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DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
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mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

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Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
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Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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valerio magrelli

Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

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INTERVISTA DIALOGO tra Renato Minore e Orhan Pamuk su l’Oriente e l’Occidente, sul romanzo pubblicato da Einaudi, La stranezza che ho nella testa (2016), “una storia d’amore che si trasforma in commedia degli equivoci” – Riflessioni su Istanbul, la “sua borghesia occidentalizzata” e sul romanzo Museo dell’innocenza con un Commento di Giorgio Linguaglossa

orahn pamuk 2

orhan pamuk

Intervista pubblicata sul mensile “50 e più”/febbraio 2016

Orhan Pamuk, Premio Nobel nel 2007, il primo vinto da uno scrittore del suo Paese. Ha prevalso la Ragione politica perché il nome e la figura di Pamuk, vessillo di cultura laica e romanziere postmoderno, primo intellettuale del mondo musulmano che ha apertamente condannato la fatwa contro Salman Rusdie, sono spesso diventati un simbolo della difesa dei diritti civili e dei conti con il proprio passato da parte della Turchia, in procinto di entrare nell’Ue.
Nella motivazione del Nobel si legge che «nell’anima melanconica della sua città Natale, Istanbul, ha scoperto nuovi simboli dello scontro e della interrelazione delle culture». E Orhan Pamuk dice che i suoi romanzi parlano sia dell’Oriente che dell’Occidente per mettere in evidenza le strane armonie e i punti di contatto che esistono tra le due realtà. Sono all’opposto dello scontro di civiltà teorizzato da Hungington. In Istanbul, che è insieme racconto d’infanzia e romanzo di formazione, ritratto di una vocazione e insieme di una città, Pamuk racconta che, durante la sua giovinezza, visse il passaggio da un modo di vita familiare tradizionale a uno stile di vita più vicino all’Occidente. E lo scontro tra vecchio e nuovo, tra progressismo e reazione in un miscela torbida di sentimenti stravolti e bassa sensualità, è al centro del romanzo della sua rivelazione, La casa del silenzio che si svolge dentro e attorno a una vecchia dimora di famiglia, emblematica della Turchia incapace di spezzare i ceppi del passato.

Orahn Pamuk La stranezza che ho nella testaIn Istanbul lei si è detto convinto che in qualche parte della città ci sia un altro Orhan. Lo ha trovato? Nei suoi romanzi l’identità e il doppio sono sempre presenti…

«Ho avuto come modelli letterari Calvino e Borges, molto ho imparato da loro. Scrivendo io immagino la mia second life, la seconda vita realistica e non virtuale, però. Penso che si possa fare qualcosa nella nostra vita per cambiare tutto, i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro lavoro. E così ognuno di noi, se vuole, in questo mondo terreno può avere una seconda occasione».

“Io ho voluto immedesimarmi in quella figura per calarmi in un personaggio veramente povero, vedere Istanbul con gli occhi degli immigrati più derelitti” dice ancora Pamuk. Il romanzo è l’ultimo del sessantatrenne scrittore turco, premio Nobel nel 2007, appena pubblicato in Italia (La stranezza che ho nella testa Einaudi, 570 pagine 22 euro). Il racconto è incentrato su una storia d’amore che si trasforma in commedia degli equivoci. Protagonista è Mevlut Karataþ, ambulante di boza (bevanda turca leggermente alcolica), un lavoratore indefesso e inguaribile ottimista, profondo conoscitore dei vicoli che il romanziere utilizza come pretesto per guidare il lettore nel cuore di Istanbul Nel romanzo, costruito come una ballata popolare a più voci (e per molte voci), nell’altalenarsi delle voci ogni personaggio racconta la propria parte di storia, da comparsa di un grande cast che ruota intorno all’umile venditore di “avventure e sogni” . E sono storie come incalzate da quel fiato di epos picaresco che trascina Pamuk tra storia sociale e memoria personale. Storie che mescolano ogni differenza politica religiosa, sessuale e riflettono, come miniaturizzate, le grandi questioni della Turchia contemporanea, il colpo di Stato dell’80, la guerra tra l’esercito turco e il Pkk, l’ascesa di Erdogan.

«Narro la vita di un ambulante, un certo Mevlut, che vende boza (una bevanda locale, ndr) il suo ambiente familiare, l’esodo dall’Anatolia ad Istanbul negli anni ’60. E, attorno a lui, tanta gente povera che costruisce casupole abusive, a mani nude, in periferia; proprietari di piccole botteghe. Un’umanità che cerca di sopravvivere alla vita di strada».

Orahn Pamuk 1

Orhan Pamuk

La città si evolve. Anche il protagonista?

«Mevlut, sì. Il mio problema non era solo di descrivere ogni suo aspetto, ma anche di mostrare che la sua sopravvivenza non è il risultato di un paradosso. Anche nei momenti più bui ci sono forme di ricchezza dell’esistenza come ironia e comicità. Proprio qui si incrociano il lato romantico dell’immaginazione e la scrittura “storica”».

“Io ho voluto immedesimarmi in quella figura per calarmi in un personaggio veramente povero, vedere Istanbul con gli occhi degli immigrati più derelitti” dice ancora Pamuk.

Istanbul, dove ha raccontato con immagini e fotografie di famiglia e di luoghi, disegni e riproduzioni di antiche incisioni, i ricordi della sua città.Un’elegia in cui, però, «il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita». Istanbul, dove ha raccontato con immagini e fotografie di famiglia e di luoghi, disegni e riproduzioni di antiche incisioni, i ricordi della sua città . Un’elegia in cui, però, “il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita In Istanbul , che è insieme racconto d’infanzia e romanzo di formazione, ritratto di una vocazione e insieme di u na città, una vera enciclopedia della capitale turca con i suoi palazzi, le sue moschee, le sue piazze, i suoi vicoletti, i suoi caffè,”Non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in terre lontane”.

Museo

 “Sei anni ha impiegato Pamuk a scrivere il romanzo. E da almeno uno si è gettato anima e corpo nel progetto del museo. Alcuni artigiani hanno riprodotto tutti gli oggetti inventati e presenti nel libro, riconducibili però agli anni Ottanta, epoca in cui si svolge la vicenda, una storia d’amore lunga una vita in cui lo scrittore ha descritto i dettagli, le gioie e le sofferenze dell’amore. Ad esempio i portaceneri con il marchio Sat-sat, l’azienda del protagonista Kemal. O le bottigliette di gazzosa Meltem. O ancora le sigarette appartenute all’amata Fusun con tanto di rossetto sul filtro.

Museo letterario nel senso che gli oggetti hanno un valore narrativo e affettivo. Biglietti di tram, vecchie foto di famiglia, bambole, vestiti, libri, pettini, orecchini, orologi rotti, scatole di biscotti, ritagli di giornali, scacchiere, sirenghe, cane di porcellana in 83 bacheche come i capitoli del romanzo. Racconta non solo la storia d’amore Fusun e Kemal, il racconto visuale della loro travagliata storia d’amore, ma anche la cultura di un’intera nazione, traendo spunto dagli oggetti. Kemal, per sopravvivere al rimpianto e alla nostalgia, trova consolazione nel raccogliere e collezionare oggetti che lo aiutano a ricordare un tempo inesorabilmente sfuggito e ricostruito nei suoi momenti essenziali.La sua ossessione come quella di Pamuk è «dimenticarsi del tempo», isolare per sempre momenti di felicità rompendo per sempre quell’accumulo di secondi uno sull’altro che è lo scorrere lineare delle ore. Kemal inizia a collezionale oggetti per collezionare curare l’infelicità del suo amore reso impossibile dalle circostanze riproducendo attraverso le cose i momenti di pienezza che ha vissuto.

Dal Museo una Istanbul vintage che riproduce le scene del romanzo, le cartoline dell’Hotel Hilton, avamposto di lusso nella metropoli, le bottiglie della gazosa Meltem e la pubblicità affidata ad un bionda prosperosa tipo borra peroni, i menu dei ristoranti, le figurine dei calciatori e star del cinema i pacchetti di sigarette di marche.

C’è soprapposizione della finzione narrativa con la vita e l’esperienza dello scrittore. Il museo è quello di una generazione che nella Istanbul degli Anni Settanta celebra la nostalgia di un’età dell’innocenza attraverso gli oggetti che la rappresentano e in cui si riconoscono. La storia di un mondo. O in altre parole la storia di Istanbul ancora una volta in scena.

«Scrivere un romanzo a volte comporta di dover ricordare vecchi oggetti o immagini d’altri tempi e rimetterli insieme per costruire qualcosa di nuovo: costruire questo museo mi ha fatto rivivere le stesse sensazioni .Vogliamo parlare della vita odierna di come sono le nostre vite oggi, attraverso gli oggetti del passato. A volte lo viviamo con la consapevolezza che un giorno, nel futuro, ne avremo memoria e allora il nostro senso della storia è simile al sentimento che proviamo visitando i musei. Il nostro museo è costruito su due desideri contraddittori: ricordare la storia degli oggetti e al tempo stesso mostrarne la loro innocenza atemporale.

“Quando la storia era pronta – continua Pamuk – allora ho cercato le cose. Ma ad esempio non ho mai scritto dei vestiti di Fusun, fino a quando non ho trovato abiti di quegli anni che davvero corrispondessero alla donna amata da Kemal. Quindi prima vedevo gli oggetti, e poi inventavo il capitolo. C’è stata una fase in cui mi sono comportato come un normale narratore che scrive la sua storia. E poi altri momenti in cui pensavo agli oggetti, e li cercavo ovunque per metterli nel libro. E nel museo. È stato un obiettivo doppio che mi sono autoimposto, piuttosto sfibrante”.

Orahn Pamuk Il Museo dell'innocenzaIl personaggio principale di gran parte della sua fiction più importante è la città di Istanbul. Da questo punto di vista, i suoi romanzi sono continuazioni o integrazioni o confutazioni dei precedenti? In che cosa “La strategia che ho nella testa” continua integra o confuta gli altri?

“La città della mia infanzia, quella del mio libro di memorie, ‘Istanbul’,era all’insegna della malinconia., dietro le porte chiuse, nella vita di famiglia. Una città in bianco e nero, che si sentiva ai margini dell’Europa, non era ricca. Nel nuovo romanzo la narrazione inizia all’inizio degli anni Settanta e arriva fino ad oggi. Siamo fuori, nella strada insieme a negozianti, affamati, venditori ambulanti, costruttori un po’ loschi”,

In “Museo dell’innocenza” Istanbul è dalla parte vista dalla borghesia occidentalizzata, moderna, laica, nella” Stranezza che ho nella testa” è vista dalla parte dei ceti popolari, più coinvolti dalle lotte politiche e religiose. La città di Istanbul qui è quella delle classi inferiori, dei lavoratori che fanno ogni sorta di mestiere per sopravvivere, come i venditori ambulanti. E un tema quanto mai attuale considerando la Turchia di oggi. Come le piccole storie diventano la grande storia, le grandi storie di tutti.

Ci sono modi diversi di raccontare quella storia. Uno è quello di prendere il punto di vista di un intellettuale della borghesia. Io ho tratteggiato i mille dettagli della vita quotidiana da punto di vsta di altre persone, da come vivono nella cucina di casa a come fanno la spesa al mercato, come frequentano la scuola o fanno il servizio militare. Ho cercato insomma la vita quotidiana di un uomo assolutamente comune, un uomo comunque. Ho cercato di descrivere a pieno l’umanità di un personaggio simile,il mio povero Melvut come Tolstoi avrebbe fatto con i suoi aristocratici o Proust per uno dei suoi francesi alto borghesi. Con l’avvertenza che possiamo fare a meno dell’intellettuale che filtra questa realtà. Questa realtà l’abbiamo in presa diretta”.

Un albero genealogico, un suo disegno di venditore di boza, altri disegni,una cronologia e un indice dei nomi, oltre alla bella fotografia finale di Guler. Oltre il testo nel suo romanzo c’è molto d’altro. Si direbbe che tutto ciò non sia una semplice integrazione visiva, ma che la veste, la cura editoriale fanno parte della storia che racconta, un elemento attraverso cui essa si forma e si consolida.

“Non occorre che siamo così conservatori da essere attaccati alle tecniche del romanzo ottocentesco. Una vicenda così complessa può essere aiutata da ciò che ci offre la tecnologia, foto disegni e altro. Tutto può aiutare il lettore alfine da darmi emozioni, sentimenti idee sensazioni e il più possibili estese”.

Orahn Pamuk

Orahn Pamuk

Gli emigrati che lei racconta di quegli anni sono comunque diversi dai migranti e dai rifugiati di oggi?

Mervut viene dall’Anatolia Centrale. Anche se la vita non è stata mai facile, la sua scelta non è però così radicale. Non varca i confini del suo paese, non cambia lingua, non cambia religione. E’ possibile che in quegli anni ce ne siano stati tanti come lui che dalla Turchia sono passati alla Germania. Ho visto di buon occhio da parte della Germania l’annunzio che sarebbe disposta ad accoglierne centinaia di migliaia ogni anno, speriamo che non trattino i turchi come li hanno trattati cinquanta anni fa. Ho visto grandi strette di mano tra gli esponenti della comunità europea e del governo turco. Non vorrei però che si chiedesse alla Turchia di far da filtri per gli indesiderabili mussulmani d’Asia che tentano di passare in Europa. L’Unione Europea deve fare di più per la Turchia: che la rendesse felice, visto che deve pensare al suo ingresso nell’Unione, ma deve essere più attenta a quello che la stessa Turchia combina sul terreno delle liberta democratiche fondamentali.

Qui, invece, mette in scena tre sorelle, due delle quali sposeranno il protagonista, e le impegna in monologhi molto credibile. Quali difficoltà ha trovato calandosi nel loro punto di vista?

Nessuna difficoltà, questo è il mio primo romanzo femminista, e non resterà l’unico. Detto da un maschio turco, le suonerà come un ossimoro, e infatti lo dico in modo ironico; tuttavia, mi ritengo molto contento dei risultati. Mi sembra di essere riuscito, infatti, a rappresentare bene la condizione in cui vivono le donne in Turchia, la repressione a cui sono soggette, gli abusi che subiscono, la loro umanità fatta di rabbia espressa in un linguaggio spesso molto affilato, la loro immaginazione, il loro senso dell’umorismo, e in definitiva il loro essere tramiti di un vero pensiero alternativo. In quanto figlio di una madre che aveva una sorella maggiore e una minore, ricordo benissimo le sedute tra queste tre donne, che si raccontavano a vicenda la relazione con i loro mariti, confrontavano le reciproche situazioni familiari, producevano una battuta dopo l’altra, e ridevano davvero molto.

Mi riferivo al suo ultimo romanzo La stranezza che ho nella testa, una sorta di flashback sui cambiamenti degli ultimi quarant’anni a Istanbul. Che cosa la spinge a scrivere?

«Da un lato, la forza dell’immaginazione (rapportando futuro e passato, si inventa un altro mondo, uno spazio poetico) e dall’altro, più concretamente, la realtà vista attraverso la sociologia e l’antropologia».

Dopo il Nobel, a che cosa può aspirare uno scrittore?

«Devo ultimare una decina di libri già in cantiere, di cui ho pronte tantissime annotazioni, raccolte meticolosamente. In più mi piacerebbe trovare qualcosa che mi permetta di coniugare insieme scrittura e pittura. La tavolozza mi ha attirato sin dall’adolescenza. Lei ha davanti un pittore morto che da qualche anno tenta di risuscitare».

Questa intervista esce sul magazine del Pen Italia. Che legami ha con lo Stivale?

«Mi incanta. Visito tutte le Biennali di Venezia. Nel 2009 ho anche insegnato per un mese Letteratura comparata a Ca’ Foscari. Ho ricordi bellissimi. Svegliarmi presto al mattino, prendere la gondola per andare all’ateneo… Ero felice. Anche se i gondolieri erano sempre di umore nero. Mi guardavano storto perché trovavano insufficienti i pochi euro che pagavo per raggiungere la sponda opposta del canale. Prendere il caffè in un bar, prima di entrare all’Università, mi faceva altrettanto felice. Lo storico palazzo di Ca’ Foscari, con i grandi saloni pieni di specchi, Venezia stessa e i miei studenti erano speciali».

Commento di Giorgio Linguaglossa

Scrive Orhan Pamuk:

«il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita». Istanbul, dove ha raccontato con immagini e fotografie di famiglia e di luoghi, disegni e riproduzioni di antiche incisioni, i ricordi della sua città . Un’elegia in cui, però, “il destino personale e la Storia si intrecciano in un unico sentimento della vita In Istanbul , che è insieme racconto d’infanzia e romanzo di formazione, ritratto di una vocazione e insieme di una città».

E ancora:

«Scrivere un romanzo a volte comporta di dover ricordare vecchi oggetti o immagini d’altri tempi e rimetterli insieme per costruire qualcosa di nuovo: costruire questo museo mi ha fatto rivivere le stesse sensazioni .Vogliamo parlare della vita odierna di come sono le nostre vite oggi, attraverso gli oggetti del passato. A volte lo viviamo con la consapevolezza che un giorno, nel futuro, ne avremo memoria e allora il nostro senso della storia è simile al sentimento che proviamo visitando i musei. Il nostro museo è costruito su due desideri contraddittori: ricordare la storia degli oggetti e al tempo stesso mostrarne la loro innocenza atemporale.

“Quando la storia era pronta – continua Pamuk – allora ho cercato le cose. Ma ad esempio non ho mai scritto dei vestiti di Fusun, fino a quando non ho trovato abiti di quegli anni che davvero corrispondessero alla donna amata da Kemal. Quindi prima vedevo gli oggetti, e poi inventavo il capitolo. C’è stata una fase in cui mi sono comportato come un normale narratore che scrive la sua storia. E poi altri momenti in cui pensavo agli oggetti, e li cercavo ovunque per metterli nel libro. E nel museo. È stato un obiettivo doppio che mi sono autoimposto, piuttosto sfibrante”.

Ripenso a libri fondamentali come “Altre foto per album” di Giorgia Stecher (1996). Anche in questo libro sono venuti prima gli oggetti (delle vecchie fotografie di famiglia) e poi le poesie. Ripenso anche ad una mia poesia: “Tre fotogrammi dentro la cornice” in cui i protagonisti sono gli oggetti, quelli ritrovati e quelli ricordati, oltre a vecchie fotografie dei miei genitori giovani nell’Italia del dopoguerra.

Ripenso a certe poesie di Steven Grieco dove lui sembra parlare d’altro, ma in realtà parla con l’Altro, ma in codice, in una sua personalissima lingua, parla con sua moglie e sua figlia, con le immagini filtrate attraverso la sua memoria e con l’aiuto di fotografie. Parla perché vorrebbe modificare il destino. assurdo. Ma, si sa che la poesia segue una sua logica assurda, un pensiero assurdo. La poesia pensa l’impensato.

Quando parlavo dell’importanza degli oggetti perduti e poi ritrovati (citando, in un altro post, i romanzi di Salman Rushdie) volevo alludere proprio a questo, che la letteratura parte sempre da oggetti fisici, che sono realmente esistiti, e poi va verso l’etere… Gli oggetti sono i frammenti della nostra esistenza che si è nel frattempo frammentata… e sarebbe inutile voler ricostruire l’oggetto infranto. Noi possiamo soltanto immaginare l’oggetto infranto.

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Renato Minore, foto Dino Ignani

Renato Minore (Chieti, 7 settembre 1944), risiede da oltre trent’anni a Roma. Si è laureato in lettere moderne con Natalino Sapegno e si è specializzato in filoologia moderna. Giornalista professionista dal 1971 presso i servizi giornalistici della RAI, attualmente è il critico letterario de “Il Messaggero”. Ha insegnato Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università di Roma.
Come narratore ha pubblicato i romanzi Rimbaud (Mondadori), Il dominio del cuore (Mondadori), Leopardi, l’infanzia le città gli amori (Bompiani). Come poeta ha pubblicato: La piuma e la biglia (Almanacco Lo specchio Mondadori), Non ne so più di prima (Edizione del Leone) Le bugie dei poeti (Scheiwiller), Nella notte impenetrabile (Passigli), I profitti del cuore (Scheiwiller). I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha scritto per settimanali come “Il Mondo”, quotidiani come “la Repubblica”, riviste culturali come “Paragone”.
La sua attività critica è raccolta nei volumi: Giovanni Boine (La Nuova Italia, 1975), Intellettuali mass media società (Bulzoni 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco 1986), Dopo Montale Incontri con i poeti italiani (Zerintya 1993), Poeti al telefono (Cosmopoli 1994), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1995), I moralismi del Novecento (Poligrafico dello Stato 1997) e le serie: Sul telefonino: Il tam tam del terzo millennio (Cosmopoli 1996), Il mondo mobile (Cosmopoli 1997), La piazza universale (1998). Sul divismo: Fragili e immortali, Il divismo all’origine (Cosmopoli 1997), Lo schermo impuro: Il divismo tra cinema e società (Cosmopoli 1998), Il pianeta delle illusioni: Il divismo negli anni Sessanta (Cosmopoli 1999) Eroi virtuali: Il divismo Campiello, l’Estense, il Buzzati, il Flaiano, il Capri, il Città di Modena per la critica.
Alle soglie del duemila (Cosmopoli 1999). Sulla comunicazione: Futuro virtuale (Cosmopoli 1995), Rotte virtuali (Cosmopoli 1996), Rotte convergenti (1997), L’italiano degli altri (Newton Compton 2010).
 

 

 

 

 

 

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Giorgio Linguaglossa da Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York, (2015) traduzione di Steven Grieco QUATTRO POESIE da Risposta del Signor Cogito. “La polizia segreta cerca il quaderno nero”, “La Lubjanka interroga il musicista”, “Il corvo è volato via dalla finestra”, “La polizia segreta interroga il Signor Cogito” Commento di Marco Onofrio

de chirico Ettore e Andromaca 1916

de chirico Ettore e Andromaca 1916

da “Risposta del Signor Cogito”
da “Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014)” Chelsea Editions, New York p. 320 $ 20 Prefazione di Andrej Silkin Traduzione di Steven Grieco

La polizia segreta cerca il quaderno nero

I
La polizia segreta cerca il «quaderno nero».
Perquisisce ogni centimetro quadrato della abitazione

del Signor Cogito, getta le masserizie all’aria, sfonda le pareti,
smonta le mattonelle. Dicono che c’è «un sole inabissato»
da qualche parte.

II
Finestra buia. Finestra illuminata.
Enceladon è nuda esce da una porta della notte e si pettina

i capelli color rame davanti allo specchio.
Un merlo gorgheggia sull’albero. Gli uccelli tossiscono.

Lanterna rossa. Fascio di luce conica.
Un riflettore è puntato sulla faccia del Signor Cogito.

Un cono di luce sugli occhi del Signor Cogito.
La polizia segreta scava nel giardino.

Cerca ciò che non può più trovare
perché Cogito ha distrutto il quaderno nero
gettandolo nel fuoco.

III
Sono le tre. Il rintocco argentino del carillon
disturba la tranquillità del Signor Cogito.

Il suo pensiero è simile al moto del pendolo,
va dallo zenit alla fossa delle Marianne

dal fumo delle puzzolenti nazionali
all’etere del pensiero teologale.

Nella Kammerspiel c’è silenzio. Di tomba.
Improvvisamente, uno scalpiccio di passi.

I cinque poliziotti sono usciti in corridoio.
«Arrivederci», «Passate più spesso a trovarmi»,
dice agli ospiti il Signor Cogito.

.
La Lubjanka interroga il musicista

I
Le blatte si accalcano nella fessura della porta.
Il Signor K. esce dalla notte

sbatte la porta ed entra nello specchio
esce dallo specchio ed entra nel cono di luce.

Entra il commissario con un occhio di vetro.
La polizia segreta interroga la bellezza di Enceladon

mentre la Lubjanka fa catturare tutti gli uccelli.
Dispone che gli uccelli vengano impiccati

ai rami degli alberi e lasciati oscillare
come idrocaedri al vento del Favonio.

Interrogano il musicista.
Interrogano il Signor Cogito.

Cercano «un sole inabissato».
«È colpa del Signor Retro – dice il Signor Cogito –

quel maleducato è sempre avanti di un passo,
e non c’è ragione che possa voltarsi indietro».

La polizia segreta perquisisce il violino,
smonta la cassa armonica, fa a pezzi l’archetto.

II
La Lubjanka ha convocato il violinista
negli uffici della polizia segreta.

La tigre bianca siede sulla sedia rossa.
La tigre rossa siede sulla sedia bianca.

La tigre sorride.
Il Signor Retro mastica un chewingum.

La Gioconda mi guarda dalla parete.
Hanno interrotto le perquisizioni.

Hanno requisito il violino.
Hanno divelto la porta rossa e la finestra azzurra.

Hanno abbattuto le pareti.
Il Signor K. dice che il violino non ha colpe.

«Signor Cogito, non c’è nessun sole inabissato».
«C’è un solo colpevole». «È lei il colpevole».

Giorgio-Linguaglossa-Three Stills In the Frame 2015.

Il corvo è volato via dalla finestra

Il corvo è volato via dalla finestra.
I candelabri degli alberi fumano sotto il cielo.

Fiammeggiano d’un fuoco algido.
Il cielo è immobile. Il mare è immobile.

Il bosco è immobile.
La bottiglia e il bicchiere del quadro di Morandi

sono immobili, integri, il tempo non li ha frantumati.
La Lubjanka ha fatto impiccare tutti gli uccelli.

Sette corvi beccano i vermi nello stagno.

Enceladon mi guarda da una cartolina.
Anche la sua bellezza è immobile.

Ha un sorriso esangue, sembra evasa
dalla prigionia del suo archetipo in fondo

al ritratto di Simonetta Vespucci.
L’intero universo è immobile.

La sedia rossa è di fronte al mare.
Il sole nero entra nella costellazione dello Scorpione.

I mocassini del Signor Cogito scricchiano
sulle falene morte e sulla polvere del parquet.

Il pensiero del Signor Cogito precede sempre
d’un palmo la giostra delle parole, indugia all’ingresso

tra il pensiero nero e il pensiero bianco.
«Tra il pensiero e la parola cade l’ombra.

Tra la parola e la sua pronuncia cade l’ombra»
dice il Signor Cogito.

Teatro. Si apre il sipario. Sedia rossa.
Il musicista prende posto sulla sedia rossa.

Imbraccia il violino.
Posa l’archetto sulle corde del violino.

All’improvviso, tutto scompare:
la sedia rossa, il musicista, il mare,

le stelle, gli alberi in fiamme.

de chirico_immagine periodo metafisico

de chirico_immagine periodo metafisico

La polizia segreta interroga il Signor Cogito

I
Si annuncia con il tinnire di monete false,
un flash al magnesio il Signor K.

La redingote del Signor Cogito
si siede di fronte alla finestra. Attende.

Il Signor K. si siede sulla sedia rossa,
emana un profumo di cipria la sua parrucca

mpolverata, parla nella lingua dei corvi:
eptaedri, triedri, dodecaedri.

La polizia segreta interroga il Signor Cogito.
Chiedono notizie intorno al «suo occhio sincipitale».

Un riflettore illumina il volto del Signor Cogito.
Un trisma percorre a ritroso il volto del Signor Cogito.

Il Signor Cogito guarda attraverso la finestra.
La finestra è aperta su un paesaggio

di colline verdi, ondulate e di tigli in fiore.
Il Signor K. indugia.

Il Signor Cogito attende.
Sceglie con cura le parole,

aspetta che il buio entri dalla finestra.

II
Il Signor Cogito dice:
«Electa una via non datur recursus ad alteram».

La tigre sorride.
«Nomina sunt consequentia rerum».

La tigre sorride.
«Dunque seguono, non possono precedere le cose».

La tigre continua a sorridere.
«Le cose le avete fabbricate ma le parole…».

La lampada al neon illumina la faccia dell’imputato.
«No, quelle non potete fabbricarle».

de chirico sketch masks

de chirico sketch masks

Commento di Marco Onofrio

Per entrare in risonanza con la poesia di Giorgio Linguaglossa (recentemente antologizzata nella traduzione inglese di Steven Grieco, con testo a fronte, per l’edizione americana Three Stills in the Frame, Selected poems (1986-2014) Chelsea Editions, New York), occorre accedere alle premesse della sua dicibilità, e dei problemi epistemici, storici e sociologici che riesce complessivamente a sollevare. Occorre dunque portarsi fino alle radici del sentire moderno; e queste radici vanno, a ben vedere, ricercate in epoca barocca, quando il mondo – grazie alle scoperte geografiche e scientifiche – si estese a dismisura, e l’uomo provò nuovo sgomento dinanzi al silenzio eterno degli spazi infiniti mentre la terra (già centro del cosmo tolemaico) veniva relegata ai margini del vuoto universale. La realtà debordò dalle cornici razionalistiche e si mostrò complessa nell’infinità del macroscopico e del microscopico. L’allegoria barocca – analizzata da W. Benjamin, nel contesto del dramma barocco, come “cartina di tornasole” di alcune aporie fondamentali della coscienza e dell’arte moderna – mette in crisi l’aspirazione classicistica rinascimentale ad armonizzare il mondo, cioè a colmare la scissione originaria prodottasi nell’uomo sia a livello teologico, sia a livello gnoseologico. Chiunque, dopo il Rinascimento, tenti il simbolo viene continuamente respinto nell’allegoria, cioè nella «dialettica priva di centro tra quanto è figurato nell’espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati». L’allegoria fa saltare il simbolico e «smantella la faccia armoniosa del mondo»: dà vita a un’arte malinconica, da terra desolata, che rivela un’insanabile lacerazione, una perdita di senso delle cose e del soggetto, una decadenza dell’umano e della storia. Come portata allo spasimo dei nervi dal dolore della ferita, la coscienza mantiene una presa critica della realtà che le permette di restituire il negativo e il caos disperso dei frantumi così come sono, senza illudersi di una possibile armonia conciliatoria.

de chirico anni Settanta

de chirico anni Settanta

Baudelaire è il primo grande esponente dell’estetica moderna in grado di prendere coscienza delle mutate condizioni epocali. La prima e la seconda rivoluzione industriale innescano lo sviluppo delle scienze applicate alle tecnologie. Le città diventano metropoli massificate. Cambia la percezione del mondo, le categorie spazio-temporali vengono continuamente riedificate dalle proprie macerie. La storia accelera. Il sempre più rapido ciclo di invenzioni e trasformazioni meccanizza l’esperienza del reale, provocando continui choc sensoriali e risposte psichiche automatiche. L’ottica a scatti del cinema è, per certi versi, omologa alla produzione della catena di montaggio. Ci si abitua alle dinamiche della visione seriale. L’artista è il flanêur estraniato e perso nella folla. Vive in uno stato di convalescenza, di ipnosi, di ebbrezza alcolica. Scrive per frammenti, lampi di immagini e sensazioni. Guarda alle cose con occhio satanico/angelico: usa l’ironia sardonica come lente di rifrazione e chiavistello per smontare il mondo. La surnaturalizzazione visionaria lo porta a sdoppiarsi, a proiettarsi negli oggetti, a immergersi nel flusso vitale fino a sfondare i limiti dello spazio e del tempo, e alla fantasmagoria dei paesaggi urbani, degli interni, delle stanze.

