Narra la quarta di copertina :
«Biagio galleggia sulla crisi incombente della sua attività di ristoratore, all’inizio di un’estate impietosa. Incapace di trovare soluzioni per invertire la rotta, incapace persino di trovare in sé le ragioni per reagire. O anche solo resistere. Sul lento fallimento della Pizzeria Vulcano, si specchia quello intimo di chi ruota attorno a quel luogo – dipendenti e clienti – ma anche il fallimento collettivo di una provincia desertificata, inacidita; incattivita in una insofferenza, facile e consolatoria, nei confronti degli immigrati. Insofferenza che cova sotto le ceneri».
Siamo davvero fortunati a vivere in un paese come l’Italia nell’epoca della comunicazione di massa: un grande paese davvero che è davvero problematico da rappresentare in una narrazione se non come narrazione pandemica e panoramica. La rappresentazione che esce da questo romanzo «collettivo» ambientato in una periferia della grande Milano di Francesco Sala è un campo minato disseminato di chiacchiere, personaggi fasulloidi, retroscene, finzioni, peones, backstages, cialtroni, cialtronerie, refrainerie, furfanterie, accalappiatopi e bevute di birra, campari, castronerie, un aforismario di bazzecole e di plebeismi, un parlare in mezze maniche di camicia, paesaggi suburbani desolatamente sghembi, decolorati… un repertorio kitsch per una narrazione pre-kitchen, ibrida, tutta tenuta sul piano basso del linguaggio, personaggi che non sanno che dire né che fare, perché il reale è diventato in sé stesso un manufatto psicopatologico, quelle che un tempo erano le categorie della politica, dell’estetica e della poetica adesso sono diventati luoghi della psicopatologia della vita quotidiana adatti alla resa narrativa da psicorealismo. Per questi motivi fare oggi un romanzo in qualche misura neorealistico o privatistico è diventato davvero problematico: non c’è vita privata scissa dalla vita pubblica, di qui il privatismo tribale dei personaggi ritratti con i loro linguaggi tribali; di frequente delle voci-interferenze occhieggiano nella texture della voce parlante dell’autore, ma sempre come filtrate e ripetute da colui che parla in terza persona, fraseologie distorte, stranite, si direbbe, da una inconfondibile sfumatura di sarcasmo. Una polifonia di secondo grado condita da apodissi apodittiche e chiacchiere da bar. È la narrazione che è possibile fare oggi in epoca di piena de-politicizzazione; si tratta di frasari de-politicizzati, chat suburbane, gestualità. In fin dei conti, che cosa può raccontare un narratore oggi?, il fatto è che un narratore non ha un «luogo» da raccontare o una «storia» da rimembrare, e allora deve andarselo a cercare questo «luogo» e questa «storia» nella realtà brulicante di plebeismi forfettari degli esseri umani ridotti ad emittenze linguistiche. C’è qualcosa di sbalorditivo nella metalepsi, come la usa Francesco Sala, che adotta un ritmo narrativo frenetico, ininterrotto, avvolgente, ricchissimo di anacoluti e di periodi paratattici il tutto condito con sprazzi di dialoghi sconclusionati, profilattici, casuali che rafforzano la sensazione di straniamento che promana dalla narrazione. Il lettore si trova davanti ad un romanzo che narra una storia anagrammatica, sgrammaticata, scialba, casuale come è casuale l’esistenza dei personaggi ritratti nell’epoca di stagnazione prolungata e pervicace che ha colpito l’Italia, un mondo in piena crisi che impiega la crisi per guarire dalla malattia della crisi. Un romanzo come lo si può scrivere oggi, che narra il nulla perché non c’è nulla da raccontare.
(Giorgio Linguaglossa)
[Francesco Sala è nato a Voghera nel 1982. Ha fatto l’aiuto falegname, l’operaio stagionale, il bracciante agricolo, il lavapiatti, il cameriere, il barista, il fattorino delle pizze, lo speaker in radio, l’addetto stampa, il giornalista, il cuoco. Ha lavorato in un teatro e due cinema. Oggi vive a Londra].
Ecco alcuni brani del romanzo
L’uomo senza nome che agita la giacca e ferma la fila di carri armati in colonna verso piazza Tienanmen. L’uomo che si arrampica sul mezzo annoiato che gli frena davanti e parla al carrista attraverso la fessura che questo dovrebbe usare per puntare e fare fuoco. L’uomo che scende e altri arrivano e lo sostengono per le braccia e infine lo guidano altrove, lo portano via.
