di pelle qualunque.
Un perché disperato e stretto sale a chiocciola
dalle pareti delle grotte primordiali
fino a esplodere nella bocca come lava d’accusa,
come pianto di vulcano.

Oh Madonna di Mariupol [2] che vedi i pezzi di tua figlia
insieme alle patate al mercato,
liberali dai loro peccati
e getta nelle sabbie mobili
chi gli ha insegnato a lanciare i missili!

Oh Madonna di Kobane [3] che vedi la testa di tuo figlio mozzata
dalle barbe nere del demonio,
liberali dai loro peccati
e getta nel fango chi gli ha insegnato a affilare le lame.

Oh Madonna del Mediterraneo con gli occhi del tuo neonato
sfuocati nei tuoi giù sui fondali salati,
ribellati ai traghettatori della disperazione.

Voi Cristi deposti dal vostro supplizio
consolate tutte le mamme del mondo.
Tamponate l’emorragia della loro ostinata speranza,
chiudete loro gli occhi con la dolcezza delle vostre poppate.
Dipingete alle madri tutte l’aureola grigia
della loro precoce senilità.

Fitta è la palude dei nostri peggiori marciumi
che ne perdo i contorni
e continuo a brancolare i giorni
come cieco illuso di esserne uscito.

[1] A Bologna, all’interno della chiesa di Santa Maria della Vita è conservato  il famoso Compianto del Cristo Morto di Nicolò dell’Arca; il gruppo scultoreo è composto da sette figure policrome in terracotta a grandezza naturale: la Vergine, le tre Marie, San Giovanni Apostolo e Giuseppe d’ Arimatea che piangono sul corpo del Cristo morto. L’opera è stata commissionata dalla Confraternita a Nicolò d’Apulia, detto dell’Arca perché autore dell’arca sepolcrale di San Domenico nell’omonima chiesa bolognese, nel 1463.

[2] Su questa cittadina dell’Ucraina sabato 24 gennaio 2015 sono stati lanciati razzi nel mezzo di un mercato provocando la morte di una trentina di persone e quasi cento feriti.

[3] E’ una città nel nord della Siria molto vicino al confine turco che per mesi è stata quasi interamente nelle mani dell’Isis prima di venire riconquistata a fine gennaio 2015 dalle forze curde.

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Leo Savani DIECI POESIE INEDITE con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

Leo Savani (pseudonimo di Franco Bottacini) è nato a Verona una calda domenica di maggio del 1951. Libri pubblicati: Vele bianche  (grafiche Arcangelo Verona, 1981) e Ventilabri (Rebellato, 1984).

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Nel 1952 il geniale compositore John Cage presentò la sua partitura 4′.33, che compendia molti aspetti dell’estetica cageana, e che egli stesso definì il suo pezzo migliore. – “Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33 come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”. Chiunque voglia immergersi nella musica di Cage anche coloro che non hanno mai preso uno strumento musicale in mano, possono farlo, possono fare musica. Basta indossare un abito da concerto e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare nulla. L’esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica”? che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall’esterno. Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì la persona sente almeno il proprio battito cardiaco).

Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4’33  si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.-“Sentivo e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l’atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O, altrimenti detto: è l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un’altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”?. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell’International Music Council dell’Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio. Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo.

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In queste poesie di Leo Savani si ha l’impressione di un ineliminabile rumore di fondo, che il tempo forte sintattico resti, per così dire, dipendente da un tempo forte ritmico nel quale le percussioni e le inversioni sono all’ordine del giorno e rappresentano una interessante morfologia della composizione poetica. Leo Savani scarta istintivamente la costruzione musicale basata sulla struttura armonica in favore di una struttura ritmica, intesa semplicemente come successione di durate, che possono ospitare qualsiasi parola purché svuotata di senso e di sensorialità. E non c’è neanche una direzionalità temporale in queste poesie, saltata anch’essa insieme alla dialettica di subordinazione che presiede la ragione ideologica dell’Occidente, secondo cui la priorità temporale, ciò che viene prima, assume automaticamente una superiorità rispetto a ciò che viene dopo. Ebbene, questo assioma viene ad essere svuotato di significato. In tal senso, la balbuzie e le inversioni sono serventi all’interno di questo processo di svuotamento di senso della costruzione poetica.