Da questa coscienza, travasata nella rilettura continua e aggiornata di tutto il Novecento, europeo ed extraeuropeo, compresa l’evoluzione storica della Scienza (la relatività di Einstein, il principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria della complessità di Prigogine, la teoria delle catastrofi di Thom, le ricerche su caso e necessità di Monod, etc.): è da tutto questo agguerrito armamento culturale che “viene” la scrittura in versi di Linguaglossa. La Stimmung iconografica della sua poesia è traducibile in un pulviscolo di suggestioni sospeso tra il sensualismo onirico di Balthus, la mitologia ludica di Savinio, le traslucide interdizioni di Giorgio De Chirico e, qua e là riemergente, una vena boshiana di allucinazioni alla Francis Bacon. Il poeta precede il critico ma viene nutrito dalle sue ricerche; il critico a sua volta sorveglia il poeta e lo punzecchia quando rischia di addormentarsi. Linguaglossa non è mai soddisfatto, riscrive continuamente, per anni. Il suo è il percorso ultratrentennale di una ricerca inesauribile attraverso la scrittura e la coscienza.

La parola linguaglossiana è lo strumento versatile che solleva e sostiene un equilibrio dinamico tra azione e contemplazione, dramma e filosofia, oggetto e pensiero, suono e silenzio. Il linguaggio di Linguaglossa nasce dal “rigoglio del magma”, è carico, plurivoco, materico, multanime: è deformato da una carica espressionistica e sospinto da un demone variantistico sperimentale, che deve tenere a bada i rischi dell’arbitrarietà, del virtuosismo, del bizantinismo, stando attento a che la poesia non divenga «hierogliphica arte degli / orpelli»:

«Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi elicoidali,

dissimmetrismi di notti atrali, disfunzioni atrabiliari,

bisticci di frasari incongrui».

Il suono è  ovviamente sfruttato anche per le sue capacità simboliche di creare significato:

«rumoreggia e sferraglia sul sipario del teatro:

incastro di motori, di ruote dentate,

rotori, rospi di tropi, ellittici tropismi».

de chirico un maestoso silenzio maschere

de chirico un maestoso silenzio maschere

Il poeta ha alle spalle il critico pungolatore, e insieme cavalcano a briglie sciolte il cavallo selvaggio di una fantasia dittatoriale, che crea regole e mondo. Una fantasia che rivendica la propria libertà dai giochi del Potere: nella composizione “Il signor K.” la tigre che rappresenta appunto il Potere ordina al poeta di suonare il violino, ma l’archetto del poeta “stride” perché egli si rivela incapace di suonare a comando: vuole suonare quando e ciò che gli pare. Cioè: la poesia può sopravvivere solo se si ritaglia uno spazio autonomo dalla macchina mondiale dell’economia e della comunicazione strumentale.

La chiave che apre il mondo poetico di Linguaglossa è un surrealismo onirocritico che mette in gioco tutta la realtà fisica, fino al livello subatomico: tutta la natura, tutta la storia, tutta la cultura (anche la Scienza). Linguaglossa giustappone e mescola i luoghi dello spazio e del tempo, proiettati su un unico piano di simultaneità. La poesia è una «idrovora narcomedusa»: succhia tutto l’esistente e l’esistibile, come un’idrovora, e ha il potere narcotizzante e marmorizzante della Medusa, che svela il volto osceno dell’orrore sotto le sembianze più “normali”, il «malessere quieto dell’esistenza». La poesia dunque

«accoppia materia e immondizie

sigizie di correaltà, apparenta

“Storia ed eoni, platonismi e crudeltà».

Dalla metafora tridimensionale di Mandel’štam, Linguaglossa trae una visione poliedrica e multipolare: come un suono stereofonico riprodotto da sorgenti simultanee. Einstein ha dimostrato che lo spazio ha quattro dimensioni (la quarta è il tempo). E Linguaglossa scrive:

«Vidi l’Angelo dai quattro volti che guardava

in quattro specchi il mio sembiante riflesso,

quadruplice barbaglio della luce».

de chirico maschere

de chirico maschere

Il discorso poetico di Linguaglossa procede senza apparenti artifici metrici sull’onda pulsante di un verso libero, spesso epico nella sua lunghezza, che agevola il processo di decostruzione dell’io attraverso la scomposizione prismatica e cinematica delle immagini. Il correlativo oggettivo è potenziato dal parallelo correlativo soggettivo: la proiezione del soggetto in alter ego dialogici, disseminati nello spazio e nel tempo, che sono (e siamo) sempre «noi, dietro il diaframma, prismatici». Il poeta «cammina come un sonnambulo», in «ipnotica ipocinesi»: è un acrobata bendato che attraversa gli universi paralleli, che percorre i livelli del reale, che entra ed esce dai racconti – fino a raggiungersi prima della nascita fisica (come accade nell’autoritratto eponimo “Tre fotogrammi dentro la cornice”). È un continuo passaggio biunivoco tra esistenza sogno irrealtà – cornice di pensiero dopo cornice – fino a sfiorare l’inarrivabile essenza. La poesia dunque come discorso anfibologico, fitto di misteriose, semplici e irrisolvibili aporie. E la vita come geroglifico di sogni, come criptogramma.

Il tono autonormativo della scrittura poetica di Linguaglossa è quello di una cronaca scettica della realtà in divenire, sospeso tra certezza dell’esistere («respiriamo dunque siamo») e messa in scacco di questa dimensione («serenamente dubitiamo / della nostra realtà»). L’atteggiamento è ironico, leggero, distaccato, oggettivo, superficiale e profondo in un sol dire (è la superficie, del resto, che nasconde la massima profondità, ovvero: «La verità è nella polvere della superficie»). Il poeta penetra oltre i limiti della ragione, abbracciando i panorami della “follia”, del caos creativo incasellabile. La ragione stessa «si camuffa in follia / e la reggia si addobba in stalla». Linguaglossa si interroga ossessivamente sul rapporto tra quadro e cornice, su «cosa c’è oltre la cornice», su come il quadro spezza la cornice e continua oltre i suoi limiti, sapendo che «il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo, / ma sappiamo che lui c’è».

De-Chirico-The-Two-Masks

De-Chirico-The-Two-Masks

È una poesia spesso nominale, asciugata sull’osso del proprio accadere, agglutinata intorno all’energia del verbo-motore. Anche gli aggettivi sono trattati come sostantivi, non hanno funzione esornativa. Le composizioni sembrano spesso “sceneggiature” di cortometraggi surrealisti. Linguaglossa ha nelle corde una certa vocazione teatrale: il mondo è teatro, «la storia disegna il teatro / del mondo», e il poeta recita la sua stessa poesia dal palco della propria mente, avvolto dalla nebulosa sferoide dei ricordi, degli echi, dei pensieri, inseguendo frecce vettoriali che non è facile capire se si avvicinino o si allontanino dal bersaglio. I versi montano, uno dopo l’altro, didascalie ambientali di suoni luci rumori voci, geometrie illogiche alla Escher, architetture urbane di mura, torri, archi, ponti, pontili, ambulacri, terrazze, scale, corridoi, porte (spesso numerate, a significare opzioni), e stanze, e strutture delimitanti confini, bordi catastrofici oltre i quali si spalancano abissi. Ci sono sequenze di azioni slegate, catene imprevedibili, scene misteriose che accadono… Da una fessura esce «uno stormo di uccelli / e una nuvola di anelli»; nel vuoto c’è un «drago che aleggia» e una «colluttazione di ombre che entrano / dentro altre ombre e ne escono»; è c’è «un uomo premoriente» che «percuote un gong / e dal gong escono stormi di colombe bianche»; e «dio» che «ha perso l’autobus, / sta alla fermata, aspetta, forse si è pentito»… E narrazioni che si interrompono improvvisamente, lasciando sospesa la curiosità. Il soggetto fluido di questi scenari apre una porta e… non puoi nemmeno lontanamente immaginare dinanzi a cosa ti ritroverai: sono

«i ponti delle parole che nessuno

sa dove condurranno».

Tutto procede per «frammenti di un percorso di fuga», fotogrammi random, sequenze di scene e personaggi che irrompono secondo analogie suggestive ma illogiche, e portano messaggi insensati, stranianti, decontestualizzati, o indicazioni contraddittorie e fuorvianti. Il tempo nella poesia di Linguaglossa è reversibile e interamente abitabile, è un nastro che si può riavvolgere avanti e indietro, come nei sogni. Linguaglossa crede evidentemente nell’eterno ritorno, ha imparato che «il presente è il passato e il passato è il presente», che «il prologo è simile all’epilogo», e tutte le storie e tutte le guerre e tutte le nascite e tutte le morti, sono una.

Specie nelle più recenti composizioni, Linguaglossa accentua la dimensione onirica e metafisica: tutto resta molto reale, quasi iperreale, e concreto, fisico, tangibile, ma il movimento dei versi ci porta in regioni atemporali, o meglio pancrone, dove si incontrano e colloquiano (spesso senza intendersi) personaggi fittizi (angeli, demoni, filosofi) e personaggi storici (Kafka, Mozart, Tiziano, Rembrandt, Ionesco, etc.) appartenuti ad epoche diverse. La scrittura raccoglie stralci di cronache dell’oltretomba, echi di un mondo ridotto a manicomio psitaccico: luoghi di deiezione, paesaggi col sole spento o inabissato, terre del dio tramontato. Linguaglossa parla con le ombre, che sono spesso bianche e translucide. Ci dà lo scenario del dopo-storia, il basso impero del tramonto dell’occidente, dell’umanesimo, della civiltà.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa

Questa poesia è il doppio fondo onirico della storia contemporanea. C’è un «equilibrio precario» che «regge le sorti del mondo, un fantoccio / tiene le redini di Danimarca, e nessuno / distingue la saggezza dalla follia». Linguaglossa è un contrabbandiere fugace di immagini emblematiche del nostro tempo, della nostra condizione. Le travasa così come gli arrivano dalla Storia, tutta la Storia in gioco, senza alterarle, senza spiegarle, senza ricomporle. Nell’orizzonte del mondo «forse non esiste né deve esistere l’armonia». La Terra stessa è una «cicatrice». E non c’è redenzione:

«Un’onda percorre a ritroso la Storia.

Un angelo gobbo appare sulla soglia. Piange.

“Sei tu l’angelo eletto, sei venuto ad annunciare la discordia?

Guarda, la tomba è vuota, la resurrezione non è avvenuta”.»

Sembra, infine, un poeta tradotto da una lingua europea. Il suo è un italiano dal respiro insolitamente internazionale, intessuto di riverberi europei. Le grandi esperienze della poesia moderna (in particolare slava) confluiscono nel retroterra mediterraneo da cui Linguaglossa proviene, per nascita e formazione: il risultato è avvertibile dentro una scrittura che mette felicemente a colloquio Falstaff e Amleto, le luci del Sud e le ombre del Nord, la commedia e la tragedia, il dialogo e il soliloquio, la leggerezza e la profondità. L’antologia Three Stills in the Frame dimostra esaustivamente che Giorgio Linguaglossa è uno dei pochi poeti italiani in grado di sfondare le strettoie dalla tradizione, anche quella del Novecento, per misurarsi con i più alti esiti della ricerca poetica contemporanea.

Marco Onofrio legege Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma

Marco Onofrio legge Emporium Biblioteca Casanatense, 2012 Roma

Marco Onofrio Nato a Roma nel 1971, scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato 9 volumi, tra cui D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove” (2013). Ai bordi di un quadrato senza lati. Inoltre, ha pubblicato anche monografie su Dino Campana, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Caproni e Antonio Debenedetti. Site: www.marco-onofrio.it

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IL CILIEGIO FIORITO NEI WAKA DELL’ANTOLOGIA  KOKINSHU a cura di Steven Grieco (Prima traduzione in italiano di 27 Waka)

Sakurabana

Sakurabana ciliegi in fiore in una via di Tokio

  1. Ôtomo no Koronushi – Kokinshû 88

harusame no furu wa namida ka sakurabana chiru wo oshimanu hito shi nakereba

Soggetto sconosciuto:

le piogge primaverili che cadono sono lacrime, forse?

volteggiando i fiori di ciliegio scompaiono

e non c’è uomo che non li rimpiangerà

Il ciliegio è l’albero nazionale del Giappone, nonché essenza spontanea nelle sue isole. Dalla più antica raccolta di poesie, la Man’yoshu (7°-9° sec.), fino ai giorni nostri, il ciliegio ha esercitato un fascino profondo sulla psiche del popolo giapponese.

Assistere alla sua fioritura è una esperienza unica. Gli alberi sono di solito molto vecchi e di grandi dimensioni: i fiori sembrano cadere dall’alto come neve dal cielo invernale: l’uomo che lo guarda si rende conto di percepire sempre e soltanto una parte di questo avvenimento, che è troppo vasto perché egli possa coglierlo nella sua totalità.

Ancora oggi ogni giapponese, al cospetto del ciliegio in fiore, ritrova un senso di solidarietà con i suoi concittadini, riconoscendo in quest’albero il simbolo di un popolo unito sotto la guida dell’imperatore.

Si dice che in antico, davanti all’ingresso principale del palazzo imperiale a Nara crescevano un mandarino e un susino. Nell’8° secolo un incendio distrusse il palazzo, che fu ricostruito nello stesso luogo. Furono ripiantati gli alberi davanti all’ingresso, il mandarino fu sostituito da un ciliegio sostituisce.

La Kokinshû, “Raccolta di poesie moderne e antiche”, la prima antologia imperiale di poesia, fu compilata all’inizio del 10° secolo. In essa troviamo un gruppo di poesie dedicato al fiore di ciliegio. Altrove nell’antologia troviamo waka appartenenti a questo stesso genere, talvolta riuniti insieme, talaltra in ordine sparso.

Il termine sakura, “albero di ciliegio”, ha la sua radice in saku, “fiorire”. Già nella lingua giapponese troviamo una indicazione che il fiore di ciliegio è il fiore per eccellenza. hana, termine generico per “fiore”, automaticamente evoca il fiore di ciliegio, salvo indicazione diversa nel testo.

La lingua giapponese inoltre distingue chiru, “cadere o disperdersi di fiori”, da furu, “cadere di neve o pioggia”. chiru è termine intimamente connesso a sakura. Entrambi evocano l’impermanenza della vita.

Sakurabana a Tokyo

Sakurabana a Tokyo

Ki no Tsurayuki (872-945), fu uno dei massimi poeti dell’epoca Heian, nonché curatore in capo della antologia Kokin. Uno studio attento dei waka sul ciliegio fiorito presenti in essa, sembra indicare  che Tsurayuki e i poeti suoi contemporanei avessero seguito alcune precise “regole” nel trattare questo tema in poesia. Ne consegue che l’immagine del ciliegio fiorito, sia nella Kokinshû che nelle raccolte private di Tsurayuki, abbia una certa felice coerenza e uniformità.

In breve:

Il ciliegio in fiore si contempla preferibilmente nella piena luce del giorno. L’albero e il terreno alla base del suo tronco (tokoro) sono immersi in chiarissima, trasognata ombra (kage). Un numero incontabile di fiori scende in una volta, entro questo spazio inviolato che sembra esistere altrove dal mondo. L’albero stesso è legato indissolubilmente e per sempre al posto ove affonda le radici. Nel momento più intenso della fioritura, il vento è assente: tutto è fermo, l’attenzione dello spettatore interamente concentrata su questo avvenimento.

Più di due terzi delle composizioni sul ciliegio fiorito presenti nella Kokinshû descrivono solo questo spettacolo. Sono in quel caso anche rari riferimenti espliciti al profumo dei fiori.

  1. Ki no Tomonori – Kokinshû 84

hisa kata no hikari nodokeki haru no hi ni shizu gokoro naku hana no chiru ran

Cantato alla vista dei fiori che cadono:

in questo giorno traslucido di primavera

ah, scendono i fiori

con l’anima sempre in tumulto

  1. Ariwara no Narihira – Kokinshû 53

Yo no naka ni   taete sakura no   nakari seba   haru no kokoro wa   nodo kekara mashi

Vide i fiori di ciliegio al palazzo Nagisa e cantò:

non fosse il ciliegio mai presente in questo mondo

quanto spensierato sarebbe l’animo di primavera

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Raccolta privata

okifushite oshimu kai naku utsutsu ni mo yume ni mo hana no chiru wo ikan sen

Uno di sei componimenti:

che io stia in piedi o coricato, in sogno o nella realtà—

come posso fare perché smettano, i fiori che scendono dappertutto

Sakurabana

Sakurabana

  1. Anonimo – Kokinshû 72

kono sato ni tabine si nu beshi sakura bana chiri no magai ni ieji wasurete

Soggetto sconosciuto:

in questo villaggio dovrò passar la notte – tra i fiori di ciliegio

volteggiando profusi, ho smarrito la via di casa

(Non possiamo escludere in questo waka che la “confusione” nasca dall’amore per una donna.)

Il poeta Heian si identifica con il ciliegio fiorito fino a perdervisi. Se è così, allora i fiori che scendono non possono non simboleggiare l’anima dell’uomo, incostante, pronta a smarrirsi per un nonnulla: il loro incessante svariare, e il senso di inquietudine che questo provoca in lui, sono specchio l’uno dell’altro.

  1. Ki no Tsurayuki – Antologia privata

sakurabana chiri ni chiru to mo miru hito no koromo nuru beki yuki nara naku ni

Uno di 21 waka su un pannello dipinto nel palazzo del defunto imperatore abdicatario Teiji:

i fiori di ciliegio scendono e scendono

ma all’uomo che se ne incanta non possono

diventar neve, né bagnargli la veste

  1. Principe Koretaka – Kokinshû 74

sakurabana chiraba chirinamu chirazu tote furusato hito mo kite mimo nakuni

Cantò questa composizione e la inviò al Prete Henjô:

scendete se dovete scendere, fiori di ciliegio:

se anche non scendeste, il mio amico d’un tempo

non verrebbe più ad ammirarvi

La fioritura del ciliegio toglie allo spettatore ogni senso temporale e di orientamento fisico. Egli si chiede soprattutto come i petali cadono. La domanda “da dove? verso dove?” viene chiesta di rado: se una risposta c’è, questa viene non dall’albero, ma dal vento o dalla primavera, che spesso sembrano esseri senzienti. La sensazione di sovrabbondanza è qui un fattore chiave.

Come l’uomo ignora il suo destino, così anche l’albero e i suoi fiori ignorano il proprio. Nella antologia Kokin non troviamo esempi di waka che descrivono la caduta di uno, o pochi petali sparsi. Fosse così, ciascun petalo acquisterebbe individualità e direzione, avrebbe dunque anche finalità temporale, ed è questo che i poeti della Kokinshû in genere vollero evitare.

Il primo dei due autori di questo lavoro ricorda bene come, da ragazzo, tornando a casa da scuola in aprile (il mese in cui i ciliegi fioriscono in Giappone) gli capitava di trovare un petalo di fiore sulla tesa del berretto, e forse qualche altro sulla cartella. È un fatto curioso che tale esperienza, vissuta e rivissuta da tutti i giapponesi ieri come oggi, non sia stata descritta in un waka Heian.

Il poeta-spettatore dunque non si rende conto di quando la fioritura è iniziata, né quando finirà; da dove provengano i petali, né dove andranno: il suo sguardo umano è fisso su questo succedere, gli occhi immobili in una contemplazione estatica che annulla il suo “io”, così come i petali non sono singoli, bensì collettività.

Da qui anche le similitudini, “neve” e “nuvola”.

People look at cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo's cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan's weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. TOPSHOTS AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

People look at cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo’s cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan’s weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. TOPSHOTS AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

  1. Ki no Tomonori – Kokinshû 57

iro mo ka mo onaji mukashi ni  sakura me do toshi furu hito zo aratamari keru

Sotto l’albero, piangendo la sua vecchiaia, cantò:

immutabili lo splendore e il profumo

del ciliegio fiorito – così,

eternamente, l’uomo invecchia

  1. Monaco Souku – Kokinshû 75

sakura  chiru hana no tokoro wa haru nagara yuki zo furi tsutsu kie gate ni suru

Cantato a Urin-in, mentre cade il fiore di ciliegio:

in questo luogo, dove svariano i fiori di ciliegio, è come

una neve di primavera che cade fitta e non si scioglie mai

  1. Sugano no Takayo – Kokinshû 81

eda yori mo ada no chirinishi hana nareba ochite mo mizu no awa to koso nare

Cantato nel palazzo del Principe ereditario, vedendo i fiori di ciliegio cadere in un canale e sparire:

effimeri fiori, che dal ramo scendono lievi

e sull’acqua fluttuando come schiuma svaniscono

  1. Ki no Tsurayuki – Private Waka Anthology

chiri gata no hana miru tokiwa fuyu naranu / waga koromode ni yuki zo furi keru

mentre osservo i petali scendere, in questa stagione,

quando la mia veste non è di stoffa invernale,

mi meraviglio, di questa neve che cade

Ducks swim on the river under cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo's cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan's weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

Ducks swim on the river under cherry blossoms in full bloom in Tokyo on March 24, 2013. Tokyo’s cherry blossom trees were in full bloom on March 22, Japan’s weather agency said, marking the second earliest blossoming in the capital on record. AFP PHOTO/Toru YAMANAKA

Già nei waka di epoca più antica, il poeta viveva lo sfiorire del ciliegio con un senso di rammarico e rimpianto:

  1. Ya Kamochi – Man’yoshû 4419

tatsuta yama mitsutsu koekoshi sakurabana / chirika suginamu ware kaeru to ni

Guardando in soliitudine i fiori di ciliegio sul monte Tatsuta, con tristezza cantò questo waka:

i ciliegi di Tatsutayama che ammirai lassù in pieno fiore –

saranno sfioriti e spogli prima ch’io potrò tornarvi?

Così anche per la lontananza fisica da quello spettacolo, che allora ha tendenza a trasformarsi in quadro immaginato o sognato.

  1. Ki no Aritomo – Kokinshû 66

sakura iro ni koromo wa fukaku somete kimu hana no chiri namu nochi no katami ni

Soggetto non conosciuto:

tingerò la mia veste del colore intenso dei fiori di ciliegio,

perché io li ricordi dopo che saranno caduti e dispersi

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Raccolta privata

utsutsu niwa sara ni mo iwaji sakura bana yume nimo chiru to mie ba uka ran

Una di 6 composizioni:

quanto alla realtà, di più non posso dire: ma i petali cadono

anche in sogno, allora perché questa malinconia?

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 117

yadori shite haru no yamabe ni netaru yo wa yume no uchi ni mo hana zo chirikeru

Cantato durante un pellegrinaggio ad un tempio montano:

in primavera, soggiornando ai piedi d’un monte

dormii la notte, e nel mio profondo sognare

i fiori scendevano senza posa

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Ki no Tsurayuki allude nel titolo a un viaggio che egli fece a un tempio buddista vicino alla Capitale per compiere esercizi spirituali. Si dice che egli compose questo waka perché gli fu negata la visione del Buddha. Il waka si trova nella Sezione “Primavera” della Kokinshû, dedicato a composizioni su diversi tipi di fiori, e non contiene un riferimento specifico al fiore di ciliegio: ciò malgrado, vi scorgiamo un aspetto caratteristico di quei waka: “l’eco visiva”, ossia il riverbero psichico che il ciliegio fiorito provoca nello spettatore, e che si prolunga ben oltre l’evento reale – un po’ come, dopo lunghe ore di guida, rivedere la strada durante il sonno notturno.

Abbiamo visto che nella fase iniziale della fioritura, il vento è del tutto assente. Esso si mette in gioco non appena l’albero inizia a sfiorire: diventa anzi l’agente di questo cambiamento, affrettando con la sua giocosa irruzione questo processo irreversibile:

  1. Ôshikôshi no Mitsune – Kokinshû 86

yuki to nomi furu dani aru wo sakura bana ikani chire kato kaze no fuku ramu

Questo cantò, guardando cadere i fiori di ciliegio:

impeccabili, come neve scendono, i fiori di ciliegio –

perché allora soffia il vento: per vedere come si disperdono?

  1. Ki no Tsurayuki – Raccolta privata

kaze fukeba kata mo sadamezu chiru hana wo izu kata e yuku haru tokawa mimu

In marzo-aprile cadono i fiori:

contemplando nel soffio gli aerei petali scender smemorati,

mi chiedo – la primavera, dove è andata?

  1. Monaco Sosei – Kokinshû 76

hana chirasu kaze no yadori wa dareka shiru ware ni oshieyo yukite urami mu

Cantato mentre guardava i ciliegi montani in fiore:

chi sa dove sta il vento che disperde i fiori di ciliegio –

venissi a saperlo andrei da lui a lagnarmene

Blossoming Cherry trees Kyoto

Blossoming Cherry trees Kyoto

E’ palpabile la somiglianza del waka n. 13 con questo:

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 87

yama takami mi tsutsu waga koshi sakura bana kaze wa kokoro ni makasu bera nari

Dopo esser salito sul monte Hiei, tornando a casa:

già lontano dall’alto monte dei ciliegi, ancora vedo

come il vento giocava con quei turbini fioriti

In questo componimento, dopo aver superato il luogo dei ciliegi selvatici, il poeta-uomo può solo serbare il ricordo di quella fioritura, desiderarla così intensamente finché non ritorna a lui come pura immagine mentale. Così anche:

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 89

sakura bana chiri nuru kaze no nagori ni ha mizu naki sora ni nami zo tachi keru

Componimento inserito nel concorso di poesia Teiji-in:

ah, fiori di ciliegio, caduti al vento – un mero alito ricorda

le vostre onde, il loro turbinio al cielo senz’acqua

In questa celebratissima composizione, Tsurayuki raggiunge forse il più alto grado espressivo del waka sul ciliegio fiorito. Sakura bana chiri nuru, “il ciliegio è sfiorito”, contiene un’eco, un vibrare del tempo appena trascorso: alla contemplazione dell’albero sfiorito segue il ricordo della sua fioritura, che a sua volta sprigiona una fioritura virtuale molto forte. Come vediamo qui e nelle composizioni affini, l’immagine della fioritura tende a trasferirsi in una dimensione virtuale, immaginata, dovuta al desiderio ardente del poeta di averla sempre davanti agli occhi.

  1. Dama Ise (877-942) – Shuishû 49

chiru chirazu kikamahoshiki wo furusato no hana mite kaeru hito mo awanan

Su un pannello pieghevole di Sai-in si vede una persona camminare in montagna:

cadono, non cadono… chiederei a colui che l’ha visti,

e ora torna dalla mia remota patria dei fiori

  1. Monaco Jien (1155-1225) – Shinkokinshû

chiru chirazu hito mo tazune nu furusato no tsuyu keki hana ni haru kaze zo fuku

cadono, non cadono… che gliene importa

a colui che non è mai stato al mio antico paese

dove un alito primaverile spira tra umidi petali

Abbiamo citato questo waka del tardo periodo Heian, perché esprime in forma matura un sentire che già serpeggiava qua e là per la Kokinshû: il mondo in esso evocato si può visitare solo con lo spirito che si avventura fuori dal corpo. Nell’immaginario giapponese, il momento in cui il fiore viene guardato, esso comincia ad appassire: lo sguardo dell’uomo lo porta nel tempo degli uomini, che ha un termine. Qui i fiori rimangono inviolati da ogni sguardo, così possono fiorire in eterno. Tsurayuki aveva già previsto questa visione, che verrà spesso impiegata nella Shinkokinshû, l’ultima grande antologia del periodo Heian.

Si è detto che i giapponesi, a differenza dei cinesi, non ebbero mai la visione dell’eternità. Alcuni dei waka presentati qui forse contraddicono questo luogo comune.

L’immagine idealizzata del ciliegio fiorito nel waka Heian, è totalità legata al topos, immagine racchiusa entro la sua cornice, un po’ come la palla di vetro che nevica quando agitata. I poeti della Kokinshû evitarono in genere anche di descrivere l’atto di staccare un ramo fiorito dal ciliegio, gesto tipico per tutti gli altri alberi e arbusti fioriti, in particolare per il susino. Perché ne avrebbero mutilato l’interezza? Il desiderio sicuramente c’era:

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

  1. Anonimo – Kokinshû 358

yama takami kumoi ni miyuru sakura bana kokoro no yukite oranu hi zo naki

Composto su pannelli pieghevoli delle 4 stagioni, per il 40° compleanno del Generale Sadakuni Fujiwara:

sulle alte montagne, come fra le nuvole fioriscono i ciliegi

non passa giorno che il cuore non salga lassù a coglierne un ramo

  1. Ki no Tsurayuki – Kokinshû 58

nare shi kamo tomete ori tsuru harugasumi tachi kakusu ram yama no sakura wo

Cantato su un ramo di ciliegio fiorito:

chi trovò questo ramo e lo staccò sui monti lassù,

dove la foschia di primavera nasconde i ciliegi in pieno fiore?