– Tutte stronzate. –
La voce da sotto la mascherina suona impastata e Biagio non capisce se è per la stoffa blu notte con sopra stampato il grifone dorato e la data 1898 o per l’età della bocca che ci sta sotto o per tutte e due le cose insieme e ci mette un attimo a inquadrare il vecchio che stava al ristorante qualche ora prima: lo riconosce per gli occhiali da sole da sportivo degli Anni Novanta e per le mani di carta da forno che si muovono sulla rastrelliera e scorrono le copie di Tuttosport.
– Dicevano che erano i servizi segreti che l’hanno portato via, a quello. –
– Invece no? –
– No. –
– E chi era, allora? –
– Era gente normale che non voleva rotture di coglioni. –
– Dice? –
– La gente fa la sua vita e ci va bene così. Alla gente non piace la rivoluzione. –
Un uomo dimentica la porta aperta ed entra un po’ d’aria e altri la chiudono perché altrimenti fa corrente e dà fastidio. Biagio si imbeve dell’odore di petrolio che la carta caccia fuori.
– No. Alla gente non piace la rivoluzione. –
– Ecco. Quello si è messo a fare casino in piazza, ma gli altri mica
erano d’accordo: a loro alla fine andava bene così com’era. E allora
se lo sono tirato giù e portato via. –
– Ma non era solo lui, a protestare. –
– E infatti hanno portato via anche quegli altri. –
– Non è stato il governo? La polizia? –
– Perché avrebbero dovuto? –
Nadia s’è voluta fermare che le serviva il cesso, e ora torna verso di lui con un cornetto Algida: gli shorts di jeans con le frange biancastre che battono sulle gambe nude, scure del sole rapito nellepoche ore passate in piscina. La mano sinistra agita il cesto dei cd in offerta speciale – il meglio di Renato Zero e Loredana Berté, di Guccini e De Gregori: solo il meglio del meglio per le vesciche in sosta – e la teoria dei bracciali suoi risuona, i neon dilavano la maglietta bianca Emporio Armani che le ha regalato saranno un paio di settimane. Forme perfette di caciocavallo, avvolte lucide nella cera e strette nello spago, si offrono turgide nella paglia finta, sdraiate in una mangiatoia di cesti in vimini; le scatole rosse dei Ritz, quelle gialle dei Tuc, le buste Haribo con i bombi che frizzano.
Caramelle gommose distillate dal grasso dei maiali. Il sovrapprezzo. Passare dall’aria condizionata dell’autogrill al caldo del parcheggio è come prendere una secchiata di ghiaia in pieno petto: Biagio si
rende appena conto di richiudersi un poco nelle spalle, mentre butta fuori respiri spessi. Nadia gli passa avanti per guadagnare lo sportello suo: il retro di una coscia si segna di una goccia di sudore che scende piano, il candore della maglietta si ingrigisce umido alla base della schiena, appena sopra la cinta di Guess che tiene a galla gli shorts.
Questa dove l’hanno presa? Fidenza, forse? O era Vicolungo? I giorni passati insieme si mescolano in una sequenza di camerini, di tende che obliano; l’odore sempre uguale di centinaia di piedi chesi denudano per cavare gonne e pantaloni; grumi di polvere e capelli ed etichette con taglie e prezzi. Grucce fatte a pezzi sotto le panche, le dita che scrollano il visore dell’iPhone nell’attesa.
