Archivi tag: John Cage

Steven Grieco Rathgeb – Conversazione con Gilberto Peverini in un caffè di piazza Vittorio, Roma,10 dicembre 2016 e 5 poesie di Steven Grieco-Rathgeb

 

gif-clessidra

Un’immagine spaccata sta al centro del mio petto.
Parole, come pantegane, appaiono ed entrano furtive.

 Presento questo primo post ponendo prima di tutto un interrogativo: perché le due scritture – prosa e poesia – la cosiddetta letteratura – soffrono oggi di una malattia da deperimento?

Certo, mi rendo conto che anche le altre arti sono in crisi: pittura e scultura oggi sembrano produrre poco di significativo: la musica classica contemporanea (elettroacustica, etc.) sembra stia girando su se stessa, le installazioni artistiche sono spesso meri giochi di abilità, Ai Weiwei espone mille selfie di se stesso, e noi non siamo così stupidi da non capire che espressioni come queste, apparentemente originali, nascondono (a fatica) una immensa povertà di idee…

 Rispondo a tale quesito in due modi: con il testo “Conversazione con Gilberto” che segue, e con il primo di una serie di commenti esplorativi che trovate più sotto, subito dopo qualche mia poesia, perché questa è una rivista di POESIA, e la prima privilegiata su queste pagine deve essere sempre lei, la POESIA.

(Steven Grieco Rathgeb)

 

Gif Sfera iridescente

Il cobra, non più il giardino. La memoria.

Steven: Gilberto, ho pensato ad un certo tipo di opera d’arte come ad una scatola chiusa. Dentro non sappiamo cosa c’è: potrebbe anche  essere vuota, chissà. Ma ha una decorazione esterna molto piacevole.

E poi c’è una scatola scoperchiata, aperta, al cui interno è visibile una installazione. Diciamo una poesia scritta su un foglio – passami questo esempio, visto che sono poeta: i graffi nerissimi sul foglio bianco sono i segni, le cieche asticelle significanti di un grumo autocosciente, auto-creato, che si va costruendo man mano che lo leggiamo, osserviamo.”

Gilberto: Questo mi fa pensare quanto ancora oggi siamo abituati a muoverci culturalmente entro certi confini. E quanto le cose sono, in effetti, a partire dal secolo scorso, cambiate.

Ad esempio, in questo caffè dove stiamo seduti, il nostro parlare prende un senso che non può essere avulso dal contesto: il passare frettoloso dei camerieri, il bisbiglio delle persone. Un tempo forse non avremmo espresso la cosa in simili termini. Non trovi affascinante pure tu questo nostro modo di essere qui?

S.: Questo tinnire di tazze e bicchieri, questo frusciare dei nostri vestiti quando ci muoviamo: è anche nei rumori intorno a noi che oggi riconosciamo l’incomparabile musicalità delle cose. Direi una cosa meravigliosa.

G.: Ovunque volgi lo sguardo, la scena si illumina e prendiamo coscienza di parte di questa realtà che ci circonda. Ovunque, perché non può esserci, io penso, nessuna zona di ‘nulla’. Ecco, guardo in quella direzione e scorgo la luce magica che viene dalla porta d’ingresso in questo tardo mattino di sabato.

S.: Ho sempre avvertito le ombre di possibili eventi – addirittura di epifanie – che esistono intorno a noi. Possono manifestarsi in vari modi: o possono anche starsene lì per sempre, folla ‘irrealizzata’ che non vivremo mai. Ma se per caso il mio sguardo dovesse posarsi su una di loro, lei può illuminarsi, forse anche entrare nel mio raggio di esperienza. Arriverò anche a dirla ‘mia’.

Gilberto 4

opera di Gilberto Peverini

   

S.: Caro Gilberto, il nostro incontro di qualche ora fa è solo un ricordo. Sto tornando a casa sotto i platani autunnali di Castro Pretorio. L’aria di questo pomeriggio di dicembre è immobile: le grandi foglie marroni senza vita scendono sfiorandomi la testa e le spalle. Cadono come corpi sfasciati, dimentichi di se stessi.

Al mio collega giapponese il waka aveva insegnato molte cose. Una di queste: il vento è invisibile. Riconosci il suo soffiare solo dai suoi effetti sui volti e sui capelli della gente, da come scuote i rami e le foglie degli alberi. Dalle rilevazioni di un anemometro. Eppure il vento è sempre tra noi.

La scatola sul tavolo. Leggera. Il vento la butta giù.

G.: Volevo proprio riflettere, caro Steven, su quella tua scatola vuota. Pensa in quale momento storico complesso e strano viviamo. E ripeto: l’opera d’arte fatta come scatola vuota ma esternamente decorata è probabilmente figlia di una cultura conformata a degli assoluti. Modi di fare arte che nel secolo scorso hanno iniziato a lasciare spazio a nuovi linguaggi: linguaggi aperti, che dialogano non solo con chi fruisce, ma con il luogo, col circostante, con le stagioni, l’autunno, la primavera. Aprirsi all’inatteso. Allora i confini dell’opera tendono a dissolversi e confondersi con tutto il circostante, e l’opera stessa non sarebbe più il lavoro compiuto dell’artista: quest’ultimo farebbe semmai da tramite per un contesto più ampio.

S.: Guardo la scatola. Che strano! Il suo stare qui, e non lì: il mio guardarla, in qualche modo la influenza, sembra compierne la forma; ma, anche, dà ad essa delle sfumature particolari. Tutto ciò è forse influenzato dal fatto che la scienza studia realtà per noi sempre meno visibili o direttamente percepibili, ma che pure determinano la nostra vita come ciò che invece percepiamo?

G.: Abbiamo sempre pensato che l’arte fosse il prodotto dell’atto cosciente di un artista. Ma se parliamo di contesti allargati, come stiamo facendo adesso,  possiamo anche chiederci il senso che ha un’opera quando il suo circostante ne determina sempre più fortemente il linguaggio. Pensa a come in fisica quantistica l’osservazione determina lo stato del fenomeno. ‘Non osservare’ implica uno scenario completamente diverso, addirittura paradossale, nel quale coesistono realtà contraddittorie.

Non prendere coscienza di uno stato non esclude però la possibilità che esista quello stato, ed altri potenzialmente tanto ricchi quanto quelli di cui abbiamo coscienza. Anche quel mondo infinito che rimane buio intorno a noi partecipa del nostro essere, dialoga in modo oscuro, indicibile, con parti di noi.

Certo, abbiamo sempre bisogno di dare un senso alle cose. Ma per quanto ricco, vasto, affascinante, quel senso non è tutto. Noi siamo sempre molto di più.

S.: Mi sembra che qui tu tocchi il concetto scientifico di supersimmetria. Un concetto che, in modi diversi, certamente, io uso in poesia. Lo spazio è gremito di presenze che nessuno avverte: le cosiddette assenze. Dietro la facciata dei palazzi che ci circondano, scale di ferro salgono in ogni direzione ai piani più alti. A noi chiusi qui in basso rimane il senso, adesso, dei cortili. Ma immaginiamo altro. Dire ‘irruzione di realtà’ forse non è altro che alludere al mondo allargato, l’aria e il cielo sopra i palazzi, che pure è sempre con noi. Quel tinnire di tazze e bicchieri che dicevamo prima: i suoni dolci, altri che invece feriscono l’udito. Non tutti i suoni ci piacciono, ma il mondo allargato è sempre qui con noi. E così, dico con te: non è che tutto ci tira verso una piena partecipazione delle cose?

G.: Visto che parli di ‘mondo allargato’, fammi tornare indietro un momento. E’ questo allora ciò di cui stiamo parlando? Una forma d’arte ‘aperta’ dove l’artista è solo uno strumento in mezzo a tanti strumenti? Penso alla dissoluzione del confine netto di una opera d’arte che allora si apre al suo contesto, il quale stesso contesto diventa messaggio, opera; e il fruitore lui stesso parte dell’opera d’arte; il tutto, opere in continuo mutamento.

S.: Certo. Ma la ‘opera artistica’, anche nel suo senso più lato, ancora conserva – deve conservare – delle ‘separazioni’, dei sottili tramezzi, delle intercapedini, fra ‘opera’ e ‘tutto il resto’. Il che non esclude quello che hai detto tu adesso, ‘opere in continuo mutamento’. Prendo un esempio: capita che, ascoltando una musica, ci troviamo, di colpo, ad essere coscienti anche del fruscio dei nostri vestiti, degli altri rumori intorno a noi: allora quella musica esce dal suo contesto predefinito, delimitato, quasi troppo sacrale, ed entra meravigliosamente nello spazio in cui io, ascoltatore, mi trovo. E, grazie ai rumori intorno a noi entriamo più profondamente in quella musica per la porta, adesso spalancata.

‘Musica’ non è soltanto ‘atto cosciente del musicista’. E’ anche ‘ascolto’. Quasi che il vento avesse, scoperchiandola, aperto la bellissima scatola.

Ora, questa esperienza sonora sarà ovviamente più facile averla con un pezzo di musica classica contemporanea, elettroacustica o orchestrale, non importa. Infatti, questa è una musica che ha aperto all’ascoltatore un nuovo orizzonte sonoro, uno che prima nella musica occidentale semplicemente non esisteva. Così, la musica si è aperta all’universo del suono, e al rumore. Mi ricorda la cosa dello spazio sacro e dello spazio profano di Mani.

Gilberto 5

opera di Gilberto Peverini

G.: Sì, ma torno a chiederti: questo cambia il nostro modo di concepire l’opera artistica?

S.: Certo che lo cambia. Continua a leggere

67 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, critica della poesia, discorso poetico, estetica, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Enrico Castelli Gattinara. Otto frammenti sui frammenti: Per una filosofia del frammento. Idealtipi, Frammenti, Strappi, Tracce, Sogni e ricordi, Aforismi, Lavori, Rumori

Lucio Mayoor Tosi Complex CompositionLUCIO MAYOOR TOSI: COMPOSIZIONI IN FRAMMENTI

enrico_castelli_gattinara

Enrico Castelli Gattinara

Enrico Castelli Gattinara, docente di Epistemologia della storia all’Università di Roma I, La Sapienza, insegna anche all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Sull’argomento ha pubblicato Epistemologia e storia (1996) e Les inquiétudes de la raison (1998), oltre a numerosi articoli in italiano e francese. È direttore della rivista di filosofia, arte e cultura generale “Aperture”. Ha pubblicato con Mimesis di Milano, La forza dei dettagli (2017) e Strane alleanze (2003) e, nel 2004, con Meltemi di Roma, Pensare l’impensato.

Saggio pubblicato sul n. 28 della Rivista “Aperture” del 2012

Grafiche di Lucio Mayoor Tosi 

Idealtipi

 Frammenti precari sono i gameti, destinati a incrociarsi e accoppiarsi per perdersi e sparire. Frammenti sono i mattoni, destinati a diventare muro, precariamente accatastati accanto al muratore che li lavorerà. Frammenti sono le lettere dell’alfabeto, precariamente isolate nell’abbecedario infantile per fondare il linguaggio che ci farà diventare umani. Frammenti sono le tessere di un mosaico ancora da fare, le pagine scritte di un romanzo ancora da comporre, gli appunti da riordinare, le spezie e le pietanze che serviranno a preparare un piatto. La loro precarietà è tutta costruttiva, tutta in positivo. Sono le parti che serviranno alla composizione di qualcosa, precarie perché funzionali alla costruzione. Precarietà indispensabile, ché altrimenti nessuna composizione sarebbe possibile.