Duska Vhrovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Nunzia Pasturi Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Duska Vhrovac, Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Rita Mellace Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Ise, poetessa notoriamente iconoclasta, poté però, a quanto pare, permettersi di spostare la “cornice” del ciliegio a suo piacimento, o almeno di formulare ben due volte questo desiderio in poesia:

  1. Dama Ise – Antologia privata

kaki goshi ni miredo mo akazu sakurabana ne nagara kaze no fukimo kosanamu

Guardando il ciliegio in fiore del suo vicino, gli fece recapitare questa missiva:

non sazia ancora di mirare il fiorito ciliegio di là dalla siepe

come vorrei che un vento me lo soffiasse qui con tutte le radici!

  1. Dama Ise – Antologia privata

kaki goshi ni chirikuru sakura wo miru yoriwa negome ni kaze no fuki mo kosa namu

dalla siepe mi giungono volteggiando quei fiori mirabili –

meglio una raffica che sradichi il ciliegio e me lo porti tutto intero!

Tsurayuki e i poeti della Kokinshû innalzarono il waka del ciliegio fiorito all’apice della perfezione formale ed estetica.

  1. Ki no Tsurayuki – Shinkokinshû

hana no ka ni koromo wa fukaku nari ni keri ko no shita kage no kaze no ma ni ma ni

dei fiori odorosi è più profonda la mia veste

sotto l’ombra chiarissima di quest’albero,

quando il vento è un alito, un alito appena

Nota

il presente testo è stato pubblicato in inglese nel 2006 presso “Open space” in India

 Questo scritto è frutto di una collaborazione, e come tutti i lavori fatti in tandem, anche della fusione di due menti. Il primo dei due autori, che non desidera essere nominato, ha contribuito con la sua geniale visione del waka Heian e le sue approfondite, decennali ricerche in materia. Il secondo, Steven Grieco, ha curato il respiro, gli orizzonti e la stesura di quest’opera, nonché le traduzioni dei singoli waka.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.

protokavi@gmail.com

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Gennadij Nikolaevich Ajgi (1934-2006) POESIE SCELTE: L’ovario, Il cammino, Un acero nella periferia della città, La neve, Finestre su piazza Trubna in primavera, Da 28 variazioni su canti popolari ciuvasci e udmurti. Traduzione e Presentazione di Paolo Statuti (Inediti in italiano) con un Appunto di Giorgio Linguaglossa

Gennadij Ajgi anni Settanta

Gennadij Ajgi anni Settanta

da https://musashop.wordpress.com del 2 ottobre 2015

Appunto di Giorgio Linguaglossa

“La notte è il tempo migliore per credere nella luce” (Gennadij Ajgi)

 Sono particolarmente felice che l’intuizione di Steven Grieco (il quale aveva letto in russo e nella traduzione inglese la poesia di Gennadij Ajgi negli anni novanta), di tradurre e pubblicare in italiano la poesia del ciuvascio Gennadij Ajgi sia stata accolta da Paolo Statuti il quale ha tradotto questi inediti in italiano di un poeta di grande importanza per la storia del modernismo europeo, perché è indubbio che le radici della poesia di Gennadij Ajgi siano moderniste e affondano nell’humus della cultura poetica russa e sovietica. Così, anche in terra sovietica, si è manifestata la crisi della ragione come crisi del soggetto poetante. Gennadij Ajgi prende atto, in specie nelle poesie della maturità degli anni ottanta e novanta, della  crisi del punto di partenza che unifica la nostra concezione del mondo, quella crisi che determinerà la frammentazione del logos e della narrazione incentrata sul presupposto dell’io lirico. La ragione occidentale si muove verso la crisi, e Gennadij Aji ne prende atto e la racconta con i suoi mezzi espressivi. Entra in crisi il soggetto cartesiano del Cogito, la cui funzione, ricordiamolo, è di essere il fuori-questione di ogni domanda possibile in quanto è essa stessa, la crisi, ad essere non nominata in quanto fuori-questione del «soggetto». Ma il «soggetto» è in crisi in quanto la crisi costituisce il fuori-questione. Appunto questo determinerà l’approdo alla poesia popolare ciuvascia e udmurti di Gennadij Ajgi, come tentativo di aggrapparsi all’io lirico passando per il «noi» della poesia popolare. Ma saranno gli esiti ultimi di questa crisi a determinare il movimento della poesia di Gennadij Ajgi verso la rappresentanza del «noi» piuttosto che verso quella dell’«io».

Gennadij Ajgi con il figlio

Gennadij Ajgi con il figlio

 

Onto Giorgio Linguaglossa.blu

Giorgio linguaglossa

 

Presentazione di Paolo Statuti

     Gennadij Nikolaevič Ajgi, il poeta nazionale della Ciuvascia, nacque il 21 agosto 1934 nel villaggio di Šajmurzino nella Repubblica dei Ciuvasci. Trascorsa l’infanzia nella sua terra natale, è rimasto sempre legato alla cultura ancestrale e alla lingua ciuvascia. Fino al 1969 il suo cognome fu Lisin. Uno degli antenati del poeta pronunciava la parola “chajchi” (“quello”) senza la prima lettera, e così si formò il soprannome di famiglia “Ajgi”. Egli cominciò a scrivere poesie in ciuvascio e pubblicò i suoi primi versi nel 1949. Dal 1952 visse stabilmente a Mosca. Dal 1960 cominciò a scrivere poesie anche in russo, grazie soprattutto all’incoraggiamento di Boris Pasternak, da lui conosciuto anni prima e che diventò suo grande amico. Ma per la sua poesia innovativa Ajgi fu accusato di formalismo e dichiarato persona non grata nella sua Ciuvascia, i cui campi e boschi pervadono la sua creazione. Per dieci anni lavorò al Museo Majakovskij, ciò che gli permise di approfondire la sua conoscenza dell’avanguardia russa della prima parte del XX secolo. La moderna poesia francese (soprattutto Baudelaire) ebbe anch’essa su di lui un’influenza determinante, ma il suo personale panteon includeva anche Nietzsche, Kafka, Norwid, Kierkegaard e molti scrittori religiosi.

Nel 1972 vinse il premio dell’Académie Française per la sua antologia della poesia francese in ciuvascio. Durante gli anni di Brežnev visse in condizioni precarie, mantenendosi con i magri compensi per le traduzioni. Grazie alla perestrojka la sua vita cambiò radicalmente. Gli fu permesso di pubblicare in patria e fu riconosciuto come una figura chiave della neoavanguardia russa. Cominciò a essere tradotto in molte lingue e a partecipare a diversi festival e congressi internazionali di poesia. Visitò quattro volte la Gran Bretagna, sentendo una particolare affinità con la Scozia, dove fece un pellegrinaggio alla tomba di Robert Burns, e con Londra, la città del suo amato Dickens. Sei volumi delle sue poesie sono stati pubblicati in inglese.

Gennadij Nikolaevič Ajgi

Gennadij Nikolaevič Ajgi

Ajgi è rimasto una figura controversa. Scrivendo come tra il sonno e la veglia, egli creò una poesia piena di silenzi, che suggerisce visioni, ansietà e gioie, e che può essere diversamente interpretata. La sua poetica è pacata e semplice, rifiuta la ricchezza del lessico e la retorica di alcuni suoi contemporanei, inoltre è intensamente orale – il pubblico era affascinato dalla sua potente dizione. E’ il poeta del silenzio e della luce. Una delle sue raccolte porta una epigrafe attribuita a Platone: “La notte è il tempo migliore per credere nella luce”.

Tradusse in ciuvascio molta poesia russa, francese, ungherese e polacca e i sonetti danteschi, mentre le sue poesie sono state tradotte nella maggior parte delle lingue europee. Ha ricevuto diversi prestigiosi premi internazionali e nel 2000 è stato il primo a ricevere il Premio Boris Pasternak. Scrive Damiano Rebecchini: “Pur vicina alla lirica francese del Novecento, la poesia di Ajgi è profondamente radicata nella tradizione poetica russa, ispirandosi in particolare all’opera di Osip Mandel’štam e di Boris Pasternak. Caratterizzata da un intenso impressionismo lirico, essa accoglie spesso dalla natura suoni e suggestioni che generano un tessuto fonico e ritmico accentuato dal verso libero, e a volte si muove verso un originale sperimentalismo, in alcuni casi orientato a esplorare la dimensione del sogno”.

“Col passare degli anni è cambiata la mia definizione della poesia, – disse il poeta in una delle interviste. – Prima dicevo: è la gravità della parola, adesso dico: la poesia è il respiro e l’uomo è il respiro. Respiro e ispirazione provengono dalla stessa radice… La poesia è il respiro di Dio. Noi fioriamo / soltanto per un tocco / di un’altra forza benevola e pacata, – ricorda Ajgi, – e l’essenza della poesia è questo tocco… La poesia è eterna… Essa come la neve – esiste dappertutto. Si scioglie, di nuovo cade, ma essa…è. La poesia è la neve. La poesia essenzialmente non cambia. Essa si autocustodisce. Ciò che in essa passa – è un’altra faccenda. E in questo senso la poesia non ha né ieri, né oggi, né domani”.

In italiano alcune poesie di Ajgi sono incluse nelle raccolte Poesia russa contemporanea da Evtušenko a Brodskij, a cura di G. Buttafava (1967) e Antologia ciuvascia. I canti del popolo del Volga, a cura di A. Scarcia (1986). Gennadij Ajgi è morto a 71 anni il 21 febbraio 2006. Come di consueto pubblico qui alcune sue poesie nella mia versione.

 

Gennadij Nikolaevič Ajgi Poem

Gennadij Nikolaevič Ajgi Poem

Poesie di Gennadij Ajgi tradotte da Paolo Statuti

 L’ovario

(Dall’omonimo poema ciuvascio)

Ad R. A.
che io sia tra di voi
come polverosa moneta trovata
tra fruscianti banconote
in una lubrica tasca di seta:
potrebbe risonare a piena voce
ma non ha niente su cui battere

quando rombano i contrabbassi
e quando si rammenta
come nell’infanzia il vento fumava
di pioggia in un mattino autunnale –

che io sia
un’attaccapanni verticale
sul quale si possono
appendere non solo cappotti
ma si può appendere anche qualcosa
più pesante di un cappotto

e quando non crederò più in me stesso
che sia viva la memoria
per ridarmi la tenacia
per sentire di nuovo sul viso
la pressione dei muscoli degli occhi Continua a leggere

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Archiviato in critica della poesia, Poesia ciuvascia, poesia russa

INVITO venerdì 23 ottobre all’Aleph, Roma, vicolo del Bologna, 72 ore 17.30 Presentazione Antologia Selected Poems “Three Stills in the Frame” Chelsea Editions 2015 di Giorgio Linguaglossa – Presentano Luigi Celi, Steven Grieco e Marco Onofrio, leggerà alcune poesie Giulia Perroni

Giorgio-Linguaglossa-Three Stills In the Frame 2015<strong>INVITO venerdì 23 ottobre all’Aleph, Roma, vicolo del Bologna, 72 ore 17.30 Presentazione Antologia Selected Poems “Three Stills in the Frame” Chelsea Editions 2015 di Giorgio Linguaglossa – Presentano Luigi Celi, Steven Grieco e Marco Onofrio, leggerà alcune poesie Giulia Perroni</strong>

Alcune poesie da “Three Stills in the Frame”, traduzione di Steven Grieco

de_chirico sole_sul_cavalletto_1973

Paesaggio con sole spento

Palazzo illuminato. Una finestra buia. Qualcuno
spalanca la finestra. La voce del cuculo galleggia
nella notte fresca e verde e senza luna.

Una bambina corre nella notte
tiene stretta nella mano una cordicella
legata in alto a un sole spento.

LANDSCAPE WITH EXTINGUISHED SUN

A lighted palace. A dark window. Someone
opens the window. The cuckoo’s voice drifts
upon the cool green moonless night.

A little girl runs in the night
in her hand she grasps a string that’s
tied high up to an extinguished sun.

de chirico ettore e andromaca particolare

de chirico ettore e andromaca particolare

Il profilo di Enceladon

Frammisto alla nebbia, sul davanzale della finestra, brilla
il rosso geranio del mattino; a sera è ancora là.
Nel fotogramma della finestra il tuo volto, di profilo,
trascorre da destra a sinistra, torna indietro,
va contro la direzione del tempo, alla ricerca dello spazio,
si dirige verso la cornice ed esce fuori del quadro.

L’orologio da polso che per dieci anni si era fermato
ha ripreso a camminare, i bambini fuori della finestra
cantano in coro Happy Birthday to you
mentre il televisore dice che è esplosa una bomba a Bagdad.
Sulla rastrelliera ci sono, ora come allora, i cappelli di Enceladon
le sue sciarpe colorate, i soprabiti; e c’è ancora il suo profumo.

ENCELADON’S PROFILE

On the window sill, gleaming through the fog,
morning’s red geranium. In the evening it’s still there.
Inside the photo of the window, your face in profile
shifts from right to left, comes back,
proceeds opposite to time in search of space,
moves towards the picture frame and exits the picture.

The wrist watch that stopped for ten years
is working again. The children outside the window
sing, “Happy birthday to you” in chorus,
while the tv announces that a bomb has exploded in Baghdad.
Enceladon’s hats are on the hat rack, just as they used to be,
and her coloured scarves and overcoats. And her scent, it’s still there.

de chirico il trovatore

de chirico il trovatore

Il tedio di Dio

Guardavo al di là dei cancelli arrugginiti: transenne,
cavalli di Frisia e fili spinati.
«Qui ci sono gli uomini che hanno venduto la propria ombra,
sono colpevoli di tracotanza – mi disse una voce dal buio –
assiepate ad altre ombre vivono nell’ombra».
Oltre le transenne c’era il sole bianco.
«Il tedio di Dio è un sole bianco che si è inabissato», mormorò una voce
tra le ombre.
“È un pensiero folle”, pensai e passai oltre le ombre maledette.
…………………………………………
«La notte è la locanda di Dio, dove Dio prende alloggio per il sonno»,
disse un’altra voce da un altoparlante nascosto chissà dove.
“Vivono di notte – pensai – le ombre bianche della polizia segreta
che sono state dismesse come un abito”.
…………………………………………
Sopra la spalliera della sedia accanto alla sciarpa rossa del giorno
c’è un salotto scarlatto:
ad una gruccia sono appese le ombre delle uniformi,
pallide linci dagli occhi squamosi;
Kafka suona il clarinetto e Mozart fa l’impiegato del catasto,
il sole bianco tramonta
tra le alghe verdi dello stagno, uomini della polizia segreta
con uniformi militari perlustrano la palude
alla ricerca del sole inabissato.
Illumino con la torcia tascabile il buio:
periferia di una città inesistente, palazzi e strade di vetro,
archi e pontili trasparenti precipitano nel vuoto senza spazio,
bambine giocano col l’hula hoop accanto a statue cristalliche.
“Ma non c’è anima viva”, penso ma è appena un pensiero:
mi metto una mano sul cuore
e mi accorgo con orrore che esce dal retro dello sterno.
………………………………………
«Il riso è il paradiso dell’Inferno»,
disse una terza voce da un altoparlante posto in alto, sopra un parapetto;
ma ero sconcertato e mi affacciai a una finestra:
c’era il mare azzurro.
………………………………………
«Il bacio di Dio è un sole bianco – dissi tra me – che si è inabissato»;
“è un pensiero folle – pensai – non è quello che volevo dire…”

GOD’S TEDIUM

I was looking beyond the rusty gates: barriers,
chevaux-de-frise and barbed wire.
“Here there are men who have sold their own shadows:
they’re guilty of arrogance,” said a voice in the dark.
“They live in the shadows, together with crowds of other shadows.”
Beyond the barriers was the white sun.
“God’s tedium is a white sun that sank,”
a voice muttered amongst the shadows.
“What madness,” I thought, and walked past the cursed shadows.

“Night is the tavern of God, where God puts up for the night to sleep,”
said another voice from a loudspeaker hidden somewhere or other.
“They live at night,” I thought. “The white shadows of the secret police
that have been cast off like garments.”

On the back of the chair near the red
scarf of day, a scarlet living room.
Shadows of uniforms hang from a clothes hanger,
pale lynxes with scaly eyes.
Kafka is playing the clarinet and Mozart is a petty clerk in the registry office.
The white sun sets in a pond
amongst green weeds, members of the secret police
wearing military uniforms search the marsh
for the sun that sank.
I light up the darkness with a flashlight:
suburbs of a non-existent city, buildings and streets of glass,
arches and transparent wharves with a hoola hoop next to crystallic statues.
“Not a single soul here,” I think, but it’s barely a thought.
I put my hand on my heart and realize to my horror
it’s coming out from behind the breast bone.

“Laughter is the paradise of Hell,”
said a third voice from a loudspeaker high up on a parapet.
But I was dismayed and looked out of the window:
the blue sea.

“The kiss of God is a white sun that sank,” I mumbled.
“What madness,” I thought. “This is not what I wanted to say…”

Giorgio De Chirico la metafisica

Giorgio De Chirico la metafisica

Canto dei marinai assiderati

Da una porta sul retro del mare volano basso le poiane azzurre
verso il sole diafano,
affiorano dai bulbi degli oblò delle navi affondate
i fantasmi, i clienti della locanda del tedio, simili
ad ombre bianche; «voi siete di qui?», mi chiedono.
Con sussiego Madame Hanska fa entrare le ombre bianche
nella stamberga della felicità, non li ama
e non li detesta e assegna loro una stanza
con vista sul mare;
«it’s wonderful», dice con voce roca,
con un gesto teatrale suona il campanellino,
si apre il tendaggio scarlatto:
il cielo si affretta ad entrare e fa scomparire le ombre
che danno la caccia al buio.
Fanno ingresso nell’antichambre il Signor Cogito
ed il Signor Hieronymus, il re di Francia e il re di Spagna, Tiziano
e Rembrandt, Mozart e Ionesco.
«Tutti i servizi sono attivi», dice la Signora
mentre consegna agli ospiti il coupon del diritto.
La notte si richiude come un’immensa botola
sul fondo della tomba del mare.
Nuota la stella marina verso il suo firmamento:
la costellazione di chiodi delle stelle
tiene dritto l’albero maestro, ma laggiù nella stiva
dormono i marinai assiderati:
Mozart e Rembrandt insieme ai mozzi e ai vogatori.
Ancora oggi se tendi l’orecchio ad est
degli embrici del mare dorato
puoi udire il falso canto delle aonidi
le allegre canzoni dell’equipaggio
simili al tintinnio di sonagli d’argento.

SONG OF THE FROZEN SAILORS

Sky-blue buzzards fly out of a door at the back the sea
towards the translucid sun.
Like white shadows, the ghosts, the patrons of the tavern
of tedium emerge from the bulbs of the portholes of sunken ships
and ask me: “Are you from here?”
Haughtily, Mme Hanska ushers the white shadows
into the hovel of happiness. She doesn’t love them
nor does she hate them, and gives them a room
with a view of the sea.
“It’s wonderful,” she says hoarsely,
and with a theatrical wave of the hand she rings a little bell,
and a scarlet curtain opens up.
The sky enters hurriedly and dispels the shadows
that are busy hunting down the darkness.
Enter into the antichamber Mister Cogito
and Mr. Hieronymous, the king of France and the king of Spain, Titian
and Rembrandt, Mozart and Ionesco.
“All the facilities are up and working,” says Madame,
and she gives each guest a membership card.
The night closes up again like a giant manhole
at the bottom of the tomb of the sea.
The sea star swims towards a firmament of its own.
The constellation of stars like nails
keep the headmast straight, but down in the hold
sleep the frozen sailors.
Mozart and Rembrandt alongside the deck hands and oarsmen.
Still today if you listen carefully to the east
out of the tiles of the golden sea
you’ll hear the Aonids’ false song,
the crew’s cheerful melodies
like the jingling of silvery jingle-bells.

de-chirico piazzaIl Signor K. era là

Aveva appuntato, Cogito, l’indirizzo della Signora Marlene
su un foglietto di carta che teneva in fondo alla tasca interna della giacca.
Voleva congedarsi. Prese il foglietto in mano.

Intanto, i premorienti si affollano nei vagoni merci.
Gendarmi portano al guinzaglio i mastini,
rovistano in ogni angolo della Zentralbahnhof,
perlustrano i binari.
Nella sala d’aspetto, c’è chi gioca con i serpenti,
chi pettina i capelli alle bambole,
chi suona il violoncello.
Tchiajkovski strimpella qualcosa al pianoforte,
più in là Vermeer dipinge di profilo una ragazza.

La luce si spense sul lastricato. Nella Kammerspiel
color fucsia la bella Marlene canta al pianoforte
il Lied della morte e della nostalgia.

Il Signor Cogito ama questo luogo di pace,
non saprebbe farne a meno.
Berlino. Anni Trenta.
Sulle ciglia, sulla pelliccia, sui guanti grigi
del Signor Cogito adesso cade una neve soffice.

Il lampionista si voltò, vicino a noi accese un lampione
e si mise a fischiare un’aria di Mozart.
I soldati scrivono cartoline alle fidanzate.
«Che epoca è questa?», chiede Cogito
alla bella Marlene nel salotto color fucsia.
Salieri fuma una sigaretta nel divano scarlatto,
ufficiali della Wermacht giocano a whist nel reservoir.
«Signor Cogito lei è un vero umorista», gli risponde
la Signora Marlene dall’antichambre.
C’è chi gioca con i décolleté, chi con la vedova nera,
c’è chi gioca con i serpenti, chi pettina i capelli alle bambole.
Una neve soffice si posa sulla pelliccia di Cogito
che si affaccia a una finestra. È quasi inverno.

Il cigolio meccanico degli usignoli si arrestò.
Il Signor K. era ancora là, tra lo stipite e la porta.
«Gutentag Herr Cogito…»

MR. K WAS THERE

Cogito had noted Madam Marlene’s address
on a slip of paper which he kept in the inside pocket of his jacket.
He wanted to say goodbye. He took the slip of paper in his hands.

Meanwhile, the pre-dying push their way into the freight trains.
Gendarmes walk bulldogs on a leash,
they’re searching in every corner of the Zentralbahnhof,
they walk up and down the tracks looking carefully.
In the waiting room some people are playing with snakes,
others are wasting time
or playing the cello.
Tchaikovsky bangs on the piano,
Vermeer over there is painting the portrait of a girl.

The light went out on the flagstones. In the fuchsia Kammerspiel
the lovely Marlene sits at the piano and sings
the nostalgic Lied of death.

Mr. Cogito loves this peaceful place,
he couldn’t live without it.
Berlin. The 1930s.
On Mr Cogito’s eyelashes, on his fur coat
and grey gloves, soft snow is falling.

The lamp lighter turned around, lit a street lamp
near us and started whistling an aria from Mozart.
The soldiers write postcards to their fiancés.
“What period is this?” Cogito asks
the lovely Marlene in the fuchsia drawing room.
Salieri is smoking a cigarette on the scarlet couch,
Wehrmacht officers play whist in the reservoir.
“Mr Cogito, you’ve got a real sense of humour,”
Madam Marlene replies from the antechamber.
Some people are playing with décolletés, others with the black widow,
some with snakes, some are wasting time.
Soft snow falls on Cogito’s fur coat
as he leans out of the window. It’s almost winter.

The mechanical creak of nightingales stopped.
Mr K. was still there, between the door-jamb and the door.
“Guten Tag, Herr Cogito…”

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“THREE STILLS IN THE FRAME” (Tre fotogrammi dentro la cornice), Chelsea Editions 2015 pp. 330 $ 20 Traduzione di Steven Grieco, INCONTRO CON GIORGIO LINGUAGLOSSA a cura di Daniela Cecchini 

Giorgio-Linguaglossa-Three Stills In the Frame 2015 È uscita il 7 agosto 2015, l’intervista a Giorgio Linguaglossa a cura di Daniela Cecchini sulla pagina Cultura del Corriere del Sud di cui alleghiamo il link in occasione dell’uscita della Antologia delle sue poesie con traduzione in inglese di Steven Grieco Rathgeb con testo a fronte.

http://www.corrieredelsud.it/nsite/home/corriere-letterario/21462–three-stills-in-the-frame-incontro-con-giorgio-linguaglossa.html

Giorgio Linguaglossa, eccellente critico letterario, poeta e saggista, è nato ad Istanbul nel 1949, da famiglia di origini siciliane e vive da sempre stabilmente a Roma.
La sua opera prima di poesia Uccelli risale al 1992; successivamente, nel 2000 pubblica Paradiso, nel 2006 La Belligeranza del Tramonto e nel 2013 Blumenbilder (natura morta con fiori).
Nella sua intensa attività letteraria, ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi e diretto la collana di poesie delle Edizioni Scettro del Re di Roma, oltre ad aver fondato il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, che dirigerà dal 1993 sino al 2005. Interessante la pubblicazione nel 1995 del “Manifesto della Nuova Poesia metafisica”, che redige insieme ad altri poeti molto noti nel panorama letterario. Ha pubblicato, inoltre, numerosi saggi sulla poesia moderna e contemporanea ed alcuni racconti e romanzi di elevato spessore culturale.
*
D) Le sue poesie hanno varcato i confini italiani, sono state tradotte in spagnolo, bulgaro e adesso in inglese. La traduzione riesce sempre a mantenere intatto il significato di una lirica, nel momento in cui non è possibile realizzarla in modo letterale?

R) La traduzione è importante, innanzitutto perché è un dialogo tra le lingue e le culture, è una specie di sistema di vasi comunicanti tra le culture ed è utilissima per ampliare la visione che una cultura ha di se stessa. La traduzione è uno specchio che ti consente di vederti con altri occhi e di verificare se il tuo discorso ha la forza di uscire dalla cultura di provenienza, oppure no.

D) In questi giorni è stata pubblicata negli Stati Uniti la sua Antologia di 320 pagine “Three Stills in the Frame” – Tre fotogrammi dentro la cornice – (Chelsea Editions). Questa sua opera rappresenta un avvenimento di un certo rilievo per la poesia italiana, un biglietto da visita del Made in Italy, come si usa dire oggi, anche se apparentemente riservato all’élite della cultura americana. Vorrebbe parlarmi di questo avvenimento, in un momento storico complesso, in cui la cultura italiana è sofferente e stenta a varcare i confini nazionali?

R) Ho sempre pensato che la poesia di un’epoca storica è l’espressione artistica che «rappresenta» nel modo più alto e sintetico la cultura di un popolo in un dato momento storico, la rappresenta nel senso che la custodisce e la tradisce. Voglio dire che i contemporanei fanno sempre una certa fatica a riconoscere la voce di un poeta del loro tempo, se lo riconoscono subito e lo acclamano come loro poeta, allora si tratta di un poeta minore, che viene incontro al gusto medio del pubblico. Facendo questa antologia per il pubblico americano ho voluto dare della mia poesia una idea europea piuttosto che italiana, ho selezionato le poesie più europee; ho voluto dare l’idea di un poeta che proviene da quella grande esplosione di creatività, di arte e di scienza che è stato il Rinascimento italiano. In tal senso, io mi considero un epigono di Machiavelli e di Leonardo piuttosto che un erede di Montale. Non so se la critica americana si accorgerà di questo aspetto, io lo spero. Mi sono sempre posto il problema di uscire dal Novecento italiano, la sua storia non è stata certo esaltante; di avere uno sguardo stereometrico, di guardare all’Europa: ai grandi poeti polacchi, ai russi, ma anche agli svedesi come Tomas Tranströmer e ai norvegesi come Rolf Jacobsen.

D) Vedo che nella copertina del suo libro c’è una foto del 1946, raffigurante i suoi genitori giovani, che camminano in una strada di Roma. Come mai questa scelta di mettere una foto di famiglia nella copertina di un’Antologia di poesia?

R) L’immagine posta in copertina del libro riprende una foto scattata da un fotografo di strada a Roma nel 1946 con una Kodak. All’epoca, mio padre era disoccupato, tornato dalla guerra, aveva perso il negozio che aveva a Roma. Il proprietario del negozio gli notificò l’importo dell’affitto da pagare per i quattro anni della guerra, mio padre che non aveva i soldi fu costretto a chiudere il negozio e a restare disoccupato. Così fu trattato un servitore della patria. Io non ero ancora nato. Comincia qui la mia poesia, dagli anni Quaranta. Il dopoguerra, la fame e la disgrazia dei miei genitori. Tornato dalla guerra, mio padre sposa mia madre. Un episodio d’amore. La mia Antologia vuole essere un omaggio alle generazioni di italiani che hanno rifatto l’Italia dopo il disastro del fascismo e della guerra, e la poesia “Tre fotogrammi dentro la cornice”, la più lunga che io abbia mai scritto, ripercorre la storia privata dei miei genitori nello scorcio del Novecento; la vita privata si confonde e si sovrappone, nella poesia, alla vita pubblica: il fascismo (mio padre era comunista), la guerra, il dopoguerra, la caduta in disgrazia economica dei miei genitori, la mia nascita, mia madre, la donna più bella del mondo agli occhi di me bambino, mio padre che a quaranta anni ricomincia tutto daccapo, da disoccupato, e si mette a fare il calzolaio, e poi, in seguito, negli anni Sessanta, metterà su una bottega di vendita di scarpe. Così, mentre scorrono gli eventi della guerra fredda, i miei genitori invecchiano, io divento grande e comincio ad invecchiare anch’io, l’Italia peggiora e invecchia. E poi la corruzione delle menti, quella corruzione antropologica che purtroppo ha attinto gli italiani. Di qui la mia scelta di andare a fare, dopo gli studi di lettere, un mestiere utile al mio paese, andai a fare il direttore di carcere. Ho girato molti penitenziari del nord e del centro dell’Italia. E poi, i giorni nostri: la crisi, che non è solo economica, ma spirituale, antropologica, crisi del «sistema Italia» ormai, temo, non più riformabile.