– Prendilo. –
– Non so, mi fascia un po’ troppo il culo. –
– Prendilo anche se non sei sicura. –
La chiave nell’accensione, Nadia tarda a chiudere la portiera: sta spogliando il cornetto; ecco, ha fatto: lecca la panna rimasta sul cerchio di cartone – frammenti di cioccolato, granella – e lo lascia andare in terra, poi finalmente prende posto e possono mettersi in marcia Rientrano in strada che a Biagio viene in mente quella cosa lì di quando erano bambini e si scendeva nel cortile a giocare, e quando faceva caldo – caldo come oggi – si aspettava nel fresco dell’androne del condominio l’ora che Pessina avrebbe riaperto dopo la pausa per il pranzo; l’ora di andare a prendersi il ghiacciolo che sulla busta trasparente aveva stampata la faccia gialla dell’indiano che sorride, due graffi sulla guancia di destra e due uguali su quella di sinistra, la piuma bianca e rossa dritta sopra la fascia tesa sulla fronte. Prendevano a passare davanti alla saracinesca abbassata che erano ancora le tre, anche se sapevano era troppo presto, ma lo facevano 56 uguale perché magari oggi – proprio oggi – quello scende prima e apre prima; e facevano il giro dell’isolato e tornavano nell’androne al fresco – le biciclette scomposte ruote all’aria sul marciapiede, le vittime stupite e disordinate di un’esplosione – provavano a indovinare il correre del tempo su orologi immaginari, si figuravano quando il momento buono – no, è ancora troppo presto; ecco: adesso invece sì – sarebbe finalmente arrivato. E quando giravano l’angolo e vedevano i riflessi sulla porta a vetri partiva lo scatto a chi arriva prima, il cicalino all’ingresso valeva la campanella dell’ultimo giro per i mezzofondisti; Pessina di spalle dietro al bancone a riordinare le piramidi di barattoli, oppure tuffato dentro la vetrina del banco dei salumi a spostare i prosciutti, gli occhiali da presbite agganciati a una catenina in metallo, il camice grigio-azzurro come quello di un elettrauto. Gli spintoni davanti al frigo dei gelati, la locandina in metallo con le fotografie dei prodotti e le barre di pennarello nero su quelli esauriti; le mani abbronzate – le chiazze più chiare della pelle rinata sotto i graffi e le cicatrici e il grattarsi per le punture delle zanzare, pelle nuova e fresca ancora salva dall’esposizione al sole – quelle mani loro buttate dentro a spostare le scatole ammaccate di Viennetta per vedere se sul fondo ce n’erano ancora, di gusti buoni, o se davvero restavano solo l’anice e la menta. Così per tutti i giorni di tutta l’estate di tutte le estati; fino a quando l’aria cambiava odore e si rientrava a casa un po’ prima e ci si copriva la carne un pezzo alla volta e c’era da finire tutti i compiti lasciati indietro nelle settimane precedenti. Ed era così che si perdevano il flusso delle cose, come queste se ne correvano naturali, e capitava il momento in cui si andava un’ultima volta da Pessina e nel frigo era rimasta giusto la brina sopra un paio di scatole ammaccate di Viennetta.
– I gelati sono finiti. – Continua a leggere
Credo che inserire delle foto di belle ragazze e delle gambe di belle ragazze nel post riguardante le poesie di Aldo Nove, mi guadagnerà il plauso dell’autore, il quale sicuramente apprezzerà la mia ironia. Sicuramente, la ironizzazione e la parodia della tradizione crepuscolare italiana sono uno dei cardini della poesia (o meglio, dell’anti poesia) di Nove, il suo progetto di operare una «discesa culturale» di bachtiniana memoria nella poesia italiana, ha avuto successo, è stata una operazione utile come può essere utile ogni operazione di «discesa culturale» in presenza di una tradizione che STA IN ALTO. Personalmente, nutro molti dubbi sulla utilità e sulla efficacia, oggi, in Italia, di una «discesa culturale», siamo già scesi così in basso che ogni forma di ironizzazione rischia di cadere nel vuoto da cui proviene. Semmai, il problema è il «vuoto» della società italiana. Ma lasciamo stare e torniamo alla anti poesia di Nove che riscuote il caldo abbraccio critico di Cortellessa. Personalmente, ho dei dubbi sulla utilità e sull’efficacia di ogni pratica di «carnevalizzazione» della poesia per le ragioni su dette.
Per Bachtin il «carnevale è una forma di spettacolo sincretistica di carattere rituale… e che la vita carnevalesca è una vita tolta dal suo normale binario» (Dostoevskij. Poetica e stilistica 1968). «Il sentimento carnevalesco del mondo» e la «letteratura carnevalizzata» si fondano su una sospensione temporanea e rituale della «normalità» che consente di istituire «un mondo alla rovescia» nel quale per Bachtin si risolve la parodia. E aggiunge il critico russo che, come il riso carnevalesco, così la parodia è «ambivalente», nel senso che non è «mera negazione del parodiato» ma tende ad obbligarlo «a rinnovarsi e a rigenerarsi».
La poesia di Aldo Nove rientra in questo schema categoriale, la sua poesia sospende la «normalità», la «rovescia» ma, purtroppo, la lascia intatta, anzi, la invita a riprendere fiato e a sopravvivere. È questo l’appunto che mi sento di fare alla poesia di Aldo Nove, che la sua parodia (qua e là anche divertente, lo ammetto), lascia le cose della poesia come stanno, anzi, ne rafforzano le componenti conservatrici (cioè, come dice Bachtin «normali»). Devo però ammettere che trovo più effervescenti e divertenti i suoi romanzi piuttosto che le sue poesie, ma anche per la sua narrativa valgono le considerazioni già espresse.