Credo che Leo Savani sia un autore consapevole  del fatto che per aggirare il nostro desiderio di trovare sempre l’emozione nella poesia sia necessario andare oltre il correlativo oggettivo, che si debba abdicare al modello di controllo composizionale tipica della poesia del Novecento, sia della tradizione che dell’Antitradizione, rimuovere tutte le tracce di identificazione personale con il testo.

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Per vedere l’affetto che fa
(20 aprile 2006)

Julie era un intarsio
di occhi profondi come il mare
sulla seggiola dell’osteria davanti alla spiaggia
Julie aveva capelli quasi rossi. Del resto
non era forse francese di Lione?

Maria l’amica greca suonava iridi languide
di birra vino e ouzo al tramonto
aveva la lingua impastata
e mandava riflessi nei capelli del polacco
che ogni tanto raggiungeva a Bialystok

Dietro gli occhi della madre il figlio di Julie
aveva facce larghe e piatte da vietnamita
(Julie dice che anche a lui tra un po’
sarà stretta quest’isola
e andrà con la sorella. Perso anche lui)

Maria non ha figli ma cova il seme
nei sensi e nell’anima come nei pensieri

Eh sì la se
(11 maggio 2006)

Essi la sera
la loro pelle scura strappava le barche
alle braccia forti del mare
Fin troppo calmi e lontani erano
i capi dei loro rituali
Se così fosse – ti dicevi
che oltre l’orizzonte delle onde
oltre la schiuma di ponente
l’arcano di un altro mondo deponesse?
Poi il mare ti confondeva di nero
e un brivido ma leggero
ti disegnava l’inquietudine alla schiena.

E me? Io vorrei essere sempre là
ad allineare ancora sul muro
le piccole tue cose
sas-sile-gnicon-chiglie
opercoli di giada in tessuti nei suoi capelli
ad asciugarsi e ritrovarli bagnati
quando la rugiada si fa mattino

.
Ascalepio
(24 febbraio 2007)

E chi di noi, non io, ti dici
potrà mai più partire dicendo:
Ricordati: dobbiamo
un gallo ad Ascalepio?

Eppure dice il filosofo
quelle voci sono davvero accadute?

Io ho capito solo che il silenzio
è un suono che si ripete e propaga
nel vuoto dell’eco, nell’universo.

.
Julie nel viavai
(14 aprile 2007)

Stavolta
il riflesso dei rossi capelli
di Julie ti colse
profondo riflesso nell’azzurro
dei suoi occhi da Lione
tra le piante di quel viavai.

Questa volta
Julie non ha figli
quest’anno
ha pupille trafitte
di arresa dolcezza
– c’è un grillotalpa
tra il caprifoglio e il mirto:
Lo schiaccio?
Ma no, risponde calma
non fa che il suo lavoro.
Julie.

.
Parole girevoli
(luglio 2007)

Qui anche il mare
è perfino troppo quieto
Io batto la pioggia
e penso come compenso
a poche parole,
in fondo.

A parole girevoli
come queste.
O alle parole come pietre
che mi hai insegnato a incidere.
Tornite tonde levigate
dalla corrente delle nostre isole
o puntute frantumate spinte
dai fronti stanchi dei ghiacciai.

Leo Savani

Leo Savani

Giuli 40 (Ancora viavai)
(6 aprile 2008)

Non mi fermerò più in quel viavai
O mi fermerò ancora. Tanto
i capelli della ragazza di Lione
hanno lampi celesti nel vento
che muta il cielo come sipari
nell’asilo nido delle piante

Julìe?
La ragazza dagli occhi francesi
del figlio vietnamita.

