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Steven Grieco Rathgeb, Il collegamento fra utamakura e agorafilia – fra waka e poesia del XXI secolo, Parte 2, Viaggio dalla poesia giapponese waka (fine IX secolo metà del XIII secolo) alla poesia italiana di oggi, Higo, Monaco Jien,  Kino Tsurayuki 

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Steven Grieco Rathgeb

Cari lettori,

questa è la parte seconda del mio pezzo sulla poesia del XXI secolo. La terza si dedicherà alle disfanie, e la poesia oggi. Qui invece si parla del waka, forma poetica giapponese tradizionale, che raggiunse il suo massimo splendore un millennio fa circa. Come vedrete, niente di più moderno, perché i vari espedienti retorici, fra cui l’engo e l’utamakura, che questi poeti usarono consentirono loro – ai migliori di loro, s’intende (donne per la stragrande maggioranza) – di trasgredire tutti i limiti spaziali e temporali della poesia bi-dimensionale sul foglio di carta. Facevano questo, in effetti, virtualizzando lo spazio e il senso dello scorrere del tempo, così come noi oggi andiamo sul computer e ne sfruttiamo la potenza irreale, fantasmagorica. Bisogna sforzarsi di capire che digitale e virtualità, così come anche l’IA, non sono così avveniristici e pionieristici quanto si pensa. Tutto radica in un passato, e prima l’uomo ipermoderno capisce questo semplice fatto, prima riuscirà a dominare questi cavalli imbizzarriti, invece di esserne atterrito, come davanti a un mostro sacro.

Steven Grieco Sakurabana 2

Sakurabana, Tokio

Parte 2. – Utamakura

Ho conosciuto questo termine in un contesto insospettabile – niente a che fare con le mie vicende personali – quando a varie riprese fra il 1999 e il 2009, fra Firenze, Tokyo e Roma, lavorai con un professore giapponese sulla traduzione di composizioni poetiche chiamate waka. (Il waka, una forma poetica giapponese di 31 sillabe divise in 5 unità 5-7-5-7-7, raggiunse il suo massimo splendore nelle 8 antologie imperiali del periodo Heian, dalla fine del IX sec. alla metà XIII.)

Nella poesia giapponese l’utamakura (uta, poesia, makura, guanciale) è il punto di avvio della composizione. Molto spesso è un toponimo, evocante una località geografica densa di allusioni storiche, sentimentali, esistenziali, poetiche. Costituisce uno degli espedienti retorici significativi nel contesto del waka e più tardi anche dell’haiku. I giapponesi di mille o più anni fa lo capivano bene: là dove posiamo la testa per riposare costituisce un punto focale che plasma momenti cardine della nostra psicologia e immaginazione estetica: sonno, sogni, risvegli.

Monaco Jien  (1155-1225)

 Akinoyono tsukiwokokonite nagamenuya akashinourato iihajimekemu

 volendo contemplare da qui la luna nella notte d’autunno
come potremmo non iniziare con ”la riva di Akashi”?

 Ecco un classico esempio di utamakura, più didattico che “ispirato”, ma proprio grazie a ciò per noi illuminante: presumibilmente, un poeta più anziano invita poeti più giovani a recarsi mentalmente  “da qui” (kokonite, ovvero la capitale) nel luogo  che desiderano evocare (Akashi).

 Akashi viene spesso associata con Suma, la sua città gemella. Sorgono molto vicine l’una all’altra sulle sponde del Mare Interno. In antico, erano state divise da una barriera, suma no seki, costruita per difendere l’impero giapponese dalle incursioni barbariche dal continente asiatico. Già nel primo periodo Heian (tardo 8° sec.), la barriera non esisteva più ed era solo un lontano ricordo, ma Suma faceva parte della prefettura di Kyoto, mentre Akashi stava fuori, nella prefettura di Harima. Per questo motivo, Akashi fu luogo di esilio per coloro che incorrevano l’ira dell’imperatore e venivano cacciati dalla capitale. Genji, il Principe Splendente, è uno di questi. Ad Akashi si andava per soggiorni in genere brevi, in seguito a colpe leggere. (Il vero confino era a Dazaifu, da dove non si tornava più).

 Higo (morta dopo il 1129)

tsuki kage no akashi no ura wo miwataseba kokoro wa suma no seki ni tomarinu

quando il volto della luna ci apre lo sguardo su Akashi luminosa,
quanto vorrebbe il cuore fermarsi presso la sbarra di Suma!