Ho forti dubbi che la anti poesia di Aldo Nove riesca a svecchiare la poesia italiana, la ironizzazione e la parodia la lasciano purtroppo intatta, non la scalfiscono, non la rinnovano. E, alla lunga, leggere questa anti poesia alla fine annoia.
Per chiudere la questione della poesia di Aldo Nove, io direi che essa si situa, in continuità con una impostazione neo (o post) sperimentale della poesia italiana del secondo Novecento, all’interno dell’orbita della Anti-poesia. Ovviamente, questo tipo di impostazione categoriale rende questa poesia sì divertente (a volte) ed effervescente (a volte), ma anche innocua, non innova, anzi, non vuole innovare, vuole soltanto dilettare e divertire il lettore. Non innova la poesia italiana per il semplice fatto che non può nulla né contro né in pro di essa, perché si situa al di fuori della «forma-poesia».
Riporto uno stralcio di un articolo di Corrado Ruggiero del 2008:
«L’uomo occidentale. Cerchiamo allora di ricostruirne i tratti fondamentali. Partiamo dalle pietre che ne sono a fondamento. I libri e gli autori che l’hanno fatta, ci hanno fatti quali siamo. Bisogna arrampicarsi sugli scaffali alti delle nostre biblioteche. Andare alla ricerca di un libro fondamentale per ognuno di noi. Un libro che, forse, finì a suo tempo nel tritacarne dei recensori di professione, quelli che consigliano i libri da leggere settimana per settimana. Laddove questo cui mi riferisco è un libro da leggere e rileggere: per sapere chi siamo, per conoscere come siamo diventati quello che siamo diventati, per decifrare quale destino ci aspetta dietro l’angolo – almeno in termini di perdita – se gettiamo via l’universo di fantasmi e di sogni che abbiamo costruito in tanti secoli. Sto parlando di Harold Bloom e delle 428 pagine del suo Canone occidentale. Un libro che, quando uscì, provocò qualche fuoco di paglia tra gli “addetti ai lavori” ma che, appena appena uscito, finì sugli scaffali alti delle biblioteche. Dove vanno i libri nobili, magari, ma poco sfogliati. Eppure le domande che poneva e ripropone (che cosa vale la pena leggere all’interno della grande tradizione letteraria occidentale? e che cosa è, poi, che fa il letterario essere letterario, appunto? qual è il rapporto tra la letteratura e il Tempo, tra la letteratura e la morte?) sono domande serissime. E fondamentali oggi, a inizio del nuovo millennio tanto più se l’occidente, sopraffatto da una incondita e molteplice globalizzazione, sembra che stia per chiudere bottega.
Che cosa è il canone? e che senso ha l’aggettivo, occidentale, che lo accompagna? Il canone, in un senso immediato e banale, altro non è che l’elenco, il catalogo – normativo – dei libri che ogni studente dovrebbe leggere per essere padrone del filo conduttore, almeno, della tradizione letteraria occidentale. Ma a Bloom non basta tracciare il diagramma dei 26 grandissimi che hanno fatto l’immaginario letterario della nostra civiltà. Per canone, Bloom sottintende la lotta tra il Tempo e la Memoria. Tra il Tempo che si fa ininterrottamente tra infiniti episodi di cui pochissimi sono significativi e moltissimi sono, invece, scorie, ridondanze che ripercorrono sentieri già percorsi, e la Memoria che è costretta a scegliere – per volgari ragioni economiche: non si può ricordare tutto di tutto! – se vuole veramente conservare. Pretendere di conservare tutto significa, in effetti, non conservare niente, alla fine. Un coacervo mostruoso di fatti più simile all’inverosimile catalogo di Bouvard e Pécuchet che all’ordine, distillatissimo, in cui la Memoria previdente e paziente sa conservare ciò che è significativo conservare. E non altro. Se si vuole avere Speranza. Anche se, oggi, “la speranza si vede ridotta”. Leggere, e tanto più leggere opere letterarie, è, dunque, innanzitutto un trovare se stessi al di là delle croste che ci hanno attaccato addosso le ideologie, le storie, le società con i loro assetti, pregiudizi e contrasti. «Di contro all’atteggiamento che riduce l’estetica a ideologia», Bloom sollecita
«una testarda resistenza il cui unico scopo consiste nel preservare la poesia nella sua pienezza e purezza».