Sotto questa pioggia e le nuvole
che passano, un po’ si ripara
dagli scrosci della corriera
Avrà storie da raccontare
e calze da rammendare, ancora
i grillitalpa da schiacciare

*

(6 aprile 2008)

Nelle luride primavere di Voutakos
vivo a mio modo
cercando cocci e selci
sotto la pioggia
e legni levigati dal mare
e pezzi di conchiglie orfane

.
Da maskino
(25 aprile 2009)

la giulì dagli occhi
di figlio vietnamita
c’è ancora in questo aprile, lì
nel viaviai religioso operoso di bruchi e insetti
ad allevare zolle da attecchire
al vento delle avene da nord
– prima che le bruci l’estate

Solo un lampo d’azzurro, per la verità,
dietro i capelli gialli d’onda
tra gli stretti filari di piccole tamerici
(«per viti è tardi quasi, passi a tuoi rischi
per il damaskino, sì», lei che ha studiato a Firenze»)

Aveva la faccia già arrostita dal sole e dal vento, Giudilì?

Chi sa per dove para i suoi pensieri, ora
e per dove si porta dietro le sue sere
se hanno un po’ di tempo per le taberne
lungo i locali ancora chiusi
con la spuma frizzante del mare
dove si incontrano bocche precarie
di giovani coppie polacche
che si scambiano occhiate intrise d’ouzo

Ferdinando Scianna volto velato

Ferdinando Scianna volto velato

Sopra
(19 luglio 2009)

Il prete colto affonda la malinconia
nella sua vecchia barba
Scansando in fretta aghio gheorghes
va ad aspettare le nove
per la nave
nel porto del mare rosso della sera

Torna ogni anno, un acciacco nuovo
per le sue Turmac che non gli porto

Chissà se mai ha visto
il lampo degli occhi di Julie doltremare
o quelli del figlio vietnamita e chissà
se aspettando in porto
l’onda giusta per la nave delle nove
nel cielo rosso del mare dove affonda le nostalgie
– intanto
benedirà le cartoline
in partenza dal molo di mezzo
quello da dove salpano i sospiri degli albanesi
pronunciando omelie in ghe e ics e troppe consonanti.

Avvento
(11 settembre 2010)

quel vento ancora e ancora
ci porta umori dal continente
e umori da altri mari. Scopre
e flagella i fianchi di cisto delle montagne. Scortica
i ginepri e ribalta le vele ai marinai. Picchia
le canne che difendono le vite a passo corto dei viavai
La sera poi si acquieta e accende qualche luce di musica lontana

.
Cui Paros?
(10 luglio 2011)

Qui, sarà stato anche qui
che il viaggio di Martin
si fece soggiorno

Qui dove i sospiri degli albanesi
guardano lontano oltre il mare
qui dove dall’ossidiana
ai vasi ai marmi alle crete
tutto si fa mistico
di un sole e di una luce
che trascolorano e trafiggono i colori

E tu sei sopra quel trillio
d’un volo di allodola
alto sulle pensose pinete d’Epidaouro

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GIORGIO LINGUAGLOSSA DUE POESIE –  IL RINNOVAMENTO POETICO “Cogito è in viaggio su un treno blindato”, “Giocavano a dadi con i meteci”, con un Commento di Mario M. Gabriele a proposito della rifondazione della “forma-poesia”

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

Il Signor Cogito alla guida della Lada di proprietà

.

due poesie di Giorgio Linguaglossa a cura di Mario M. Gabriele

Se è vero che la filosofia secondo Hegel è:“Il proprio tempo compreso con il concetto”, dal quale poi si forma una connessione di elementi che rientrano nella cosiddetta “Fenomenologia” dove si chiarisce il percorso che ogni individuo deve realizzare, partendo dalla sua coscienza; allora tale definizione può anche essere trasferita, pur con le dovute variazioni, alla poesia, al di là di tutte le interpretazioni che sono state elaborate nel corso della Storia. Barthes, ne “ Il piacere del testo”, perviene ad un progetto di ricerca seguendo le sedimentazioni temporali della scrittura che si allarga ad ogni sapere fino a incontrare il lettore, autentico interprete di ogni opera.