 Nell’immaginario dei poeti-aristocratici Heian, Suma e Akashi rimasero per sempre divise da una barriera inesistente, diventando così una metafora della separazione e nostalgia. Cito qui da un nostro articolo a quattro mani su questo argomento:

“Il tratto di costa tra Suma e Akashi è leggermente arcuato, per cui l’una località non è visibile dall’altra. L’io che dentro il waka vede questo paesaggio, potrebbe trovarsi su una barca più al largo sulle acque del Mare interno. Il verbo tomaru, ‘venire a fermarsi, a dimorare, passare (la notte)’, fa pensare che la poetessa immagini di dormire sul mare. Solo il cuore è a Suma: il corpo rimane ad Akashi. Ecco perché l’anelito.

In questo waka, scritto nella capitale, la poetessa evoca un luogo assente ai suoi occhi, e una barriera inesistente, il cui ricordo però rimane carico di associazioni emotive.”

I waka che associano un toponimo alla luna – ma anche poesie sulla luna prive di utamakura – rivelano entrambi, come mi faceva notare il professore giapponese, questa capacità dei poeti Heian di uscire dai propri corpi fisici e recarsi in questo stato “disincorporato” nel luogo prescelto per la loro poesia.

 Kino Tsurayuki Private Anthology

hisakata no amatsu sora yori kage mireba yoku tokoro naki aki no yo no tsuki

quando vedo il suo splendore espandersi nei più remoti angoli del cielo,
non vi è luogo dove la luna non arrivi in una notte d’autunno

Dalle parole usate (ben tre sinonimi per “cielo”: hisakata, amatsu, sora!), si capisce che il poeta è volato su nell’aria sopra la capitale per mirare questo panorama. Lo spazio virtuale del waka acquista una fugace profondità che è in tutti i sensi tridimensionale.

Nei waka posteriori, in cui l’effetto 3D viene sviluppato ulteriormente, vediamo in quale modo il poeta(-lettore-traduttore) rientri nella sua composizione per ritrovarne l’ideazione originaria, e ripercorrerne le bozze precedenti (quelle che io chiamo “supersimmetrie”). In breve, una proprietà in qualche modo sciamanica gli consente di vedere la poesia per quella che è: un organismo nato dalla sua immaginazione, vivo e sottile, completo del suo rovescio, della sua negazione, delle sue imperfezioni.  La sua totalità. Nel waka Heian, il paesaggio (quindi lo spazio fisico) è cruciale nel far uscire dalla poesia il suo potenziale tridimensionale.

Questo mostra di nuovo come una composizione poetica, senza lettore, è ferma come in sospensione animata. Il che mi suggeriva l’ovvio: il suo compimento – il flusso interno di tempo (umano) – può soltanto venire dalla lettura.

Grazie dunque allo strumento dell’utamakura, capii meglio quale fosse la reale capacità immaginifica del poeta, capii meglio la mia stessa nozione di agorafilia: come tale capacità immaginifica costituisce la base stessa della poesia.

Higo

tsuki wo mite omou kokoro no mama naraba yukue mo shirazu akugare na  mashi

alla vista della luna, il cuore pieno di immagini si scioglie affascinato,
e se ne va errando senza più conoscere la sua meta

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Steven Grieco Rathgeb

Ancora cito dal nostro articolo: “In genere nei waka, la direzione della mente del poeta ‘rapito dalla luna’ viene indicata: verso una nuvola, verso la luna stessa, verso la Cina. Ma questo waka non dipende nemmeno più da un utamakura: è privo di paesaggio, sembra esistere unicamente in funzione del desiderio, il quale si muove sempre in anticipo rispetto al corpo. Qui per la prima volta nella poesia Heian, il poeta perde il suo intimo collegamento con la luna, e diventa un fantasma vagante. Ciò è perché la luna ha il potere di portare il cuore nella direzione che esso segretamente desidera.”

Il senso di spaesamento qui è modernissimo. Il waka, e più tardi anche l’haiku, sono forme poetiche così particolari proprio perché prefigurano la virtualità digitale: sottilmente tridimensionali, a struttura aperta, modificabili come oggi lo sono le installazioni. È questo che consente alla poesia di rimanere aperta – e al lettore e al traduttore di entrare in essa, ricreandola. Ad ogni lettura. Volta dopo volta.

È lei, Higo, che indica il collegamento fra utamakura e agorafilia – fra waka e poesia del XXI secolo; fatto per niente sorprendente, poiché si tratta di un nostro comune patrimonio umano. In fondo, una studiosa di Urdu, Natalia Prigarina, ha detto che il grande poeta di Delhi, Mirza Asadullah Ghalib, involontariamente tradusse Ovidio, mentre Marina Tsetaeva nella sua poesia involontariamente tradusse Ghalib! (Per la distanza, temporale, geografica, linguistica e culturale, non potevano mai essersi conosciuti.)

Sono stati waka come questi che mi hanno dato gli strumenti concettuali e tecnici perché io osassi varcare la soglia del testo poetico, entrando nel vivo, dirigendo lo sguardo nelle sue profondità.