Ci sono però anche i frammenti che derivano da un processo inverso: in negativo, per così dire. A perdere. O meglio, dopo la perdita. Sono frammenti gli arti o le parti di corpo tranciati dal macete del nemico in Ruanda. Sono frammenti le tessere del mosaico rovinato per un terremoto, o i pezzi di affresco, i mattoni, le travi, i vestiti, le bambole abbandonate, le tegole infrante. Sono frammenti le scorie, i residui della lavorazione, gli scarti e tutta l’immondizia che produciamo ogni giorno. I cocci di un piatto rotto, i capelli tagliati, i riccioli legnosi dopo che abbiamo fatto la punta alla matita, i fogli di carta gettati nel cestino. Precari anche loro, ma di un’altra precarietà: non più costruttivi ma disparitivi, destinati alla distruzione. Quando lo specchio va in frantumi, nessuno potrà più ricomporne l’insieme: le schegge spezzeranno l’immagine riflessa e renderanno irrecuperabile la sua primitiva unità. Irreversibilità de-compositiva.

Un terzo genere di frammenti, che mescola i primi due, è quello su cui lavorano gli storici e gli studiosi. Sono i frammenti che potremmo dire ri-compositivi: i residui di un tempo passato, di opere e azioni, di oggetti e situazioni che hanno perduto la loro composizione originaria, ma di cui mantengono un segno, una traccia o almeno un’intenzione. Sono l’immondizia della cultura, sotto certi aspetti: i residui del tempo, ossia ciò che il tempo si è lasciato cadere dalle tasche e ha lasciato per strada. Non necessariamente gli scarti, anche se molti archeologi frugano proprio nelle discariche dell’antichità per cogliere qualcosa degli usi e dei costumi della civiltà che cercano di capire.

Le armi lasciate nella tomba, con le ossa e i corredi funerari, sono frammenti di una vita passata la cui precarietà è dimostrata dalla tomba stessa: eppure questi stessi frammenti non sono affatto precari. Al contrario, la loro permanenza e stabilità li rende preziosi segni da interpretare e spiegare. Frammenti volti alla ricomposizione di una realtà, ma non più destinati a dissolversi in essa: il loro tempo è passato, e questa condizione è ormai irreversibile. Anzi, la loro resistenza al tempo (più che nel tempo) li rende altri rispetto ai due primi generi di frammenti, e li sottrae alla precarietà che li costituiva. Talvolta questa loro condizione fenomenologia e ontologica li rende iperstabili.

Lucio Mayoor Tosi Frammenti_1

Dragon

Frammenti

 C’era una volta la filosofia. Non si chiamava ancora così, non aveva neppure un nome, eppure parlava, discuteva, insegnava e ragionava. Stava in Grecia, ma soprattutto nelle sue colonie in Asia minore e in Italia. Non era una disciplina unitaria e sensata, ma un insieme di parole e discorsi che avanzavano la pretesa di conoscere e riflettere sulle cose: dalle più importanti alle meno appariscenti. Scuole, gruppi, sette mistiche, circoli esclusivi di persone che sceglievano di dedicare la propria vita al pensiero. Chi ha provato a farlo si chiamava Anassimandro, Eraclito, Parmenide… Orfeo sembra sia stato fra i primi, non si sa neppure se vero o falso, e poi Talete, Pitagora, Empedocle, Zenone, Anassagora, Democrito il terribile e troppi altri per poterne fare l’elenco. Frammenti di presocratici come frammenti di una materia che si è condensata in filosofia, e che quindi “prima” era diversa: Nietzsche e Heidegger leggevano in questa alterità un’origine pura, maestosa e profonda che la metafisica posteriore avrebbe corrotto e confuso. Di fatto, tutto il nostro sapere occidentale poggia su questi frammenti.

Il tempo ne ha fatto giustizia: a noi sono pervenuti come tracce di un dire che si è perduto assai più che quello di Omero. Ne conosciamo solo per sentito dire. Il che era proprio ciò che già allora si cercava di evitare. In questo senso il frammento è un tradimento. Citazione spuria e spurgata che è passata per tutte le voci che l’hanno detta e tutte le orecchie che l’hanno intesa (a Diogene Laerzio, detto “il pettegolo”, dobbiamo per esempio la maggior parte dei frammenti altrui). Raccolti poi in brevi commenti di autori successivi, e poi ancora successivi. Copiati e riprodotti chissà come. Citazioni di citazioni. Chissà che frammenti assai più importanti e profondi non siano andati irrimediabilmente perduti perché non hanno avuto orecchie a raccoglierli, o menti a intenderli, o semplicemente perché le contingenze spietate del tempo ne hanno bruciato per sempre le tracce. Instabile fondamento del nostro tracotante sapere.

Tutta una sapienza greca, dietro la filosofia, resiste fino a noi solo a frammenti: sapienza indiretta, che possiamo conoscere solo nella sua dispersione e nella nostra interpretazione. Strappi del pensiero: ecco come potrebbero essere definiti. Residui, resti, ritagli. Persino ricordi. Eppure efficaci. Spesso inesorabilmente efficaci. La vendetta del frammento sul tradimento è questa inesauribile efficacia che l’interpretazione non potrà esaurire. È come se lo strappo lasciasse intravedere qualcosa senza permettere di distinguerlo per bene, ma abbastanza per renderne indispensabile la conoscenza.

Lucio Mayoor Tosi acrilico_1

Moonlight

Strappi

 Mimmo Rotella è considerato un artista. I suoi lavori sono collages, o almeno lo sembrano. Non è l’unico nel suo genere. Anche altri artisti hanno lavorato con i collages. Frammenti di carta, di stoffa, foto, bottoni, aghi, fermagli incollati alla tela, fra colori e composizioni di vario genere. Composti dentro la cornice a urlare la violenza dell’artista che li ha costretti là. John Heartfield insieme a Georges Grosz, Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Hannah Höch, Kurt Schwitters, Max Ernst fino a Robert Rauschenberg e molti altri hanno usato questa particolare tecnica compositiva. Il collage prende frammenti, isola oggetti, e li dispone sulla tela o comunque su una superficie: li costringe a essere altro per dire altro. Frammenti di una realtà che compone un’altra realtà, dove la bidimensionalità collide con la tridimensionalità, e il valore d’uso col valore di scambio: di qui l’urlo che ne emerge, lo strappo fra le dimensioni, la difficoltà di definire il materiale di cui l’opera sarebbe alla fine composta. Opera composita per eccellenza, eppure sfuggente, perché i frammenti che la compongono non perdono la propria identità né la propria storia: eppure strappano il tempo frantumandolo nella tensione instabile fra l’originaria destinazione del loro uso e quella attuale, il consumo rapido cui erano destinati e il consumo lento, vuoi lentissimo che ha costituito di fatto il loro destino (esser diventati un’opera d’arte). Continua a leggere

33 commenti

Archiviato in filosofia, Senza categoria

LA PRECARIETA DEL MODERNO, L’OBLIO DELLA MEMORIA, E IL GRANDE PROGETTO PER LA POESIA ITALIANA – DIBATTITO A PIÙ VOCI INTORNO ALLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mariella Colonna, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Donatella Costantina Giancaspero – Una poesia di Iosif Brodskij, Odisseo a Telemaco (1972) e una poesia di Kjell Espmark Quando la strada gira (1992)

locandina antologia 3 JPEGGiorgio Linguaglossa
16 aprile 2017 alle 8:25 

LA PRECARIETA DEL MODERNO L’OBLIO DELLA MEMORIA E IL GRANDE PROGETTO PER LA POESIA ITALIANA

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/14/dibattito-a-piu-voci-non-la-poesia-e-in-crisi-ma-la-crisi-e-in-poesia-alcune-questioni-di-ontologia-estetica-la-questione-montale-pasolini-alla-ricerca-di-una-lingua-poetica-tomas-transtromer/comment-page-1/#comment-19353

Cara Mariella Colonna,

quello che tu hai scritto è importantissimo, perché mostra con chiarezza auto evidente la nostra piattaforma concettuale del Grande Progetto. In proposito, informo che ho sulla mia scrivania un mio lavoro psico-filosofico dal titolo eloquente: La precarietà del Moderno, nel quale inizio la mia investigazione filosofica dal 1972, dalla data di pubblicazione della poesia di Iosif Brodskij, Lettera a Telemaco, il primo documento poetico su quel fenomeno abissale che va sotto il nome di “Perdita della memoria”. Concetto che considero importantissimo per la Nuova Ontologia Estetica, perno centrale della nuova piattaforma. Voglio anticiparvi quanto ho scritto su questa poesia, perché la considero non soltanto una delle più belle del 900 ma anche un documento della crisi spirituale che ha inizio nel secondo Novecento. Buona lettura.

Testata polittico

Alcuni poeti della NOE, grafiche di Lucio Mayoor Tosi

L’oblio della memoria

Nella poesia Odisseo a Telemaco del 1972 di Iosif Brodskij abbiamo il primo esempio di una poesia che abita la distanza inabitabile e inarrivabile. Una poesia sulla distanza. Non più una poesia su un luogo, un personaggio, un oggetto, vari oggetti; direi non più una poesia linguistica fatta di polinomi frastici che si organizzano attorno ad un nucleo tematico o intorno ad un «io» ingenuamente supposto effettivo ed effettuale come ci ha insegnato un certo novecento, qui siamo davanti ad una poesia argomentante che medita da una distanza fitta di temporalità e di spazi temporalizzati. Ormai nel nostro mondo gli spazi sono diventati troppo grandi, le temporalità si sono moltiplicate in modo vertiginoso e l’uomo si accorge che tutto ciò ha nuociuto alla sua memoria, e la memoria si è indebolita e poi dissolta. Il poeta russo si accorge che l’uomo della fine del novecento non può più abitare la distanza, alcun luogo della distanza, perché questa distanza è diventata abissale, vertiginosa e l’uomo non può che perdersi in essa e perdere la memoria, e con essa perdere la propria identità; la sua stessa ragione di vita non è più nel viaggio o nella ricerca dell’ignoto, come ancora era possibile da Odisseo fino a Brodskij, adesso tutto ciò non è più possibile. Anche il turista più irresponsabile può ingenuamente credere di abitare i luoghi che ha visto e conosciuto; alla fine del viaggio egli si scopre un estraneo a se stesso e a tutti i luoghi che ha frequentato, il viaggio è stato un allontanamento da se stesso e il protagonista di esso si scopre un estraneo, uno straniero. L’uomo del nostro mondo non può che prenderne atto, la sua condotta lo ha portato in prossimità di un pensiero nichilistico, in prossimità di un abisso, in prossimità di un orizzonte degli eventi. Forse mai nessun pensiero è stato così totalmente nichilistico come questo che Brodskij ci ha lasciato in eredità: l’uomo contemporaneo non può più abitare alcuna distanza, anzi, la distanza ha annientato la sua volontà di potenza, gli mostra il nulla di cui è fatta la sua esistenza. È questa la straordinaria scoperta di Brodskij. D’ora in avanti l’uomo dovrà fare i conti con se stesso, abituarsi all’idea di non poter più abitare alcuna distanza, il mondo è diventato troppo vasto e incomprensibile e inabitabile e la memoria, quel fragile vascello con i suoi marinai sperduti nel gurgite vasto, si è inabissata nel fondo del mare.