Un interrogativo però si pone ed è questo: è il lettore in grado di interpretare il “Profilo Sommerso” legato alle figure retoriche, che costituiscono la “Maschera” con cui si cela l’altro di sé del poeta, il quale agisce su “Espressione” e “Contenuti”, raggiungendo la Forma estetica del verso fasciato di “Allegoria” e “Allusione”,”Metafora”e Metonomia” ecc.? In questa indagine Barthes coinvolge anche la “Simbolica”  attraverso la quale agisce la scrittura polisemantica. Un altro interprete della poesia è stato Saussure il cui nome è legato allo Strutturalimo, contribuendo con le sue ricerche  a fissare i punti di orientamento della Linguistica, come Scienza, attraverso alcune nozioni tra le quali si annoverano la “Sincronia” e la “Diacronia”, la“Struttura”, e la “Commutazione” che, una volta assemblate, includono la lingua  in  un “sistema in cui tutti i termini  sono solidali tra loro e il valore dell’uno risulta soltanto dalla presenza simultanea degli altri”. L’immagine di una poesia immutabile nel tempo diventa mero astrattismo perché la “Critica del gusto”, verso modelli legati  alla fitta rete-semantica, si è sempre indirizzata verso nuove catalogazioni.  Da molto tempo però  l’industria editoriale ha chiuse le porte a molti Autori di ottimo profilo poetico, immettendo nel mercato prodotti secondari,  camuffandoli come  innovazione, tanto è vero che la critica ha rinunciato al suo ruolo di analisi e di valutazione, creando un vuoto culturale fra letteratura e società.

”Osservando il panorama editoriale contemporaneo ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in Case Editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. Ne deriva una situazione di profondo sconcerto che coincide con l’eclisse della critica della poesia.” (Alfonso Berardinelli).

Con questo scempio editoriale la poesia di frontiera è rimasta ai margini di se stessa e della invisibilità. L’impegno e il rinnovamento non sono stati abbastanza sufficienti a determinare il rovesciamento dei gusti e delle proporzioni poetiche. E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato i poeti di diverse generazioni.

Cosa si può fare allora per contrastare  la letteratura del consenso e dello spettacolo? Rimanere onesti con se stessi, a costo di morire nelle catacombe e accettare il motto delle Giubbe Rosse: marciare per non morire. La tradizione e la ricerca devono avere una funzione interagente nel procedimento linguistico, ciò che non si trova  nell’area avanguardistica ricca di segni iconici provenienti dall’informatica e dall’area multimediale. In quest’ambito il vero coup d’aile avviene con il disordine linguistico dei vari Baino, Viviani, Voce, Ottonieri, Bilotta ecc. che invece di formare una valida alternativa alla lingua, si sono smarriti in un universo senza luce e sbocchi. Per fondare nuove alternative, l’uomo deve riscoprire la dimensione del linguaggio. E’ l’unica risposta che si possa dare al necrologio di Baldacci, che ne “Il male nell’ordine: Scritti leopardiani,” Milano, 1988, ha affermato:” l’Avanguardia non è più proponibile”, confessando nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta ed altri medicamenti  (Torino Einaudi, 1989), “che le parole nella poesia sono state tutte adoperate”. Su questo tema si è espresso anche Sanguineti,  in una intervista di Pietro M. Trivelli, su La Repubblica del 16 luglio 2003, pag.19, quando afferma  che:” non ci sono fronti culturali che si contendano una spinta al cambiamento. Non esistono “Gruppi” di poeti. Tuttavia come negli anni 50 c’era più impulso di ricerca tra pittori, musicisti, registi, rispetto alla letteratura, anche oggi è più viva l’inquietudine nelle arti figurative ma prevale il mercato sul dibattito culturale”.