D) Il libro si apre con una poesia, dove è presente sua madre, che ricompare insieme a suo padre, nella bellissima lirica “Tre fotogrammi dentro la cornice”, che dà il titolo al volume e riprende l’immagine dei suoi genitori, messa in copertina. Inoltre, il libro è disseminato di figure femminili, volta a volta diverse: Marlene, Beltegeuse, Enceladon, la dama veneziana in maschera, Madame Zorpia e Madame Zanzibar e tante altre ancora. Quale significato racchiude tutto questo affollamento di figure femminili?

R) Stavo dicendo che Marlene, Beltegeuse, Enceladon, Simonetta Vespucci, la dama veneziana in maschera, Madame Zorpia e Madame Zanzibar e tante altre ancora, sono tutte personificazioni e personaggi del «femminile», sono sosia di mia madre. Il «femminile» ha attraversato tutto il mio immaginario, e quindi attraversa anche il mio Novecento poetico. La vecchiezza delle donne corrisponde alla vecchiaia del Novecento, e la mia poesia vuole essere la palinodia, il compianto per la vecchiaia di un secolo che ha coinciso anche con la mia personale maturità, e lo scacco di non essere riuscito a dare un contributo maggiore per la riscossa del mio paese. Forse con la poesia ci sono riuscito. Forse. Ma non credo, la mia poesia porta un messaggio di cui gli italiani non hanno bisogno.

D) Quale è, ove ci fosse, il filo conduttore tra tutti questi personaggi?

R) Non so quale sia il filo conduttore tra tutti i personaggi e le personificazioni, maschili e femminili, presenti nella mia poesia. Tra le personificazioni maschili ci sono Tiziano, Vermeer, Rembrandt, Velazquez, poeti come Brodskij, Ariosto, Dante; musicisti come Ciajkovskij, Vivaldi; personificazioni di entità astratte: il Signor K., Anonymous, il Signor Cogito (personificazione del filosofo), l’imperatore Costantino (colui che rifonda l’Impero su una menzogna), il Signor Retro, il Signor Posterius, il Signor K., il Commissario, e poi ci sono gli Angeli: l’angelo della storia Achamoth, gli angeli Raffaele, Asraele, Shemchele e i falsi angeli come Sterchele (nato da un difetto di pronuncia dell’Altissimo); e poi ci sono i filosofi che non si piegano, come Carneade, che resiste in un interrogatorio drammatico alle domande degli angeli inquisitori, Munkar e Nakir. In realtà, è una lotta drammatica di tutti contro tutti, una belligeranza universale, quella che ha attraversato il Novecento con le sue tre guerre mondiali. La volontà di potenza nel suo massimo dispiegamento di forze in atto. Ecco, forse il filo conduttore è questo: la volontà di potenza dispiegata dalla nostra epoca tecnologica, quello che un filosofo come Heidegger con una espressione poetica ha chiamato «l’oblio dell’essere».

D) Il prefatore Andrej Silkin afferma che la sua poesia è il tentativo più arduo ed ambizioso fatto dalla poesia italiana, per superare la poesia d’occasione: la poesia diario iniziata dal più grande poeta del Novecento italiano, Eugenio Montale. Vorrebbe spiegarmi cosa significa “superare”, ovvero, andar oltre Montale?

R) «Superare Montale», nel senso da attribuire a questa frase di Andrej Silkin, significa fare una poesia che corrisponda ad un progetto « für ewig » (per sempre), una poesia che corrisponda ad «una Grande Visione», e non ad una poesia di occasioni, diaristica, in minore, scettico-urbana, personalistica, privatistica, psicologica come quella che Montale farà da Satura (1971) in poi. Seguito a ruota da tutta la poesia italiana del tardo Novecento. È questa l’accusa che rivolgo alla poesia italiana del dopo Montale, quella di non essersi saputa liberare da questa visione scettico-ironica, diminutiva, minimale che poi ha dato risultati estetici molto discutibili e ha avviato la poesia italiana del secondo Novecento a un lento e inarrestabile declino.

D) Lei è nato ad Istanbul, o meglio, mi correggo, a Costantinopoli nel 1949 per poi trasferirsi a Roma con la sua famiglia. Che senso ha avuto per lei questa duplice appartenenza alle due capitali dell’antico Impero romano?

R) Mi piace pensare che per una bizzarria del caso io sia nato a Costantinopoli in quanto i miei genitori nel 1949 si trovavano lì per il commercio di pellami che faceva mio padre. All’età di tre mesi dalla mia nascita i miei genitori mi hanno portato a Roma, ma, probabilmente, qualcosa è restato nella mia immaginazione (sono stato un bambino straordinariamente immaginativo) di quella antica capitale di un impero pagano ormai tramontato. Questo mi ha aiutato ad estraniarmi da Roma, mi ha fatto sentire sempre un po’ estraneo in Italia, un po’ diverso dagli altri ragazzi e adolescenti della mia età. Con il tempo ho capito che questa duplice appartenenza immaginativa alle due capitali dell’antico impero romano poteva essere un fattore positivo, e positivo per la mia poesia. È questo il motivo per il quale ho scritto e pubblicato il romanzo Ponzio Pilato che nel 2016 uscirà negli Stati Uniti in traduzione inglese. Mi sono spesso chiesto se io al posto di Ponzio Pilato mi sarei comportato come lui o avrei scelto di oppormi alla richiesta di pena capitale per Gesù pronunziata dal Sinedrio. E mi sono dato una risposta. Avrei liberato quell’innocuo predicatore e avrei sfidato le ire del Sinedrio.

D) Ho letto il suo romanzo “Ponzio Pilato”, edito nel 2011. Che cosa unisce la figura di Ponzio Pilato alla Roma del terzo millennio?

R) Ponzio Pilato, il quarto Procuratore della Giudea, è stato il plenipotenziario di Roma. Lui è l’Occidente, quell’Occidente che osserva l’Oriente ma non lo comprende. Anche davanti a Gesù, Pilato non riesce a comprendere quel “mondo”, la famosa domanda: «Che cos’è la verità», che Pilato rivolge a Gesù, ci rivela subito la statura intellettuale di Pilato, il quale non è affatto uno sciocco. La domanda di Pilato è centrale e strategica insieme, lui vuole capire dalla risposta di Gesù se l’uomo è pericoloso per le leggi di Roma o se non lo è. E la deduzione di Pilato è straordinariamente acuta, comprende che il messaggio di Gesù è un messaggio di pace spirituale, che non si tratta di un ribelle pericoloso. La Roma del terzo millennio è simile al mercato del Tempio di Gerusalemme dove si affollano i mercanti e gli strozzini, dove si vende il denaro e si compra la corruzione. La Roma attuale non è nulla di più di un puntino sulla carta geografica, non significa nulla. Il nichilismo della Roma attuale lo si ritrova intatto nella mia poesia, ma ribaltato, rivoltato, perché la mia poesia si nutre di una «Grande Visione». La mia poesia vuole essere un atto di drastica accusa contro la corruzione del mio paese.

Critica della ragione sufficiente Cover Defgiorgio linguaglossa daniela cecchini

D) Che peso ha il passato nei suoi versi?

R) Dal passato ho imparato una cosa, una cosa che mi diceva mio padre calzolaio: «Non accettare mai di fare un passo indietro»; e poi ho in serbo un’altra massima, del capo indiano Tachka Witka (più noto come Cavallo pazzo): «Un grande capo deve seguire una Grande Visione come l’aquila insegue il profondo blu del cielo». Ecco, queste sono le due gambe spirituali e filosofiche sulle quali ha poggiato la mia poesia e la mia vita. Il passato mi ha insegnato che si può essere sconfitti ma senza mai perdere l’orgoglio di aver difeso ad oltranza la propria posizione. Come parla il filosofo Cogito nelle mie poesie, lui dice che «bisogna tenere il punto, alla fine il punto vincerà sulla linea». Non sono sicuro se Cogito abbia ragione o torto, questo lo vedranno solo i posteri. Del resto, credo che il lettore di un libro di poesia voglia sapere questo: come comportarsi nella vita, con quale azione rispondere a una ingiustizia, come poter essere un cittadino migliore. Tutto il resto è chiacchiera di letterati.

D) Esiste un trait d’union fra passato e presente, due epoche culturali con logiche differenze?

R) Oggi siamo nell’epoca della superficie. I media, il video, internet, la politica sono emanazioni della superficie, sono effetti dell’«oblio dell’essere». Viviamo come pattinatori su una superficie ghiacciata (anestetizzata), la superficie della medietà superficiaria. Non abbiamo più alcuna relazione che ci unisce a ciò che nel lontano passato siamo stati, penso al Rinascimento, penso a quel grande crogiolo di civiltà che è stato l’impero pagano di Roma, penso alla generazione che ha fatto l’Italia dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale, penso a Giordano Bruno che, per tenere il punto affronta il rogo con coraggio, penso a Galilei costretto ad una umiliante abiura dall’Inquisizione, penso a Gramsci che in prigione scrive i suoi quaderni, penso a Leopardi che affida allo Zibaldone i suoi pensieri. Oggi c’è una grande stanchezza e una grande sfiducia. Siamo arrivati al capolinea della storia di un insieme di popoli diversi che si chiamano oggi italiani.

D) Un critico, di cui non ricordo il nome, una volta disse che la sua poesia è come “anestetizzata”: le immagini, le parole sembrano private di emozione, come se non dovessero più entrare nell’umana sfera emotiva. Condivide questa chiave di lettura?

R) L’anestesia è quel composto chimico che si dà ad una persona per non farle sentire il dolore di un intervento chirurgico. Bene, anche la lingua italiana ha subito un intervento del genere, è stata anestetizzata per impedirle di avvertire il «dolore» che la comunità sentiva. Questa anestetizzazione della lingua di relazione, quella che parliamo tutti i giorni, è un fenomeno in atto da tempo, da almeno trenta quaranta anni. La vita antropologica di un popolo è stata anestetizzata, è stata isolata dal dolore, e così questo popolo è andato incontro al suo destino senza, paradossalmente, avvertire alcun dolore, ma con una specie di inerzia, di indifferenza, di noia, senza essere capace di alcuna reazione. Ecco, io non ho fatto altro che costruire una «forma poetica», un lessico, uno stile che recepisse quanto avvenuto nella società italiana. Non è quindi la mia poesia ad essere «anestetizzata», ma è la società italiana che ormai si è «anestetizzata». Come poeta non potevo che usare quella lingua.

D) Perché ha dovuto ricorrere all’anestesia delle parole?

R) Perché il poeta deve il massimo rispetto alle «parole», le deve prendere per quello che esse sono diventate, cioè «prive di emozioni»; le parole si sono «anestetizzate», non veicolano più un significato, una comunità in crescita, ma una comunità ripiegata su se stessa, una comunità in declino, che si alimenta di falsi idoli e accudisce false verità. Se la lingua italiana, quella parlata dal popolo, si è «anestetizzata», bene, il poeta non ha il diritto di intervenire con interventi «estetici» o di micro chirurgia migliorativa. Il poeta deve essere incorruttibile: deve prendere quello che la lingua gli dà, non deve abbellirla, non deve vestirla di orpelli.

D) Sempre a proposito di Andrej Silkin, nella prefazione il critico scrive che la “costellazione” dei suoi poeti con i quali interloquisce è la seguente: Osip Mandel’štam, Arsenij Tarkovskij, Milosz, Zbigniew Herbert, Adam Zagajewski, Eliot, Tranströmer; insomma, il critico sostiene che lei guarda ad est e a nord dell’Europa, che ha poco a che vedere con la poesia del tardo Novecento italiano. Stanno veramente così le cose?

R) Una volta un lettore mi disse che le mie poesie gli sembravano scritte da un poeta straniero, e poi tradotte in italiano, «un bell’italiano», aggiunse, forse temendo di offendermi. Io gli risposi che questo era per me il più grande complimento che un lettore poteva farmi. Le cose stanno così, ho sempre cercato di scrivere le mie poesie come se fossi uno straniero, un marziano, sbarcato, per caso, a Roma, costretto a scrivere in italiano ma rimanendo pur sempre straniero. Ecco, questa estraniazione mi ha consentito di assorbire dalla grande tradizione europea, dai poeti da lei citati e da altri, tutto ciò che era possibile assorbire. La mia poesia ha poco a che fare con la tradizione del Novecento italiano. Forse provengo da lontano, da quella capitale immaginaria dell’Impero d’Oriente che è stata Costantinopoli dove sono nato. Provengo dalla periferia dell’impero, ma vivo da sempre a Roma, che è pur sempre una capitale cosmopolitica, cafona e inaffondabile nella sua medietà e nella sua inimitabile creatività.

D) Per concludere il nostro piacevole incontro, mi consenta una domanda: perché la poesia oggi, perché un libro di poesia?

R) Non c’è un perché. La poesia è un atto di creazione, si crea qualcosa dal nulla, che prima non esisteva. È qualcosa di incredibile, no? Un libro di poesia è una sorta di epitaffio spirituale di una civiltà. Sono pochi i libri di poesia in un secolo degni di questo nome.

L’anima guarda gli occhi stellati del rospo

L’anima guarda gli occhi stellati del rospo.
I pesci d’argento nuotano contro corrente.
Tumefazioni verdi della putrefazione brillano
sulle mani di madreperla di mia madre
posate sui tasti del pianoforte.
Il quaderno nero sul comò
le poesie vergate con inchiostro di china
i guanti di garza nera
il profumo nella profumiera d’argento.
È l’anima svestita di stelle che salpa
verso la rotonda luna.
Una gonna color fucsia si allontana dalla finestra.
Imperioso entra il vento del nord sbattendo la fronte algida
sulla cartilagine del cosmo.
Mia madre al pianoforte suona un Lied di madreperla.
Nell’ombroso cortile ratti mangiucchiano
la carne bianca di un cadavere.
Una sorella azzurra ripete salmodiando
i versi incantati di Orlando furioso
che brama la bella Angelica, esce dai versi dell’Ariosto
e prende la forma di un cormorano nero
l’uccello degli ampi orizzonti.
«Sì», dice Enceladon da una stella,
«dai rami degli alberi uccelli storpi
prendono un volo sghembo,
vanno verso il sole pallido,
portano nel petto il lutto di mia madre
ammalata di stelle».

(1986)

THE SOUL LOOKS AT THE TOAD’S STARRY EYES

The soul looks at the toad’s starry eyes.
Silverfish swim upstream.
Green tumefactions of putrefaction shine
on my mother’s mother-of-pearl hands
as they rest on the piano keys.
The black notebook on the dresser,
the poems written in China ink
the black gauze gloves,
the perfume in the silver perfume vial.
It’s the soul wearing no stars that sails
towards the round moon.
A fuchsia-colored skirt moves away from the window.
An imperious north wind comes in, its icy forehead
knocks against the cartilage of the universe.
At the piano my mother plays a mother-of-pearl Lied.
In the shadowy courtyard rats nibble
at a corpse’s white flesh.
A sky-blue sister chants
the enchanted lines of Orlando Furioso,
who yearns for lovely Angelica, comes out of Ariosto’s lines
and turns into a black cormorant,
vast-horizoned bird.
“Yes,” says Enceladon from a star:
“Crippled birds fly crookedly off
the branches of trees
flying towards the pallid sun.
In their breast
they carry my mother’s star-sickened grief.”

(1986)

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana

SETTE POESIE INEDITE di Steven Grieco-Rathgeb Nel caleidoscopio (2002), Cosa vedemmo dal ponte S. Trinita, Via de’ Canacci, Nido sulle onde, al padre Stretto di Magellano, 1934, Nel caleidoscopio, Indovinello sulla coda di rondine, Che canta il merlo alle 5 del mattino? – con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera dell’Autore

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. È tra i fondatori del blog lombradelleparole.wordpress.com  indirizzo email:  protokavi@gmail.com

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco (a sn.) con Rita, Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il «caleidoscopio», in ambito narrativo, è anche una delle figure retoriche accostate all’entrelacement, tipo di narrazione in cui è presente un continuo intreccio di storie, proprio riferito alla molteplicità di figure (immagini) che si possono scorgere in esso.

Il caleidoscopio (dal  greco καλειδοσκοπεω, «vedere bello») è uno strumento ottico che si serve di specchi e frammenti di vetro o plastica colorati per creare una molteplicità di strutture simmetriche.

Il più rudimentale caleidoscopio è formato da un semplice tubo di cartone rivestito internamente di almeno due specchi (montati solitamente fra loro in modo da formare angoli di 60°); nella parte anteriore, separati dal corpo centrale da un vetro rotondo trasparente, sono inseriti dei frammenti colorati di varie forme e colori. Un vetro smerigliato chiude il tubo all’estremità.

Appoggiando l’occhio ad un’estremità (come guardando in un cannocchiale) e ruotando l’intero strumento, o la parte terminale mobile (nei modelli più complessi), è possibile vedere delle figure geometriche simmetriche colorate, generatesi dall’unione dell’immagine diretta dei frammenti e di quelle create dalle riflessioni negli specchi; continuando a ruotare il caleidoscopio stesso, le figure mutano e cambiano colore e forma, senza mai ripetersi.

Analogamente, la tecnica compositiva di cui fa uso Steven Grieco è esemplata sul caleidoscopio, ogni strofe costituisce una immagine o gruppo di immagini, più strofe assemblate costituiscono un insieme di immagini in movimento reciproco, cangianti nel colore, nella fluidità e nella iridescenza. Il risultato complessivo indotto nel lettore è una sorta di fluidità e di incertezza denotativa, i colori delle immagini sono frammisti e, per così dire, dispersi, solubili, sfrangiati. Gli incipit sono sempre legati ad un luogo temporale o spaziale («La mattina grave», «In questa via stretta», «È spaccata la melagrana, sfera infranta», «Quel furore adesso, quel fulgore»); oppure, il riferimento temporo-spaziale viene accennato nel titolo («Che canta il merlo alle 5 del mattino?»). Il luogo temporo-spaziale quindi si amplia fino a comprendere una realtà più vasta e complessa seguendo il filo del discorso del poeta il quale è come se tracciasse più linee, una molteplicità di linee su una pagina bianca, con l’effetto di una serie di iridescenze.

C’è sempre un punto in cui la composizione tipo di Steven Grieco raggiunge il climax, in quel punto preciso si situa l’evento, il quid che accade e illumina a ritroso il percorso compiuto. È questa la significazione che viene comunicata al lettore. Una significazione complessa che ricomprende ed acquista pieno valore semantico ed iconico da tutte le strofe precedenti e dalle strofe che seguono. Nella prima composizione il climax viene raggiunto quando appare «una coppia di anatre», il cui «splendore» illumina tutta la composizione. Nella seconda composizione il climax invece è interno alla composizione, non viene mai designato, non accade perché è già indicato nel titolo, è fuori della composizione: «via de’ Canacci»; tutto ciò che avviene fa parte di questo luogo magico, luogo caleidoscopico per eccellenza. Nella terza composizione il climax viene attinto nel penultimo verso là dove «apparve il Vuoto, altissima / trave che precipita sul mondo». Ogni composizione ha dunque un punto di climax che cambia di posizione, ed ogni posizione di climax si riverbera sulla orditura orchestrale della poesia, come una chiave musicale che dà il via ad un pezzo armonico. Nella successiva poesia intitolata «Al padre», c’è un sotto titolo: «Stretto di Magellano»; la chiave di volta è qui, nel titolo, nel parallelismo tra la figura del vecchio padre e le correnti tumultuose dello stretto di Magellano, con un effetto di fusione e di confusione tra le due icone semantiche. Nella quinta composizione il fulcro della poesia è rivelato dalla citazione di Chuang Tzu: «Il Vuoto è grandezza. È come l’uccello che canta / spontaneamente, identificandosi con l’Universo». Il Vuoto viene richiamato dalla comparsa dell’«usignuolo», il quale non fa nulla ma si capisce che ciò di cui qui è questione è il suo canto, simile al canto della poesia. L’ultima poesia non poteva che essere un «indovinello» tra il critico e il poeta «sulla coda di rondine». Il critico tenta di razionalizzare: «Il non-spazio tra ricordo e speranza», parla di «presente»; il poeta, invece, non può che riferirsi al tutto, a ciò che precede e a ciò che segue il «presente», in quanto  «sul bianco foglio io traccio mero inchiostro». Il suo compito finisce qui, come nella pittografia zen, nell’atto di tracciare un segno.

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco con Rita, Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco con Rita, Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino

Per tornare al caleidoscopio, nel caso di caleidoscopi formati da due specchi, la forma dell’immagine risultante all’occhio dell’osservatore ricorda un fiore a sei petali; di questi sei settori uno è generato dall’immagine diretta dei frammenti di vetro mentre gli altri cinque sono le immagini riflesse. Se gli specchi sono tre le immagini sono molte di più; il loro numero dipende dal numero di riflessioni multiple che si hanno lungo gli specchi. Ciò dipende non solo dalla lunghezza del tubo ma anche dalla qualità delle superfici; se gli specchi non sono di ottima fattura, saranno visibili solamente le riflessioni principali.

Secondo Emanuele Severino, la civiltà occidentale non riesce a pensare l’«esser sé dell’essente», cioè la verità dell’essere. Il suo nichilismo sarebbe proprio questo. Il suo nichilismo è pertanto inconscio che non indica «ciò che non appare, ma ciò che ancora non è stato portato nel linguaggio; sì che il linguaggio, che ne parla, ancora non appare. E la “consapevolezza” è l’apparire di questo linguaggio»*
Al di sotto di questo nichilismo c’è, rileva Severino, un più profondo inconscio: è l’inconscio di quell’inconscio, il sottosuolo del sottosuolo, ciò che avvolge l’avvolgente, che consiste nella struttura originaria dell’essere: «l’essere è e non può non essere». Questa è la verità dell’essere, la verità che è l’apparire dell’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente. L’essente è dunque «eterno».
«Il destino della verità» non può essere smentito da alcun sapere, umano o divino e include originariamente il proprio apparire. Il destino della verità è già da sempre manifesto. Esso sta alle nostre spalle e dunque non ha senso mettersi in cerca della verità.

La poesia di Steven Grieco è alla ricerca di qualcosa che sospetta essere «irraggiungibile», cionondimeno, la ricerca continua, e continuerà fino alla fine del tempo. Questo aspetto della sua poesia si rivela chiaramente nell’ultima poesia presentata, là dove c’è la «porta mai chiusa»:

pensavo, spalancando forte
la tua porta mai chiusa
di non trovarti

 È uno spasmodico domandare a quel sottosuolo del sottosuolo. Ma il destino della verità è sempre alle nostre spalle, è in quell’atto di volgersi indietro. Vive nella transitiva temporalità di quell’evento che è appena trascorso.

*Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 15.

Caro Giorgio,

hai scritto una introduzione davvero splendida a queste mie poesie. Nel caleidoscopio è stato l’ultimo gruppo di poesie in qualche modo legate, almeno dal mio punto di vista (sicuramente soggettivo), al modernismo, e cioè ad uno stile riconducibile alle esperienze poetiche del ‘900. (Anche se dentro le poesie stanno contenuti distillati da esperienze poetiche e filosofiche più che altro asiatiche, chissà se non è per questo che volli usare nel titolo questa parola “caleidoscopio”.) Questa operazione la feci, allora, quasi coscientemente: una sorta di estremo saluto, anche nostalgico, al modernismo, da parte di un poeta nato nel 1949, che si era formato a quella grande scuola, e che da essa era stato tradito… lui, come forse tutti i poeti della nostra generazione e quella successiva, nel senso che quella scuola stessa è poi naufragata sugli scogli di mille ininfluenti neo- e post-avanguardie.
E’ eccellente come dai importanza al caleidoscopio, non solo sul piano simbolico e metaforico, ma proprio come oggetto. Bellissimo! Hai commentato le mie poesie caleidoscopicamente…
Forse questa è una delle cose che abbiamo in comune, e io penso che nasca dalla curiosità di conoscere esperienze diverse dalle nostre, e magari talvolta anche a immedesimarsi in esse. Sei unico fra i poeti – non soltanto italiani, credimi – ad esserti aperto ad altre sensibilità poetiche e altre culture. Anzi, meglio dire così: tu condividi con i grandi poeti, non i piccoli, questa curiosità intellettuale. Che poi è esattamente la qualità che ha contribuito a farli diventare “grandi”. Su questo fatto non ho alcun dubbio.
E’ ovvio che Transtroemer ha quello stile così potente, come un pugno, perché è stato intrepido, avventurandosi in tutte le acque poetiche possibili e immaginabili. Curiosamente anche Joseph Conrad, scrittore di prosa, ha uno stile “potente” (e di forte denuncia), al quale non può non aver contribuito una vita di viaggi in mare per tutto il mondo.

Nelle poesie di un poeta che ha letto molto, come hai fatto tu, si avverte sempre il vento che soffia, come sul ponte di una nave. Anche nei commenti critici.

(Steven Grieco)

foto di Steven Grieco luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

foto di Steven Grieco luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

inediti Nel caleidoscopio (2002)

Cosa vedemmo dal ponte S. Trinita

La mattina grave,
gonfia di piogge intermittenti –
e palazzi, neri macigni in vie strozzate

ma anche strappi, ventate qua e là – e ardite,
in alto, nubi, bianchi sbuffi di locomotiva
un ricordo d’ali
che scendeva

Andava veloce il fiume limaccioso
ingombro di rottami e nudi tronchi
quando, sopra il viluppo di rami sospinto
verso riva,
vedemmo una coppia di anatre

naufraghi splendenti giunti dallo squarcio fra cielo e acqua,
da un’icona che narra il suo Nulla

E loro, rivolte ai nostri sguardi,
erano della lucentezza che scavalca i secoli:
appena consapevoli d’esser qui,
ma svegli a questo atto creatore

ancora dialoganti con un pittore sgraziato
che ha infine il pensiero che spumeggia
quietato,
e scorge di là dalle distanze, loro comporsi,
due forme sottili precipitare in corridoi d’aria

e le plasma, e stupito l’attira;
e nel tumulto è loro, fin qua sulle onde brute,
i due fulgidi corpi
doppia tenebra piumata –

Un corvo gracchiò dal cornicione
fai tua quella lucentezza!
Impiega i colori che nel tempo
risplenderanno

Risalendo in alto, rivivi la vertigine
di quelle barriere – un soffio ti schiuda
l’uscio chiaro di quaggiù:

dove i pioppi ondeggiano
dove sempre perdi
fra le acque di primavera,
ritrovi
il sentiero dell’immagine

Via de’ Canacci

In questa via stretta
dai portoni sempre chiusi,
deserta nel bagliore di mezzogiorno,
ho ricordato un poeta che io conobbi,
timoroso di finestre, timoroso di squarci,
che al tramonto aspettava,
da dietro le persiane, l’arrivo della notte
scassinatrice;

forse era proprio sua questa via dura
e decrepita, questa via dal rotto selciato
dove sul tardi appaiono sfiorite falene
dietro i cassonetti
e ubriachi spargono vino sui marciapiedi
e berciano gli spacciatori,
e piangono gli eroinomani inconsolabili
spiati da dietro le persiane da uno stormo
di vecchi ostili, e gechi, e pipistrelli.

Ma quando infine chiudono i locali,
e tacciono i tubi di scolo,
e prende sonno anche l’aria,
la via
mille volte violata
s’acquieta;
nel silenzio senza respiro
torna a fendere la sua anima tenebrosa
il canto di un ebbro d’amore,
già avviato
oltre il ciglio dell’aurora.

foto di Steven Grieco (India)

foto di Steven Grieco (India)

Nido sulle onde*

1.
È spaccata la melagrana, sfera infranta:
i suoi chicchi dispersi,
il frutto marcisce meraviglioso sulla battigia,
rotolando fra le onde.

E ancora oggi sognano i famigliari
un tavolo comune a cui sedersi,
ciascuno per proprio diritto,
solenni consanguinei
eppure seduti di sbieco l’uno all’altro.
Anche se le loro vite s’incrociano,
non vi è incrocio di sguardi,
si conoscono per riconoscere
cosa l’ha scissi.
Hanno la mossa rovescia,
l’ombra del pugnalatore;
irrompe l’odio a squarciagola,
inaudite le fiamme
divorano il proprio splendore.

Ma ci pensa infine l’avidità
a far scempio dei corpi abbracciati,
spargendone le viscere
per tutto il prato insanguinato.
Di questo castello, fatto, rifatto,
restano solo rovine e rovine.

Assaporando il fiele in ogni cibo,
scesi nelle profonde segrete
dove mi apparve il Vuoto, altissima
trave che precipita sul mondo.

2. al padre
Stretto di Magellano, 1934

Quel furore adesso, quel fulgore
è solo silenzio che fiammeggia

vedo le vene delle tue mani di vecchio –
stagliate vie, densi intrichi,
sentieri scordati e ritrovati
che hanno trascorso i fortunali
e riposato nella bonaccia dei mari:

ma tu hai preso sonno
e un punto minimo ancora
un punto tra noi, in quest’oceano,

va sul dorso di profonde correnti
e saltano gli ultimi pesci
miraggio dell’abbondanza,
spumeggiano le onde sbraitando
sprofondano tumultuose
nel cielo capovolto

Ora il tuo sonno-abisso
scioglie le mille vene
le libera un attimo

prima che antico ordito
impegni nuova trama

* Nel titolo, allusione al martin pescatore, che si pensa nidifichi sul mare greco nel periodo di quiete e sole che ogni gennaio si apre inatteso fra le tempeste invernali.

foto di Steven Grieco (India)

foto di Steven Grieco (India)

Che canta il merlo alle 5 del mattino?