La guerra di Troia è finita ormai da tanto tempo che il protagonista, Odisseo,

non ricorda più chi l’abbia vinta. Il mondo è diventato ampio, talmente ampio che l’uomo ha perduto la concreta esperienza dello spazio («Dilatava lo spazio Poseidone») e del tempo («mentre laggiù noi perdevamo il tempo»), il ritorno è diventato problematico («la strada / di casa è risultata troppo lunga»). Non c’è più un «ritorno» poiché esso è possibile soltanto in un orizzonte dove il tempo e lo spazio possono essere conteggiati e vissuti, ma in un mondo debordante e ampio non è più possibile alcuna esperienza del tempo e dello spazio, e quindi della storia. La storia si è allontanata così tanto che la memoria vaga alla rinfusa alla vana ricerca di un appiglio, di un ricordo. Nel mondo di Brodskij la memoria ha perduto il contatto con la storia, e anche con la propria storia personale. Nel mondo vasto e globale tutti abbiamo perduto la memoria, è un accadimento che ci riguarda tutti, e il periscopio della poesia di Brodskij lo ha avvistato per tempo.

L’oblio della memoria

è una dimenticanza intesa non come fenomeno temporaneo ma duraturo, non dovuto a distrazione o perdita temporanea di memoria ma come stato stabile e duraturo, come scomparsa o sospensione irreversibile del ricordo e dei ricordi, da non confondersi con il concetto di amnesia in quanto non condivide con questo la durata del fenomeno tipicamente temporanea nell’amnesia. L’oblio è dunque un nuovo modo di essere dell’esserci non più modificabile o revocabile.

La poesia di Brodskij è scritta in forma di epistola, una lettera che il padre Odisseo scrive al figlio Telemaco. Una semplice missiva, che Odisseo scrive al figlio Telemaco. La convenzione poetica, la validità letteraria del genere missiva, permettono di accettare la retorizzazione di una lettera che probabilmente non raggiungerà mai il suo destinatario. Chi scrive è Odisseo, il primo verso è formato dal normale inizio di una lettera, con quell’aggettivo possessivo che da subito introduce alla affabilità di un affetto chiuso nel pudore di un padre sconsiderato: «Mio Telemaco»; il secondo verso rispetta la composizione di una lettera sul foglio bianco, inizia alla riga successiva dopo uno spazio lasciato bianco, esattamente dopo la virgola: «la guerra di Troia è finita. Chi ha vinto non ricordo». Odisseo, l’astuto, colui che ha escogitato lo stratagemma che ha posto fine alla guerra di Troia, è diventato talmente debole di mente che non ricorda chi sia stato il vinto e chi il vincitore. Questi versi, apparentemente assurdi, sottolineano il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dalla fine della guerra, da quando la nave di Odisseo ha lasciato le coste di quella Tracia dove la tradizione colloca l’antica città di Troia. Il viaggio durerà dieci lunghissimi anni, una lunghezza davvero inverosimile se consideriamo la distanza relativamente breve che separava la città di Troia dall’isola di Itaca.

In questa lettera il padre dice al figlio delle cose importanti,

a propria giustificazione lo dichiara libero da Edipo; è un’autodifesa e una autocritica della propria posizione nel mondo. Odisseo tenta di scagionare se stesso dall’accusa di aver trascurato i doveri di un padre di famiglia, tenta di giustificare la propria «assenza». Avrebbe potuto dire qualcosa a propria discolpa circa la guerra giusta e doverosa per il tradimento e l’oltraggio subito per il rapimento di Elena, ma non lo fa; è palese che ai suoi occhi non sarebbe quella una buona ragione che lo possa scagionare dalle sue responsabilità, e comunque non ritiene di dover far ricorso a quella giustificazione. La poesia va esaminata in questo quadro giuridico psicologico e filosofico, e solo entro questo contesto. È una poesia ragionamento, una poesia di riflessione nell’orbita della più grande poesia europea da Leopardi in poi. Una poesia che ci riguarda tutti, o almeno chi è stato padre e chi ha intrapreso un viaggio di allontanamento. Il perché della lunga assenza del padre dal tetto familiare, il perché il padre sia stato costretto (magari contro la propria volontà) a vagare per il mondo, andare in guerra (quale guerra? Tutte le guerre?). E qui il senso della poesia si dilata fino a diventare cosmico, universale. La poesia si rivolge a tutti i padri che hanno abbandonato il figlio in tenera età per andare in guerra, parla di loro, parla di noi. Di qui il tono lievemente nostalgico dell’ «epistola», un messaggio in bottiglia che il padre invia al figlio. E poi quell’incipit dichiarativo (il tono di una persona che vuole nominare le cose), quell’andante largo che introduce il tema universale dei tanti morti che è costata la guerra.

Edith Dzieduszycka e Mariella Colonna

C’è anche un’altra poesia sulla guerra, di Bertolt Brecht,

anche lì si dice che nell’ultima guerra ci sono stati dei vincitori e dei vinti che il tempo della Storia li confonde; anche lì il poeta non ricorda bene chi siano stati i vincitori e i vinti, ma nella poesia di Brecht siamo ancora all’interno di una visione del mondo duale e dualistica, oppositiva, nel mondo della guerra fredda… nella poesia brodskijana invece siamo dentro una visione monistica, il mondo è diventato uno, interamente freddo, ogni angolo della terra è simile all’altro e tutte le guerre sono il duplicato di quella antica guerra, e tutti gli uomini sono condannati a navigare su un mare periglioso senza poter illudersi che vi possa essere un «ritorno» all’isola beata di Itaca. È il grande tema della riflessione sul proprio auto esilio, sulla propria auto alienazione, sulla storia degli uomini condannati all’auto esilio, sul significato profondo della guerra, di tutte le guerre e su quell’intimo collegamento tra le stragi e l’oblio della memoria. È una poesia che ha del sacro, che tocca profondamente il «sacro», qui si trovano i centri nevralgici e problematici della nostra civiltà, della civiltà occidentale.

L’evento che ha sconvolto le vite dei greci e dei troiani, che ha distrutto una civiltà e una città florida, l’evento da cui inizia la civiltà occidentale, è stato dimenticato, forse rimosso dalla coscienza dell’eroe; inutilmente la memoria fluttua alla ricerca di quell’evento: in essa non c’è nulla, il ricordo di quella guerra si è affievolito e spento.

Iosif Brodskij e Gino Rago

Iosif Brodskij

Lettera a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

Che cos’è la memoria? Forse è un luogo? Un punto infinitesimale? Una zona del nostro cervello? Forse è un evento immaginario che noi rimodelliamo di continuo? O è una forma del tempo interno? Chissà. La memoria è l’essenza del nostro tempo interno. Questo fenomeno lo si potrebbe definire anche all’incontrario: il tempo interno è l’essenza della memoria. Non c’è l’uno senza l’altro, sono due lati della stessa medaglia. Se perdiamo la memoria perdiamo con essa anche il tempo interno, vivremmo interamente in un tempo esterno, cosa orribile a dirsi e anche a pensarsi, come sarebbe impossibile vivere interamente in un tempo esterno, sarebbe come una parete che al di qua non contiene nulla: impossibile a dirsi e a pensarsi. Un incubo. La memoria è il nostro vero luogo perché è un senza-luogo, è il luogo dell’Altrove realizzato, che un tempo è accaduto. Con il pensiero dell’«Io» possiamo soltanto circumnavigare quel luogo senza-luogo ma non potremo mai entrare in esso perché lì dentro non c’è nulla, null’altro che fantasmi e traveggole, pulsioni cieche, rappresentazioni mute. Così, la memoria ha bisogno del pensiero dell’«Io» per potersi muovere, vivere, respirare.

Enrico Castelli Gattinara scrive: «Già Bergson aveva parlato della memoria come di un vero e proprio non-luogo, un altrove che avvolge costantemente il presente ma che appartiene come a un’altra dimensione. Perché, diceva, non sono le cellule nervose ad essere la sede dei ricordi, ma solo ciò che permette di attivarli o meno. Così, allo stesso modo, un neurone o una delle sue numerose terminazioni non vengono “riempiti” o “svuotati” quando c’è o scompare un ricordo: di cosa sarebbero riempiti o svuotati nel processo di memorizzazione e di oblio? Di cosa è fatto un ricordo?».1

1 http://www.aperture-rivista.it/public/upload/Castelli10-2.pdf

Onto Espmark

Kjell Espmark, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Di Kjell Espmark a proposito del tema dell’Oblio della memoria, trascrivo questa composizione da Quando la strada gira (Ed. Bi.Bo, 1993) nella traduzione di Enrico Tiozzo:

Kjell Espmark

Quando la strada gira

Inaspettatamente siamo di nuovo nel villaggio
fra case accennate e oche senza tempo
sotto rade lastre di cielo:
la tela è nuda fra le pennellate.

Che è successo?
Siamo stati per un attimo fuori della vita?
Come se un subito coltello da macellaio
con quattro esperti tagli
avesse diviso occhio, gola, cuore e sesso
da tutto ciò che è diretto a capofitto
giorno dopo giorno da nessuna parte
e li avesse riuniti ad un capitolo
per il quale siamo già passati.

Tutto come prima, Tranne la luce scatenata.
Come se la strada fosse strada per la prima volta:
ogni odore è più forte, ogni colore più pieno –
il senza significato ci ha toccato.

Madame ci guarda indulgente
e mette in tavola dei pezzi di Chevre,
un sapore che fiorisce ampio
intinto nella cenere.

Cerco di ricordare. Presumo che il previo
capitolo ancora sia valido.
Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,
una voce e un profumo di caprifoglio.
Senza veramente ricordarli:
come se ci si fosse corsi incontro
a braccia aperte
e ci si trova ad abbracciare un estraneo.

Ciò che cerco nella memoria si tiene nascosto
come un mostro che viene dallo spazio.
Solo qualche schizzo di sangue fa la spia.

Ma certo siamo vissuti prima?
Dipende da ciò che si intende per vita.
Sparsi bagliori di ricordi narrano
di un grandioso paesaggio
con un gusto retroattivo di cenere.

Le lenzuola della camera d’albergo sembrano usate:
riconosciamo quella macchia
anche se non siamo stati mai qui prima.
Un posto logoro per l’inizio.
I polpastrelli cercano la tua bocca.
e sentono crearsi le labbra.
La lingua crea una fossa sulla spalla.
Come quando un intaccato rituale
riceve in visita un dio sconosciuto.
Così diventa il nostro amore
amore per la prima volta.

Mario Gabriele, Antonio Sagredo

Mariella Colonna

16 aprile 2017 alle 1:38 
L’ONTOLOGIA ESTETICA OLTRE A ESSERE UN PROGETTO BEN PRECISO È ANCHE UN CAMPO APERTO DI GRANDI POSSIBILITà

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/14/dibattito-a-piu-voci-non-la-poesia-e-in-crisi-ma-la-crisi-e-in-poesia-alcune-questioni-di-ontologia-estetica-la-questione-montale-pasolini-alla-ricerca-di-una-lingua-poetica-tomas-transtromer/comment-page-1/#comment-19352

Caro Borghi, sono d’accordo con te quando sostieni le opere di autori del ‘900 del livello di Rebora Palazzeschi e Pasolini,che non sono “unidirezionali”, anzi, anticipano l’esplosione di novità che caratterizza “La nuova ontologia estetica”; però, diversamente da come credo di aver compreso dalle tue parole, l’Ontologia estetica, oltre ad essere un progetto ben preciso (vedi ripetute affermazioni di Giorgio Linguaglossa,) esprime anche la sintesi poderosa tra il pensiero poetico tridimensionale e la dimensione del tempo da intendersi come “memoria”. Memoria che conferisce profondità interiore all’”evento” collocandolo in un momento qualsiasi delle storia del soggetto o dell’oggetto poetico: e qui vale la libertà del poeta che, rompendo la continuità temporale e passando (o volando) da un tempo all’altro, crea un tessuto quadrimensionale e, in tal modo, dilata anche lo “spazio interno” in cui si pone la ricerca poetica: non ho mai sentito Linguaglossa parlare di “Relatività di Einstein” alludendo alla quadrimensionalità della NOE! Io comunque credo che, da tutelare e proteggere, nel nostro gruppo o in altri, sia soprattutto LA LIBERTA’ del poeta. Non mi sono mai sentita una traditrice dei sacri principi enunciati da Giorgio L. quando ho creato un verso di sospetta “unidirezionalità” e nessuno me lo ha contestato: magari, nel verso successivo, mi è servito per innescare un rapido salto nel tempo o inserire un imprevedibile rivoluzionario frammento. Perciò io non riesco proprio a capire tutta questo timore di accettare una sigla, peraltro significativa e aperta a novità ulteriori, che oltretutto introduce il tema dell’ “essere” nella poesia accostandolo all’estetica (è un grosso passo avanti!).