O Bon è il giorno dei morti in Giappone. Cade nel mese di agosto. È una festa luminosa, in cui più che la tristezza domina la solennità. Qua sotto sono alcuni stralci della mia poesia, “Felice notte – O Bon”, che si riferisce specificamente alle mie esperienze con il Giappone e con la dura, angosciosa disciplina di tradurre waka. La poesia si costruisce su un bizzarro doppio utamakura, che oscilla fra il quartiere Roppongi a Tokyō e l’Esquilino a Roma (oltreché Firenze e Kyoto, e l’Epiro in sottofondo). La scrissi fra il 2014 e il 2016, quando il mio pessimismo riguardo alle sorti della poesia nel XIX secolo era giunto al massimo. In “Felice notte – O Bon”, gli antichi poeti Heian sono venuti da me (ovunque io abiti) per portarmi a Peng Lai, l’Isola Incantata degli immortali Tang.

 È pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.
No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.

[…]

Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte –
una notte festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.
Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi
i tuoi tempi passati: la preziosità dell’enunciato, veloce
come un fulmine, capace di nascondere-rivelare
strati ben più interni delle cose.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadranno come neve.

Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro stai al largo di Suma e Akashi
città gemelle, splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia. Continua a leggere

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Steven Grieco-Rathgeb, AGORAFILIA, UTAMAKURA, DISFANIE, tre parole-concetto per una nuova poesia

Onto Steven Grieco

Steven Grieco Rathgeb, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Steven Grieco-Rathgeb

Questo testo ha origine da una conferenza che ho fatto a Trieste nel marzo 2019, al Festival di Poesia di Duino. La mia intenzione allora era riassumere nello spazio di un’ora una mia visione della poesia contemporanea, basandomi sulla esperienza che ho in questo campo. Avevo scelto i tre termini che in massima parte definiscono il mio specifico percorso poetico: “agorafilia”, “utamakura”, “disfanie”. La poesia oggi è bloccata nel passato, dove sembra dilaniarsi in una crisi profonda. Qui io propongo questi tre termini, così come sorgono dall’insieme dei miei dettagli biografici, esperienza personale, studio e riflessione sulle cose, come contributo a quello che alcuni di noi qui in Grecia, e in India, e anche in Italia, stiamo cercando di fare: creare una rinnovata idea di poesia nel 21° secolo.

Il testo, completo di tutte e tre le parti, è già in procinto di traduzione in lingua Hindi per la pubblicazione in “Samas”, una delle maggiori riviste letterarie indiane. In accordo con Giorgio Linguaglossa, direttore dell’Ombra delle Parole, la seconda parte e la terza –  “Utamakura” e “Disfanie” – seguiranno su questa rivista online nelle prossime settimane. Per tuttavia conservarne l’interezza per il lettore, qui sotto definisco brevemente i tre termini:

  1. Agorafilia: uso questo termine per indicare la specifica creatività immaginifica che la mente umana possiede. Aspetti di questa sono ciò che l’artista poi sviluppa e mette a frutto nelle sue opere. Si dice infatti che l’arte eserciti un effetto “illuminante” tanto sul creatore quanto sul fruitore. Ma io vedo l’arte più come mezzo per veicolare ad entrambi l’effettiva coscienza di questo processo mentale. Leggere un racconto di Chekhov significa essere in grado di immaginare ciò che l’autore ha immaginato. È una capacità che dovrà tornare ad essere riconosciuta oggi, come in passato, una delle fondamentali funzioni della poesia.
  2.  Utamakura: “guanciale della poesia”. Figura retorica usata nel waka Heian. È costituita da una parola semplice o composta che fornisce il primo impulso allo sviluppo della poesia. Il fatto che l’utamakura spesso evochi un luogo geografico, lo rende emblematico anche della mia esperienza vissuta, fatta di innumerevoli viaggi ed effimeri approdi. 
  3. Disfanie: nel contesto della società distopica in cui viviamo oggi, indica intravedere la ‘realtà’, ‘l’Oggi incandescente’, come attraverso una fessura nella monolitica facciata del nostro mondo ipermoderno; coglierne il deforme, l’obliquo, ma anche il sublime. Nella scrittura, disfanie è il वहन, il vahana o veicolo, la modalità retorica che permette all’autore di esprimere questo particolarissimo sentire. Lo scritto disfanico invita il lettore a trapassare il velo delle apparenze, per scorgere il mondo libero da filtri ideologici, idealizzazioni, travestimenti e inganni.
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Steven Grieco Rathgeb

PARTE PRIMA – AGORAFILIA.