Ma quali caratteri deve avere un’opera letteraria perché possa entrare nel canone? perché Dante sì e Petrarca Ariosto Leopardi no (tanto per restare nei confini della nostra provincia)? e perché è Shakespeare a occupare il vertice del canone? Per rispondere bisogna partire da capo. Anzi da un punto insospettabile: dalla nozione di angoscia. «C’è sempre qualcosa in anticipazione della quale siamo ansiosi, se non altro di aspettative che saremo chiamati ad attuare» e «un’opera letteraria suscita anch’essa aspettative che deve soddisfare o cesserà di essere letta». Deve soddisfare letterariamente nel senso che gli sbandamenti dell’umanità, di cui la letteratura si carica, vengono presi in carico, vengono trasferiti in letteratura, appunto. La letteratura è, in fondo, un’isola fatta di parole che, a loro volta, danno vita a immagini che, a loro volta ancora, assumono su di sé i drammi radicali dell’uomo: a partire da quello della paura della morte che «nell’arte della letteratura viene trasmutata nella cerca della canonicità, per congiungersi con la memoria comunitaria o societaria». A questo punto non c’è spazio per una letteratura che aspiri a essere tale solo per il fatto di essere portatrice di una determinata ideologia. Non basta, insomma, essere politicamente corretto per essere – un romanzo, una poesia, un dramma – anche letterariamente accettabile e degno di entrare nel canone letterario. È l’opera letteraria che, con la sua “originalità”, la sua “capacità cognitiva” ovvero la capacità di aprirci gli occhi su mondi sconosciuti, la sua “esuberanza espressiva” che investe il “politico” (corretto o scorretto che sia!) e lo fa diventare poesia, appunto. E l’isola letteraria non è del tutto un’isola! Shakespeare non ha limiti che lo frenino: né in alto né in basso. Niente gli è estraneo e niente gli è precluso: perché non ha fini precostituiti, obiettivi prefabbricati, convinzioni da trasmettere. La sua opera non ha quella pregnanza profetica che è la forza ma anche il limite, se è un limite, di Dante: per cui Dante – con Cervantes – si pone a ridosso, appena a ridosso, di Shakespeare. E, nel mettere questi paletti, Bloom risponde anche al quesito del perché Tizio sì e Caio no!
Ma se Shakespeare è il vertice del canone, è – poi – Amleto il centro di questo vertice. In Amleto si riassumono i drammi e le debolezze radicali dell’uomo. E dell’uomo, anche o soprattutto, in quanto uomo che legge e legge opere letterarie. Leggere è, in generale, un atto solitario. Leggere un’opera letteraria lo è ancora di più. Una pratica che ognuno può affrontare/deve affrontare solo nel chiuso di se stesso. Ed è sempre un dialogo e una lotta, un fare i conti con il se stesso più profondo. Un fare i conti con il Tempo, con il cambiamento, con la Memoria, con la morte in definitiva. Ed è questo appunto, quello che fa dal primo verso del primo atto all’ultimo verso dell’ultimo atto, Amleto. Anche quando non è in scena ma se ne sente, comunque, la presenza. Inquieta. Inquietante: per chi sa leggerlo, per chi sa leggersi. Questo siamo noi, fissati nei nostri libri: secondo i raffinatissimi parametri di Bloom».
(Corrado Ruggiero dalla Rivista “Nuova Secondaria, 8 – 2008”).
La dizione di «forma-poesia» era già stata usata da Franco Fortini nei lontani anni Novanta, quindi ha una lunga gestazione, non è quindi una mia invenzione; me ne sono appropriato perché in modo incisivo serve a far comprendere di che cosa stiamo parlando. Se dicessi semplicemente “poesia“. questo termine sarebbe troppo vago, con la dizione «forma-poesia» intendo una costruzione stilistica tipica di ogni Lingua e di ogni società, essa cambia con la mutazione della Lingua e della società.
Con il termine «Anti-poesia» intendo qualcosa che ognuno può intuire. Detto in parole semplici, dirò che ciascun poeta quando mette sulla carta qualcosa che per lui è “poesia”, ha chiara in mente anche la nozione opposta di «Anti-poesia» che implicitamente e esplicitamente nega la categoria di «poesia».