Penso però che “LA CRISI NELLA POESIA” NON DEBBA SOFFOCARE LA POESIA, imprigionarla negli schemi di un mondo in disfacimento! Oltretutto il fatto che “il nulla è” , clamorosa contraddizione, non deve allontanarci dal “tutto” che è altrettanto compreso nell’essere e in cui la ricerca dell’ Essere misterioso o Deus Absconditus non può non essere compresa (mi si perdoni la ripetizione, anche se con significati diversi!). Perciò mi sembra la polemica, utile perché accende gli interessi e appassiona, non debba fermarci sulla via della ricerca.

VI FACCIO UNA DOMANDA: QUALCUNO HA MAI PENSATO CHE IL NOME DI CUBISMO POTESSE FRENARE I TRE GRANDI ARTISTI CHE LO HANNO RAPPRESENTATO?
Io non credo proprio, tanto è vero che il suo esponente più illustre, Picasso, ha abbandonato la sintassi cubista per il suo personalissimo nuovo linguaggio della disintegrazione della forma. Perciò, andiamo avanti, io per lo meno lo desidero perché mi è congeniale, con la Nuova ontologia estetica che non ci impedirà di trovare, col tempo e l’esperienza, nuovissime forme di linguaggio.

Giorgio Linguaglossa, Stefanie Golisch

Giorgio Linguaglossa

14 aprile 2017 alle 12:57

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia

(Vincenzo Vitiello)

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/14/dibattito-a-piu-voci-non-la-poesia-e-in-crisi-ma-la-crisi-e-in-poesia-alcune-questioni-di-ontologia-estetica-la-questione-montale-pasolini-alla-ricerca-di-una-lingua-poetica-tomas-transtromer/comment-page-1/#comment-19295

caro Claudio Borghi,

tu sai bene che intorno a questioni filosofiche non c’è una disciplina, come tu ti esprimi,, “scientifica” che possa dirimere le anitinomie e le contraddizioni. Quanto alla ontologia estetica, tu ti ostini a negare in toto che vi possa essere una nuova ontologia (estetica), scusami ma ritengo questa tua posizione apofantica e irragionevole, tu neghi la stessa possibilità di pensare una diversa e altra ontologia (estetica), semplicemente, tu in questo modo ti tagli fuori dal dibattito e dalla ricerca teorica e pratica (praxis poetica).
Non c’è nessun «schieramento contrapposto» tra di noi, perché la tua posizione è una non-posizione, una posizione apofantica, è di negazione radicale che vi possa essere un pensiero diverso e altro intorno alla ontologia (estetica), e questo è un aut aut che rivela la tua opposizione (politica) al progetto che si può esprimere, con una parola: oscurantismo, tu vuoi calare un velo di oscurità sulla NOE, senza peraltro riuscirci perché i risultati estetici della NOE sono sotto gli occhi di chi vuol vedere.
Quanto alle indicazioni di Inchierchia, le ritengo intrise di genericismo e di errori concettuali che non è il caso di trattare qui perché non ho interesse a correggere gli errori concettuali e filosofici altrui (ognuno si tiene i propri).
E poi credo che la contro prova di quello che andiamo dicendo e facendo te l’abbia fornita Donatella Costantina Giancaspero pubblicando due poesie di Tranströmer di alcuni decenni fa che sembrerebbero scritte dalla NOE.
Leggi qui questi versi della NOE scritti 40 anni fa:

Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo da cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.

*

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

*
[…]

La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda.
Nella picea onda del Canal Grande.
Ponte degli Scalzi.
L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.
Uno spartito aperto sul leggio: “La lontananza nostalgica”.
Il vento sfoglia le pagine dello spartito.

[…]

Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio.
Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.
[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare
il filo dell’acqua verdastra]
Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir.
Ufficiali austriaci giocano a whist.

[…]

Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto
è ritratta la Peste.
La Signora Morte impugna una pertica
che termina con una falce.
Ammassa i morti e taglia loro la testa.
E ride.
Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo.
E canta.
Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle.

[…]

Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande.
Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’amor profano».

[…]

Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti
nel salotto color fucsia.
I clienti della locanda del buio.
Siberia.
Evgenia Arbugaeva osserva la distesa di neve.
La Torre del faro in mezzo alla neve.
«Il bacio è la tomba di Dio», c’erano scritte queste parole
sopra l’ingresso della torre.

[…]

Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano.
Non c’è anima più viva.
Una sirena canta dalla spiaggia dei morti:
«Non c’è più lutto tra i morti».
«Non c’è più lutto tra i morti».

[…]

Due città

Ciascuna sul suo lato di uno stretto, due città
l’una oscurata, occupata dal nemico.
Nell’altra brillano le luci.
La spiaggia luminosa ipnotizza quella scura.

Io nuoto verso il largo in trance
sulle acque scure luccicanti.
Un sordo suono di tromba irrompe.
È la voce di un amico, prendi la tua tomba e vai.

Donatella Costantina Giancaspero, Alfredo de Palchi

Donatella Costantina Giancaspero

14 aprile 2017 alle 14:30 

IL NULLA NON ESISTE COME NULLA (il suono del silenzio) La NOE (Nuova Ontologia Estetica)

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/14/dibattito-a-piu-voci-non-la-poesia-e-in-crisi-ma-la-crisi-e-in-poesia-alcune-questioni-di-ontologia-estetica-la-questione-montale-pasolini-alla-ricerca-di-una-lingua-poetica-tomas-transtromer/comment-page-1/#comment-19299

Ho piacere di unirmi al dibattito e introdurre una mia riflessione sul Nulla, con queste parole di Gillo Dorfles, al quale ieri abbiamo augurato buon compleanno per i suoi formidabili 107 anni!

“Malauguratamente solo pochissimi intendono questa fisiologica necessità del vuoto e della pausa. La maggior parte degli uomini è ancora profondamente ancorata all’errore del pieno e non all’orrore dello stesso. Carichi di troppi elementi che s’accavallano nella nostra mente – spesso subliminarmente – finiamo per confonderli e annegarli in un lattiginoso e amorfo amalgama”

Credo che finché continueremo a dare una connotazione negativa al Nulla, pensandolo come Nulla, non potremo mai coglierne la vera essenza: non potremo sentirlo necessario, riconoscendolo nella realtà che ci circonda; non potremo percepirlo “aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose»”, come scrive Giorgio Linguaglossa. Perché il Nulla, ciò che diciamo “Non Essere”, esiste al pari dell’”Essere”. Non è difficile intendere questo. Occorre soltanto guardare alle cose semplici con la stessa semplicità di “uno scricciolo che trilla”…
Il Nulla, lungi dall’essere “vuoto”, è, al contrario, “pieno” di cose, di sottilissimi, sofisticati elementi. Il Nulla è il Silenzio di tanta musica contemporanea, che poi, in realtà, tanto contemporanea non è più… Il pensiero va a John Cage, a quel suo “vuoto apparente”, ovvero un silenzio nel quale si riverbera il suono: ossimoricamente parlando, lo diremmo un “silenzio sonoro”, carico di linguaggio.
Ne sia di esempio la sua celebre composizione “4’3” (“Quattro minuti, trentatré secondi”), in tre movimenti, composta ed eseguita nel 1952: questa, insieme ai White Paintings del suo amico Robert Rauschenberg, rappresenta una delle opere più importanti del Novecento. L’incontro fra Cage e Rauschenberg, infatti, avvenuto negli anni Cinquanta, darà luogo un nuovo concetto positivo di vuoto tra musica e pittura.

Il pianista David Tudor si sedette al pianoforte e per poco più di quattro minuti e mezzo suonò tre lunghe pause, senza produrre alcun suono, limitandosi ad aprire e chiudere la tastiera per segnare i tre movimenti della composizione. Lo spartito infatti riportava un tacet per qualsiasi strumento o ensamble.
In seguito, ripensando alla prima esecuzione (nella Maverick Concert Hall, una sala da concerto a tre chilometri da Woodstock), John Cage disse così:

Il silenzio non esiste. (…) Durante il primo movimento si sentì il vento che soffiava fuori dalla sala. Durante il secondo, qualche goccia di pioggia cominciò a picchiettare sul tetto, e durante il terzo la gente stessa produsse i più vari rumori mentre parlava o usciva.”

Sabino Caronia, Italo Calvino

Gino Rago

14 aprile 2017 alle 19:16 

Antefatti estetici a Laboratorio Poesia Gratuito Roma, 30 marzo 2017.

Il poeta della NOE medita da anni sulla “Teoria estetica” di T. W. Adorno. Fa suo l’assioma adorniano secondo cui: “I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna”. Per tale via maestra egli adotta la poetica del “frammento” come elemento costitutivo d’una sua personale ontologia estetica. La quale, partendo dalla “morte di Dio”, assume in sé la constatazione della fine della visione platonico-cristiana del mondo e della conseguente scomparsa del “centro dell’uomo nel mondo”. La sua ricerca d’arte ne prende atto e si muove nella persuasione della decadenza della “verità assoluta”, della impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad una unità di senso. Entrando nella filosofia del frammentismo, il poeta della NOE assume il “frammento” come la cifra caratteristica della modernità poiché alla sua personalissima lettura il mondo moderno si pone sotto il segno della deflagrazione del “senso”, della dispersione, dell’astigmatismo scenografico, della moltiplicazione delle prospettive, della crisi e della inadeguatezza espressiva di un “unico”linguaggio. Nella teoria estetica dell’opera moderna il poeta della NOE interpreta il prospettivismo di Nietzsche come una promozione della “frammentarietà” contro le tesi di quell’ordine metafisico incentrato sulla verità dogmatica, sulla verità indiscutibile.