Onto Gabriele

[Mario Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Su un altro versante ha operato Arnold Schönberg sostenendo che dopo la dodecafonia non è più possibile inventare nuovi moduli compositivi se non reinterpretando la musica. Quando “l’oltre” non è più praticabile nelle arti, l’impoverimento espressivo diventa un deserto morfologico, senza il riscatto formale del significante. Hand Freyer in “Società e cultura” rileva che se un autore vuole sopravvivere all’afasia deve necessariamente “attingere a tutte le fonti, raccogliere parole ed espressioni in tutti i vicoli, ma anche nelle miniere più antiche, purché abbia il coraggio di penetrare nelle gallerie in rovina”. Si tratta della medesima concezione di Eliot sulla poesia, vista come una  unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte: ossia la voce dei morti in quella dei vivi. Contro l’omologazione della poesia koinè, è necessario contrapporre il dissenso e l’antagonismo, cercando di agire con la qualità e la ricerca, senza fossilizzarsi in forme e contenuti  di dubbia consistenza, cambiando un poco le regole del gioco  e i luoghi culturali, fino alla contrapposizione di un progetto duraturo e credibile, potenzialmente rivoluzionario.

È un percorso difficile da realizzare, ma percorribile nelle diverse esperienze acquisite,  Tra i vari modi di scrivere versi, la poesia racconto, (ma anche quella di impronta ideologica, così attiva negli anni Sessanta, con Fortini, Pasolini ed altri), ha offerto uno spazio dilatato  e rispettabile di fronte alla fumisteria e all’apnea poetica. E’ stato un genere letterario che ha avuto nel passato illustri nomi da Mallarmè con “Il pomeriggio di un fauno”, a Pascoli dei “Poemi Conviviali”, da Pavese di “Lavorare stanca”, alla poesia straniera con Lee Masters di “Spoon River”, a Withman, Pound, Garcia Lorca, Neruda, Majakovskij e Ginsberg di Kaddish. In effetti l’ampio registro verbale ha legato il lettore ad una struttura linguistica più impegnata. Se poi la poesia racconto è riuscita ad essere anche un contenitore di tematiche esistenziali, meditative, e socio-politiche, in relazione alle cosiddette figure grammaticali individuate da Kopkins, allora”l’universo del discorso” che, ha caratterizzato questa poesia, ha una sua valenza nel variegato panorama dei “Modelli”. Qui non si possono non citare anche gli esiti della poesia visiva, attraverso la rappresentazione eterogenea dei segni iconici e tipografici, simboli del consumismo, slogans e figure geometriche. Il rischio maggiore legato alla poesia visiva è stato l’autolesionismo che ha sublimato e ideologizzato, nella sostanza e nella forma, l’esclusività dei suoi caratteri nell’era del postmoderno, nel momento in cui era necessaria la sua collocazione in un contesto più vasto e progettuale, fuori  dalle maglie troppo strette di uno status propagandistico, per entrare con altri linguaggi e culture, all’interno di un “villaggio globale”.

Secondo Stelio Maria Martini l’elemento visivo, a parità di diritto con quello verbale, va considerato complementare di questo, perché rappresenta meglio di quanto non farebbe con la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente) per non lasciare nelle mani dei mercanti d’arte o dei fotografi dell’immagine, la mistificazione del prodotto  e il ribaltamento della realtà”, fuori da quell’aura propria di cui parlava Benjamin “Dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica”.

Per quanto si possa parlare in questi tempi di un nuovo ordine linguistico, non si può non riconoscere lo sforzo ricostruttivo compiuto da Giorgio Linguaglossa nei confronti della Forma poetica, sempre attento a non offrire ai lettori del circuito italiano ed extranazionale, paraventi linguistici falsamente comunicativi, da ciò la sua preferenza a riformulare la langue su tutte le ceneri linguistiche. Le figure di pensiero sono così veicolate da una coscienza del dire, che è molto spesso una concatenazione di idee e di recupero di volti e nomi all’interno della Metafora, utilizzata per lo sviluppo di  trame che coinvolgono  più soggetti. Ma si dà anche il caso che, a volte, affiorino gradazioni psicologiche, come incremento del significante da cui partono le fratture del tempo storico e contemporaneo. Ne sono testimonianza le opere pubblicate attraverso le varie sigle editoriali, a cominciare dal 1992 con “Uccelli”, seguito da “Paradiso” nel 2000, da “La Belligeranza del Tramonto” e nel 2013 da “Blumenbilder. Natura morta con fiori”, mentre  in “Tre fotogrammi dentro la cornice” Selected Poems (Chelsea Editions, 2015) il lettore entra  in una antologia poetica fatta di  connessioni metaforiche volte  a rappresentare un continuum di tematiche aperte a tutto campo.