Curiosamente, ho scoperto di recente che in psicologia, l’agorafilia rientra nel complesso di illusioni e delusioni che l’adolescente affronta nel processo lento e spesso doloroso di diventare adulto. (Vedi Adolescenza. II parte – Il Giornale della Società di Psicologia Clinica Medica. http://www.psicoclinica.it/adolescenza-ii-parte.html) A proposito, agorafilia indica anche il “desiderio ossessivo di praticare sesso all’aperto” (!!), cosa che io in persona non ho mai avvertito, almeno non come ossessione…

Seppure la consapevolezza di un’agorafilia creativo-artistica fosse in me già dall’adolescenza, il senso di essa forte e inequivocabile iniziai ad averlo quando intorno ai 25 anni insegnavo inglese agli studenti universitari italiani, e quando poco più tardi diventai traduttore “a vita”, chiuso lunghe ore dentro una stanza per guadagnare il minimo per assicurarmi una magra sopravvivenza. The mind’s eye (“l’occhio della mente”) mi portava a vedere proiettati negli spazi impalpabili davanti a me luoghi che ben conoscevo e amavo, ma che in quel momento erano lontani: Istanbul, Venezia, la Grecia, i paesaggi balcanici, gli sterminati campi di girasoli della Serbia, un racconto di Chekhov. Provavo gioia che questo succedesse a me, e un senso di meraviglia di essere pienamente vivo.

A 35-38 anni, mi era abbastanza chiaro che la funzione di compensazione psicologica di questo insondabile pozzo di potenzialità ideative era solo la sua avara e scontatissima superficie; che le immagini non erano propriamente luoghi, quanto stati d’animo – meglio ancora, stati d’essere. Allora per la prima volta usai la parola agorafilia per esprimere questa esperienza complessa: come avviene che nel dormiveglia, quando siamo concentrati su qualcosa di specifico o rivolti altrove, appaia il cosiddetto sogno a occhi aperti. Le sue immagini traspaiono impalpabili, sovrapposte sul cielo, sul muro di fronte, su un altro paesaggio. E scompaiono non appena ne prendiamo coscienza; ma anche dopo essere “tornati in noi”, di esse serbiamo l’inafferrabile scia d’immagine, immagine che possiede tutte le qualità di un organismo vivente.

Per parafrasare C.G. Jung, gli archetipi insediati nella psiche umana si manifestano a noi vestendosi nel mondo fenomenico delle forme e dei colori con cui hanno particolari affinità.

Come negare che la “immaginazione” abbracci innumerevoli aspetti contrastanti della percezione che noi abbiamo delle cose, e incida molto più fortemente sulle nostre azioni e decisioni di quanto non vorremmo ammettere? L’illogicità del tracciare linee troppo nette fra essa e quella realtà che pensiamo di controllare, diventa evidente quando un sentimento di panico fa crollare le borse del mondo, o un uomo assennato prende una decisione che un giorno rimpiangerà amaramente. L’unico modo per uscire da questo paradosso è di spostare sempre la colpa verso “qualcos’altro”. Sarà invece che la potenza immaginifica della mente è sempre presente nel nostro stato di veglia, dove influisce sulle altre attività mentali e volta dopo volta piega la nostra volontà.

Agorafilia è una esperienza che apre la vastità dello sguardo, diventa l’immagine desiderata, lo specchio chiarissimo di verità interiori, per quanto rimosse. Ecco forse perché i luoghi di Grecia o Turchia o Sicilia che avevo visto con i miei occhi, mi davano un curioso senso di impavidità. E Galata Sarayi a Istanbul esprimeva allora per me tutta la complessità dell’essere umano. I luoghi noti e ignoti, il loro aspetto duro e attraente, rispecchiavano la mia personale situazione, e allo stesso tempo ci cozzavano, invitandomi ad affinare i miei strumenti espressivi perché potessi raggiungere il massimo nella vita e nella poesia.

E mi aiutavano anche a intravedere le frontiere del desiderio, i varchi oltre i quali niente può essere. Perché l’esperienza agorafiliaca mi insegnava in quale modo l’irreale si trovi profondamente insediato nel reale. Presto la mattina una macchina vuota con i finestrini abbassati, ferma sul ciglio della strada in riva al mare, può scatenare un intero cosmo in cui l’immagine delle montagne, delle colline e dei promontori tutto intorno si mescola con i ricordi e le immagini mentali di quella stessa immagine, moltiplicata in miriadi di immagini. È questo cosmico interfacciarsi tra pensiero, memoria e ciò che vediamo nell’attimo, che noi chiamiamo “esser desti in questo mondo”.

Dunque molta arte e molto pensiero poetico nascono da simili processi immaginifici. La scrittura poetica ha sempre significato prendere le parole di uso quotidiano e trasporle su un piano più concentrato, di maggiore densità, dove il loro senso è libero di vibrare quasi interamente su registri in genere (ma non sempre!) ignoti a forme di scrittura quali la commerciale o la scientifica.