“Il Vuoto è grandezza. E’ come l’uccello che canta
spontaneamente, identificandosi con l’Universo.” Chuang Tzu

Scienziati e millenaristi, gli assetati
delle origini, dovrebbero ascoltarmi:
proprio loro, strano a dirsi, i più distratti.
Pure è in questa mia voce senza strumenti
l’istantaneo rammemorarsi delle cose.

Li disorienta il mio dedalo di suoni
mentre dall’antenna eccelsa canto il vuoto sottostante,
e ruotano in alto i miei gorgheggi,
e canto tutto simultaneamente
quel che a voi giunge in temporal sequenza.

Incrocio d’ogni fenomeno e dimensione,
non temo di nuvole il cielo affollare,
né spalancare la rossa ferita all’orizzonte.
Il mio canto è acqua, e pietra che sprofonda
schizzando via dal centro su cui ricade.

Non imito l’usignuolo,
non imito il garrito di rondine,
non imito il mio stesso cantare
che si apre in crescenti dissimili cerchi.

E non siate ingannati dalle mie mille “elle”–
quando un frutto si stacca dal ramo
piangerlo è solo staccarlo di nuovo.

.
Indovinello sulla coda di rondine

Valutazione del critico:

Completo dici tu questo presente:
del domani che ci dilaga incontro
ravvisi il volo, splendida nerezza
dileguarsi in multiformi passati.

Risposta del poeta:

Sempre, volgendomi avanti, io osservo
che precede in perpetuo combaciarsi:
come l’anelito se stesso insegue,
ma sempre si specchia nei nostri occhi.

Esortazione del critico:

Il non-spazio tra ricordo e speranza
dunque è un seme che intero li contiene?
Sii lucente, supera ogni censura,
ogni assurdo: da sé, “stesso” disgiungi.

Risposta del poeta:

Abbagliato, trascuri il mio lettore:
sul bianco foglio io traccio mero inchiostro,
ma lui quel senso sprigionando incanta,
e il cieco incastro fa guizzare in alto.

Nel caleidoscopio

Quel tempo in cui pensavo
di percorrere solo questa desolazione
mi rende un pugno d’immagini rovesce:

pensavo, spalancando forte
la tua porta mai chiusa
di non trovarti,
ignaro di non poterti raggiungere;

dopo rovina, deliquio e morte
ritrovarmi uomo, padre dei miei figli,
seduto alla mia tavola
sotto la fiaba di un arco arabescato:
e stretto in questo abbraccio
perdermi al suo interno,
diventando irraggiungibile;

sì, adesso riconosco
il paradosso del tuo sguardo:
è Nessun Dove:
“tu” trovare “me”

scala
che s’attorce su nella mia dispersione,
ma di cui l’ubriaco immaginare
può rovesciarsi

Geme il catenaccio dell’abbaino
s’aprirà lo sportello aperto…
non so, ancora esito a percorrere le vie dell’aria

2002

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Odisseo che scrive a Telemaco nella poesia di Brodskij è una grande poesia. Odisseo parla da Dopo il Viaggio e da Dopo la Guerra. Anche noi, caro Steven, parliamo da Dopo il Moderno e da Dopo la Grande Guerra, dopo le tre guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa. E adesso sono rimasti soltanto i filistei che officiano i loro riti apotropaici alle Icone del Successo e della Ricchezza. Nel 1971 il presidente americano Nixon annunciò la fine del cambio fisso del dollaro con l’oro. il Capitale Finanziario  è stato liberato dal cambio fisso con l’oro, da allora questa deità ci domina, è il nuovo Demiurgo che esercita il proprio dominio sugli uomini. Quindi noi a ragione possiamo parlare come l’Odisseo di Brodskij da Dopo il Tramonto dell’Occidente. E che altro è la tua poesia se non un pensiero poetico che medita sul Tramonto? Sulla Luce che lentamente si estingue? La tua poesia è sempre paesaggistica, è sempre en plein air, vuole chiamare il lettore dentro la luce e i suoi mille riverberi; e che cos’è questo se non il chiamare il lettore dentro il tramonto della Luce? È in questo tramontante tramontare che la tua poesia si illumina (riceve la luce) e la proietta sul lettore… Nella tua poesia gli oggetti ricevono luce dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, diventano visibili e, nello stesso tempo, invisibili per un eccesso di luce, un eccesso di aria trasparente, di rifrangenze. Forse sei tu il più grande poeta, oggi, che poeta en plein air, come un novello impressionista. Le tue poesie sono Icone che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e la luce. E che cos’è l’Icona? Non è una pittura silenziosa dove la luce viene dal un Altro Luogo?, un luogo immateriale e immortale? Ovviamente, la tua poesia en plein air, si riallaccia alla antichissima poetica delle Icone bizantine, sono dei moderni fotogrammi che prendono luce da un’altra dimensione, ricchi di aria e di vuoto, pieni di vento …

L’icona rappresenta un punto di congiunzione tra la dottrina neoplatonica e la religione cristiana. Qui l’icona non è semplicemente la raffigurazione del trascendente, ma vera e propria incarnazione dell’ente supremo nella forma sensibile. Si parla allora di epifania dell’essere supremo. In questo senso la mimesis platonica raggiunge la sua massima espressione. Questo carattere epifanico della verità di Dio non spetta allora solo al Verbo, alla parola, ma anche l’immagine, simbolo della luce divina, è manifestazione di Dio; possiamo addirittura affermare che l’arte dell’icona è poesia senza parola, messa in opera della verità in immagine silenziosa: ciò che la parola dice, l’immagine lo mostra silenziosamente. È quindi sbagliato affermare che mentre nella cultura greca è la vista l’organo privilegiato per pensare il soprasensibile – basta pensare al significato delle parole fondamentali del pensiero platonico idea e eidos che rimandano a un vedere essenziale -, nella cultura cristiana il vedere diventa un ascoltare. Non a caso una delle immagini più ricorrente in tutta la tradizione cristiana è proprio quella della luce, intesa, appunto, come immediata epifania della verità: lo Spirito santo è sia Verbo che Luce. Nella visione teologica cristiana la luce è una promanazione (secondaria quindi) dello Spirito Santo. Questa metafora della luce come immediata percezione della verità non si esaurisce in una dimensione puramente religiosa, tra luce e verità c’è un filo conduttore comune, infatti, quando l’occhio percepisce gli oggetti, ciò che in realtà percepisce è la luce riflessa di essi. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela. È la luce che rende bello l’oggetto, permettendo a quest’ultimo di raggiungere il suo bene, la sua essenza. L’artista dell’icone è colui che mediante la vita ascetica si svuota di tutti i desideri terreni per accogliere la luce trascendente trascrivendola su tela. Infatti, l’arte contemplativa si pone al centro della cosmologia dei Padri della chiesa: la visione dei lógoi archetipi, dei pensieri di Dio sugli esseri e sulle cose, costituisce una teologia visiva, una iconosofia. Ogni cosa possiede il suo lógos, la sua parola interiore, la sua determinazione strettamente legata all’essere concreto. Questo legame è posto dal fiat (l’imperativo “sia”) divino; esso è la corrispondenza adeguata e quindi trasparente tra forma e contenuto, il suo lógos; la loro intima compenetrazione, la loro coincidenza segreta si rivela in termini di luce e costituiscono la bellezza. La bellezza della icona sta nella trascendenza e nell’immanenza divina. Quest’arte, tipicamente orientale della cristianità ortodossa, rappresenta la possibilità che il trascendente platonico possa rendersi visibile nel mondo mediante un processo ascetico di purificazione e di accoglimento del soprasensibile.

Ora, se nella cultura cristiano-orientale l’arte dell’icona rappresenta la concreta possibilità di produrre lógoi che raccordano il mondo soprasensibile col mondo sensibile, nella dimensione occidentale si produrrà una scissione del concetto di arte e quindi di ποίησις, scissione che farà emergere i nuovi caratteri dell’arte moderna: l’abitare stabilmente nel nichilismo quale dimora della nuova epoca. Odisseo è ritornato e ritrova la vecchia Penelope, il ragazzo Telemaco, trasformato in complice dei suoi assassinii, i rozzi contadini della sua isola, sterpaglie, vento…

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.

(Brodskij)

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  Alfonso Berardinelli “AVVISO AL FATTO: SE LA COLLANA DI POESIE MONDADORI CHIUDE È PERCHÉ NON CI SONO PIÙ POETI PUBBLICABILI”  “Se Lo Specchio chiude, insomma, qualche ragione c’è” – con un Commento di Giorgio Linguaglossa: “siamo arrivati allo stadio zero della poesia”;

la Poesia è nuda

la Poesia è nuda

da Il Foglio 15 luglio 2015

Che succede? Il Fatto quotidiano è un giornale a cui piace mettere lo stile cinico al servizio dell’etica pubblica. Quando parla di poesia, però, si intenerisce. In un articolo di Pietrangelo Buttafuoco (9 luglio 2015), che ne riprendeva uno di Alessandro Zaccuri uscito in precedenza su Avvenire, si parla di licenziamento (scandaloso?) del dirigente Antonio Riccardi dalla Mondadori, nonché della paventata chiusura della più famosa collana italiana di poesia, denominata Lo Specchio. Sì, proprio quella in cui noi liceali di mezzo secolo fa leggevamo Ungaretti, Montale, i lirici greci e Catullo tradotto da Quasimodo, e più tardi Auden e Paul Celan, Zanzotto, Giudici, Ted Hughes, Denise Levertov, Iosif Brodskij…

 Che Lo Specchio abbia avuto grandi meriti lo si sa, lo si dovrebbe sapere. Ma è anche abbastanza risaputo che da venti o trent’anni le sue scelte poetiche italiane sono molto o troppo discutibili, fino a privare la collana del suo antico prestigio.
Il titolo dato all’articolo di Buttafuoco invece che allarmare fa un po’ ridere: “Che Mondadori è se rinuncia alla poesia?”. Non è che la Mondadori rinunci ora alla poesia, ci aveva già rinunciato da tempo, infilando nella sua collana una crescente zavorra di poeti “cosiddetti”…

 No, mi sto sbagliando. Di poeti da pubblicare in Italia non ce ne sono poi molti. O meglio, ce n’è un tale mostruoso e informe numero che il difetto, ormai, non può essere imputato a questa o quella collana (anche se…!). Il difetto è nel fatto che si creino collane di poesia, dedicate, intendo, esclusivamente alla poesia. Meglio sarebbe mescolare poesia e prosa. Una volta aperta una collana di poesia bisogna poi riempirla. Con che cosa? Con quello che c’è.

 Di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta. Non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita le grandi, medie e minime collane che esistono. E’ ovvio, è inevitabile che si pubblichi semplicemente quello che c’è, procedendo secondo ben noti opportunismi (tanto la critica di poesia beve tutto oppure tace): prima viene l’amico, poi l’amico dell’amico, poi quello che si mette al tuo servizio, prima ancora quello che ha potere, o quello che insiste e non demorde, quello che se non lo pubblichi si inalbera, quello che poi te la farà pagare, quello che minaccia il suicidio…

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

 Che la poesia non abbia mercato (se non eccezionalmente) dovrebbe essere un dato acquisito da ogni editore che conosca l’abc del suo mestiere. E’ così vero che mezzo secolo fa un poeta non ingenuo come il tedesco Enzensberger, in uno dei suoi fondamentali saggi, teorizzò la poesia come “antimerce”. Una tale teoria non era nata allora e non doveva essere presa troppo alla leggera: perché messa in mani stupide, diventa una teoria stupida. Quando Enzensberger parlò di poesia come antimerce erano anni in cui il mercato veniva visto come una bestia nera da ogni scrittore che si rispettasse e che volesse essere accolto negli esclusivi circoli di élite.

 Negli anni Sessanta ormai quella teoria aveva cominciato però a invecchiare: invece che come un fatto editoriale, la non facile vendibilità della poesia fu intesa come un programma letterario e diventò illeggibilità: poesia scritta per non essere letta, un vuoto riempito di parole. Solo che fra invendibilità e illeggibilità c’è una differenza. E’ la differenza che la neoavanguardia, per esistere come eterna provocazione, doveva fare finta di non capire. Il poeta tedesco aveva parlato di antimerce per mettere le mani avanti, ma scrisse le sue opere poetiche distinguendo bene fra il loro “valore d’uso” (possibilità di leggerle) e “valore di scambio” (vendibilità). Enzensberger in effetti è uno dei poeti europei più leggibili di fine Novecento.

Qui sorge un problema. Cosa vuol dire essere leggibili? Rimbaud e Mallarmé non è facile leggerli, ma non sono certo illeggibili. Richiedono un’intensificazione, una focalizzazione dell’atto di leggere. Chiedono di essere riletti. Invece leggere o rileggere molta poesia delle neoavanguardie è impossibile perché è inutile. Leggi e non sai che cosa c’è da leggere. Rileggi e non fai nessun passo avanti. Se nella rilettura non succede niente di nuovo e di fruttuoso, questa esperienza diventa retroattiva: dimostra che anche leggere è stato inutile.

 Accanto all’articolo di Buttafuoco, il Fatto pubblica un’intervista ad Andrea Cortellessa, il quale si occupa anche della evidente impreparazione del professor Asor Rosa in materia di letteratura attuale (vedi il suo “Scrittori e popolo / Scrittori e massa”). Questa impreparazione (oltre a moventi di cortigianeria editoriale) porta Asor Rosa a occuparsi quasi esclusivamente di autori Einaudi, casa editrice alla quale lo vediamo aggrappato da decenni con tutte le sue forze. Ma Cortellessa condivide con il professore un’idea che a me pare bizzarra, o che più precisamente è una fede: la poesia, poiché non ha mercato, sarebbe secondo loro migliore e più onesta della narrativa. Macché, non è così. E’ mediamente peggio della narrativa, proprio perché non ha mercato, non ha lettori. E un’arte senza pubblico (come la pittura) marcisce su se stessa, si autodistrugge immaginandosi libera e incontaminata. Per scrivere un romanzo o anche un mediocre romanzetto ci vuole un minimo di tecnica artigianale. Per scrivere il novanta per cento delle poesie italiane che circolano oggi, perfino antologizzate e commentate dai nuovi accademici, non ci vuole nessuna qualità, se non forse un po’ di specifica astuzia, dato che risultano essere niente e non si capisce, letteralmente non si capisce, come abbiano trovato qualcuno disposto a scriverle.

 Se Lo Specchio Mondadori chiude, insomma, qualche ragione c’è.

giorgio linguaglossa

giorgio linguaglossa, 2010

Commento di Giorgio Linguaglossa

È ovvio che condivido in pieno il giudizio di Alfonso Berardinelli, mi sembra ineccepibile. Mi sembra ineccepibile la valutazione di Berardinelli secondo il quale negli ultimi 30 anni le scelte editoriali dello Specchio siano state «quantomeno discutibili», e lo sono state, a mio avviso, perché non si è fatta più ricerca dei testi migliori, si è preferito rinunciare a ricerche lunghe e laboriose per preferire la scorciatoia della pubblicazione degli “amici” e dei sodali. Di questo passo, l’appiattimento qualitativo ha finito per deteriorare tutto il comparto della «poesia» e i lettori (intendo per lettori quei coraggiosi che acquistavano libri di poesia) si sono assottigliati fino a scomparire del tutto.

Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa, 2008

Non voglio fare una facile polemica, anzi il mio cordoglio è vero e sincero, per una collana (lo Specchio) che probabilmente chiuderà per assenza di utenti, ma è pur vero che quando un manager fallisce lo si cambia, questo almeno è il metodo adottato nei sistemi a economia capitalistica, può darsi che un altro manager-poeta riesca dove il precedente aveva fallito, e quindi è naturale che la proprietà editoriale cambi strategia e uomini. E non avrei nulla da eccepire neanche se la proprietà editoriale decidesse di sopprimere la collana un tempo prestigiosa de Lo Specchio se considerasse ormai il comparto in perdita irrimediabile. Una azienda in perdita e un prodotto privo di utenti, sono una contraddizione in termini.

VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo de Palchi, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

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UNA POESIA INEDITA  di Giorgio Linguaglossa da TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE (Three Stills in the Frame) traduzione di Steven Grieco Chelsea Editions 2015 pp. 330 dollari 20 Prefazione di Andrej Silkin

Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015

Prefazione di Andrej Silkin “TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE”

 Il linguaggio di poeti come Yeats ed Eliot non è più il linguaggio degli uomini del tempo di Wordsworth ma è un linguaggio «nuovo». Eliot mette a punto una sofisticatissima colloquialità. Quello che Yeats dice a Eliot noi lo potremmo rivolgere a Giorgio Linguaglossa e, più in generale, alla migliore poesia moderna. Scrive Yeats: «Eliot has produced his great effects upon his generation because he has described men and women that get out of the bed or into it from mere habit; in describing this life that has lost at heart his own art seems grey, cold, dry. He is an Alexander Pope working without apparent imagination, producing his effects by a rejection of all rhythms and metaphors used by more popular romantics rather than by the discovery of his own, this rejection giving his work an unexaggerated plainness that has the effect of novelty».

Giorgio Linguaglossa è, in un certo senso, il poeta meno italiano e più europeo della tradizione poetica italiana. Nato, come a lui piace dire, a Costantinopoli, vive da sempre a Roma, le due capitali dell’Impero romano. In lui coabitano le due decadenze: di Roma e di Costantinopoli; il senso della decadenza dell’impero d’Occidente e un nuovo paganesimo; il tardo impero della Roma di oggi con le sue feste orgiastiche e la corruzione; il disprezzo per il Palazzo del potere e il culto di Afrodite; il suo essere senza speranza senza essere disperato. Di qui la serenità luciferina del suo universo popolato da angeli gobbi, uccelli storpi, démoni e falsi angeli come Sterchele, da filosofi che non si piegano come Carneade e da imperatori mentitori come Costantino ma ci sono anche figure femminili dalla bellezza sconcertante: Enceladon, Beltegeuse, Marlene, la dama veneziana in maschera, la ragazza con l’orecchino di perla e poi l’humour noir disseminato ovunque. Il suo albero genealogico è presto detto: Mandel’štam, Eliot, Brodskij, Milosz, Herbert, Tranströmer fino a Zagajewski. È questa la sua costellazione ideale. Entro questa costellazione Linguaglossa coltiva ormai da trenta anni un discorso poetico che non ha analogie nella tradizione del Novecento italiano: con un linguaggio medio, quasi colloquiale, il poeta tocca il diapason dello stile sublime e del parlato della plebe. Roma, la città in cui vive, è ancora la città pagana della antica plebe, con i suoi tribuni e i suoi Menenio Agrippa, i faccendieri e i portaborse del paese più corrotto d’Europa. Del resto, un poeta come Linguaglossa non poteva sortire che da un paese uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale e in degrado morale e istituzionale, immerso in una profonda decadenza politica, economica e spirituale. La decadenza della Roma corrotta e l’inconsapevolezza dei suoi abitanti costituiscono il leit motif traslato della sua poesia, ne sono il filo conduttore. La poesia linguaglossiana non può vivere che all’interno dell’alcova della decadenza e della corruzione, in essa trova la sua linfa e la sua ragion d’essere.

foto dei miei genitori, Roma, 1946

foto dei miei genitori, Roma, 1946

La composizione che dà il titolo a questa Antologia «Tre fotogrammi dentro la cornice», è probabilmente la poesia che «rompe», anche dal punto di vista metrico, la tradizione della poesia italiana del Novecento: il metro utilizzato viene piegato alle esigenze delle immagini e delle metafore. Il metro viene curvato dalla forza di gravità delle immagini. Esattamente l’opposto di quanto si è fatto in Italia nella poesia del secondo Novecento che ha privilegiato un «parlato» piccolo borghese incentrato sulle vicende personali, sul privato, sulle occasioni, una poesia diaristica, del presente per il presente. Linguaglossa opta invece per una poesia che dal presente si proietta nel futuro. Una poesia dantesca, dunque, costruita con spezzoni di immagini e di metafore di inusitata felicità espressiva. Ricomporre l’infranto, ecco il proposito di Linguaglossa, un progetto di arditezza quasi insostenibile.

La poesia «Tre fotogrammi dentro la cornice» prende inizio dagli anni Trenta, quando i suoi genitori neanche si conoscevano e il bambino non è ancora stato concepito; si passa, nella strofa successiva, ad una fotografia degli anni Quaranta dei genitori del poeta scattata casualmente da un fotografo in una via di Roma. La poesia ha lo svolgimento di un gomitolo, inizia da un punto per abbracciare tutta la storia del Novecento italiano ed europeo con un crescendo drammatico ed epico fino al finale: il poeta sul letto di morte. Ci sono voluti venti anni per completare questa poesia. È probabilmente la composizione di maggiore ardimento della poesia italiana del dopo Montale. Nella costruzione della sua poesia Linguaglossa parte da un principio: che la poesia non ha sinonimi e che le metafore sono transitabili e traducibili da una lingua all’altra, passano da una poesia all’altra con lievi modifiche, che la poesia è una esperienza più che un significato, ovvero, che più significati disparati legati da un rapporto di inferenza e di inerenza danno quale risultato una esperienza significativa non più legata alla persona del poeta ma che è divenuta una esperienza di tutti, una esperienza collettiva, un patrimonio della collettività transnazionale e della Lingua. La poesia comunica prima ancora di essere compresa, ha una sua forza d’urto legata alla costellazione di esperienze di cui si fa portatrice.

His poetry has the two marks of «modernist» work, the liveliness that comes from topicality and the difficulty that comes from intellectual abstruseness. The topical and the intellectual, the lively and the difficult, these are effects of modernist work. I tratti metafisici nel lavoro di Linguaglossa sono evidentissimi, non per nulla nel 1995 egli firma un «Manifesto della nuova poesia metafisica» in assoluta contro tendenza con la prassi della poesia italiana del tempo. È per questo motivo che la indirezione, la reticenza emotiva, la metafora e la metafora antitetica (la catacresi) hanno un ruolo così vasto nella sua poesia, ma il principio sintetico che integra tutti i particolari della poesia è quasi sempre omesso, perché esso è presente in tutti i particolari un po’ e non si dà mai per intero, non reclama alcuna evidenza ma deve essere il lettore a individuarlo e riconoscerlo.

È la condizione dell’uomo nel tardo Moderno quello che sta a cuore a Giorgio Linguaglossa. Con le sue parole: «la poesia è soltanto uno strumento (sofisticatissimo) per la rilevazione delle quantità di isotopi di uranio e di cesio che si trovano nell’atmosfera (nella biosfera) dell’ambiente linguistico. Assodato che la democrazia del tardo Moderno è quella che reclama a gran voce che tutte le arti siano eguali, eguali in quanto tutte inessenziali; inessenziali in quanto tutte decorative, ne deriva che la tendenza al decorativismo costituisce il piano inclinato di tutta l’arte del tardo Moderno. Addirittura, risulta problematico financo discorrere di arte nel “reale” del villaggio globale e del villaggio mediatico, che conosce soltanto la diffusione dell’estetico, dato che se ne è perduto perfino il concetto; senza contare che un’arte senza stile quale è quello della poesia del tardo Moderno ricade e rientra nell’estetico per la porta di servizio (non certo per la porta principale). Direi che un’arte senza stile è quella che richiede la diffusione dell’estetico. Che cos’è l’estetico se non un “servizio” che la diffusione dell’architettura e del design permettono all’arte della democrazie dell’occidente europeo? Anche se è vero che tutte le filosofie che discettano di un’arte senza stile non sanno quello che fanno (impegnate come sono nell’eutanasia della libertà), in verità, essa sta incondizionatamente dalla parte della comunità servile, orgogliosamente partigiane della techné dei medaglioni

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Pompei, affresco 55-79 d.C., Terenzio Neo e la moglie

Il linguaggio poetico di Linguaglossa sta incondizionatamente dalla parte della libertà. Al poeta spetta il compito di utilizzare il linguaggio logorato della civiltà mediatica, un qualcosa di assolutamente inutilizzabile (non-orientabile, come il nastro di Moebius). Il linguaggio poetico è qualcosa che proviene già da uno scarto di qualcun altro e di qualcosa d’altro. Ed è proprio questo il particolare, diciamo così, statuto del linguaggio poetico contemporaneo. Quasi che una posizione di autenticità sia possibile soltanto aggiudicandosi dosi massicce di «scarti». Un’attesa senza futuro è destinata a diventare un intermezzo, un interludio, un interspazio temporale tra due punti del presente. Così si verifica una cancellazione dell’esistenza sospesa tra due punti. La cancellazione diventa la spia di una condizione oggettiva della condizione umana. È una poesia, questa di Linguaglossa, che non deriva più da alcun ordine delle cose, perché non c’è alcuna Ragione che presiede l’organizzazione totale della vita amministrata. Ciò che spetta alla poesia è presto detto: tenere alto il presentimento di un riscatto della condizione umana.

È il retroterra della Divina Commedia di Dante Alighieri quello da cui muove questa poesia, che si presenta come una sterminata galleria di personaggi che agiscono, sognano, lottano per la sopravvivenza. La sua forza espressiva deriva dalla consapevolezza del demanio di rottami e di scarti entro il quale la poesia è costretta a rovistare e saccheggiare. Le esperienze significative saranno, appunto, quelle che abitano stabilmente il demanio dei rifiuti indifferenziati della Storia sordidamente e sarcasticamente guidata dall’angelo Achamoth (l’angelo della Storia secondo la teologia cristiana).

Da quanto precede risulterà chiaro che la poesia di Linguaglossa si pone come zona refrattaria alle tendenze apologetiche del minimalismo europeo e occidentale proprio del tardo Moderno; siamo ben al di là della dimensione della superficie o superficiaria della poesia occidentale, della direzionalità indifferenziata e della stagnazione stilistica permanente della parte occidentale dell’impero.

È chiaro che il non-stile del tardo Moderno sia anche uno stile, anzi, lo stile par excellence del tardo Moderno: lo stile del beota, lo stile di servizio. Forse nessuno come Eugenio Montale ha compreso così a fondo le questioni legate allo stile da «ectoplasma» nell’epoca della pinguedine degli stili che caratterizza dagli anni Settanta del Novecento la poesia europea. Oggi, in pieno tardo Moderno, lo stile demotico trova il suo corrispettivo sintagmatico nello stile ironico colloquiale che prende in prestito dalla oralità della filmografia e del cabaret telematico la pinguedine della propria irresponsabilità estetica.

Da questi pochi cenni apparirà chiaro come Giorgio Linguaglossa sia tra i pochi poeti europei di oggi che scrive una poesia di responsabilità estetica, che ha il coraggio di addossarsi tutta la responsabilità derivante dallo statuto del proprio atto linguistico. Di qui il mio augurio di leggerlo e meditarlo.

pitigrilli Hitler-e-Mussolini

TRE FOTOGRAMMI DENTRO LA CORNICE

Anni trenta. La cartilagine delle stelle getta un’ombra.
Città di quinte e fondali che si spostano mentre

i personaggi del dramma stanno fermi; teatro di marionette,
regno infantile delle favole e dello spirito. Felicità.

Un bimbo gobbo con le ali salta giù dal melo fiorito
entra dalla finestra nella mia stanza e dice:

«il catalogo delle navi è pronto;
tra di esse c’è un mozzo di nome Omero

che ancora non conosce il passato perché non ha vissuto il futuro».
Mio padre è felice, anche mia madre è felice,

non sanno l’uno dell’altra; sulla ghiaia di piazza Bologna
corre il bambino che ancora non c’è;

una scimmia indossa la redingote, scarpe di vernice
e il cappello a cilindro; le camicie nere brulicano come vermi,

inneggiano al duce; Mussolini ha dichiarato guerra all’Inghilterra
ed io sono contento di non esserci.

Una foto degli anni quaranta. C’è mia madre che si affaccia
sul bordo della cornice: si guarda l’orlo della manica; vertigine;

fa un gesto come per schivare (!?) qualcosa o qualcuno
o forse nasconde (!?) in un cofanetto il bocchino d’avorio.

Nel primo stipo a destra del comò:
un fascio di lettere avvolte in un nastro azzurro,

sopra il comò un vaso con il volto saraceno, una maschera
di bianca maiolica, il portacipria senza cipria, il portamine d’argento,

la scatolina smaltata a fiori celesti, cammei con volti di avorio
rivolti a sinistra, il flacone bombato senza profumo,

il fermaglio d’argento per capelli, guanti di garza nera,
calze di seta impalpabili come ali di farfalla,

lo specchietto da borsetta annerito dal fumo delle bombe.
È arrivata una lettera, mia madre la apre; sono io

che scrivo: «Cartagine è stata rasa al suolo. Torno presto, la guerra è finita».
Delle ombre si abbracciano dentro uno specchio impolverato

gelidi venti si baciano in uno stagno.
Anonymous ha preso stabile cittadinanza: i suoi speaker

parlano alla radio con eloquio forbito.

Anni cinquanta. Cade la neve alla finestra.
Un bambino la osserva da dietro i vetri,

il padre ciabattino batte i chiodi sull’incudine
l’acido muriatico scava un solco nel vestito di velluto

di mia madre, una ninfa suona il flauto al cardellino
sul ramo di corbezzolo. Trilla il carillon,

sul davanzale brilla il rosso geranio nel vaso di maiolica
un lampo illumina il pane e il vino sopra il tavolo

un cavallo dalla bianca criniera galoppa sulla spiaggia
di fronte a un mare in tempesta… mi chiedo:

“che cosa significa il mare in tempesta,
mia madre, il cavallo biancocrinito, il pane e il vino sopra il tavolo?”.

Una gialla farfalla volteggia sopra un cirrico mare.