Ho conosciuto l’Autore attraverso la lettura di queste due poesie inedite, da me pubblicate su: isoladeipoeti.blogspot.it e da cui poi sono nati “punti di vista”  sul fare poesia di oggi:

Giorgio Linguaglossa

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Stanza n. 73

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Fasci di luci dai riflettori
posti sulla sommità delle torrette blindate.

Sulla terra battuta il passo dell’oca dei soldati.
I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.

Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
sul numero 33.

Giocano con le bambole, giocano con le murene.
Accompagnano al pianoforte la bella Marlene

Che canta il Lied della nostalgia e della morte.
In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.

Beltegeuse è una stella nana, Enceladon è lontana.
Firmamento stellato.
Cogito è in viaggio su un treno blindato,

Sta scrivendo una cartolina ad Enceladon:
«Mia amata, il mio posto è qui».

[…]

Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
Un Signore salta dalla bandella del polittico nella stanza del pittore.

Cammina per la stanza, dice che vuole prendere un po’ di aria fresca.
Non vuole più dipingere Annunciazioni, pastorelli, re Magi, Madonne col bambino.

Un gendarme col berretto a visiera tra gli hangar, agita il frustino
Un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi, intuiscono
gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.

[…]

Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte.
La luce della finestra non li raggiunge.

Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.
Benozzo alla corte degli Estensi.

Un cardellino sul ramo di corbezzolo,
Non c’è più tempo, deve affrettarsi,
il Beato Angelico lo ha chiamato a Roma presso il papa.

«Per fare cosa?», si chiede Benozzo, «ancora affreschi,
polittici da altare, annunciazioni?».

Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.
Inverno. È arrivato il grande freddo.

Berlino. Il lampionista spegne i lampioni lungo la Marketstrasse n. 7.
La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.

«Gutentag Herr Cogito».

(da Le Risposte del Signor Cogito inedito)

 

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del tramonto, 2006)

Trattasi di un fluire poetico di  autentico “humus psicoestetico, all’interno del quale si può benissimo parlare di poesia perché Linguaglossa ha introdotto un vero e proprio linguaggio ellittico e risolutivo, cancellando l’Expo del linguaggio tradizionale e afasico, rimuovendo il lirismo del dopoguerra, e le fantasie verbali dei poeti pulp, e post-avanguardisti. Da qui il rifacimento di una realtà, con un mutamento linguistico che non è soltanto frattura con la Tradizione, ma  rimozione di un mondo risemantizzato con nuovi “strumenti umani”.  Su queste due poesie l’Autore precisa che «la loro stesura ha riguardato una distanza temporale di 10 anni l’una dall’altra, la prima l’ho scritta nel 2014 mentre la seconda nel 2005. Questo, per dire che c’è stata una continuità tra il primo lavoro e l’ultimo ancora inedito su carta. Poi, in questi anni c’è stato l’aggravamento della Crisi del Paese e la Crisi della Ragione Narrante che mi ha motivato a spingere sull’acceleratore di una forma-poesia che riorientasse la poesia italiana del secondo Novecento. Ho dovuto prendere le distanze perciò dalla poesia di “Satura” (1971) di Montale, il maggior poeta italiano del Novecento, per sterzare in un’altra direzione. Ho dovuto apprestare perciò uno strumento linguistico e stilistico e una metafisica, insomma, ho dovuto munirmi di una  nuova ontologia estetica. È stata una ricerca che è durata 30 anni, perché sono dovuto partire da zero. O quasi. Ho dovuto inventare di sana pianta uno stile modernistico e riallacciarmi alle sorgenti del Modernismo europeo, un lavoro gigantesco che dovrebbe essere visibile nella raccolta di prossima pubblicazione “Il tedio di Dio” che dovrebbe uscire con Progetto Cultura di Roma.»