Una mia poesia inglese del 2005 (da Entrò in una perla, Mimesis, Collana Hebenon, 2016):

Nel silenzio la poesia parlò,
le sue parole liane
di un rampicante
che sale
ogni nodo più alto
verso un aprirsi
una trama sorpresa
in altro esistere,
un altro punto del mondo
che ruota
pronto ad offrire i suoi significati,
un’altra faccia gelosa sul prisma
scintillante.

E cosa cercavi di afferrare
che risuonava là dentro
ma non era al suo interno

era solo il fervere d’immagini,
i suoi riflessi incancellabili

Anche la scienza si trova a dover usare usare immagini per veicolare le sue scoperte, non soltanto al pubblico inesperto, ma agli scienziati stessi, pena la incomunicazione e la non-inclusione in un discorrere più vasto sulle cose. Cito una frase da un testo sulla materia scura, e la dinamica delle collisioni galattiche: “le stelle sono meno interessate dal trascinamento dei gas, poiché occupano molto meno spazio, dunque passano vicine le une alle altre, scivolando come navi nella notte.” (http://chandra.harvard.edu)

Quando ero adolescente suonavo il Flamenco sulla chitarra. Le scale, i ritmi e lo specifico modo di impostare le diverse modalità di questa musica sono rigorosamente dettate dalla tradizione, che nel contempo lascia molto spazio alla improvvisazione. Quando io allungavo o accorciavo le note pur sempre rispettando il tempo, intuivo come ciascuna nota contenesse una capacità illimitata di contrazione o estensione temporale – in tutte le direzioni, su giù, lateralmente. Lo smisurato e davvero un po’ misterioso potenziale di questo mondo matematico di suono, ordinato-inordinato, lo potevi toccare con mano. Me ne stupii: ecco, dunque come l’immaginazione e la realtà esterna continuamente s’intessono. Anni dopo scoprii Giacinto Scelsi, che in molte sue opere esplora l’universo sonoro dentro la nota singola.

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Possiamo infatti chiederci se tutte le attività umane non siano in effetti forme diverse del nostro “pensare il mondo”. Il modo specifico in cui il musicista elabora la nota all’interno del suo preciso spazio temporale, sarebbe allora dare “senso”, “significato”.

Tutto ciò che vivevo da uomo molto giovane, mi mormorava questo; e come la visione deterministica delle cose ne uscisse con le ossa rotte. Eppure da ogni lato mi si diceva il mondo ideale ma non idealizzato essere l’esatto opposto della realtà. (Ahimè, conoscevo Bergson solo di nome.) Poteva la mia consapevolezza aiutarmi a vincere questa assurdità, mi chiedevo? No, a giudicare da una poesia italiana che scrissi nel 1974:

ON HIS 25th BIRTHDAY

Andandomene così,
nell’improvviso riquadro di fari accesi
balza un’ombra al muro notturno
urta nella luce
cercando di ricordare

di notte un cane travolto sull’autostrada
come attraversare, le auto che corrono,
come riprendere il corpo
portarlo in salvo fra i fasci luminosi

(un cespuglio emetteva brani di musica
l’uccello trasognato s’involò,
da tempo la tristezza pungente
era scesa sulla lastra del ricordo)

come attraversare le grandi corsie
le auto che passano volando
il cane scomparso nel buio balzando su
più morto nelle ruote di luce

Salgono schegge, frantumi di poesia
un’immagine si apre franando
inghiottita dalla lente che concentra –

Raccolti in un punto gli anni spersi,
funi sgomitolate, ruotanti al cielo stellato

Torno brevemente alla trasmutazione di realtà vissuta in espressione poetica, per dare un’idea della estrema precisione che questo processo richiede al poeta, citando un brano da “Il viaggio”, Parte Prima, sempre del 1975:

L’erba ondeggia nello stagno
il faro preme al mare annuvolato
un radar scruta il cielo:
vuoti i segni, il peso scompare,
su per gli occhi inerti sale il pensiero
fra i violenti rami intrecciati,
volando verso il grande respiro.

Le mani guida a tastoni il cieco senso
le mani cercando. Un qualcosa di duro.
Tastano, palpano. Schiocco. Rugosa superficie, angoli, lati:
profonda volando. Non angoli, rotondità,
il profondo torna di scatto.
Poi afferrano, il senso cresce si forma
particelle di luce si muovono, viaggiano verso la mente
– fotogrammi, nero, grigio, più chiaro –
generando la pura immagine,
memoria di forma ondeggia frondosa nel vento.

Dice infatti Bergson:

“Quel est l’objet de l’art ? Si la réalité venait frapper directement nos sens et notre conscience, si nous pouvions entrer en communication immédiate avec les choses et avec nous-mêmes, je crois bien que l’art serait inutile, ou plutôt que nous serions tous artistes, car notre âme vibrerait alors continuellement à l’unisson de la nature. Nos yeux, aidés de notre mémoire, découperaient dans l’espace et fixeraient dans le temps des tableaux inimitables.”