La poetica del frammentismo tende a esiti estetici del tutto nuovi poiché la “filosofia del frammento” è in grado di restituire “dignità estetica” a quelle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno perché il frammento è l’”intervento della morte nell’opera d’arte”. Rifondando l’opera, o distruggendola, la morte da essa elimina la macchia dell’apparenza. Ma ciò che conta è che per il poeta della Nuova Ontologia Estetica e dello Spazio Espressivo Integrale***, il “frammentismo” va oltre il significato di “poetica”, va oltre le intenzioni d’arte. Il frammentismo in lui è una Weltanshauung. E’ uno stato d’animo. E’ il suo modo di sentire il mondo, di sentirsi egli stesso “frammento” di questo mondo poiché risiede in lui stesso l’unico punto di convergenza e di fusione di quella che Harold Bloom ha definito “la cartografia psichica” dell’artista: l’agonismo perenne tra l’ “Io me stesso – l’anima – l’Io reale”.
Il poeta della NOE, nel suo fare poetico all’ interno dello Spazio Espressivo Integrale, sa che:

– il vuoto non è assenza di materia;
– l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;
– il ” Campo Espressivo Integrale ” è l’unica regione in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…
– ciò che è perduto può essere ritrovato soltanto in forma di “frammento”, che non indica il Tutto, nella dialettica fra le parole e le cose di Michel Foucault, ma un tutto frantumato e disperso da cui deriva il “dolore” della poesia;
– esiste un “tempo assolutamente creativo”. Un tempo che crea la vita poiché (secondo Prigogine) è il tempo delle infinite metamorfosi della vita nella biologia ed è il tempo delle infinite creazioni delle opere d’arte. Un tempo despazializzato, un tempo ” qualitativo ” e non ” quantitativo ” e che come tale non sa che farsene degli orologi;
– l’ Estetica non può ignorare questi nuovi orizzonti delle scienze ed è
chiamata anzi ad orientarsi essa stessa verso una “forma” scientifica per essere in grado di tener conto delle strutture dissipative nelle quali trionfa
l’infinita possibilità delle equazioni non lineari ( Prigogine ), equazioni con
all’interno il “tempo creativo” e, dunque, la cosiddetta possibilità progettuale
della esperienza artistica;
– il mondo non è più “ciò che è” ma è “ciò che diviene” ed è “il possibile”
il nuovo strato della cultura contemporanea;
– la nuova Estetica non può che appropriarsi di tali indicazioni.

Roma, 7/13 aprile 2017

49 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

UNA POESIA INEDITA di Steven Grieco Rathgeb “Felice notte O Bon” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “«Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto”; “La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato”

Steven Grieco Epang-Palast

la Montagna degli Immortali

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Nel 2016 pubblica Entrò in una perla Mimesis Hebenon editore. Dieci sue poesie sono rinvenibili nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) indirizzo email: protokavi@gmail.com

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Che cosa ci dice Steven Grieco Rathgeb in questa poesia? Tutto e nulla. Ci parla di «sconosciuti» «giunti da così lontano», di «ospiti» che hanno abitato il «tuo pensiero: fluido, inafferrabile»; subito dopo parla del «volto delle principesse»; infine una notazione, un ricordo, una negazione della notazione: «No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri, / lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.»; accenna a una «distanza» che gli «occhi» sono «capaci di raggiungere». Ecco, siamo arrivati ad un punto chiave: si tratta di una poesia dello sguardo che tenta di raggiungere una «distanza», un «luogo». E poi, subito, una tranche di ricordo biografico: «Anni prima uno di loro era venuto a Firenze / nell’appartamento sui tetti». Quindi, «uno di loro», qui si parla di fantasmi, dei fantasmi della memoria, che ritornano. Poi ci sono dei soprammobili, delle masserizie, i libri di Li Baj, e poi si parla di un «serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale», una mostruosità che si insinua nell’interno dell’anima e del ricordo; e poi, di nuovo, l’intermezzo di un ricordo, che diventa immagine: «A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV»; e poi un’altra immagine ricordo, un misterioso «ospite»: «lui era l’anonimo sassofonista». La poesia continua così, con ricordi che diventano immagini e immagini che si presentano nella veste di ricordi. Tutto e nulla, misteriosamente, convergono. Ma dove? Forse, la fame di spazio e di luoghi di cui vive questa poesia è la stessa fame di luoghi e di spazio che ha abitato la persona di Steven Grieco, la stoltezza di ospitare degli «ospiti» privi di «spina dorsale», quindi anch’essi come disincarnati, alati aliti, immagini, eidola che diventano immagini di una fantasmagoria, di un caleidoscopio. E la poesia ha l’andamento pianissimo e il passo di visioni successive che si presentano una dopo l’altra proprio come in un caleidoscopio onirico. La poesia abita gli stessi luoghi della fantasmagoria del poeta. È viva in Grieco Rathgeb l’esigenza di liberarsi dalle convenzioni relative ai metri, agli spazi e ai tempi della poesia tonale lineare per rivolgersi alla poesia atonale, circolare. Le parole diventano suoni atonali, sono morceaux per pianoforte: parole enigmi che si susseguono ad altre parole o che sfuggono ad altre parole, come per restare in uno sfondo, un secondo piano mnestico, quasi fossero tappezzeria, arredamento della memoria che evanesce.

Da quando Cage ha stabilito che tutto è musica, i rumori sono diventati significativi, e con essi le immagini, i frammenti. I rumori sono frammenti di suoni un tempo forse nobili, e i frammenti sono nient’altro che rumori ricchi di un senso perduto, di echi, di tracce smarrite.

Dunque, ad un poeta del nostro tempo resta il compito di ascoltare e far «suonare» il «rumore» delle parole con le parole. In fin dei conti. «La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire», «La poesia è sempre la stessa». Il mondo, diventato un «acquitrinoso labirinto di lingue», non richiede più da tempo alcuna rappresentazione lineare o prospettica, l’unica struttura formale consentita è la raffigurazione a-prospettica e multiprospettica, la sovversione delle strutture temporali, un tempo ritenute stabili, la elusione di qualsiasi convenzione dei movimenti frastici impressi sul pentagramma convenzionale; il pentagramma della nuova poesia bisogna scoprirlo da soli, immaginarselo; possono sopravvivere soltanto la durata e l’intensità di ogni singola parola; come nella musica per pianoforte e archi di Morton Feldman; sopravvivono le immagini che si presentano alla memoria trascendentale come tessere di un mosaico che non sta al poeta disporre ma soltanto comporre.

Steven Grieco YuanJiang-Penglai_Island

YuanJiang-Penglai_Island

In tal senso la «Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto, scevro di qualsivoglia notazione simbolica, iconica, politica o religiosa. Quest’opera è tra le più singolari della poesia di Steven Grieco, e una delle più alte del contemporaneo; nel lungo movimento frastico a guisa di «serpente» privo di «spina dorsale», si svolge ed involge il moto elicoidale come la catena del DNA, si trovano varie voci e vari personaggi, al pari di una composizione musicale dove interagiscono il soprano, il contralto, il coro, una voce fuori campo, una viola, un Glockenspiel e percussioni sospese nel vuoto. È una poesia che ha per tema il «vuoto». È viva la sensazione di un tempo sospeso e della quiete monocroma alla Rothko Chapel di Morton Feldman. La poesia inizia con l’arcana impenetrabile sacralità di un pianissimo per svolgersi in una serie di movimenti musicali a contralto e a contrasto, come seguendo il respiro di una fantasmagoria che lievita verso l’alto.

C’è un moto che lievita, insieme al suono lento e sussiegoso delle parole. Ed ecco che appaiono i fantasmi: «gli sconosciuti giunti da così lontano»:

Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile […]

Affiorano come dall’ombra delle ombre i nomi immagini, le località note al poeta e a lui solo: Rappongi, Waseda, il Giappone, Tokyo, Aoyama, e poi Roma nominata per sineddoche per il tramite delle sue strade. D’improvviso, il monocolore del sogno della «felice notte» si apre alla polifonia delle voci e dei colori:

Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.

Dal carattere «statico» e «oggettivo» di questo stile, insomma, filtra con delicatezza orientale l’anima più in ombra di Steven Grieco Rathgeb, il lato in ombra, monocolore, e il lato al sole, multicolore. Gli studi appassionati del poeta sull’armonia vocale e sui principi della polifonia, sui waka, sugli haiku, sui tanka, sui poeti prediletti (Li Bai, Meng Hao Jan, il russo Aigi), sulla musica di Giacinto Scelsi e di Morton Feldman hanno reso il suo metro particolarmente adatto ad ospitare le grazie e la fuggevolezza della poesia cinese in una cornice occidentale in un particolarissimo stile che fonde insieme un che di «frivolo» (tutti i sogni appaiono frivoli dinanzi alla realtà) e di drammatico, di surreale e di allucinatorio. L’autore ricorre esplicitamente alla nominazione dei luoghi (Firenze, nell’appartamento sui tetti, Roma per sineddoche tramite le sue vie abitate da una varia multietnicità: via Buonarroti, piazza Vittorio, via Merulana dove la poesia è nata ed è stata composta) e di personaggi misteriosi che insistono in spazi circoscritti e diluiti insieme, inviolabili reperti della memoria nei quali le voci risuonano limpidamente e senza soluzione di continuità, rispondendosi e richiamandosi l’un l’altra nell’alternanza di toni complementari e sfuggendo ognuna per proprio conto in direzioni molteplici. E, d’improvviso, appare

E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste

Si verifica così una grande indirezione di tracce, di echi, di frammenti di sogni e di ricordi; e accade che il quadro d’insieme più viene arricchito di particolari più ne risulta sfumato, complicato, incerto, ibrido, insostanziale:

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo
ti cade sul selciato volta dopo volta, fracassandosi,
ricostituendosi.

Sarebbe inutile e stucchevole chiedersi se la poesia abbia un senso e quale, o molti sensi o alcun senso. La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato.

Breve nota introduttiva

In Giappone l’O Bon è il giorno in cui gli spiriti ancestrali tornano a trovare i loro discendenti. La festa viene celebrata il 15 agosto, dopo il crepuscolo, quando la gente scende per le vie delle città e va in processione con lanterne in mano.

 

.

Poesia di Steven Grieco Rathgeb

FELICE NOTTE – O BON

Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.

No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.

Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.

Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.

A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.

L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.

 

Con difficoltà respingesti il disagio, quasi un’allucinazione
fra le birre vuote sul tavolo, i piattini dei sottaceti.
Forse era soltanto il suo inglese malfermo,
o il tuo acquitrinoso labirinto di lingue,
la ricerca angosciosa di qualche aggancio con il tedesco.

Di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto, la presenza fremente del dio che inesiste.

Le immagini nacquero una dall’altra: strani nascituri,
ciascuna balzava fuori dalla precedente,
ingenerata dal senso di se stessa che non può sapere,
ma fortemente esprimere.

L’arco teso all’inverosimile, quando è scoccata la freccia
non era una freccia: sonorità armoniche, sovra-toni,
echi sparsi per tutta l’aria, dure schegge lucenti.

Poi, Roma. All’inizio, nemmeno lo riconoscesti,
eppure abitava qui, nel tuo stesso palazzo in via dello Statuto,
lo vedevi sempre uscire da una delle chiostrine interne.
Un moto di stupore: perché di loro pensavi non
avere più elementi, tutto passato, concluso.
Ma ecco il sorriso familiare, i baffi radi e spioventi,
l’I-pad, il gatto nero con gli occhi gialli elettrizzati
sempre appollaiato sulle sue spalle.

Un mattino il carro funebre lo aspetta giù nella via.
Nella notte un infarto l’ha trasformato in un riquadro
azzurro sopra i grattacieli di Aoyama.
Salutandolo attraverso il cielo, hai pensato, chissà
perché, a Aygi: lo stesso sentire traslato, l’anima
che trasumanando vola fuori dal corpo in diecimila forme.

Non transitare davanti alle loro stelle, non oscurarle.

E’ pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.

No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.

Nei loro mascheramenti, proprio qui l’hai rivisti,
quasi senza accorgertene. Per qual motivo così affranto?
Il sorriso, che stringe gli occhi fin quasi a chiuderli.

Perché loro indicano sempre l’altro di se stessi.
Quando l’espressione è troppo sofferta, genera fra mille
doglie il suo opposto. Come dire, il significato identico
ammicca, sorride. Non è mai lui.

Cos’è allora “l’originalità”? Dire quello che altri non
han detto? A lungo hai cercato negli angoli non frugati
gli incroci nascosti, da cui loro già ti venivano incontro.