La giostra

La giostra

La grigia guarnigione dell’alba posa l’uniforme verdastra sulla città;
da qualche parte posata sulla ghiaia di piazza Winckelmann

c’è la giostra con i cavallucci a dondolo, il drago rosso,
il saraceno con il turbante azzurro che impugna la scimitarra

la macchinina a pedali…
Ecco che il congegno si mette in marcia:

tinnire di campanelli argentini;
il girotondo!, tutto si muove in senso antiorario

eppure è fermo, come nell’ambra di un milione di anni;
si spegne un lampione nel giardino buio:

resta il cigolio della giostra illuminata.

Stanza d’albergo; località balneare: mare, cielo azzurro, palmizi.
Sulla torre un rosso orologio.

Le lancette indicano l’immobilità del tempo.
Un grande cancello in ferro con lance a punta;

al di là aspri orti selvatici. Decido di entrare. Entro.
Un colonnato in candido marmo aggetta su una scala

ripida che scende nel buio.
“È il varco dell’Inferno”, penso con sgomento

questo pensiero sconnesso; nei penetrali ci sono finestre
murate e porte, tante porte di materia metallica.

Apro una porta.
La finestra è spalancata sulla ringhiera in ferro: al di là, il mare,

le imposte fanno entrare un fascio di luce all’interno:
una donna nuda canta davanti al mare;

una figura, vista di spalle, guarda fuori della finestra:
suona un violino; gouaches découpées scorrono all’orizzonte.

Il cavalletto e il pittore sono fuori quadro: noi non lo vediamo,
ma sappiamo che lui c’è.

gabriele d'annunzio e benito mussolini

gabriele d’annunzio e benito mussolini

Una fotografia degli anni quaranta.
Mio padre in divisa grigioverde dell’esercito italiano

a fianco c’è mia madre. Il suo volto si guarda allo specchio
(quello annerito dalle bombe) e parla dall’ombra

alla luna che si mette in posa per la foto,
ha i capelli ondulati;

camminano in una via della capitale come trafelati, corrucciati,
ma da chi, da che cosa (!?)

“dove stanno andando – mi chiedo – e perché così di fretta?”.
Quanti anni sono trascorsi? Che cosa c’è oltre

la cornice a sinistra della fotografia (!?)
Che cosa c’è oltre la cornice a destra (!?)

Una finestra dà sul cielo stellato: con il vestito dell’ombra la notte entra
nella stanza: una domestica rovista in una cassapanca,

esegue gli ordini della dama che sta sulla destra;
in primo piano la Venere di Urbino è distesa nuda, sul giaciglio

con la mano sul pube, il suo volto verso di noi che stiamo all’esterno,
e osserviamo il quadro di Tiziano.

Il sipario fa un passo indietro, Arlecchino incespica,
un putto alato scocca una freccia dall’arco, un altro putto

immerge la mano nell’acqua del sarcofago: osservano la fotografia.
Un fotogramma: il bancone della tabaccheria, Paternò.

Mia madre vende sigarette agli avventori
gira la chiave nella serratura, chiude la porta,

getta la chiave nello scrigno, prende con sé il vestito di velluto.
La grande casa immersa fra gli aranci adesso parla.

Il cielo è azzurro e il sole sfolgora sereno.
Riavvolgiamo il nastro del tempo: 1945. Russia.

Lenzuolo di neve; una mitragliatrice spara nella tormenta.
Così il periscopio gira cattura lo spazio

i ricordi parlano una lingua straniera
vanno a caccia delle anime che diventano ombre.

Una bandiera bianca prende vita dal mare.

Las Meniñas: qui a sinistra c’è l’infanta Margherita in guardinfante
con i valletti premurosi, le damigelle d’onore e il nano, l’italiano

Nicola Pertusato che si volta verso di noi; alle spalle di Velazquez
un intruso spia dal vano della porta. La commedia degli sguardi

è il dramma, o la farsa, degli equivoci.
Lo sguardo di chi osserva è l’effrazione di una serratura,

irruzione della profondità, divisibilità del visibile.
Vivere per anni contro se stessi mescendo saggezza e idiozia,

guardare dietro i vetri spessi d’una finestra
inoltrarsi irresoluto il triste principe di Danimarca.

«È questo il mio teatro?»; «sì, è questo Sire, dovete recitare».
Un fotogramma del Novecento.

Statue bianche sulle scale mobili salgono e scendono,
la veranda ospita il canto del gallo

e il sole tramonta sempre di nuovo sul mare azzurro.
Mia madre fa in fretta i bagagli, deve andarsene lontano,

prendere il largo, a occidente, a oriente,
Costantinopoli, Samarcanda, oltre il meridiano di Greenwich,

fa lo stesso.

Kokoschka dipinge a tinte forti il Colosseo
Bach insegna liturgia in una canonica di campagna

e Rembrandt sul cavalletto ritrae mio padre di spalle.
Frammenti di un percorso di fuga.

Si apre una cornice. Palazzo Medici Riccardi, cappella dei Magi.
Sulla parete occidentale cavalcano i Magi che indossano manti striati,

il pittore, Benozzo Gozzoli, dipinge un cardellino sul ramo di corbezzolo;
a sinistra, si apre una finestra nella cornice: Venezia.

Ponte di Rialto. Una dama di cristallo
indossa un guardinfante di seta azzurra, sorride, si volta

verso di me che sono nato nel futuro,
agita febbrilmente il ventaglio

e passeggia tra i leoni di piazza San Marco.
Città di trine e merletti, laguna di vetro;

sul suo volto una maschera di bianca maiolica;
alla sua destra, un paggio in livrea celesteazzurra a righe verticali

reca sulla spalla una scimmia che agita la coda e strilla,
l’inchino di un cicisbeo con la parrucca incipriata

che lei arresta con un gesto goffo… È così bella!
Il bianco guardinfante della dama solleva l’oscurità

diventa diafano e leggero come un pallone di piume…
– si apre un’altra finestra nella seconda cornice –

una gialla farfalla si alza in volo dal suo zigomo
e scompare al di là della fronte, sopra il limite della cornice.

pitigrilli Benito_Mussolini

Terza cornice del pensiero.
Mia madre bambina. Distesa di limoni e aranci. Sicilia.

Frugo nel secondo stipo del comò:
un calamaio, inchiostro di china, carta di riso azzurra,

una stilo col pennino d’oro, cianfrusaglie, una foto:
mia madre con il suo uomo negli anni cinquanta. Roma.

Atelier del pittore: Tiziano dipinge ancora l’amor sacro e l’amor profano.
Mia madre, la dama veneziana del Settecento

con il volto di bianca maiolica, il diafano guardinfante,
mio padre in divisa grigioverde. Che cosa significa?

Perché tutto ciò?
C’è una connessione o una sconnessione?

Una cucitura o una scucitura?
Un salto o una cicatrice?; quarta, quinta, sesta cornice

del pensiero (…) Roma, la finestra sul cortile, 1954;
– quale secolo cade in questo cortile? –

piazza Bologna, il triciclo, il bambino che corre attorno al palazzo;
via Lorenzo il Magnifico n. 7:

il negozio di calzolaio di mio padre
con la pelle di coccodrillo in vetrina.

Il Signor Anonimous, in abito scuro, entra nel negozio.
«Godete di una bella vista da qui», dice; ed io penso:

“È così ben vestito!”; «sì – rispondo – abbiamo un bel panorama».
«Vostra signoria resta qui stasera?»,

replica l’interlocutore voltandosi di scatto.
Mia madre spalanca la finestra: «è primavera?», chiede a se stessa

o al misterioso convenuto?, mentre Tiziano al piano di sopra
si prepara a fare le valigie. Venezia se ne va al largo, si allontana,

indossa una maschera bianca, diventa irriconoscibile.
«Vostra Maestà, voi mi ordinate di restare qui?», chiedo all’improvviso

ma Anonimous si volta verso la finestra aperta sul mare.
«Il Signor Posterius questa mattina si è ferito

a un gambo di rosa pungendosi il dito», dice Tiziano,
«Anonimous è uscito in una notte di luna piena»,

(«per andare dove?», gli chiedo)
«dei ladri sono entrati nel negozio dei fragili cristalli

e Benozzo dipinge ancora il cardellino sul ramo di corbezzolo».
«Tutto qui?»; «tutto qui, non c’è altro».

Una porta di cristallo, la Signora in guardinfante gira la maniglia.
Profumo di vaniglia, cipria e borotalco

tetralogia degli specchi alle quattro pareti.
È lei, mia madre, la dama veneziana che abita il Settecento?

Il secolo dei lumi e della tolleranza?

Un salone giallo.
Il cancelliere von Müller, il fido Eckermann e la sua amante Charlotte von Stein

ai piedi del letto: il poeta è morente.
Un vento gelido spira dai monti innevati.

Da una porta laterale, di fronte allo specchio, fa ingresso teatrale
un Signore incipriato vestito di nero,

si muove a scatti, con movimenti rigidi, algidi, legnosi,
dispensa motti sul galateo, bon ton, idiotismi

e profezie a buon mercato.
«Signori, la recita è finita. Sipario.»

(1992-2013)

THREE STILLS IN THE FRAME

The 1930s. The cartilage of the stars casts a shadow.
Cities made of wings and backdrops move, while
the characters of the play stand still. A puppet theatre,
a child’s kingdom of fairy tales and the mind. Happiness.
A hunchback boy with wings jumps down from the blossoming apple tree,
enters my room through the window and says:
“The catalogue of ships is ready:
amongst them is a deck-hand, Homer by name,
he still doesn’t know the past because he hasn’t seen the future.”
My father is happy, and my mother is happy, too.
Neither knows about the other. A child yet to be born
runs on the gravel in Piazza Bologna.
A monkey puts on a redingote, patent leather shoes
and a top hat. Blackshirts spread everywhere like worms,
saluting the Duce. Mussolini has declared war on England
and I’m happy not to be there.

A photo from the 1950s. My mother is there, looking out over the edge
of the frame. She’s looking at one of her shirt cuffs. Vertigo.
She makes a gesture as if to avoid (!?) something or someone,
or is she hiding (!?) the ivory cigarette holder in a case.
In the first drawer of the dresser, on the right,
a bundle of letters tied together with a blue ribbon.
On top of the dresser, a vase with the face of a Moor, a white majolica mask,
the powder-compact without the powder, the silver propeller pencil,
the little blue-flowered enamel box, cameos with ivory faces facing left,
the perfume bottle without the perfume, the silver hair clip, black gauze gloves,
silver stockings impalpable as a butterfly’s wings.
The looking glass in the purse blackened by the smoke of bombs.
A letter has arrived, my mother opens it: it’s me writing:
“Carthage has been razed to the ground. I’m coming home soon,
the war is over.
Shadows hug each other inside a dusty mirror,
ice-cold winds kiss in a pond.
Anonymous has taken on full citizenship. Its speakers
talk on the radio with a polished eloquence.

roma donna acconciatura 4

The 1950s. Snow falls outside the window.
A child watches the snow from behind the glass panes,
his cobbler father hammers the nails on the anvil,
the hydrochloric acid burns a groove in my mother’s velvet dress,
a nymph plays a flute for the goldfinch on a branch
of the strawberry tree. A music box chimes,
on the window sill a red geranium glows in the majolica vase,
a flash of lightning lights up the bread and wine on the table,
a white-maned horse gallops on the beach
in front of a stormy sea.
And I wonder: “the stormy sea, my mother,
the white-maned horse, the bread and wine on the table – what do they mean?”
A yellow butterfly flits over a cyrrhus-thronged sea.

Dawn’s grey garnison lays down its greenish uniform on the city.
Somewhere on the gravel in Piazza Winckelmann
is a merry-go-round with hobby horses, a red dragon,
a blue-turbanned Moor with a sabre in his hand.
The toy car with treadles.
Now the platform starts turning, silvery bells tinkle:
ring-around-a-rosy! Everything moves counterclockwise
and yet lies still, like inside amber a million years old.
A lantern in the dark garden goes out.
The creaking, lit-up carousel remains.

A hotel room. A seaside resort. Sea, blue sky, Canary palms.
A red clock on the tower.
The hands point to the stillness of time.
A great iron gate with pointed stakes.
Beyond, overgrown kitchen gardens. I decide to go in. I go in.
A row of snow-white columns jutting out onto a steep
staircase descending in the darkness.
“It’s the Gate to Hell,” I think, in a muddled way,
and I’m frightened. The penetralia have bricked-up
windows and doors, lots of metal doors.
I open one of them.
A wide open window, an iron railing outside: beyond is the sea,
a ray of sunlight comes in through the shutters.
A naked woman sings in front of the sea.
A figure, seen from behind, is looking out of the window,
playing the violin. Gouaches découpées run along the skyline.
The easel and the painter are outside the canvas:
we don’t see him, but we know he’s there.

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

pittura parietale stile pompeiano volto femmimile

A photo from the 1940s.
My father, wearing an Italian Army uniform.
My mother stands beside him. Her face looks at itself in the mirror
(the one blackened by bombshells) and from the darkness speaks
to the moon which poses for a picture,
has wavy hair.
They walk down a street in Rome as if worried and out of breath:
who or what are they running from?
“Where are they going,” I wonder, “and why in such a rush?”
How many years have passed? What is outside
the frame, on the left of the picture?
What is outside on the right of the picture?
A window looking out on a starlit sky. Clothed in a shadow,
night enters the room. A maid searches for something in a chest,
follows instructions given by a lady on the right.
In the foreground the Venus of Urbino lies naked on the bed,
one hand on her crotch, facing us who are on the outside
looking at Titian’s painting.
The curtain takes one step back, Harlequin stumbles,
a winged putto shoots an arrow from his bow,
another putto dips his hand into the water
inside the sarcophagus. They look at the picture.
A still: the tobacco counter, Paternò.
My mother sells cigarettes to patrons,
turns the key in the lock, closes the door,
tosses the key into a jewel box, takes the velvet dress along with her.
Now the big house in the orange grove speaks.
The sky is blue and the sun shines quietly.
We rewind the tape of time. 1945. Russia.
A sheet of snow. A submachine gun firing in the snowstorm.
The periscope turns, capturing space,
memories speak a foreign language,
they go hunting for souls that turn into shadows.
A white flag comes alive over the sea.

Velazquez Las Meninas

Velazquez Las Meninas

Las Meniñas: here on the left is the Infanta Marguerita in crinoline
with solicitous valets, ladies-in-waiting and the dwarf, the Italian
Nicola Pertusato, who turns and looks at us.
Behind Velazquez an intruder eavesdrops at the door.
The comedy of looks is the drama of errors
(or is it the farce of errors).
The observer’s glance burgles through a keyhole,
depth breaking in, divisibility of the visible.
Living for years against oneself, mixing wisdom and idiocy,
watching from behind thick windowpanes
Denmark’s sad prince coming in with hesitant steps.
“Is this my theatre?” “Yes, it is, Sire, and you’re being asked to act.”
A still from the 1900s.
White statues move up and down on the escalators,
the veranda hosts the cock’s crow, and the sun
sets time and again over the blue sea.
My mother quickly packs her bag, she has to go far away,
she has to reach the open sea, westward, eastward,
Constantinople, Samarkand, beyond the meridian of Greenwich,
what difference does it make.
Kokoshka uses strong colors to paint the Colosseum,
Bach teaches liturgy in a country parish
and Rembrandt on the easel depicts my father seen from behind.
Fragments from a headlong flight.

A frame opens up. Palazzo Medici Riccardi, the Magi Chapel.
On the western wall the Magi on horseback wear striped cloaks.
The painter, Benozzo Gozzoli, paints a goldfinch on a branch of the strawberry tree.
On the left, a window opens inside the frame: Venice.
The Rialto bridge. A crystal lady
wears blue silk crinoline, smiles, turns
in my direction – I, who am born in the future.
She feverishly waves her fan
as she strolls amid the lions in St. Mark’s Square.
City of lace, glass lagoon.
A white majolica mask hides her face.
On her right, a page in light-blue striped livery
carries on his shoulder a monkey who moves his tail and shouts;
a cicisbeo with a powdered wig makes a bow
she stops him with an awkward gesture. She’s so beautiful!
The lady’s white crinoline lifts the darkness,
becomes translucent, light as a ball of feathers.
Another window opens in the second frame –
a yellow butterfly wings up from her cheekbone
vanishing on the other side of her forehead, outside the frame.

roma donna acconciatura 1

The third frame in my mind.
My mother as a little girl. Spreading grove of lemon and orange trees. Sicily.
I search in the second drawer of the dresser:
an inkwell, china ink, sky-blue ricepaper,
a fountain pen with a golden nib, knick-knacks, a photo:
my mother with her partner in the 1950s. Rome.
The painter’s atelier: again Titian is painting sacred and profane love.
My mother, the 18th century Venetian lady
with a face of white majolica, the translucent crinoline,
my father wearing an Italian Army uniform. What does it mean?
Why all this?
Is it a connect or a disconnect?
A seam, or its unseaming?
A leap or a scar? Fourth frame, fifth, sixth frames in my mind.
Rome, a window on the courtyard. 1954.
What century falls in this courtyard?
Piazza Bologna, the tricycle, the little boy runs around the building.
Via Lorenzo il Magnifico, 7.
My cobbler father’s workshop
with the crocodile skin in the shop window.
Mr. Anonymous, in a dark suit, enters the shop.
“You have a beautiful view here,” he says.
“He’s so well dressed,” I think.
“We have a lovely panorama,” I reply.
Turning abruptly, my interlocutor says:
“Are you staying here this evening, sir?”
My mother opens the window wide. “Is it Spring?”
Is she just wondering, or asking the mysterious person?
Meanwhile, Titian starts packing his bags upstairs.
Venice reaches the open sea, grows distant,
wears a white mask, becomes unrecognizable.
I blurt out: “Your Majesty, do you order me to stay here?”
But Anonymous turns to the window open onto the sea.
“This morning Mr. Posterius got hurt –
he pricked his finger touching the stem of a rose,” says Titian.
“Anonymous has gone out on a full moon night,”
(“Going where?” I wonder)
“Thieves have broken into the shop of fragile crystals,
and Benozzo is still painting the goldfinch perching on a strawberry tree.”
“Is that all?”
“That’s all, nothing else.”
A crystal door, the Lady in crinoline turns the door knob.
A scent of vanilla, face powder and talcum powder,
a tetralogy of mirrors on the four walls.
Is the Venetian lady from the 18th century my mother?
The century of enlightenment and tolerance?

A yellow drawing room.
Chancellor Von Müller, the trusty Eckermann and his mistress Charlotte von Stein
at the dying poet’s bedside.
An icy wind blows down from the snow mountains.
From a side door, in front of the mirror, enter a gentleman
with a flourish, powdered and dressed in black.
He moves jerkily, with stiff, frozen movements,
dispensing maxims on etiquette, bon tons, idioms
and cheap prophecies.
“Ladies and gentlemen, the performance is over. Curtain.”

(1992-2013)

43 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica dell'estetica, critica della poesia, Il poeta e lo specchio

L’IMMAGINE NELLA POESIA CONTEMPORANEA – DIALOGO A PIU’ VOCI avvenuto sull’Ombra delle Parole: Gezim Hajdari, Steven Grieco, Giorgina Busca Gernetti, Letizia Leone Giorgio Linguaglossa, Flavio Almerighi, Lucia Gaddo Zanovello

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Le Trou Noir, lithographie et dessin (1992) de Jean-Pierre Luminet

Steven Grieco

Steven Grieco

Caro Gezim,

finalmente ti scrivo! Mi ha fatto molto piacere vederti mercoledì scorso con gli altri della redazione de L’Ombra, così ci siamo potuti conoscere un po’ meglio.

Leggendo la tua poesia, Gezim, e meditandola, ho visto bene come anche tu hai l’istinto, che appunto è istinto prima ancora di essere scelta cosciente, di esprimerti in poesia attraverso una immagine visiva forte.

In effetti, io penso che la poesia, quella italiana sicuramente, ma anche quella di tante altre lingue, abbia sofferto molto negli ultimi decenni proprio perché si è allontanata dall’immagine visiva come veicolo del sentimento poetico e della riflessione profonda, preferendo invece uno stile basato sulla riflessione “oggettiva” delle cose. Intendo una oggettività che doveva vedere “il vero della vita”, invece è andata sempre più a basarsi sul consenso sociale, sull’approvazione del prossimo, una sorta di borghesia della poesia, che ha sicuramente dato qualche buon risultato (posso pensare in inglese a un Philip Larkin, un Robert Lowell) ma che ha presto fatto il suo tempo, e non ha aiutato i poeti più giovani a trovare una propria voce al di fuori di questo schema troppo restrittivo troppo ridotto.

Va bene, io non voglio fare una grande analisi della questione, non sono nemmeno equipaggiato criticamente per farlo, so soltanto che la mia lettura di tanti e tantissimi poeti dei nostri tempi mi ha portato a questa sorta di conclusione. Un linguaggio poetico si è inaridito, e, complice la situazione culturale che viviamo attualmente, non è più ahimé successo niente di nuovo, o solo in rare occasioni, grazie a rari poeti.

Questa visione immaginifica della poesia è una cosa che, a quanto pare, siamo però in tanti a condividere. Sicuramente, fra questi, Giorgio, tu e io.

Non so se hai visto il mio post che abbiamo messo sabato scorso su “L’Ombra delle parole”, sul tema dell’autoritratto. Erano composizioni le mie nelle quali non solo affronto la questione dell’autoritratto in poesia, ma cerco di mostrare come il rapporto soggetto-oggetto così caro a una certa visione del mondo, viene in qualche modo privata della sua supposta “universalità” quando l’oggetto non è più necessariamente il volto del poeta, ma diventa invece il paesaggio (della Natura o urbano) in cui egli si identifica totalmente (così come oggi noi capiamo che senza l’ambiente non sopravviveremo a lungo). Questa identificazione porta la consapevolezza del modo in cui noi come artisti interveniamo sul mondo, come in realtà lo plasmiamo e come il mondo plasma noi, quasi invisibilmente.
In effetti, c’è stata una discreta risposta da parte dei lettori, che hanno scritto dei commenti anche molto belli. Sia in quella occasione, ma anche in mesi precedenti, Giorgio e io abbiamo come dire affrontato questa questione della dimensione immaginifica nella poesia.

La cosa strana è che Giorgio e io non abbiamo mai formulato un programma comune, ma il dibattito è nato in modo naturale nel corso degli ultimi mesi. Questo ovviamente perché tutti e due condividiamo certe idee fondamentali sulla poesia.

Ecco, io pensavo, perché non ti unisci anche tu a questo dibattito? Non si tratta di teorizzare la nostra ispirazione, ma di dire cose al di fuori della poesia che però vertono sulla poesia. Possiamo arricchirci tutti insieme. Proprio perché i nostri stili sono da tempo formati, ma lo stesso non è vero per i poeti più giovani che forse sarebbero felici di seguire un dibattito di questo tipo.

Un caro saluto e buon lavoro,

(Steven Grieco)

2015-04-23 18:19 GMT+02:00 gezim hajdari <gezim_hajdari@yahoo.it>:

Gezim Hajdari Siena 2000

Gezim Hajdari Siena 2000

Caro Steven,

come stai? da un po’ di tempo no ci sentiamo, comunque ti leggo sempre con piacere sulL’Ombra, sia come poeta, che critico e traduttore. Scusa la mia latitanza sui commenti del blog, a dire la verità non sono bravo per niente nel scrivere recensioni di critica. Credimi. Inoltre, a causa delle difficoltà economiche, che sembrano non avere mai fine, vivo senza internet in casa.
Intanto trovo l’occasione per ringraziarti di cuore delle tue belle e nobili parole relative alla mia poesia pubblicate ieri sul blog di Giorgio. La tua osservazione sulla mia poesia è verissima, acuta e assai particolare. E’ proprio come scrivi tu, la poesia balcanica è molto legata al mito, all’oralità e all’epica. I miei provengono dal Nord d’Albania, dove regno per 500 anni il Kanun, Codice Giuridico Orale, Codice d’Onore per gli Albanesi delle Alpi. Quindi i miei avi Montanari, che resistettero all’occupazione Ottomana, dal 1479 al 1912, in assenza di uno Stato Giuridico Ottomano, si autogovernarono tramite il Kanun. Questo Codice si basava sulla parola, non c’era nulla di scritto. Alla base del Kanun, c’erabesa, la parola data, la promessa, la fedeltà alla parola. Tutta la vita del montanaro, dalla nascita alla morte, era disciplinata dalle le leggi orali del Kanun, che si tramandavano di generazione in generazione, di padre in figlio. Questa tradizione orale creò una patrimonio epico inestimabile: l’Epos Albanese, che comprende Epos popolare, Epos eroico, Epos dei prodi. Come tu sai meglio di me, tale tradizione ha origine nella lontana età micenea. Ancora oggi, pur se sono trascorsi più di tre mila anni, la poesia balcanica è rimasta balcanica, come è rimasta omerica quella greca.
Il poeta-rapsodo della mia stirpe è stato sempre un uomo coraggioso e impegnato, che si spingeva oltre la propria arte guidando la propria comunità nel labirinto della vita quotidiana a intendere in modo retto e impegnativo verità superiori. Nella Grecia antica, Sofocle era un buon cittadino, impegnato, due volte stratega di Atene e facente parte dei sei magistrati che fecero la Costituzione della sua Città-Stato.
Nella Grecia arcaica il letterato cantava alle vicende, mentre nel periodo classico il letterato parlava sempre al popolo, considerandosi portavoce della comunità, incaricato da una missione civile, pedagogica della intera cittadinanza, che aveva rapporti diretti con lui ed era insieme pubblico, giudice e committente. A Roma il letterato svolgeva una funzione pubblica nella sua qualità di cives romanus.
Mio padre sapeva a memoria più di 10 mila versi. Nella mia infanzia, prima di dormire, io dovevo imparare 100 versi a memoria, era un dovere per ogni membro della famiglia degli albanesi del Nord. Tutto questo per non far morire la memoria millenaria della stirpe. E’ così che si sono tramandate le Veda Indiane, le opere di Omero e di Socrate. Non a caso quest’ultimo non scrisse nulla sulla pergamena dell’epoca, riteneva che la scrittura uccidesse la memoria. Ha provato anche Platone di non scrivere dicendo che fare il filosofo è un modo di fare, di essere e di pensare, non di scrivere. Ma per fortuna poi cambiò idea e decise di scrivere i suoi trattati filosofici e spirituali.
E’ per questo che io scrivo non per essere creduto ma per tramandare la memoria alle prossime generazioni. Comunicando con l’Occidente come balcanico, cercando di fondere la grande tradizione epica balcanica con la grande poesia lirica del Novecento europea. Penso che sia questa la differenza tra me e i miei colleghi migranti in Italia e in Europa, che diversamente da me scrivono come se fossero dei poeti del luogo. Si tratta di una brutta trappola che ha intrappolato molti miei colleghi in Francia, Inghilterra e in USA.
Comunque ne parleremo con calma durante i giorni del Festival di Campobasso.
Un caro saluto e a presto.
Gezim Hajdari
 

 POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno” | L’Ombra delle Parole

giorgio linguaglossa 2011

giorgio linguaglossa 2011

caro Flavio,

qualche giorno fa, conversando con Antonio Sagredo, qui a Roma nei pressi della Metro San Paolo dove abito, mi rivelava che aveva adottato un verso di un altro poeta di cui non ricordava il nome ma che cominciava con M, ma, proseguiva, aveva avuto il sospetto che M avesse preso a prestito quel verso da un poeta precedente (infatti stava facendo ricerche…). Insomma, il verso era: «La pupilla armata convoca il delirio». Io ho risposto a Sagredo che il verso aveva una sua bellezza baroccheggiante ma che non avrei mai potuto scrivere un verso del genere, non corrispondeva alla mia filosofia e al mio stile, ma, aggiunsi, capivo però che era un verso dotato di un certo fascino, anche se di un tipo di fascino che non amavo e che non condividevo.
Fin qui la storia.
Perché l’ho raccontata?, l’ho raccontata per rispondere indirettamente a Flavio Almerighi. In fin dei conti, la poesia è un corpo unico che attraversa i secoli e i millenni, è un rimando continuo, una citazione continua e una risposta alla citazione… le filastrocche dei cantautori invece sono filastrocche e basta, non comunicano tra di loro se non per le necessità di mercato e musicali della musica applicata ai testi. La poesia, e questo è importante, è restia alla musica applicata, vive di se stessa.

      • flavio almerighi

        flavio almerighi

        almerighi

        2 maggio 2015 alle 14:43 Modifica

        Caro Giorgio, Sagredo da riformattare a parte, trovo la tua risposta un po’ semplicistica. Io non sto parlando dei soliti noti da De André in giù, io sto parlando di una stirpe di poeti, molto più musicali del poema giocagiò della Perrone o dell’erotismo poelnta e osei della Leone, giusto per citare un paio di nefandi post recentemente apparsi, che hanno prestato poesia alla canzone, Parlo per esempio di Roberto Roversi, di Pasquale Panella di Pier Paolo Pasolini se pure in tono più minore, e anche con Piero Ciampi.. Con questi dobbiamo fare i conti, e il post con le poesie di Grieco così asciutte e così belle mi ha fornito lo spunto per parlarne. Non possiamo classificarli a facitori di filastrocche per meri motivi commerciali.

        “Il mare
        al tramonto
        salì
        sulla luna
        e senza appuntamento
        dopo uno sguardo
        dietro tendine di stelle
        se la chiavò”

        Ti ricorda qualcosa?
        E’ una canzone di Zucchero, dirai. Sbagliato.
        E’ il plagio di una poesia di Piero Ciampi da parte di Zucchero, che solo in seguito ad una causa intentatagli riconobbe il “furto” e citò la fonte nelle ristampe del suo disco. Non è che il povero Sagredo ha preso il verso da Ciampi?