Ecco come iniziai – da qualcosa di simile alla réalité di Bergson circa le cose e noi stessi; che l’arte, dice lui, esprime meglio di altre forme di comunicazione umana. Ero convinto che una rinnovata, forte visione poetica potesse suggerire aspetti fondamentali delle cose all’uomo, soprattutto a coloro che credono ciecamente, come dice Edgar Morin, nello “slancio della scienza su basi empirico-razionali”, quella scienza partita da “Galileo, Descartes e Bacone,” la quale “permette di conoscere, ma separando gli oggetti di conoscenza gli uni dagli altri e separandoli dal soggetto conoscente, insomma dissolvendone la complessità” (“Au delà des Lumières”, in Vers l’abîme, Editions de l’Herne, 2007). Con quella cieca fede scientifica si sono costruite le visioni del mondo fasulle di cui sono disseminati i secoli più recenti.

Io sognavo una visione più completa. Molto più tardi, nel 2008-10 scrissi Agorafilia, un lungo racconto anche autobiografico sui miei rapporti con l’immaginazione e la poesia. Quel racconto inizia così: Continua a leggere

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UNA POESIA INEDITA di Steven Grieco Rathgeb “Felice notte O Bon” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “«Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto”; “La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato”

Steven Grieco Epang-Palast

la Montagna degli Immortali

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Nel 2016 pubblica Entrò in una perla Mimesis Hebenon editore. Dieci sue poesie sono rinvenibili nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) indirizzo email: protokavi@gmail.com

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Che cosa ci dice Steven Grieco Rathgeb in questa poesia? Tutto e nulla. Ci parla di «sconosciuti» «giunti da così lontano», di «ospiti» che hanno abitato il «tuo pensiero: fluido, inafferrabile»; subito dopo parla del «volto delle principesse»; infine una notazione, un ricordo, una negazione della notazione: «No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri, / lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.»; accenna a una «distanza» che gli «occhi» sono «capaci di raggiungere». Ecco, siamo arrivati ad un punto chiave: si tratta di una poesia dello sguardo che tenta di raggiungere una «distanza», un «luogo». E poi, subito, una tranche di ricordo biografico: «Anni prima uno di loro era venuto a Firenze / nell’appartamento sui tetti». Quindi, «uno di loro», qui si parla di fantasmi, dei fantasmi della memoria, che ritornano. Poi ci sono dei soprammobili, delle masserizie, i libri di Li Baj, e poi si parla di un «serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale», una mostruosità che si insinua nell’interno dell’anima e del ricordo; e poi, di nuovo, l’intermezzo di un ricordo, che diventa immagine: «A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV»; e poi un’altra immagine ricordo, un misterioso «ospite»: «lui era l’anonimo sassofonista». La poesia continua così, con ricordi che diventano immagini e immagini che si presentano nella veste di ricordi. Tutto e nulla, misteriosamente, convergono. Ma dove? Forse, la fame di spazio e di luoghi di cui vive questa poesia è la stessa fame di luoghi e di spazio che ha abitato la persona di Steven Grieco, la stoltezza di ospitare degli «ospiti» privi di «spina dorsale», quindi anch’essi come disincarnati, alati aliti, immagini, eidola che diventano immagini di una fantasmagoria, di un caleidoscopio. E la poesia ha l’andamento pianissimo e il passo di visioni successive che si presentano una dopo l’altra proprio come in un caleidoscopio onirico. La poesia abita gli stessi luoghi della fantasmagoria del poeta. È viva in Grieco Rathgeb l’esigenza di liberarsi dalle convenzioni relative ai metri, agli spazi e ai tempi della poesia tonale lineare per rivolgersi alla poesia atonale, circolare. Le parole diventano suoni atonali, sono morceaux per pianoforte: parole enigmi che si susseguono ad altre parole o che sfuggono ad altre parole, come per restare in uno sfondo, un secondo piano mnestico, quasi fossero tappezzeria, arredamento della memoria che evanesce.

Da quando Cage ha stabilito che tutto è musica, i rumori sono diventati significativi, e con essi le immagini, i frammenti. I rumori sono frammenti di suoni un tempo forse nobili, e i frammenti sono nient’altro che rumori ricchi di un senso perduto, di echi, di tracce smarrite.