Poi di colpo, scomparsi. L’hai ritrovati, un gregge,
mimetizzati sul fondo della sempre stessa via,
ramificata ormai in miriadi e miriadi di vie.
Così, l’udito ha visto; e la vista ha saputo cogliere
l’indecifrabile musica. Eri del tutto incredulo:
l’oceanico, diversificato intrico di waka
somigliava solo a se stesso.

Stai tornando la sera a casa. Non hai più niente.
Hai rischiato tutto per amore. La paura di ignote sciagure
ora ti fascia come un velo invisibile.

E’ proprio questo: l’uomo ha soltanto nostalgia di se stesso.

Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto tutte le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte – una notte
festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.

Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi i tuoi tempi passati:
la preziosità dell’enunciato, veloce come un fulmine, capace di
nascondere-rivelare strati di paesaggio ben più profondi.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e il poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadevano come neve.

Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro, non sai come, stai al largo di Suma e Akashi
splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia.

Aveva un senso, questo? O non lo aveva per niente.
Eran tutte cose che volevi fare. Poi sono finite,
perché vita e scrittura sono diventate terrificanti,
perché in te è nato il cigno di Eros-Thanatos,
finito il tempo dei sogni.

Un antico pianto sale, l’acqua sorgiva sale oscura dal profondo.
Quel verso coreano, come diceva? Ah, sì…
Gets ei sen kou –
“la luna si specchia nei mille fiumi”.

La poesia, dunque, è sempre la stessa. Non puoi volerla.
La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire.

Ma quel loro fare, i vestiti un po’ logori, ti sono del tutto familiari.
Sono quasi giunti all’angolo con Piazza Vittorio, magrissimi,
involucri vuoti, senza età. Li ami per questo: per i folti capelli
bianchi, le gonne e le giacche strampalate,
la cravatta sgualcita che vola via nel colpo di brezza.

E il non-divino. Lo sguardo ispirato.
Uno sguardo che in realtà non esprime nulla.
ROMA, Piazza Vittorio, marzo 2013 – agosto 2014

 

Note: 1. Roppongi, Waseda, Aoyama, tutti quartieri della gigantesca metropoli di Tokyō.
2. Il waka è una forma poetica giapponese (5-7-5-7-7 sillabe).
3. Aygi: il russo-ciuvascio Gennady Aygi (1934-2006) forse il massimo poeta in lingua russa della seconda metà del XX sec.
4. Utamakura: il “cuscino della poesia”: in un waka o haiku, parola o frase, spesso riferita ad un luogo geografico, che serve per evocare, dare l’avvio alla composizione. Matsuo Bashō: “perfino a Kyōto sento nostalgia di Kyōto – il canto del cucù.”

 

21 commenti

Archiviato in critica della poesia, Poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Leo Savani DIECI POESIE INEDITE con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

Leo Savani (pseudonimo di Franco Bottacini) è nato a Verona una calda domenica di maggio del 1951. Libri pubblicati: Vele bianche  (grafiche Arcangelo Verona, 1981) e Ventilabri (Rebellato, 1984).

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Nel 1952 il geniale compositore John Cage presentò la sua partitura 4′.33, che compendia molti aspetti dell’estetica cageana, e che egli stesso definì il suo pezzo migliore. – “Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33 come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”. Chiunque voglia immergersi nella musica di Cage anche coloro che non hanno mai preso uno strumento musicale in mano, possono farlo, possono fare musica. Basta indossare un abito da concerto e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare nulla. L’esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica”? che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall’esterno. Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì la persona sente almeno il proprio battito cardiaco).

Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4’33  si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.-“Sentivo e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l’atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O, altrimenti detto: è l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un’altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”?. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell’International Music Council dell’Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio. Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo.

kate-moss-to-cover-the-60th-anniversary-edition-of-playboy

kate-moss-to-cover-the-60th-anniversary-edition-of-playboy

In queste poesie di Leo Savani si ha l’impressione di un ineliminabile rumore di fondo, che il tempo forte sintattico resti, per così dire, dipendente da un tempo forte ritmico nel quale le percussioni e le inversioni sono all’ordine del giorno e rappresentano una interessante morfologia della composizione poetica. Leo Savani scarta istintivamente la costruzione musicale basata sulla struttura armonica in favore di una struttura ritmica, intesa semplicemente come successione di durate, che possono ospitare qualsiasi parola purché svuotata di senso e di sensorialità. E non c’è neanche una direzionalità temporale in queste poesie, saltata anch’essa insieme alla dialettica di subordinazione che presiede la ragione ideologica dell’Occidente, secondo cui la priorità temporale, ciò che viene prima, assume automaticamente una superiorità rispetto a ciò che viene dopo. Ebbene, questo assioma viene ad essere svuotato di significato. In tal senso, la balbuzie e le inversioni sono serventi all’interno di questo processo di svuotamento di senso della costruzione poetica.

Credo che Leo Savani sia un autore consapevole  del fatto che per aggirare il nostro desiderio di trovare sempre l’emozione nella poesia sia necessario andare oltre il correlativo oggettivo, che si debba abdicare al modello di controllo composizionale tipica della poesia del Novecento, sia della tradizione che dell’Antitradizione, rimuovere tutte le tracce di identificazione personale con il testo.

AUGEN_AUF_1961_STROEMHOLM-NANA_LANDSCAPE_teaser-480x320

AUGEN_AUF_1961_STROEMHOLM-NANA_LANDSCAPE_teaser-480×320

Per vedere l’affetto che fa
(20 aprile 2006)

Julie era un intarsio
di occhi profondi come il mare
sulla seggiola dell’osteria davanti alla spiaggia
Julie aveva capelli quasi rossi. Del resto
non era forse francese di Lione?

Maria l’amica greca suonava iridi languide
di birra vino e ouzo al tramonto
aveva la lingua impastata
e mandava riflessi nei capelli del polacco
che ogni tanto raggiungeva a Bialystok

Dietro gli occhi della madre il figlio di Julie
aveva facce larghe e piatte da vietnamita
(Julie dice che anche a lui tra un po’
sarà stretta quest’isola
e andrà con la sorella. Perso anche lui)

Maria non ha figli ma cova il seme
nei sensi e nell’anima come nei pensieri

Eh sì la se
(11 maggio 2006)

Essi la sera
la loro pelle scura strappava le barche
alle braccia forti del mare
Fin troppo calmi e lontani erano
i capi dei loro rituali
Se così fosse – ti dicevi
che oltre l’orizzonte delle onde
oltre la schiuma di ponente
l’arcano di un altro mondo deponesse?
Poi il mare ti confondeva di nero
e un brivido ma leggero
ti disegnava l’inquietudine alla schiena.

E me? Io vorrei essere sempre là
ad allineare ancora sul muro
le piccole tue cose
sas-sile-gnicon-chiglie
opercoli di giada in tessuti nei suoi capelli
ad asciugarsi e ritrovarli bagnati
quando la rugiada si fa mattino

.
Ascalepio
(24 febbraio 2007)

E chi di noi, non io, ti dici
potrà mai più partire dicendo:
Ricordati: dobbiamo
un gallo ad Ascalepio?

Eppure dice il filosofo
quelle voci sono davvero accadute?

Io ho capito solo che il silenzio
è un suono che si ripete e propaga
nel vuoto dell’eco, nell’universo.

.
Julie nel viavai
(14 aprile 2007)

Stavolta
il riflesso dei rossi capelli
di Julie ti colse
profondo riflesso nell’azzurro
dei suoi occhi da Lione
tra le piante di quel viavai.

Questa volta
Julie non ha figli
quest’anno
ha pupille trafitte
di arresa dolcezza
– c’è un grillotalpa
tra il caprifoglio e il mirto:
Lo schiaccio?
Ma no, risponde calma
non fa che il suo lavoro.
Julie.

.
Parole girevoli
(luglio 2007)

Qui anche il mare
è perfino troppo quieto
Io batto la pioggia
e penso come compenso
a poche parole,
in fondo.

A parole girevoli
come queste.
O alle parole come pietre
che mi hai insegnato a incidere.
Tornite tonde levigate
dalla corrente delle nostre isole
o puntute frantumate spinte
dai fronti stanchi dei ghiacciai.

Leo Savani

Leo Savani

Giuli 40 (Ancora viavai)
(6 aprile 2008)

Non mi fermerò più in quel viavai
O mi fermerò ancora. Tanto
i capelli della ragazza di Lione
hanno lampi celesti nel vento
che muta il cielo come sipari
nell’asilo nido delle piante

Julìe?
La ragazza dagli occhi francesi
del figlio vietnamita.

Sotto questa pioggia e le nuvole
che passano, un po’ si ripara
dagli scrosci della corriera
Avrà storie da raccontare
e calze da rammendare, ancora
i grillitalpa da schiacciare

*

(6 aprile 2008)

Nelle luride primavere di Voutakos
vivo a mio modo
cercando cocci e selci
sotto la pioggia
e legni levigati dal mare
e pezzi di conchiglie orfane

.
Da maskino
(25 aprile 2009)

la giulì dagli occhi
di figlio vietnamita
c’è ancora in questo aprile, lì
nel viaviai religioso operoso di bruchi e insetti
ad allevare zolle da attecchire
al vento delle avene da nord
– prima che le bruci l’estate

Solo un lampo d’azzurro, per la verità,
dietro i capelli gialli d’onda
tra gli stretti filari di piccole tamerici
(«per viti è tardi quasi, passi a tuoi rischi
per il damaskino, sì», lei che ha studiato a Firenze»)

Aveva la faccia già arrostita dal sole e dal vento, Giudilì?

Chi sa per dove para i suoi pensieri, ora
e per dove si porta dietro le sue sere
se hanno un po’ di tempo per le taberne
lungo i locali ancora chiusi
con la spuma frizzante del mare
dove si incontrano bocche precarie
di giovani coppie polacche
che si scambiano occhiate intrise d’ouzo

Ferdinando Scianna volto velato

Ferdinando Scianna volto velato

Sopra
(19 luglio 2009)

Il prete colto affonda la malinconia
nella sua vecchia barba
Scansando in fretta aghio gheorghes
va ad aspettare le nove
per la nave
nel porto del mare rosso della sera

Torna ogni anno, un acciacco nuovo
per le sue Turmac che non gli porto

Chissà se mai ha visto
il lampo degli occhi di Julie doltremare
o quelli del figlio vietnamita e chissà
se aspettando in porto
l’onda giusta per la nave delle nove
nel cielo rosso del mare dove affonda le nostalgie
– intanto
benedirà le cartoline
in partenza dal molo di mezzo
quello da dove salpano i sospiri degli albanesi
pronunciando omelie in ghe e ics e troppe consonanti.