Nella mia replica, ricordo, sempre tramite post, di aver usato per me, nella ricerca sulla poesia, il termine “speleologo”, che molto si addice al Linguaglossa nel suo lavoro di rifondazione linguistica, formale e lessicale, di contenuti, opzioni salutistiche sulla lingua e al progetto psicoideografico della realtà, asfissiando così l’area poetica venutasi a saturare con il Gruppo ’93, e della terza ondata, e approdando con coraggio a una “rifondazione” della lingua in diversi capitoli estetici, che hanno aperto la lettura a nuovi canoni utili a giustificare “l’assedio” alla poesia, durato 30 anni di ricerca e di impegno ricostruttivo. La novità che intravedo, leggendo le sue poesie, è correlata ad un  umanesimo culturale che affonda le radici in più territori. Ciò viene a determinare un “manifesto poetico” indicativo nel fare poesia.

Fayyum ritratto di Donna romana

Fayyum ritratto di Donna romana

Sul concetto di Arte, con riferimenti anche alla musica e alla poesia, Linguaglossa  centralizza il suo pensiero affermando che: ”Nell’arte degli Anni Cinquanta avviene una”catastrofe”, ovvero l’incrocio tra diversi codici artistici che sfocerà in una libertà fino ad allora impensata. Un artista la cui opera è altamente significativa e densa di conseguenze per chi voglia intendere, è stata la musica e le riflessioni di John Cage  il quale scrive che

“l’arte è un modo di vita, come prendere l’autobus, cogliere fiori”, affermazione che comporta l’abbandono del regno tradizionale dell’estetica e una visione della vita come il regno del non-intenzionale. Nell’opera di Cage vengono recisi i legami con il linguaggio e la teoria musicale tradizionale: i suoni non sono più considerati un veicolo di significati tratti altrove, ad esempio da un testo poetico, e non sono più ordinati secondo un sistema prestabilito (armonico, tonale, atonale, dodecafonico) in cui incasellarli in una gerarchia di suoni. Tale pratica di non-intenzionalità rispetto al suono sollecita un gesto di sospensione autoriale. Il che comporta che i suoni accadano in quanto suoni al di fuori di qualsiasi pentagramma prestabilito.

“Direi che questo assunto,” continua  Linguaglossa, “è utilissimo anche per quel che riguarda la procedura compositiva di una forma poetica. Cage ci ha dimostrato che in musica è possibile trattare i suoni in questo modo. Analogamente, con le parole è possibile operare secondo un procedimento dinamico interno che si spinga fino alla impossibilità di giungere all’opera conchiusa; insomma, mediante una procedura che consenta di creare allo stesso modo con cui si crea l’universo in continua espansione. L’autore quindi si deve limitare a creare una struttura-cornice o un progetto-partitura entro i quali lasciare che gli eventi accadano. Le parole quindi vengono trattate come eventi. Le immagini e le metafore sono nient’altro che eventi. In tal senso la mia poesia può essere letta come una grande scacchiera dove avvengono eventi molteplici i quali creano a loro volta nuovi spazi interni entro i quali si inseriscono altri eventi che accadono in uno spazio-tempo in continua espansione. Con questa procedura si possono ottenere una miriade di spazi che si aprono all’interno di altri spazi, talché avviene che la distanza tra due o più spazi viene ad essere misurata dal tempo (dal tempo vissuto), quale categoria ontologica di seconda istanza. È una procedura di nuovo conio, ma non lontana dalle procedure compositive di Mandel’stam che teorizzava e praticava una poesia basata sulla metafora tridimensionale; una procedura imparentata con la teoria degli equivalenti oggettivi di Eliot e con la teoria dell’imagismo di Pound. Per non parlare delle immagini in movimento di Tomas Tranströmer. Si tratta di uno sviluppo ulteriore degli assunti della poesia modernistica europea”

acconciatura muliebre periodo del principato

acconciatura muliebre periodo del principato

Il 4 settembre.2015 10:29,  così rispondo al Linguaglossa:

“Il pensiero di Cage annulla la funzione statica della musica: una specie di “armonium” che ci ha accompagnato anche in poesia per lungo tempo, quintessenziando il pre e postermetismo (Soffici, Marinetti Sbarbaro, Onofri, Cardarelli e, perché no, lo stesso Montale di “Le occasioni”, per cui di fronte alla impossibilità di creare nuovi stilemi e, andando su un altro versante, quello della musica dodecafonica, anche Arnold Schönberg, ha ripudiato il principio tradizionale di una tonalità non riformabile,  mettendo i dodici suoni della scala cromatica su un piano di assoluta eguaglianza, e ritenendone ognuno parimenti atto ad essere centro armonico e generatore di accordi. Qui sorge lo stesso tuo problema di fronte ad una poesia da rigenerare ex novo. Su questo passaggio la domanda è se dopo la dodecafonia è possibile andare oltre approdando a una nuova musica, ossia, inventare altri moduli compositivi? Su questo tema, a suo tempo, rispose il Maestro Carlo Maria Giulini, il quale alla base della sua esperienza negò altre soluzioni, asserendo che la musica può essere solo reinventata e reinterpretata così come avviene per le metafore che in poesia costituiscono “eventi”, illuminazioni”, “dinamismo iperculturale” come fai tu.”

Il 4 settembre 2015 12:36:

Linguaglossa chiude gli interventi, precisando che “In analogia con gli assunti della musica dodecafonica possiamo ammettere che le parole siano tutte eguali, che partano da uno statuto di eguaglianza per cui ciascuna parola può essere, assumere, il ruolo di centro di gravità (sonora e/o insonora) della composizione poetica. Il centro armonico generatore di accordi quindi può essere rivestito da qualsiasi parola, immagine, metafora, tutte su un piano di parità. Certo, questo assunto implica che l’autore si ritiri nell’ombra, che si situi in una zona fuori dal cono di luce della composizione, fuori visione. Concetto correlato con quello della impersonalità dell’arte moderna e dello svuotamento anche semantico che attinge le parole di oggi nella lingua di relazione e nei linguaggi poetici. Quello che non capiscono i poeti di modesta levatura è proprio questo punto. Impersonalità e disumanizzazione dell’arte implicano l’accettazione di una estetica del vuoto quale quadratura del cerchio (mi si passi l’ossimoro), come unica condizione possibile da cui partire e a cui ritornare.”

Quando Franco Fortini scrisse Traducendo Brecht, aveva già metabolizzato il fallimento della sua idea marxista della società soffermandosi sulla inutilità della poesia come nella chiusa del testo e cioè: “La poesia non muta nulla / nulla è sicuro ma scrivi”; un invito che si adatta molto bene al lavoro di Linguaglossa e alla sua ferrea volontà  di rifondare la poesia partendo da zero. E’ una lezione che ascolteremo fino in fondo, con immutata attenzione e curiosità.

Formalizzati così i “punti di vista”,  rimane ora  indicare l’area dove collocare la poesia  di Linguaglossa. che certamente va agganciata alla poesia modernista ed europea, quest’ultima caratterizzata dallo“stile che nasce dal dialogo cosmopolita alla ricerca di un nuovo linguaggio della poesia. La caratteristica principale del nuovo stile è quella di mirare alla costruzione di testi polifonici, leggibili a più livelli e giustapposti su un unico piano senza distinzione, consentendo così di accostare registri linguistici appartenenti a strati sociali, e culturali diversi” (griseldaonline) E’ una strada, o meglio un obiettivo che si può raggiungere solo con una cultura alle spalle e tanta esperienza da rimuovere la poesia dal suo stato letargico e afasico.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

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