Dunque, ad un poeta del nostro tempo resta il compito di ascoltare e far «suonare» il «rumore» delle parole con le parole. In fin dei conti. «La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire», «La poesia è sempre la stessa». Il mondo, diventato un «acquitrinoso labirinto di lingue», non richiede più da tempo alcuna rappresentazione lineare o prospettica, l’unica struttura formale consentita è la raffigurazione a-prospettica e multiprospettica, la sovversione delle strutture temporali, un tempo ritenute stabili, la elusione di qualsiasi convenzione dei movimenti frastici impressi sul pentagramma convenzionale; il pentagramma della nuova poesia bisogna scoprirlo da soli, immaginarselo; possono sopravvivere soltanto la durata e l’intensità di ogni singola parola; come nella musica per pianoforte e archi di Morton Feldman; sopravvivono le immagini che si presentano alla memoria trascendentale come tessere di un mosaico che non sta al poeta disporre ma soltanto comporre.

Steven Grieco YuanJiang-Penglai_Island

YuanJiang-Penglai_Island

In tal senso la «Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto, scevro di qualsivoglia notazione simbolica, iconica, politica o religiosa. Quest’opera è tra le più singolari della poesia di Steven Grieco, e una delle più alte del contemporaneo; nel lungo movimento frastico a guisa di «serpente» privo di «spina dorsale», si svolge ed involge il moto elicoidale come la catena del DNA, si trovano varie voci e vari personaggi, al pari di una composizione musicale dove interagiscono il soprano, il contralto, il coro, una voce fuori campo, una viola, un Glockenspiel e percussioni sospese nel vuoto. È una poesia che ha per tema il «vuoto». È viva la sensazione di un tempo sospeso e della quiete monocroma alla Rothko Chapel di Morton Feldman. La poesia inizia con l’arcana impenetrabile sacralità di un pianissimo per svolgersi in una serie di movimenti musicali a contralto e a contrasto, come seguendo il respiro di una fantasmagoria che lievita verso l’alto.

C’è un moto che lievita, insieme al suono lento e sussiegoso delle parole. Ed ecco che appaiono i fantasmi: «gli sconosciuti giunti da così lontano»:

Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile […]

Affiorano come dall’ombra delle ombre i nomi immagini, le località note al poeta e a lui solo: Rappongi, Waseda, il Giappone, Tokyo, Aoyama, e poi Roma nominata per sineddoche per il tramite delle sue strade. D’improvviso, il monocolore del sogno della «felice notte» si apre alla polifonia delle voci e dei colori:

Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.

Dal carattere «statico» e «oggettivo» di questo stile, insomma, filtra con delicatezza orientale l’anima più in ombra di Steven Grieco Rathgeb, il lato in ombra, monocolore, e il lato al sole, multicolore. Gli studi appassionati del poeta sull’armonia vocale e sui principi della polifonia, sui waka, sugli haiku, sui tanka, sui poeti prediletti (Li Bai, Meng Hao Jan, il russo Aigi), sulla musica di Giacinto Scelsi e di Morton Feldman hanno reso il suo metro particolarmente adatto ad ospitare le grazie e la fuggevolezza della poesia cinese in una cornice occidentale in un particolarissimo stile che fonde insieme un che di «frivolo» (tutti i sogni appaiono frivoli dinanzi alla realtà) e di drammatico, di surreale e di allucinatorio. L’autore ricorre esplicitamente alla nominazione dei luoghi (Firenze, nell’appartamento sui tetti, Roma per sineddoche tramite le sue vie abitate da una varia multietnicità: via Buonarroti, piazza Vittorio, via Merulana dove la poesia è nata ed è stata composta) e di personaggi misteriosi che insistono in spazi circoscritti e diluiti insieme, inviolabili reperti della memoria nei quali le voci risuonano limpidamente e senza soluzione di continuità, rispondendosi e richiamandosi l’un l’altra nell’alternanza di toni complementari e sfuggendo ognuna per proprio conto in direzioni molteplici. E, d’improvviso, appare

E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste

Si verifica così una grande indirezione di tracce, di echi, di frammenti di sogni e di ricordi; e accade che il quadro d’insieme più viene arricchito di particolari più ne risulta sfumato, complicato, incerto, ibrido, insostanziale:

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo
ti cade sul selciato volta dopo volta, fracassandosi,
ricostituendosi.

Sarebbe inutile e stucchevole chiedersi se la poesia abbia un senso e quale, o molti sensi o alcun senso. La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato.

Breve nota introduttiva

In Giappone l’O Bon è il giorno in cui gli spiriti ancestrali tornano a trovare i loro discendenti. La festa viene celebrata il 15 agosto, dopo il crepuscolo, quando la gente scende per le vie delle città e va in processione con lanterne in mano.

 

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Poesia di Steven Grieco Rathgeb

FELICE NOTTE – O BON

Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.

No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.

Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.

Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.

A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.

L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.

 

Con difficoltà respingesti il disagio, quasi un’allucinazione
fra le birre vuote sul tavolo, i piattini dei sottaceti.
Forse era soltanto il suo inglese malfermo,
o il tuo acquitrinoso labirinto di lingue,
la ricerca angosciosa di qualche aggancio con il tedesco.