    1. Giorgina Busca Gernetti

      Giorgina Busca Gernetti

      Colpisce subito, di Steven Grieco, la “clarté” del dettato, sia in prosa sia in poesia.
      Che ciò derivi dall’assidua frequentazione degli Haiku o dalla sua intima natura non si potrebbe affermare con certezza. Spicca evidente, però, il linguaggio elegantemente semplice, in cui le parole si susseguono con naturalezza senza ricerca di artifici retorici o di un lessico raro.
      È molto utile la parte critica introduttiva in cui il poeta illustra la sua concezione di autoritratto e di uomo allo specchio, aggiungendo una parte diaristica: ciò consente al lettore di non sentirsi disorientato di fronte alle poesie molto originali, rispetto agli autoritratti in poesia di noti poeti.
      Parafrasando la frase di Harold Pinter citata da Steven Grieco, sostituendo a “muovi di un millimetro e l’immagina cambia” “sposta di un istante”, la nostra immagine riflessa dallo specchio sarebbe egualmente diversa da quella di un istante prima, poiché, secondo me, la visuale muta secondo lo stato d’animo che non è mai immobile nello spazio e nel tempo, ma sempre in tumulto e in divenire. Non siamo e non sembriamo sempre gli stessi.
      Gli autoritratti di Steven Grieco e l’uomo allo specchio non sono immagini fisse come in una fotografia ormai stampata, ma sono eventi, quindi atti in divenire in cui può accadere che il personaggio creda di poter vedere una cosa che gli è nota e invece, guardando bene, ne vede un’altra, sebbene simile, come i fiori bianchi del pero o altre fioriture di altri alberi.
      Anche la fotografia, non solo l’immagine resa dallo specchio, non coincide perfettamente con l’identità del soggetto. La fotografia trasforma la nostra immagine in relazione a tanti fattori che un bravo fotografo conosce (non mi riferisco al ritocco fotografico). L’immagine resa dallo specchio spesso è diversa da uno specchio all’altro, in relazione alla qualità e alla forma della superficie riflettente, alla luce e all’eventuale antichità dello specchio.
      Tutto, dunque, è relativo, quindi l’autoritratto né si prefigge di riflettere perfettamente l’identità del soggetto, né vi riesce, pur volendolo, sia con i colori, sia con le parole.
      Non analizzo una ad una le pregevoli poesie di Steven Grieco perché gli farei torto: la vera poesia si spiega da sola. Mi attira, però, “Senza Titolo”:
      .
      Nessun branco di cervi nella radura.
      .
      La concentrazione invisibile
      alla sorgente ferma del pensare:
      allora, senza nemmeno uno specchio,
      vedesti l’immagine di te stesso.

      (1986)
      .
      Credo anch’io che l’immagine più fedele del soggetto, senza bisogno di specchio, sia nel profondo del pensiero, nella mente, nell’animo. Forse!

      Giorgina Busca Gernetti

        • Corrige: “susino”, non “pero”.
          Comunque entrambi gli alberi da frutto hanno una splendida fioritura bianca molto simile a “quell’altro biancore”.
          GBG

          Lucia Gaddo Zanovello
          Lucia Gaddo Zanovello

          Lucia Gaddo Zanovello

          2 maggio 2015 alle 16:09 Modifica

          Credo che ciascuno di noi sia talmente in continua mutazione da risultare molto difficile l’autoritratto, sotto qualunque forma, non può trattarsi che di un’istantanea. Quello che ha del mirabolante è l’eventuale ‘riconoscersi’, il che accade raramente. Nelle istantanee che restano o non restano del temporaneo resiste l’attimo di di ciò che fummo. Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.
          Tanto mi interessa l’attimo dell’”io nascosto” in ciascuno di noi, che forse può essere solo ‘sfiorato’, proprio come dice Steven Grieco nella sua poesia, da parermi, questi, attimi di verità, che qui, nelle poesie di Steven Grieco trovo in abbondanza.
          Avverto anch’io in questi testi il nitore orientale della sintesi felice, come in quello più volte citato del susino, dove trovo il folgorante assunto “incredulo/ guardai a lungo quell’altro biancore”.
          Ma sono rimasta molto impressionata in “Autoritratti”, da passaggi come questo: “Niente sgretola l’ignaro che non vede,/ aggiogato, indistruttibile:/ che continua la sua fuga, si disfa e/ si ricrea, di corpo in altro corpo.” o quest’altro: “…i visi gettati qua e là:/ gli sguardi che dormono incatenati.” che sono, secondo me, da studiare e ristudiare.

    1. Steven Grieco

  1. Grazie a Giorgio per questi commenti su precisi aspetti della mia poetica. Non ha fatto che arricchire il mio lavoro. In effetti, se la critica e l’analisi letteraria devono servire a qualcosa, è proprio a questo: illuminare il senso di una scrittura, contestualizzarla, dare strumenti per interpretarla meglio. Da quando ci conosciamo (un anno, poco più), Giorgio ha spesso preso coraggio e commentato la mia poesia, che viene detta “difficile” (a Delhi come a Roma), e non posso dire quanto gliene sono grato.
    Riguardo a Fenollosa, fantastico! Bisognerebbe che ciascun poeta si leggesse quei passi, per avere in mano oggi uno strumento potente – la comprensione della dinamica profonda dell’immagine, della sua ontogenesi (posso usare questo termine?) – per lasciarsi alle spalle un certo ristagno e meglio capire come la strada della poesia può andare avanti.
    Un importante studioso cinese-francese, Francois Cheng, parla proprio di questo nel suo splendido libro “L’Écriture poétique chinoise”, 1977, édition revisée 1982, Éditions du Seuil, Parigi.
    Premetto che la visione cinese, e specificamente taoista, ci rende un mondo Cielo-Terra-Uomo, inteso come un insieme unico e interconnesso e ininterrotto, un Pieno che viene messo in moto dinamico dal soffio inesausto del Vuoto. (E scusatemi per questa affrettata riduzione di un pensiero grande e importante.)
    Su questa base, l’unicità della visione estetica cinese nasce dal primo, primordiale, tratto del pennello, quello che traccia una linea nera sul foglio bianco (il Vuoto), e che è lo stesso per calligrafia, poesia e pittura. Perché in tutte e tre queste arti, l’espressione è sempre veicolata dal’immagine visiva. Nel caso della calligrafia e della poesia, quell’immagine è costituita dall’ideogramma, essere complesso che cela in sé molteplici significati, e che a volte sembra dotato di una sua coscienza, e perfino di poteri speciali (ma poi nella pittura si aggiunge spesso una poesia nella parte dove sta il vuoto, ciò che imprime al quadro, ossia alla dimensione spaziale, anche il senso temporale).
    L’uomo è dunque pienamente partecipe della realtà del mondo in ogni suo minimo particolare, che lui stesso plasma; egli è sempre tutt’uno con la natura e l’ambiente, che lo pervadono e che lui pervade.
    Come tradurre questa nozione in realtà poetica?
    Nel periodo Tang i poeti iniziano a parlare di parole piene e parole vuote. Le parole piene sono sostantivi e verbi (divisi in verbi di azione e verbi di qualità), le parole vuote sono pronomi personali, avverbi, preposizioni, congiunzioni, etc (pag 30).
    A pagina 33 del suo libro, Cheng dà un esempio che vi traduco:

    Sonno di primavera ignorare alba
    tutto intorno udire canto di uccelli
    notte passata: rumore di vento, pioggia
    i petali caduti, chissà quanti…

    E dice: “il lettore è invitato a entrare… nello stato un po’ vago del dormiente appena sveglio. Il primo verso non colloca il lettore davanti ad uno che dorme, ma lo situa al livello del suo sonno, un sonno che si confonde con il sonno della primavera. Gli altri tre versi, sovrapposti, “rappresentano” i tre strati della coscienza del dormiente: “presente (gorgheggio di uccelli), passato (rumori di vento e pioggia), futuro (presentimento di una felicità troppo fuggitiva e vago desiderio di scendere in giardino per vedere il suolo coperto di fiori). Ciò che un traduttore maldestro tradurrebbe, con un linguaggio denotativo, in “mentre dormo in primavera…” “intorno a me sento…” “mi ricordo che…” “e mi chiedo…” … evocando cioè un autore perfettamente desto… che fa un commentario al di fuori delle sensazioni.”
    Aggiungo l’ovvio: qui il poeta non usa quelle parti del discorso che subito lo differenzierebbero e lo allontanerebbero dal mondo circostante, riproponendo la contrapposizione soggetto-oggetto, chi ode-sente-pensa e cosa viene udito-sentito-pensato. In questo modo, attraverso il poeta, l’udito-sentito-pensato, e cioè l’ambiente circostante, si rivela per quello che realmente è: ossia, realtà viva, in qualche modo senziente, specchio dell’uomo, così come l’uomo è specchio di esso.
    Ecco perché tutto questo ha a che fare con l’autoritratto.

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx  Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

da dx Giorgio Linguaglossa Lucia Gaddo Letizia Leone Salvatore Martino e, a sx Gezim Hajdari Roma presentazione del libro Delta del tuo fiume aprile 2015 Bibl Rispoli

caro Steven,
è indubbio che l’elemento visivo della poesia (quello che io chiamo il congegno ottico) sia stato quello che è stato maggiormente trascurato e sacrificato. La poesia italiana ha dapprima (con Pascoli e D’Annunzio) sopravvalutato l’elemento sonoro rispetto a quello visivo, con la conseguenza che le poetiche del decadentismo (come si dice nelle Accademie) hanno coltivato quasi esclusivamente una poesia di stampo lineare sonora. Una mentalità conservatrice che si è mantenuta pervicacemente fino ai giorni nostri a cui ha dato un appoggio notevole la disconoscenza della rivoluzione modernista avvenuta nella poesia europea nel Novecento, la disconoscenza dell’imagismo di Pound, delle idee di Fenollosa, degli Haiku cinesi e giapponesi. Oggi forse sono maturi i tempi per portare la nostra attenzione sugli aspetti visivi della poesia, sul rapporto soggetto oggetto (anche questo inteso sempre in modo meccanicistico e lineare come posti l’uno di fronte all’altro). Da questo punto di vista Laborintus (1956) di Sanguineti non differisce da Le ceneri di Gramsci (1957) di Pasolini, entrambe le operazioni si interessavano esclusivamente degli aspetti fonici, lessemici e lineari della poesia. Le cose non sono cambiate poi sotto l’egemonia dello sperimentalismo post-zanzottiano il quale era incapace di considerare una poesia come un congegno prevalentemente ottico, come un poliedro quadridimensionale. Questa arretratezza generale della poesia italiana del secondo Novecento si manifesta chiaramente oggi che il percorso si è compiuto. La poesia di un Umberto Fiori, come quella di un Cucchi da questo punto di vista non differisce da quella di un Magrelli, sono tutte filiazioni di una impostazione conservatrice dei problemi di poetica, costoro fanno una poesia lineare, non sanno fare altro. E qui la lezione che proviene dalla tua poesia è utilissima per far capire a chi ha orecchie per intendere, che è ormai tempo che la poesia italiana imbocchi la strada di una profonda riforma interna, pena la propria assoluta inessenzialità.

Se leggiamo la prefazione ai Novissimi (1961) di Alfredo Giuliani ci accorgiamo di quanto sia minimo lo scarto di novità impresso alla poesia italiana da questa nuova teorizzazione:

“Non soltanto è arcaico il voler usare un linguaggio contemplativo che pretende di conservare non già il valore e la possibilità della contemplazione, ma la sua reale sintassi; bensì è storicamente posto fuori luogo anche quel linguaggio argomentante che è stato nella lirica italiana una delle grandi invenzioni di Leopardi. Due aspetti delle nostre poesie vorrei far notare particolarmente: una reale “riduzione dell’io” quale produttore di significati e una corrispondente versificazione priva di edonismo, libera da quella ambizione pseudo-rituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti. (…) Il nostro compito è di trattare la lingua comune con la stessa intensità che se fosse la lingua poetica della tradizione e di portare quest’ultima a misurarsi con la vita contemporanea. Si intravede qui un’indefinita possibilità di superare la spuria antinomia tra il cosiddetto monolinguismo, che degenera nella restaurazione classicistica, e quella “mescolanza degli stili” o plurilinguismo, che finisce in una mescolanza degli stili. (…)”

(g.l.)

  • Scrive Novalis: «La filosofia è propriamente nostalgia (…) è desiderio di sentirsi ovunque a casa propria».
    Davvero strano che Novalis non si sia accorto che aveva appena dato una definizione impareggiabile della «poesia». Da allora, dal Romanticismo è iniziato il problema dello spaesamento, dell’essere fuori-luogo, del sostare straniero in ogni terra e in ogni dimora. L’antica unità di soggetto-oggetto, il mondo omogeneo dell’epos è divenuto irraggiungibile, noi viviamo continuamente in preda ad una scissione. Anche nell’immagine riflessa dallo specchio noi vediamo la nostra scissione, la nostra irriconoscibilità. Queste poesie di Steven Grieco sono, in un certo senso, lontanissime dalla poesia, mettiamo, di un Gezim Hajdari. Per Grieco l’io si è definitivamente perso nel mondo (e non c’è alcuna ermeneutica in grado di restituirgli una pallida parvenza), per Hajdari l’io si è «dissolto» nel suo mondo primordiale, va alla ricerca del «senso» nella boscaglia del mondo primordiale (di qui il mito dell’Africa). Per Grieco la boscaglia del senso è diventata irraggiungibile, se non per istanti, brilla per un attimo e poi scompare per sempre nella oscurità dell’indeterminatezza. Per Grieco non si dà autoritratto se non per attimi, lampeggiamenti, preveggenze… per Hajdari l’autoritratto è dato continuamente nella «erranza» da un popolo all’altro, da un paese all’altro, in una continua ricerca che non diventa mai fuga…
    Per Steven Grieco la ricerca dell’autenticità sfocia nella labirintite (esistenziale, non semantica), nella infermità del tempo e dello spazio; in Hajdari, invece, non si dà mai labirintite (né semantica, né esistenziale, di qui la poetica in Hajdari del’«io disperso» e in Grieco dell’«io nascosto»), né disorientamento del suo tempo-spazio. Forse è questo il motivo che spinge Grieco a cercare nuove forme spazio-temporali nella sua poesia mentre per Hajdari il tempo è comunque secondario rispetto alla vastità dello spazio…
    Forzando un po’ i concetti, direi che nella poesia di Grieco siamo davanti ad una estetica del vuoto e nella poesia di Hajdari invece siamo davanti ad una estetica del pieno. Nel «pieno» l’io di Hajdari ricerca i bordi, la periferia dell’io mediante il giganteggiamento dell’io, il virilismo panico, la femminilizzazione del mondo; nella poesia di Steven Grieco siamo invece nel «vuoto», quella dimensione che per il Tao precede il dualismo di Yng e Yang e che dà vita al cosmo dualistico. Il vuoto è inteso come bordo del Reale, la linea della sua interna traumatica fenditura che consente il rivelarsi della Cosa (Das Ding), dove è soltanto tramite il Vuoto che si può accedere, per attimi e trasalimenti, al Pieno.
    La Cosa assume le sembianze di un vuoto centrale, di uno iato, di un buco, il suo essere una crepa all’interno del significante rende al tempo stesso la Cosa, Das Ding, un vuoto e un pieno, una Cosa e una non-Cosa, evidenziandone il carattere di Estimo. Questa estimità caratterizza la cosa mediante il suo carattere di Entfremdet, di una estraneità che abita al centro dell’io.
    E siamo arrivati al nocciolo delle questioni estetiche della poesia moderna. Al centro di me stesso c’è un vuoto, un buco, un abisso che ingoia tutte le parole, le svuota, le rende meri significanti.. in questo buco nero precipita tutto e tutto si dissolve, e tutto rinasce ma in Altro, in guisa irriconoscibile, Entfremdet
    Forse la poesia è stata l’ultima tra le arti del Novecento a scrollarsi di dosso l’ideologema del realismo in poesia, non ci si è resi conto che ciò che noi percepiamo come realismo in poesia è sempre altra cosa dal realismo della visione della vita quotidiana; perorare intorno ad una poesia realistica è perorare intorno al nulla. Sia Gezim Hajdari che Steven Grieco fanno una poesia che ha l’immagine al suo centro, pur se con sviluppi diversissimi, le immagini, in entrambi questi poeti sono “autofigurative”, celebrano se stesse, non rimandano ad altro (tipo il quotidiano o la vita privata), se non per il tramite di se stesse. La “visione” del poeta non è più la raffigurazione confortante di ciò che avviene al di fuori di noi ma è una celebrazione di ciò che avviene al di dentro delle immagini. Sono immagini autocelebrative. L’immagine diventa la pallida celebrazione di un rito, ciò che resta del «sacro» dopo la scomparsa del «sacro» dalle società dell’Occidente.
    L’immagine ci mette dinanzi a temporalità discordanti. Ogni immagine è portatrice di una propria temporalità, e tutte insieme designano la belligeranza universale meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi arte realistica. Ma l’immagine è soltanto un equivalente surrogato, un taglio del Reale, come scriveva Benjamin l’immagine è una costellazione di presente e passato nell’attimo in cui viene attualizzata nell’ora, nell’adesso, per noi posti nel presente. Per questo noi guardando o leggendo una immagine vediamo di essa alcune cose, ed altre ne vedrà chi verrà dopo di noi in un continuum infinito.
    Una poesia che proceda per immagini forse è quella che oggi può veicolare nel lettore, meglio di altre, quel complesso intellettuale ed emotivo di cui parlava Pound agli inizi del Novecento, quella «dialettica dell’immobilità» sulla quale cogitava Benjamin. In tal senso sono significative le citazioni di alcune «immagini» della poesia di Steven Grieco fatte da Giorgina Busca Gernetti, immagini che danno il senso di una dialettica dell’immobilità.
    Forse soltanto una poesia che proceda per immagini è quella che meglio esemplifica un’Estetica dell’Ombra.
    Ogni immagine celebra la festa della vita, la molteplicità delle cose, ogni immagine è un inno alla vita e dilaziona la morte… ma ogni immagine è anche specchio dell’ombra, vive nel chiaro scuro ché, altrimenti, nella pienezza della luce, diverrebbe invisibile. Ma ogni immagine, di per sé, senza il montaggio, non può nulla, diventa insignificante; è il montaggio, come ci hanno insegnato il cinema e la televisione, che rende significanti le immagini in movimento, o le immagini immobili.
    Nessuna immagine nasce spontaneamente, o interamente composta, ciascuna immagine proviene dalla storia vivente, dall’attimo, dallo Jetzt. La fisiologia della visione ci spinge a leggere le immagini come una composizione coesa, come un tutto, e invece si tratta di una composizione polifonica dove sono le immagini e suggerire la nascita di altre immagini.
    In fin dei conti, l’immagine non è altro che una presenza dell’assenza.

    (g.l.)

  • Immagini naturali nelle poesie di Steven Grieco.
    *
    “nel grigio smisurato del cielo;”
    “un albero sconosciuto / in una nuvola di fiori”;
    “Ah, sì, il susino…”:
    “sulla terra nera”;
    “il susino fiorisce solo di bianco”;
    “quell’altro biancore!;
    *
    “ma sì li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti”.
    ***
    Quasi un haiku:

    “ma sì li vedo,
    gli alberi da frutto
    sono fioriti”

    GBG

  • “Io disperso” e “Io nascosto” nella poesia di Steven Grieco

    “Perché loro, nella loro astuzia
    non posarono gli arnesi fin quando,
    foggiata una seconda realtà di te,
    non ti ebbero disperso.” (“Senza Titolo” 1996)
    ***
    “Guardai ancora
    il paesaggio fece balenare mille sguardi

    allora entrai profondamente in quelle nuvole
    cercando l’archetipo, la forma insita
    quando una voce squillò
    “Niente!”

    e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto”
    (“Tre veglie nel sogno”, 3)

    GBG

     
  • Steven Grieco

    Caro Giorgio, vedo benissimo cosa intendi nel primo dei tuoi due commenti (quello di ieri sera). E’ illuminante infatti rileggere, come hai fatto tu, quel brano tratto dalla Introduzione di Giuliani a “I Novissimi”.
    Mi hai ricordato come nel 1973-74, quando iniziavo a capire bene l’Italiano e a voler scrivere in questa lingua, mi trovai fra le mani “I Novissimi”, che mi veniva presentato come volume in grado di creare una profonda frattura creativa con la poesia italiana così come si era scritta fino ad allora. Già allora tutti noi poeti, di qualsiasi paese o lingua occidentale, sentivamo che era successo qualcosa di irreparabile sul versante culturale; che in Occidente, non solo dopo la 2a Guerra Mondiale e l’Europa divisa in due campi opposti, ma adesso, con l’instaurarsi della società del consumo, la scrittura poetica, e l’arte tutta, non sarebbero mai più state le stesse. “I Novissimi”, quindi, rispondeva sicuramente ad un’esigenza sentita da tutti.
    Leggendo quella introduzione critica, e poi le poesie stesse offerte in quella antologia, trovai spunti indubbiamente interessanti, ma sentii anche un peso invisibile su di me come poeta più giovane, il peso di una ipoteca formulata da poeti più grandi che dicevano “come si deve scrivere poesia”, e che solo questa strada era ideologicamente e letterariamente possibile, pena la totale irrilevanza dei propri scritti. Predicavano una totale decostruzione di ciò che gli artisti della prima metà del Novecento e la storia recente, avevano già in massima parte decostruito.
    Ricordo anche i tanti articoli di Pasolini nel “Corriere della Sera” di allora, in cui teorizzava la morte della poesia e dell’arte in genere, lasciando sottintendere che in campo letterario lui e pochi altri (Moravia, e qualche poeta) erano gli ultimi rappresentanti di una letteratura che appunto andava morendo sotto i colpi della società capitalista e consumista.
    Il guaio è che sulla “morte della poesia” (meglio dire, oggi, su un suo silenzio generazionale o bi-generazionale) Pasolini aveva perfettamente ragione, la sua era una analisi dura e sostanzialmente vera. Ma Pasolini, come tutti gli egocentrici (forse lo siamo spesso anche noi!), non capiva che lui e altri come lui erano parte integrante del problema, che proprio le sue teorizzazioni esclusivistiche, arroganti e individualistiche affrettavano questo processo di decadenza.
    Pasolini non offriva niente alle generazioni di poeti più giovani: avrebbe invece dovuto fare il suo meglio per fornire loro una sorta di road map per attraversare la palude, invece di ripetere “non c’è più niente da fare per il malato”.
    Ed eccoci qui a capire, dolorosamente, quanto in quegli anni il sentiero di una possibile poesia attraverso la palude fosse invece rappresentato da ben altri poeti: gli Herbert, i Vasko Popa, i Transtroemer, i Gennadij Aygi, i Mihalić, i Tarkovskij, perfino qua e là un Bonnefoy, tanto per citarne qualcuno. E lasciatemi aggiungere a questa lista incompleta anche Mark Strand, e Caproni, e perché no il Luzi di “Nel magma” (e un Enzo Mazza, che ha scritto qualche libro di poesia molto bello, ricevuto sempre con il silenzio riservato a chi non apparteneva alla clique.) E poi appunto altri come loro, che avevano però tutti in comune, chi più chi meno, la volontà, la spinta, di esprimersi attraverso l’imagine, il “congegno ottico”, come dici tu, Giorgio.
    Io penso che nelle tue teorizzazioni sulla poesia come portatrice di una sostanza immaginifica “quadri-dimensionale”, ci siano molti spunti, moltissima ispirazione, si intravede un mondo possibile, più entusiasmante di tante ideologie lessemico-fonemiche.
    Certo, gli anni passano, nuove generazioni si affacciano a questo orizzonte. C’è quindi bisogno di andare sempre avanti, studiare, capire cosa una poesia immaginifica possa offrirci oggi. In inglese da sempre si usa l’espressione “imagistic poetry”, che però è espressione ancora piccola, non veicola pienamente questo potenziamento dell’immagine di cui stiamo cercando di parlare qui.
    Sarebbe bello che poeti e critici offrissero anche essi la loro visione critica sulla questione, contraria o meno, polemica anche, ma sempre costruttiva. Insomma, che venga a crearsi una piattaforma di dialogo, e che da questa scaturisca ……… una visione.

     
  • letizia leone

    Steven Grieco appartiene a quella “merce” rara di poeta-filosofo quasi del tutto inesistente in Italia, sebbene noi vantassimo robuste radici dantesche che poco hanno fruttificato!
    Da qui una parola poetica forte, di inesauribile ricchezza che continuamente richiama e sollecita riletture e approfondimenti.
    Una parola che provocata dal visibile immette nell’imprevedibilità della visione, nella sua impermanenza o nel suo riflesso in uno specchio.
    Oltre ai poeti convocati da Grieco e Linguaglossa nelle loro ricche riflessioni, riporto questo testo di Paul Celan nella traduzione di Barnaba Maj:

    Innanzi al tuo volto maturo,
    in solitario cammino fra
    notti che pure trasformano,
    qualcosa venne a fermarsi,
    che già un tempo fu tra noi, non
    toccato da pensieri.

    Mi sembra un ulteriore esempio di predicato che diventa “evento” ed interpella.

    E poi vorrei ricordare un grande maestro novecentesco del “congegno ottico” e della resa iconica del linguaggio: il marginalizzato Giovanni Testori, basti pensare ai suoi lussureggianti “Trionfi” o alle “Suite per Francis Bacon”, la sua ékphrasis, la critica-scrittura sull’arte che approda infine alla serie pittorica delle Crocifissioni…
    Forse l’arte contemporanea ha intravisto quel “mondo possibile” quando estremizza e fa del volto stesso dell’artista il teatro operatorio, (Orlan) offerta di carne alle possibilità del linguaggio e della forma…ma si aprono altri territori dove portare in gita scolastica i minimalisti.

     
    • Steven Grieco

      Bellissima la citazione da Celan, poeta che non ho ricordato nella mia lista, per mia insufficienza. E dire che Celan l’ho praticato per anni e anni e anni, anzi andai al ponte Mirabeau (allora studiavo a Parigi) pochi mesi dopo la sua scomparsa, per capire…
      Grazie a Letizia Leone.
      E certamente mi leggerò Testori. Grazie dei suggerimenti.

       
  • Steven Grieco

    Scusatemi se ho dimenticato ieri di tradurre la citazione di Harold Pinter. Comunque Giorgina Busca Gernetti, commentandola e volgendo il concetto nella sua dimensione spaziale (assoluto colpo di genio!!!), ha reso quella citazione supremamente accessibile, penso, a tutti i lettori.
    Sono rimasto molto colpito dalla profonda somiglianza fra il Tao e gli Upanishads. Infatti, tutti e due hanno portato certi uomini a pensare profondissimamente l’Essere, facendo loro scoprire che al “centro” del proprio essere esiste un vuoto. Non un parmenideo non-essere, non un terrore ontologico, bensì un Vuoto indicibile, foriero di ogni inizio, di ogni creatività, di ogni apparire fenomenologico del mondo.
    E’ per questo che il nichilismo occidentale (che però tanta ricchezza di idee e di ispirazione ha dato al pensiero filosofico e all’arte d’Europa) non può esistere in Asia, almeno non nel senso di “Nulla – Divenire – Ritorno al Nulla”. In Asia la memoria del mondo travalica la vita unica, travalica la Storia, travalica il DNA; ricorda la vita ad ogni cosa, fa germogliare il seme, fa decomporre il cadavere, fa nascere il pensiero umano, fa rotolare il sasso giù per la china. Soprattutto vede in ciò che sembra “non essere”, potenzialità, creatività allo stato primordiale.
    Pervaso come sono da questo senso delle cose, ho cercato di capire in quale specifico modo tutto ciò verte su di me, poeta: e capisco che io lo individuo in quel punto mentale, quell’attimo psichico, in quel territorio grigio del pre-pensiero (che sparisce l’attimo che ci accorgiamo della sua esistenza) – in quel luogo (o tempo?), insomma, che esiste prima che il pensiero “auto-cosciente” inizi a sgorgare, prima che cogitazione diventi ideation, formulazione ideativa, immaginifica, espressione.
    Così, per me, “concetto” è anch’esso “immagine”, ma solo in quel primo momento, quando questo si affaccia alla mente pensante. Se non immagine, sicuramente “figurazione”, il cui etimo affonda nel senso di “toccare”, “palpare”. Chissà, è forse per questo che i cinesi crearono un alfabeto di ideogrammi (concreti ed astratti nel contempo). E’ in questo senso, anche, che l’idea astratta, la concettualizzazione porta con sé emotività, fragilità umana (così come lo fa l’immagine).
    E comunque il grado di astrazione del nostro pensiero è sempre in bilico, se lo stesso etimo di “astratto” viene da ab-trahere, e l’etimo di “concetto” viene da cum-capere. E’ interessante notare come nelle lingue euro-asiatiche (il sanscrito non fa eccezione) le parole più astratte e concettuali comunque affondano in etimi di significato concreto. Vedi “idea” nel dizionario etimologico online.

    idèa: voce connessa a eidèo che ha il senso di “vedere”, non che l’altro di “sapere”, “conoscere”, e ad eideos, “vista”, “intuizione”, “imagine”, dalla stessa radice del lat. vìd-eo, “vedo”.
    E’ il pensiero corrispondente ad un oggetto esteriore, o, come altri definisce, la Imagine d’un oggetto, sulla quale la mente fissandosi e confrontandola con altre imagini forma giudizi e raziocini; d’onde il senso secondario di Tipo, Modello, Primo concepimento d’una opera, Abbozzo.