Avvento
(11 settembre 2010)

quel vento ancora e ancora
ci porta umori dal continente
e umori da altri mari. Scopre
e flagella i fianchi di cisto delle montagne. Scortica
i ginepri e ribalta le vele ai marinai. Picchia
le canne che difendono le vite a passo corto dei viavai
La sera poi si acquieta e accende qualche luce di musica lontana

.
Cui Paros?
(10 luglio 2011)

Qui, sarà stato anche qui
che il viaggio di Martin
si fece soggiorno

Qui dove i sospiri degli albanesi
guardano lontano oltre il mare
qui dove dall’ossidiana
ai vasi ai marmi alle crete
tutto si fa mistico
di un sole e di una luce
che trascolorano e trafiggono i colori

E tu sei sopra quel trillio
d’un volo di allodola
alto sulle pensose pinete d’Epidaouro

30 commenti

Archiviato in critica della poesia, Poesia contemporanea, poesia italiana

GIORGIO LINGUAGLOSSA DUE POESIE –  IL RINNOVAMENTO POETICO “Cogito è in viaggio su un treno blindato”, “Giocavano a dadi con i meteci”, con un Commento di Mario M. Gabriele a proposito della rifondazione della “forma-poesia”

Foto Vopos Verso la libertà a bordo della BMW Isetta, Una storia vera

Il Signor Cogito alla guida della Lada di proprietà

.

due poesie di Giorgio Linguaglossa a cura di Mario M. Gabriele

Se è vero che la filosofia secondo Hegel è:“Il proprio tempo compreso con il concetto”, dal quale poi si forma una connessione di elementi che rientrano nella cosiddetta “Fenomenologia” dove si chiarisce il percorso che ogni individuo deve realizzare, partendo dalla sua coscienza; allora tale definizione può anche essere trasferita, pur con le dovute variazioni, alla poesia, al di là di tutte le interpretazioni che sono state elaborate nel corso della Storia. Barthes, ne “ Il piacere del testo”, perviene ad un progetto di ricerca seguendo le sedimentazioni temporali della scrittura che si allarga ad ogni sapere fino a incontrare il lettore, autentico interprete di ogni opera.

Un interrogativo però si pone ed è questo: è il lettore in grado di interpretare il “Profilo Sommerso” legato alle figure retoriche, che costituiscono la “Maschera” con cui si cela l’altro di sé del poeta, il quale agisce su “Espressione” e “Contenuti”, raggiungendo la Forma estetica del verso fasciato di “Allegoria” e “Allusione”,”Metafora”e Metonomia” ecc.? In questa indagine Barthes coinvolge anche la “Simbolica”  attraverso la quale agisce la scrittura polisemantica. Un altro interprete della poesia è stato Saussure il cui nome è legato allo Strutturalimo, contribuendo con le sue ricerche  a fissare i punti di orientamento della Linguistica, come Scienza, attraverso alcune nozioni tra le quali si annoverano la “Sincronia” e la “Diacronia”, la“Struttura”, e la “Commutazione” che, una volta assemblate, includono la lingua  in  un “sistema in cui tutti i termini  sono solidali tra loro e il valore dell’uno risulta soltanto dalla presenza simultanea degli altri”. L’immagine di una poesia immutabile nel tempo diventa mero astrattismo perché la “Critica del gusto”, verso modelli legati  alla fitta rete-semantica, si è sempre indirizzata verso nuove catalogazioni.  Da molto tempo però  l’industria editoriale ha chiuse le porte a molti Autori di ottimo profilo poetico, immettendo nel mercato prodotti secondari,  camuffandoli come  innovazione, tanto è vero che la critica ha rinunciato al suo ruolo di analisi e di valutazione, creando un vuoto culturale fra letteratura e società.

”Osservando il panorama editoriale contemporaneo ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di poeti ottimi pubblicati da case editrici minori, o addirittura invisibili, e autori di scarso interesse che escono in Case Editrici molto accreditate, con una precedente tradizione, come Einaudi, Mondadori o Garzanti. Ne deriva una situazione di profondo sconcerto che coincide con l’eclisse della critica della poesia.” (Alfonso Berardinelli).

Con questo scempio editoriale la poesia di frontiera è rimasta ai margini di se stessa e della invisibilità. L’impegno e il rinnovamento non sono stati abbastanza sufficienti a determinare il rovesciamento dei gusti e delle proporzioni poetiche. E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato i poeti di diverse generazioni.

Cosa si può fare allora per contrastare  la letteratura del consenso e dello spettacolo? Rimanere onesti con se stessi, a costo di morire nelle catacombe e accettare il motto delle Giubbe Rosse: marciare per non morire. La tradizione e la ricerca devono avere una funzione interagente nel procedimento linguistico, ciò che non si trova  nell’area avanguardistica ricca di segni iconici provenienti dall’informatica e dall’area multimediale. In quest’ambito il vero coup d’aile avviene con il disordine linguistico dei vari Baino, Viviani, Voce, Ottonieri, Bilotta ecc. che invece di formare una valida alternativa alla lingua, si sono smarriti in un universo senza luce e sbocchi. Per fondare nuove alternative, l’uomo deve riscoprire la dimensione del linguaggio. E’ l’unica risposta che si possa dare al necrologio di Baldacci, che ne “Il male nell’ordine: Scritti leopardiani,” Milano, 1988, ha affermato:” l’Avanguardia non è più proponibile”, confessando nella Introduzione ai testi di Patrizia Valduga: Medicamenta ed altri medicamenti  (Torino Einaudi, 1989), “che le parole nella poesia sono state tutte adoperate”. Su questo tema si è espresso anche Sanguineti,  in una intervista di Pietro M. Trivelli, su La Repubblica del 16 luglio 2003, pag.19, quando afferma  che:” non ci sono fronti culturali che si contendano una spinta al cambiamento. Non esistono “Gruppi” di poeti. Tuttavia come negli anni 50 c’era più impulso di ricerca tra pittori, musicisti, registi, rispetto alla letteratura, anche oggi è più viva l’inquietudine nelle arti figurative ma prevale il mercato sul dibattito culturale”.

Onto Gabriele

[Mario Gabriele nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Su un altro versante ha operato Arnold Schönberg sostenendo che dopo la dodecafonia non è più possibile inventare nuovi moduli compositivi se non reinterpretando la musica. Quando “l’oltre” non è più praticabile nelle arti, l’impoverimento espressivo diventa un deserto morfologico, senza il riscatto formale del significante. Hand Freyer in “Società e cultura” rileva che se un autore vuole sopravvivere all’afasia deve necessariamente “attingere a tutte le fonti, raccogliere parole ed espressioni in tutti i vicoli, ma anche nelle miniere più antiche, purché abbia il coraggio di penetrare nelle gallerie in rovina”. Si tratta della medesima concezione di Eliot sulla poesia, vista come una  unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte: ossia la voce dei morti in quella dei vivi. Contro l’omologazione della poesia koinè, è necessario contrapporre il dissenso e l’antagonismo, cercando di agire con la qualità e la ricerca, senza fossilizzarsi in forme e contenuti  di dubbia consistenza, cambiando un poco le regole del gioco  e i luoghi culturali, fino alla contrapposizione di un progetto duraturo e credibile, potenzialmente rivoluzionario.

È un percorso difficile da realizzare, ma percorribile nelle diverse esperienze acquisite,  Tra i vari modi di scrivere versi, la poesia racconto, (ma anche quella di impronta ideologica, così attiva negli anni Sessanta, con Fortini, Pasolini ed altri), ha offerto uno spazio dilatato  e rispettabile di fronte alla fumisteria e all’apnea poetica. E’ stato un genere letterario che ha avuto nel passato illustri nomi da Mallarmè con “Il pomeriggio di un fauno”, a Pascoli dei “Poemi Conviviali”, da Pavese di “Lavorare stanca”, alla poesia straniera con Lee Masters di “Spoon River”, a Withman, Pound, Garcia Lorca, Neruda, Majakovskij e Ginsberg di Kaddish. In effetti l’ampio registro verbale ha legato il lettore ad una struttura linguistica più impegnata. Se poi la poesia racconto è riuscita ad essere anche un contenitore di tematiche esistenziali, meditative, e socio-politiche, in relazione alle cosiddette figure grammaticali individuate da Kopkins, allora”l’universo del discorso” che, ha caratterizzato questa poesia, ha una sua valenza nel variegato panorama dei “Modelli”. Qui non si possono non citare anche gli esiti della poesia visiva, attraverso la rappresentazione eterogenea dei segni iconici e tipografici, simboli del consumismo, slogans e figure geometriche. Il rischio maggiore legato alla poesia visiva è stato l’autolesionismo che ha sublimato e ideologizzato, nella sostanza e nella forma, l’esclusività dei suoi caratteri nell’era del postmoderno, nel momento in cui era necessaria la sua collocazione in un contesto più vasto e progettuale, fuori  dalle maglie troppo strette di uno status propagandistico, per entrare con altri linguaggi e culture, all’interno di un “villaggio globale”.

Secondo Stelio Maria Martini l’elemento visivo, a parità di diritto con quello verbale, va considerato complementare di questo, perché rappresenta meglio di quanto non farebbe con la parola, da sola, il sostrato fantastico e sentimentale che sottende uno schema verbale (e viceversa, naturalmente) per non lasciare nelle mani dei mercanti d’arte o dei fotografi dell’immagine, la mistificazione del prodotto  e il ribaltamento della realtà”, fuori da quell’aura propria di cui parlava Benjamin “Dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica”.

Per quanto si possa parlare in questi tempi di un nuovo ordine linguistico, non si può non riconoscere lo sforzo ricostruttivo compiuto da Giorgio Linguaglossa nei confronti della Forma poetica, sempre attento a non offrire ai lettori del circuito italiano ed extranazionale, paraventi linguistici falsamente comunicativi, da ciò la sua preferenza a riformulare la langue su tutte le ceneri linguistiche. Le figure di pensiero sono così veicolate da una coscienza del dire, che è molto spesso una concatenazione di idee e di recupero di volti e nomi all’interno della Metafora, utilizzata per lo sviluppo di  trame che coinvolgono  più soggetti. Ma si dà anche il caso che, a volte, affiorino gradazioni psicologiche, come incremento del significante da cui partono le fratture del tempo storico e contemporaneo. Ne sono testimonianza le opere pubblicate attraverso le varie sigle editoriali, a cominciare dal 1992 con “Uccelli”, seguito da “Paradiso” nel 2000, da “La Belligeranza del Tramonto” e nel 2013 da “Blumenbilder. Natura morta con fiori”, mentre  in “Tre fotogrammi dentro la cornice” Selected Poems (Chelsea Editions, 2015) il lettore entra  in una antologia poetica fatta di  connessioni metaforiche volte  a rappresentare un continuum di tematiche aperte a tutto campo.

Ho conosciuto l’Autore attraverso la lettura di queste due poesie inedite, da me pubblicate su: isoladeipoeti.blogspot.it e da cui poi sono nati “punti di vista”  sul fare poesia di oggi:

Giorgio Linguaglossa

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Stanza n. 73

Cogito è in viaggio su un treno blindato

Il gioco dell’ombra tra gli hangar. Fasci di luci dai riflettori
posti sulla sommità delle torrette blindate.

Sulla terra battuta il passo dell’oca dei soldati.
I gendarmi giocano al gioco delle tre carte.

Gli ufficiali puntano alla roulette: sul rosso, sul nero,
sul numero 33.

Giocano con le bambole, giocano con le murene.
Accompagnano al pianoforte la bella Marlene

Che canta il Lied della nostalgia e della morte.
In alto, le sette stelle dell’Orsa maggiore.

Beltegeuse è una stella nana, Enceladon è lontana.
Firmamento stellato.
Cogito è in viaggio su un treno blindato,

Sta scrivendo una cartolina ad Enceladon:
«Mia amata, il mio posto è qui».

[…]

Un pittore fiammingo dipinge la luna e una natura morta.
Un Signore salta dalla bandella del polittico nella stanza del pittore.

Cammina per la stanza, dice che vuole prendere un po’ di aria fresca.
Non vuole più dipingere Annunciazioni, pastorelli, re Magi, Madonne col bambino.

Un gendarme col berretto a visiera tra gli hangar, agita il frustino
Un nugolo di cani lupo. Abbaiano furiosi, intuiscono
gli ordini dell’aguzzino dal movimento del suo polso.