Di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto, la presenza fremente del dio che inesiste.

Le immagini nacquero una dall’altra: strani nascituri,
ciascuna balzava fuori dalla precedente,
ingenerata dal senso di se stessa che non può sapere,
ma fortemente esprimere.

L’arco teso all’inverosimile, quando è scoccata la freccia
non era una freccia: sonorità armoniche, sovra-toni,
echi sparsi per tutta l’aria, dure schegge lucenti.

Poi, Roma. All’inizio, nemmeno lo riconoscesti,
eppure abitava qui, nel tuo stesso palazzo in via dello Statuto,
lo vedevi sempre uscire da una delle chiostrine interne.
Un moto di stupore: perché di loro pensavi non
avere più elementi, tutto passato, concluso.
Ma ecco il sorriso familiare, i baffi radi e spioventi,
l’I-pad, il gatto nero con gli occhi gialli elettrizzati
sempre appollaiato sulle sue spalle.

Un mattino il carro funebre lo aspetta giù nella via.
Nella notte un infarto l’ha trasformato in un riquadro
azzurro sopra i grattacieli di Aoyama.
Salutandolo attraverso il cielo, hai pensato, chissà
perché, a Aygi: lo stesso sentire traslato, l’anima
che trasumanando vola fuori dal corpo in diecimila forme.

Non transitare davanti alle loro stelle, non oscurarle.

E’ pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.

No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.

Nei loro mascheramenti, proprio qui l’hai rivisti,
quasi senza accorgertene. Per qual motivo così affranto?
Il sorriso, che stringe gli occhi fin quasi a chiuderli.

Perché loro indicano sempre l’altro di se stessi.
Quando l’espressione è troppo sofferta, genera fra mille
doglie il suo opposto. Come dire, il significato identico
ammicca, sorride. Non è mai lui.

Cos’è allora “l’originalità”? Dire quello che altri non
han detto? A lungo hai cercato negli angoli non frugati
gli incroci nascosti, da cui loro già ti venivano incontro.

Poi di colpo, scomparsi. L’hai ritrovati, un gregge,
mimetizzati sul fondo della sempre stessa via,
ramificata ormai in miriadi e miriadi di vie.
Così, l’udito ha visto; e la vista ha saputo cogliere
l’indecifrabile musica. Eri del tutto incredulo:
l’oceanico, diversificato intrico di waka
somigliava solo a se stesso.

Stai tornando la sera a casa. Non hai più niente.
Hai rischiato tutto per amore. La paura di ignote sciagure
ora ti fascia come un velo invisibile.

E’ proprio questo: l’uomo ha soltanto nostalgia di se stesso.

Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto tutte le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte – una notte
festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.

Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi i tuoi tempi passati:
la preziosità dell’enunciato, veloce come un fulmine, capace di
nascondere-rivelare strati di paesaggio ben più profondi.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e il poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadevano come neve.

Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro, non sai come, stai al largo di Suma e Akashi
splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia.

Aveva un senso, questo? O non lo aveva per niente.
Eran tutte cose che volevi fare. Poi sono finite,
perché vita e scrittura sono diventate terrificanti,
perché in te è nato il cigno di Eros-Thanatos,
finito il tempo dei sogni.

Un antico pianto sale, l’acqua sorgiva sale oscura dal profondo.
Quel verso coreano, come diceva? Ah, sì…
Gets ei sen kou –
“la luna si specchia nei mille fiumi”.

La poesia, dunque, è sempre la stessa. Non puoi volerla.
La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire.

Ma quel loro fare, i vestiti un po’ logori, ti sono del tutto familiari.
Sono quasi giunti all’angolo con Piazza Vittorio, magrissimi,
involucri vuoti, senza età. Li ami per questo: per i folti capelli
bianchi, le gonne e le giacche strampalate,
la cravatta sgualcita che vola via nel colpo di brezza.

E il non-divino. Lo sguardo ispirato.
Uno sguardo che in realtà non esprime nulla.
ROMA, Piazza Vittorio, marzo 2013 – agosto 2014

 

Note: 1. Roppongi, Waseda, Aoyama, tutti quartieri della gigantesca metropoli di Tokyō.
2. Il waka è una forma poetica giapponese (5-7-5-7-7 sillabe).
3. Aygi: il russo-ciuvascio Gennady Aygi (1934-2006) forse il massimo poeta in lingua russa della seconda metà del XX sec.
4. Utamakura: il “cuscino della poesia”: in un waka o haiku, parola o frase, spesso riferita ad un luogo geografico, che serve per evocare, dare l’avvio alla composizione. Matsuo Bashō: “perfino a Kyōto sento nostalgia di Kyōto – il canto del cucù.”

 

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