[…]

Interno di una locanda: dei balordi giocano a carte.
La luce della finestra non li raggiunge.

Li sfiora e va altrove e la luna non c’è.
Benozzo alla corte degli Estensi.

Un cardellino sul ramo di corbezzolo,
Non c’è più tempo, deve affrettarsi,
il Beato Angelico lo ha chiamato a Roma presso il papa.

«Per fare cosa?», si chiede Benozzo, «ancora affreschi,
polittici da altare, annunciazioni?».

Il treno carico di morti viventi è in corsa nella notte.
Inverno. È arrivato il grande freddo.

Berlino. Il lampionista spegne i lampioni lungo la Marketstrasse n. 7.
La polizia segreta bussa alla porta del Signor Cogito.

«Gutentag Herr Cogito».

(da Le Risposte del Signor Cogito inedito)

 

Giocavano a dadi con i meteci

Un angelo zoppo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: «Malediciamo il nome di Dio.»

Eravamo incomprensibili. Stavano tutti al bar
a bere caffè, quando, a mia insaputa, cominciai a zoppicare.

Erano tutti zoppi gli avventori del bar e gobbi.
Avevamo la gotta e la gobba ci spuntava dalle spalle.

A quel tempo dall’Albero vennero i bastardi
con le risposte pronte e gonfiarono le vele

E gettarono le ancore.
Io fissavo il loro occhio di vetro …

Giocavano a dadi con i meteci e a morra con gli iloti,
se la spassavano con le troiane,

Ma anche quelle presero a zoppicare oscenamente.
A quel tempo facevo l’infiltrato e la spia,

Passavo informazioni ai persiani in cambio di talleri d’oro
e poi riferivo ai bastardi le notizie sottratte

ai carovanieri di spezie e di porpora che attraversavano il deserto.

Io a quel tempo me la spassavo nella Suburra,
tiravo con l’arco al bersaglio e giocavo a morra con i bastardi.

Un angelo gobbo ci venne incontro
e disse, senza guardarci: “Dimenticatevi il nome di Dio.”

(da La Belligeranza del tramonto, 2006)

Trattasi di un fluire poetico di  autentico “humus psicoestetico, all’interno del quale si può benissimo parlare di poesia perché Linguaglossa ha introdotto un vero e proprio linguaggio ellittico e risolutivo, cancellando l’Expo del linguaggio tradizionale e afasico, rimuovendo il lirismo del dopoguerra, e le fantasie verbali dei poeti pulp, e post-avanguardisti. Da qui il rifacimento di una realtà, con un mutamento linguistico che non è soltanto frattura con la Tradizione, ma  rimozione di un mondo risemantizzato con nuovi “strumenti umani”.  Su queste due poesie l’Autore precisa che «la loro stesura ha riguardato una distanza temporale di 10 anni l’una dall’altra, la prima l’ho scritta nel 2014 mentre la seconda nel 2005. Questo, per dire che c’è stata una continuità tra il primo lavoro e l’ultimo ancora inedito su carta. Poi, in questi anni c’è stato l’aggravamento della Crisi del Paese e la Crisi della Ragione Narrante che mi ha motivato a spingere sull’acceleratore di una forma-poesia che riorientasse la poesia italiana del secondo Novecento. Ho dovuto prendere le distanze perciò dalla poesia di “Satura” (1971) di Montale, il maggior poeta italiano del Novecento, per sterzare in un’altra direzione. Ho dovuto apprestare perciò uno strumento linguistico e stilistico e una metafisica, insomma, ho dovuto munirmi di una  nuova ontologia estetica. È stata una ricerca che è durata 30 anni, perché sono dovuto partire da zero. O quasi. Ho dovuto inventare di sana pianta uno stile modernistico e riallacciarmi alle sorgenti del Modernismo europeo, un lavoro gigantesco che dovrebbe essere visibile nella raccolta di prossima pubblicazione “Il tedio di Dio” che dovrebbe uscire con Progetto Cultura di Roma.»

Nella mia replica, ricordo, sempre tramite post, di aver usato per me, nella ricerca sulla poesia, il termine “speleologo”, che molto si addice al Linguaglossa nel suo lavoro di rifondazione linguistica, formale e lessicale, di contenuti, opzioni salutistiche sulla lingua e al progetto psicoideografico della realtà, asfissiando così l’area poetica venutasi a saturare con il Gruppo ’93, e della terza ondata, e approdando con coraggio a una “rifondazione” della lingua in diversi capitoli estetici, che hanno aperto la lettura a nuovi canoni utili a giustificare “l’assedio” alla poesia, durato 30 anni di ricerca e di impegno ricostruttivo. La novità che intravedo, leggendo le sue poesie, è correlata ad un  umanesimo culturale che affonda le radici in più territori. Ciò viene a determinare un “manifesto poetico” indicativo nel fare poesia.

Fayyum ritratto di Donna romana

Fayyum ritratto di Donna romana

Sul concetto di Arte, con riferimenti anche alla musica e alla poesia, Linguaglossa  centralizza il suo pensiero affermando che: ”Nell’arte degli Anni Cinquanta avviene una”catastrofe”, ovvero l’incrocio tra diversi codici artistici che sfocerà in una libertà fino ad allora impensata. Un artista la cui opera è altamente significativa e densa di conseguenze per chi voglia intendere, è stata la musica e le riflessioni di John Cage  il quale scrive che

“l’arte è un modo di vita, come prendere l’autobus, cogliere fiori”, affermazione che comporta l’abbandono del regno tradizionale dell’estetica e una visione della vita come il regno del non-intenzionale. Nell’opera di Cage vengono recisi i legami con il linguaggio e la teoria musicale tradizionale: i suoni non sono più considerati un veicolo di significati tratti altrove, ad esempio da un testo poetico, e non sono più ordinati secondo un sistema prestabilito (armonico, tonale, atonale, dodecafonico) in cui incasellarli in una gerarchia di suoni. Tale pratica di non-intenzionalità rispetto al suono sollecita un gesto di sospensione autoriale. Il che comporta che i suoni accadano in quanto suoni al di fuori di qualsiasi pentagramma prestabilito.

“Direi che questo assunto,” continua  Linguaglossa, “è utilissimo anche per quel che riguarda la procedura compositiva di una forma poetica. Cage ci ha dimostrato che in musica è possibile trattare i suoni in questo modo. Analogamente, con le parole è possibile operare secondo un procedimento dinamico interno che si spinga fino alla impossibilità di giungere all’opera conchiusa; insomma, mediante una procedura che consenta di creare allo stesso modo con cui si crea l’universo in continua espansione. L’autore quindi si deve limitare a creare una struttura-cornice o un progetto-partitura entro i quali lasciare che gli eventi accadano. Le parole quindi vengono trattate come eventi. Le immagini e le metafore sono nient’altro che eventi. In tal senso la mia poesia può essere letta come una grande scacchiera dove avvengono eventi molteplici i quali creano a loro volta nuovi spazi interni entro i quali si inseriscono altri eventi che accadono in uno spazio-tempo in continua espansione. Con questa procedura si possono ottenere una miriade di spazi che si aprono all’interno di altri spazi, talché avviene che la distanza tra due o più spazi viene ad essere misurata dal tempo (dal tempo vissuto), quale categoria ontologica di seconda istanza. È una procedura di nuovo conio, ma non lontana dalle procedure compositive di Mandel’stam che teorizzava e praticava una poesia basata sulla metafora tridimensionale; una procedura imparentata con la teoria degli equivalenti oggettivi di Eliot e con la teoria dell’imagismo di Pound. Per non parlare delle immagini in movimento di Tomas Tranströmer. Si tratta di uno sviluppo ulteriore degli assunti della poesia modernistica europea”

acconciatura muliebre periodo del principato

acconciatura muliebre periodo del principato

Il 4 settembre.2015 10:29,  così rispondo al Linguaglossa:

“Il pensiero di Cage annulla la funzione statica della musica: una specie di “armonium” che ci ha accompagnato anche in poesia per lungo tempo, quintessenziando il pre e postermetismo (Soffici, Marinetti Sbarbaro, Onofri, Cardarelli e, perché no, lo stesso Montale di “Le occasioni”, per cui di fronte alla impossibilità di creare nuovi stilemi e, andando su un altro versante, quello della musica dodecafonica, anche Arnold Schönberg, ha ripudiato il principio tradizionale di una tonalità non riformabile,  mettendo i dodici suoni della scala cromatica su un piano di assoluta eguaglianza, e ritenendone ognuno parimenti atto ad essere centro armonico e generatore di accordi. Qui sorge lo stesso tuo problema di fronte ad una poesia da rigenerare ex novo. Su questo passaggio la domanda è se dopo la dodecafonia è possibile andare oltre approdando a una nuova musica, ossia, inventare altri moduli compositivi? Su questo tema, a suo tempo, rispose il Maestro Carlo Maria Giulini, il quale alla base della sua esperienza negò altre soluzioni, asserendo che la musica può essere solo reinventata e reinterpretata così come avviene per le metafore che in poesia costituiscono “eventi”, illuminazioni”, “dinamismo iperculturale” come fai tu.”

Il 4 settembre 2015 12:36:

Linguaglossa chiude gli interventi, precisando che “In analogia con gli assunti della musica dodecafonica possiamo ammettere che le parole siano tutte eguali, che partano da uno statuto di eguaglianza per cui ciascuna parola può essere, assumere, il ruolo di centro di gravità (sonora e/o insonora) della composizione poetica. Il centro armonico generatore di accordi quindi può essere rivestito da qualsiasi parola, immagine, metafora, tutte su un piano di parità. Certo, questo assunto implica che l’autore si ritiri nell’ombra, che si situi in una zona fuori dal cono di luce della composizione, fuori visione. Concetto correlato con quello della impersonalità dell’arte moderna e dello svuotamento anche semantico che attinge le parole di oggi nella lingua di relazione e nei linguaggi poetici. Quello che non capiscono i poeti di modesta levatura è proprio questo punto. Impersonalità e disumanizzazione dell’arte implicano l’accettazione di una estetica del vuoto quale quadratura del cerchio (mi si passi l’ossimoro), come unica condizione possibile da cui partire e a cui ritornare.”

Quando Franco Fortini scrisse Traducendo Brecht, aveva già metabolizzato il fallimento della sua idea marxista della società soffermandosi sulla inutilità della poesia come nella chiusa del testo e cioè: “La poesia non muta nulla / nulla è sicuro ma scrivi”; un invito che si adatta molto bene al lavoro di Linguaglossa e alla sua ferrea volontà  di rifondare la poesia partendo da zero. E’ una lezione che ascolteremo fino in fondo, con immutata attenzione e curiosità.

Formalizzati così i “punti di vista”,  rimane ora  indicare l’area dove collocare la poesia  di Linguaglossa. che certamente va agganciata alla poesia modernista ed europea, quest’ultima caratterizzata dallo“stile che nasce dal dialogo cosmopolita alla ricerca di un nuovo linguaggio della poesia. La caratteristica principale del nuovo stile è quella di mirare alla costruzione di testi polifonici, leggibili a più livelli e giustapposti su un unico piano senza distinzione, consentendo così di accostare registri linguistici appartenenti a strati sociali, e culturali diversi” (griseldaonline) E’ una strada, o meglio un obiettivo che si può raggiungere solo con una cultura alle spalle e tanta esperienza da rimuovere la poesia dal suo stato letargico e afasico.

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente in Febbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

31 commenti

Archiviato in Antologia Poesia italiana, critica della poesia, discorso poetico, Poesia contemporanea