    Forse non esistono nella lingua degli uomini, parole “astratte” in senso assoluto. Possiamo solo partire da una certa concretezza per arrivare all’astrazione.
    Parlando di nichilismo e assenza di nichilismo, non si pensi che io voglia in qualche modo mettere pensiero asiatico e pensiero occidentale su diversi scalini di una sedicente scala di valori o di una qualche gerarchia. Io individuo soltanto l’eccellenza che in modi talvolta divergenti ciascun sistema ha saputo dare all’uomo.
    Vorrei dire che stiamo qui parlando, soprattutto quando parliamo come poeti e artisti, delle fonti del pensiero ideativo e immaginifico, e si tratta di un fatto comune agli uomini di tutte le civiltà. Per cui vogliamo sì individuare i limiti fra un sistema di pensiero e l’altro, ma vogliamo anche trovare, laddove questo esiste, la comunanza fra i due. Per fare ciò è necessario decostruire in qualche misura la inaccessibile fortezza del pensiero filosofico-psicologico occidentale (nel senso che questa spesso non riesce a dialogare con altri sistemi), e anche decostruire l’immagine troppo fumosa, “intuitiva”, “spiritualeggiante”, “misticheggiante” del pensiero asiatico.
    Io ho constatato che il rigore di un ragionamento filosofico consecutivo e logico appartiene in genere ai sistemi di pensiero di tutta l’area euro-asiatica (l’unica che conosco).

    Finisco dicendo che mi è piaciuto molto questo pezzo nel commento di ieri di Lucia Gaddo Zanovello: “Personalmente avverto sempre come se ci fosse in me qualcosa di morboso quando mi faccio osservatrice di fotografie, quasi fossi a spiare, in una sorta di bird watching, quel che accade ai corpi sottoposti al passaggio terreno. Un indagare che ha dell’origliare, talora anche con occhi di contemplazione, o dello scrutare per conoscere o riconoscere qualcosa di ciò che si ritiene perduto.”
    Questa è già una poesia, e molto precisa e tagliente, sulla condizione dell’uomo nel XXI secolo.

15 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia

POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco Rathgeb SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno”

hopkins Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.

(È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.
 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Nel 2016 per i tipi di Mimesis Hebenon pubblica Entrò in una perla, e sempre nello stesso anno dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia contemporanea curata da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma,Progetto Cultura)

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. indirizzo email:  protokavi@gmail.com

foto di Steven Grieco

foto di Mani Kaul luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Vorrei ricordare l’acutissima notazione di Ernest Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non è che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti, per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è data dall’immagine (statica e/o dinamica). L’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una Civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.
Per esempio, Steven Grieco, poeta educato alla severità dell’haiku cinese e giapponese, pensa e fa una poesia di immagini in sviluppo, di immagini che scorrono nel tempo. La pittura sarebbe poesim tacentem. E, in apparente contraddizione, la poesia picturam loquentem. La figuralità della sua poesia nasce dentro la dislocazione linguistica delle «cose», ripete mimeticamente la struttura elementare dell’universo, e della nostra vita quotidiana; vive in uno spazio. Leggiamo l’incipit di una sua poesia:

Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

 

 una voce chiarissima risuonò:
 “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
“Ah, sì, il susino…”

Il protagonista della poesia fa l’azione di volgere «le spalle all’orto». È una azione casuale, fortuita. È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e… scopre «il susino». Il centro di gravità della poesia riposa sulla figura del «susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto figurale e linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista, alzando gli occhi, scopre in modo fortuito il «susino».
Una poesia come questa, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto di più concreto si possa immaginare.

In un’altra poesia c’è il personaggio centrale che sta in piedi, «assorto», quando accade un evento insignificante, improvviso; il protagonista scorge la figura di un’altra persona nella «squallida camera d’albergo». Nella poesia di Steven Grieco accadono eventi silenziosi, inappariscenti, inspiegabili, fortuiti che rivelano all’improvviso ciò che è rimasto a lungo nascosto dietro il diaframma dell’apparenza, dietro il velo della fenomenologia della vita quotidiana:

Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Poesie che sono quasi una traduzione dalla analitica esistenziale dell’esserci, che passano da una galleria di «ritratti» ad una di «autoritratti», e viceversa. La verità diventa un «evento» non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade.

Onto Grieco

s.g.r.

 

Appunto critico di Steven Grieco Rathgeb

Sappiamo tutti che in Occidente l’autoritratto ha una lunga storia, soprattutto nella pittura. Talvolta esso è collegato alla condizione detta melancolia, che a sua volta è legata all’incapacità dell’individuo di dare un senso alla propria vita. Basti pensare agli autoritratti di Albrecht Dürer, fra i primi e migliori esempi della rappresentazione di sé come groviglio umano complesso e problematico. Dopo secoli di autoritratti che studiano i mille aspetti della nostra immagine riflessa, da Velazquez a Rembrandt e Goya, arriviamo alla modernità, e ci imbattiamo subito in Van Gogh e nei suoi contemporanei, poi in una Frieda Kahlo, un Egon Schiele. Il processo di problematizzazione dell’autoritratto è andato avanti inesorabile. Ma soprattutto possono interessarci oggi gli autoritratti di artisti come Francis Bacon o Lucien Freud e simili, opere altamente significative della seconda metà del Novecento, che non avrebbero potuto nascere senza le guerre, senza Auschwitz, senza la successiva affermazione della cosiddetta “libertà individuale”, che emancipa il soggetto da ogni morale, regola, o valore sociale o spirituale che sia, ma poi lo costringe ad una incessante auto-affermazione che diventa il suo peggior nemico. Ma anche l’individuo come pedone in una società ridotta a semplice sistema di scambio commerciale e di interscambiabilità di ogni cosa. Mettendo così a nudo l’estrema fragilità e atomizzazione del singolo.

Gli autoritratti di quegli artisti sono carne lacerata, in cui l’artista sembra identificarsi totalmente, soffertamente e forse ciecamente, con il sé ridotto alla pura fisicità. Ma invece in questo senso viene catturata una realtà esistenziale profonda dell’uomo moderno, la sua strana, tormentata condizione che non gli dà modo di elevarsi dalla bruta materialità senza incappare nel suo rovescio speculare, quello della fede religiosa.

Ma vado avanti, perché voglio portare l’accento sul volto umano come realtà inafferrabile e inconoscibile per il suo “possessore”. Nessuno di noi potrà mai vedere il proprio volto se non come immagine riflessa – non potrà mai vederlo “direttamente”, così come vediamo tutte le cose del mondo esterno, compresi i visi dei nostri simili (e come essi vedono noi).

Abbiamo, certamente, un “senso” della nostra presenza psico-fisica nel mondo, del nostro comparire in esso, ma questo non ci dà nessuna garanzia di “oggettività”, se è vero che spesso gli altri scorgono in noi aspetti o realtà a noi ignoti, che talvolta ci possono sembrare perfino folgoranti.

Dice Harold Pinter nel suo discorso Nobel: “When we look into a mirror we think the image that confronts us is accurate. But move a millimetre and the image changes.” Oggi, questa immagine riflessa, caleidoscopica e cangiante, appare anche come immagine fotografica, altra contraffazione del “reale” con cui noi moderni ci dobbiamo volenti o nolenti misurare (perché anch’essa contiene una profonda verità).

E’ inoltre vero che l’oggetto di un “autoritratto” non deve necessariamente essere il nostro volto riflesso, ma può essere cose diverse. Nella tradizione pittorica cinese, il paesaggio era talvolta dal pittore così fortemente prima interiorizzato e poi espresso (“pro-dotto”) da risultare, se non quasi un autoritratto “traslato”, comunque emblema della condizione umana (del pittore e nostra, in quanto spettatori). Con il suo tratto, le sue pennellate, egli interviene direttamente nel divenire del mondo, ne è parte integrante, per cui la contrapposizione soggetto-oggetto si scioglie in una visione allargata non solo della composita ma unica realtà cosmica “natura-uomo”, ma della stessa capacità dell’uomo di, sottilmente, plasmarla.

E dunque, su questa linea di pensiero, che beninteso è soltanto una delle tante (fra cui figura anche la sua negazione), l’autoritratto può pure essere la possibilità di scorgere il sé (o l’altro sé, come dir si voglia) in momenti in cui la mente razionale non è in grado di occupare e ordinare l’intero campo della percezione e intellezione umane. Fatto che suggerisce non soltanto l’estrema mobilità e labilità della condizione umana, ma anche il fatto che la realtà individuale è più grande del singolo individuo (Sigmund Freud insegna), più grande della sua circoscritta e “unica” vita. Un esempio dai miei diari:

 

Casa toscana, 2 maggio 1980. Nella notte mi sono svegliato da un sogno che sembrava andare avanti da molto tempo, immerso com’era nella sua umbratile luce di respiro.

 

Mio fratello e io ci trovavamo in una camera un po’ squallida di una vecchia pensione francese o italiana. Lui stava sdraiato sul letto, rivolto verso di me. Io mi ero appena alzato e guardavo la mia immagine nello specchio sopra il lavandino.

Sentivo una voce (forse di nostra madre) che parlava a lungo del dolore che viviamo; concludendo, ”un giorno il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Nel momento non sentivo dolore, piuttosto uno stordimento. Ma dopo quella frase, ho capito che la stanza, la posizione del fratello sdraiato sul letto, lo specchio: tutto era immerso in un dolore invisibile.

Ho riguardato il viso nello specchio. Ero io, certo, ma non quell’io che sono o penso di essere in un momento qualsiasi della vita d’ogni giorno, bensì un’immagine molto più grande, quasi una totalità di me.

Mio fratello, sul letto, disse qualcosa che non ricordo. Non risposi perché stavo ancora pensando alle parole che la voce aveva pronunciato: una voce purissima, direi, senza tempo, nascente come un’eco in un vuoto di cristallo.

Continuando a studiare il mio volto riflesso, mi sono chiesto: di quale futuro parlava la voce? Sappiamo che il “futuro” è un tempo del tutto ignoto, forse inesistente. Allora capii l’allusione nascosta in quelle parole: la voce evocava piuttosto il senso di “una gioia che verrà”: cosa ben diversa dunque, semplice proiezione del desiderio umano sull’oscurità assoluta di ciò che è inconoscibile.

Era l’uso di quella parola che mi aveva sviato: la gioia “futura” la sentivo adesso, adesso che stavo in piedi davanti allo specchio.

Nel frattempo, dallo stato onirico ero passato quasi senza accorgermene al dormiveglia, nel buio della stanza. Riflettevo che se fosse proprio nel sogno che la nostra immagine può rivelare la reale interezza di ciò che siamo, allora avrei modo di scorgervi, anche solo per un attimo, aspetti di me che per vari motivi non sto vivendo al momento, ma che ciò malgrado esistono altrove nello spazio e nel tempo illimitati del mio essere.

Al momento io mi trovo qui, in questo luogo; e sono dominato dal sentimento del dolore, penso al dolore, mi concepisco unicamente nel dolore. Ma la mia totalità, il volto intero che non vedrò mai nello stato di veglia ma che adesso mi appare in sogno, mostra regioni di me in cui perdurano altre condizioni, fra cui anche quella della gioia.

Allora mi è sembrato che la voce materna non fosse altro che la forma sonora di quello stesso Io che vedevo nello specchio. E che in quella sonorità si mescolassero gioia e dolore.

Mentre rimuginavo queste cose, mio figlio nella sua camera in fondo al corridoietto ha preso a parlare ad alta voce. Sono schizzato fuori dal letto, ho acceso la luce. Nel sonno, mia moglie ha mormorato: “stai tranquillo, il bambino sta solo sognando.” Ho ascoltato: in effetti, cantava brani di una canzoncina imparata all’asilo.

bello Ferdinando Scianna 5

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio

 

Seguono qui alcuni miei tentativi di tanti anni fa di esprimere questi concetti in poesia:

Senza Titolo

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso sul vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.

1990 (dal mio volume di poesie “Maschere d’oro”, edito da Biblioteca cominiana, 1996).

Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.
La sua espressione alludeva a rischi
per te forse insormontabili.
Ma poi lacerandosi l’auto-inganno,
trasparve un’estrema chiarezza:

intorno alle sopracciglia balenavano
preoccupazioni fin troppo umane,
tirando la pelle fra naso e zigomi
scendevano come un’eco
nei mille labirinti del corpo;
dietro la fronte
pensiero si scioglieva e ricomponeva,
dagli occhi una folla di immagini
entrava nel mondo.

E mentre il tuo sguardo più grande
si allontanava dal semplice riflesso,
pezzi dello specchio annerito
cadevano in terra fracassandosi.

(novembre 1988)

Autoritratti

Stanno qua e là: quasi una foto,
gli occhi chiusi come da occhiali scuri.
L’attenzione è rivolta altrove,
e dorme il loro corpo senza esterno.

Gambe, braccia, toraci, sono ciechi.
In essi è l’ignaro che regge le sorti,
aggroviglia vicende e situazioni
tende tranelli e trabocchetti.

Pesanti e insensibili sussultano,
precipitano e sbattono con profonde
lesioni e squassi che gorgheggiano;
ma niente distoglie gli sguardi qua e là.

Niente sgretola l’ignaro che non vede,
aggiogato, indistruttibile:
che continua la sua fuga, si disfa e
si ricrea, di corpo in altro corpo.

E mentre si sfaldano a grandi pezzi
ruzzolando giù per la china,
prestano ascolto ai segnali sottili,
le immagini che sgorgano interne.

Pian piano disintegrandosi, senza
un grido né un gemito. Niente
li sgretola, i visi gettati qua e là:
gli sguardi che dormono incatenati.

(“Tronchi”, febbraio 1987)

.
Senza Titolo

Nessun branco di cervi nella radura.

La concentrazione invisibile
alla sorgente ferma del pensare:
allora, senza nemmeno uno specchio,
vedesti l’immagine di te stesso.

(1986)

.
Tre veglie nel sogno

1.
Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

una voce chiarissima risuonò:
                        “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
                                        “Ah, sì, il susino…”

ma un baleno sulla terra nera mi ricordò
che il susino fiorisce solo di bianco

incredulo
guardai a lungo quell’altro biancore

.
2.
Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Per niente meravigliato, ti guardai:
il tuo volto esprimeva qualche presagio,
la pienezza che non sappiamo reggere.

Un voce risuonò: “per il dolore
di oggi il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Cosa intendeva? L’avvenire, o solo il tempo
presente che sempre aspira all’immensità?

Nel tuo sguardo non vidi quella promessa.
Ma le parole, brancolando nell’aria,
rischiararono la stanza di una debole gioia.

3.
Sorrideva (come per dire: “non te ne sei accorto”):

gli alberi nel giardino…
quattro, cinque sparpagliati qua e là

“ma sì, li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti.”

Guardai ancora
il paesaggio fece balenare mille sguardi

allora entrai profondamente in quelle nuvole
cercando l’archetipo, la forma insita
quando una voce squillò
“Niente!”

e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto

febbraio 1989

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VERSO LIBERO O VERSO ARBITRARIO O VERSO INVENTATO? – dialogo tra Giorgio Linguaglossa, Steven Grieco, Valerio Gaio Pedini e Giorgina Busca Gernetti sopra il “Ghazal” e lo “Sher” di Mirza Asadullah Ghalib

  1. Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

    Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari

    Mirza Asadullah Ghalib affascina il lettore per la freschezza, quasi ingenuità, nel contempo profondità filosofica dei suoi versi, strutturati in distici rimati nel modo illustrato con precisione da Steven Grieco.
    I veri poeti della fascinosa India, almeno per le mie scarse conoscenze, hanno questo nucleo ispirativo: il cielo notturno, le stelle, l’alba, la natura, gli uccellini, i fiori, l’amore, la sofferenza dell’uomo e la pazienza nel sopportarla. Mi riferisco anche a Rabindranath Tagore, benché l’epoca, la regione indiana, la lingua, la struttura delle poesie siano diverse da quelle di Mirza Asadullah Ghalib.
    Forse è l’anima dell’India che sa creare poeti così grandi.
    Mi piace riportare alcuni distici veramente pregevoli (quattro Ghazal e uno Sher):
    .
    “non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
    chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere”
    .
    “le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
    perché mai ascesero nude, radiose nella notte?”
    .
    “”suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
    fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome”
    .
    “al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
    ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti”
    .
    “non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
    io sono la voce del mio stesso spezzarsi”

    (Giorgina Busca Gernetti)

    Giorgio Linguaglossa 2012

    Giorgio Linguaglossa 2012

  2.  

    È che oggi forse si dovrebbe ritornare a scrivere in distici, in ritornelli di distici… riprendere le antiche formule e ripartire da lì; scrivere pensieri conchiusi in immagini nell’arco di un distico, e poi nel distico seguente percorrere di nuovo il solito schema (magari con una variante), ovvero, provare ad introdurre un altro verso (la strofe caudata di tre versi) etc., e così via.
    Il fatto è che oggi si è persa la manualità della scrittura, si scrive senza far riferimento a nessun genere o sotto genere, e i risultati si vedono purtroppo! – Il parallelismo cui costringe un distico è una forza magnetica, un binario che soltanto chi sa e ha la poesia nella propria pelle può capire; il parallelismo implicito in un distico, è cosa diversa da un distico con una coda (aggiunta di un terzo verso), a volte (anzi, sempre) basta una variante a cambiare il centro di gravità di tutto il componimento.
    Quindi io consiglierei chi vuole fare poesia a studiare le antiche formule, di scrivere in distici, per esempio, e in immagini di distici…

    Chiedo ad Antonio Sagredo e a Steven Grieco di farci conoscere la loro dotta opinione.

  3. Rilucono le stelle in un frammento
    d’immenso nella notte senza vento.
    .
    L’assenza dell’amata squassa l’animo
    dell’uomo che la invoca in un lamento.
    .
    Acceca il sole con la luce d’oro
    i mietitori curvi sul frumento.
    .
    Prestami la tua arte, sacro vate,
    perché possa cantare il mio tormento.
    .
    Foglie frementi nel bosco armonioso
    di canti d’uccelli in festoso concento.
    .
    GBG

    Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

    Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India

  4. Steven Grieco

    Certo, la questione della forma a cui accenna Giorgio sarà sempre un problema per la poesia e per i poeti. Ma è proprio, e in modo sovrano, la struttura aperta o libera a valere oggi come forma poetica “tradizionale”. Quella che più ci impone un rigore. (Per il domani, chissà.)
    A proposito, sembra che i giovani giapponesi usino spesso il haiku o il waka per messaggiarsi tramite telefonino… O allora è stata solo una moda qualche anno fa, che è già tramontata.
    In questi tempi spietati, ma anche incredibili e entusiasmanti, in cui ogni tradizione è stata ridotta all’assurdo, sembra che un vero poeta (ma, se è per quello, anche un vero artista con i suoi dipinti e le sue installazioni) debba mettere tutto il rigore e la disciplina proprio nella forma aperta, la forma per eccellenza che ti dà tutte le possibilità, ma poi ti castiga se di essa hai fatto cattivo uso.
    Lo stesso Ghalib lamentò verso la fine della sua vita, in un suo distico (che adesso non ho a portata di mano), il fatto che la forma del ghazal e le immagini convenzionali ad esso associato (rosa, usignolo, giardino, candela, rugiada, etc.) imprigionassero troppo la sua vena creativa. Più moderno dei moderni, già alla metà dell’Ottocento, quando i poeti francesi iniziavano solo vagamente a muoversi in questa direzione, Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta.
    Tanti anni fa ho visto le bozze originali di diverse poesie di Shelley. Aveva già deciso il metro e la rhyming scheme, il tipo di rima, ponendo sopra il rigo gli accenti tonici (8, o 10, a seconda). Gli accenti tonici c’erano già tutti, ma qua e là ancora mancava la parola prescelta per completare quel verso (di solito all’interno del verso, per ovvie ragioni). Ecco, questo ti fa capire che il poeta che usa una forma poetica specifica deve comunque già avere nel cuore e nell’orecchio il ritmo – voglio dire la musica – del verso, prima ancora della scelta di tutte, tutte le parole. Per un poeta di secondo ordine potremmo dire: ah, ecco, la musichetta a scapito del senso, ma le bozze delle poesie di Shelley invece ci mostrano quanto la musica già contenga il senso profondo del dire, e quanto in poesia musica e significato non possono proprio scindersi.
    Ed ecco che mi vien da pensare che quindi anche il poeta oggi deve imporsi una grandissima disciplina con la forma aperta: perché una poesia senza musicalità e comunicazione di un significato (quale che sia e in qualsiasi modo lo si faccia, anche a testa in giù), be’, non so, forse non si tratterebbe più di poesia. Penso ad esempio, in musica, a uno Stockhausen o uno Scelsi, che hanno lavorato con forme in qualche modo aperte ma dandosi una disciplina immensa, lo senti in ogni nota, e quel rigore è proprio una delle cose che ti entusiasma, ti fa pensare che è solo con la forma (se anche per ritrarre il chaos), che possiamo comunicare, comunicando perfino realtà, immagini, concetti sublimi.
    Detto questo, faccio posto a tutte le definizioni possibili della parola poesia, ovviamente. Ancora oggi vale quello che disse Montale una volta, “in poesia tutto fa brodo.”
    Questo anche per la forma della poesia.

    foto di Steven Grieco

    foto di Steven Grieco

  5. Caro Steven,

    è vero quello che tu dici, che condivido al 100%. Tu scrivi che già «Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta», perché si era reso conto che la forma chiusa tradizionale del distico era troppo costrittiva per la sua poesia.
    Ecco, siamo arrivati al punto. Nel Novecento siamo passati attraverso una rivoluzione delle forme espressive, siamo passati dalla forma-chiusa alla forma-aperta (U. Eco L’opera aperta, 1962), fenomeno che ha investito il romanzo, la poesia, la pittura, la scultura, la musica, l’architettura etc., quindi un fenomeno globale, come si dice oggi. Ma per la poesia è poi intervenuto un fenomeno, al tempo, ancora più vistoso e più misterioso: la caducazione del verso tradizionale per il verso libero e la caducazione del verso libero per il verso arbitrario, dove ciascun autore è libero di adottare il verso (nel senso della lunghezza) che più gli aggrada. Se oggi apriamo un libro di poesia di un autore contemporaneo, troviamo appunto il verso arbitrario(non so quanti autori ne siano consapevoli), dove l’arbitro del verso è deciso dallo stesso autore, dove è l’autore che dà legittimità alla lunghezza e alle intensità (foniche e toniche e ritmiche) del verso. Siamo arrivati alla Babele del verso arbitrario, e i risultati sono piuttosto evidenti. Siamo arrivati al punto che non esistono più le differenze tra la forma-poesia e la forma-prosa, addirittura non si ha più cognizione di quella cosa chiamata un tempo laforma-poesia.
    Ma torniamo al verso-arbitro o arbitrario e veniamo ad esso, esaminiamo la sua struttura interna ed esterna. Vorrei invitare i lettori ad andare a rileggersi una poesia di un poeta contemporaneo che abbiamo pubblicato su questo blog: Gezim Hajdari nella poesia “Il contadino della poesia

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/15/fare-il-contadino-della-poesia-di-gezim-hajdari-con-una-nota-di-armando-gnisci/

    È chiaro che qui ci troviamo davanti ad un sistema aperto dove ciascuna frase raddoppia e ripete la struttura semantica della frase precedente mediante una variatio del significato e del ritmo interno ed esterno dei versi. Siamo davanti alla forma più elementare e primordiale del linguaggio poetico, il verso singolo che viene ripetuto con varianti all’infinito, la repetitio. Qui dunque il sistema è aperto, apertissimo, e permette al’autore di introdurre le varianti che crede opportune al fine di ottenere un effetto moltiplicatore dell’intensità orchestrale.

    E fin qui ci siamo. Esaminiamo (per semplicità di ipotesi) adesso un effetto di moltiplicazione interna di un singolo verso di una, perdonatemi, mia poesia:

    Kinder Nacht. Kinderschreck. Kinderspiel.*
    Un cane rabbioso abbaiava.
    Ma tu non c’eri. Guardai indietro.
    C’era un corridoio con tante stanze chiuse. L’hotel Astoria.

    (*Notte di bambini. Spauracchio. Gioco infantile.)

    Come si vede, la ripetizione di parole (composte, in tedesco) che iniziano con una medesima parola (Kinder, ovvero, bambini), serve ad introdurre un effetto moltiplicatore (e straniante) della forza semantica, inoltre i punti introducono delle cesure, degli stop. Così che si ha: moltiplicazione della ripetizione + cesure = Ritmo a singhiozzo, ritmo interrotto, interruzione e ripresa = effetto di straniamento. I tre versi che seguono (sono frasi nominali e dichiarative) sono spezzati da punti. Con l’ovvio effetto di concentrazione e di spezzatura interna dove il lettore è costretto a fermare l’occhio e la lettura a voce (o silenziosa). Qui mi sono permesso di impiegare il verso-arbitrario nel senso che sono io l’autore ed io soltanto posso intervenire sul dove e sul come interrompere l’ordine del discorso e riprenderlo a mio gradimento. Ho scelto una mia composizione per non fare torto a nessuno. È chiaro che nelle mie intenzioni definire un verso verso arbitrario non c’è alcuna connotazione negativa o spregiativa, è semplicemente un dato di fatto, un evento. Ed è una procedura che io utilizzo spessissimo nelle mie composizioni in vista di un determinato fine; cioè è una procedura consapevole, filtrata però da quella particolarissima cosa chiamata sensibilità verso la Lingua e i suoi linguaggi letterari.

    Ecco, io ritengo che l’italiano di oggi abbia in sé DELLE ENORMI POSSIBILITA’ DI ESPRESSIONE, È UNA LINGUA MATURA…

    Dimenticavo: altra cosa dal verso arbitrario è il verso inventato, cioè quella entità che non si distingue in nulla dalla prosa. E allora non si capisce perché in tanti ci si ostina ad andare a capo (dal punto di vista narrativo e metrico) quando non c’è alcuna ragione di andare a capo. Potrei, di ciò, portare migliaia di esempi, ma diventerebbe un gioco al massacro che non mi diverte, anzi, che mi deprime.

    Steven Grieco

    Giorgio, vado subito all’ultima cosa che dici nel tuo commento più sopra. Sì, hai perfettamente ragione. Poesia è poesia, prosa è prosa. E’ anche vero che la linea di demarcazione è molto vaga, ma mai così tanto da permettere una totale confusione fra i due generi. E allora Baudelaire, che scriveva i poèmes en prose? Perché ricorrere a un ritmo totalmente prosaico quando grandi poeti del passato hanno indicato come si potrebbe “usare la prosa nella poesia?” – e cioè una forma più attuale, che può dare maggiore libertà nell’esprimere concetti e realtà che inevitabilmente finirebbero per straripare dalle forme poetiche tradizionali (e forse anche dalla forma libera con verso spezzato sul lato destro della pagina). Anche altri, più di recente, l’hanno fatto, Transtroemer è un esempio. Ma poi c’è René Char, e tantissimi altri.
    Quando scrivo una poesia in inglese, non dimentico mai la metrica interna della lingua, è una cosa naturale. Forse è più difficile per un italiano pensare in endecasillabi (eccezion fatta per Dante) che per un inglese pensare in versi giambici di quattro-cinque piedi. La prosa inglese tende già di per se stessa a scomporsi abbastanza spontaneamente in versi giambici di questo tipo. E quindi quando scriviamo un verso, molto spesso il nostro pensiero già ci offre questa forma, questa soluzione. Che però nel mondo odierno talvolta suona piuttosto scontata, old-fashioned, soprattutto quando viene coltivata di proposito, come fanno migliaia di poeti di lingua inglese oggi che non hanno molto da dire.
    Nemmeno Shakespeare rispettò sempre quel metro, spesso i suoi versi sono endecasillabi, o versi di nove sillabe – eventualmente con una compensazione nel verso precedente o successivo, ma si tratta di giochetti inventati principalmente da critici e filologi: Shakespeare non pensava in questo modo, solo in casi precisi e specifici ebbe forse un reale bisogno di contare (per infondere quella inaudita musicalità ai sonetti, per es.). Anzi, egli è più di tutti colui che infranse le regole linguistiche eppure seppe rispettarle, che optò per un pensiero aperto, dettato dalla sua dinamica interna, eppure seppe rimanere dentro le forme tradizionali poetiche, espandendole e nobilitandole.
    Dobbiamo sforzarci oggi di “sentire” il verso prima di scriverlo, di “far succedere” il proprio pensiero dentro una forma in bilico fra “chiusa” e “aperta”, dentro un verso più dinamico, continuo o spezzato, se vogliamo veicolare il mondo in cui viviamo.
    L’esempio che tu, Giorgio, dai nel tuo commento citando un brano di una tua poesia è quello che ho in mente io. Mi rende felice che altri la pensino, almeno in parte, come me. (A proposito, bel ritmo dinamico, repentino, complimenti!)
    Zeitgeist: ci sono soluzioni che ci fornisce proprio il tempo in cui viviamo.
    Vado avanti: penso a uno dei più grandi poeti russi della seconda metà del Novecento, Gennady Aygi, messo nel dimenticatoio dai letterati del suo paese perché era ciuvascio, e perché nei suoi versi non rispettò la metrica e le convenzioni tradizionali della poesia russa. Peter France, suo amico storico e traduttore in inglese da sempre, individua nel verso di Aygi, totalmente “libero”, una metrica interna prevalentemente giambica, che comunque finisce per rispettare il ritmo della lingua e della poesia russa.
    Vedete l’ironia? Certo, Aygi era troppo grande per non saperlo: ma sentì forte il bisogno di scarcerare il verso russo da quei versi troppo regolari, troppo inamidati e incravattati, creando invece sulla pagina linee di parole più lunghe, di colpo spezzate, riprese al rigo successivo, con spazi vuoti, parentesi, tutto quello che gli serviva per esprimere quel suo pensiero così forte, così lacerato e profondo.
    In Italia oggi è raro lo slavista che abbia anche soltanto tradotto una poesia di Aygi. Assenza macroscopica, che ha dell’incredibile ma dice tutto sulla pavidità e sul conservatorismo degli studi letterari. Sarà un grande giorno quando qualcuno si deciderà a compiere quest’opera.
    E quindi, la forma “arbitraria” è ben diversa dalla forma aperta secondo il rigore che questa esige. Quando questa è ricercata fortemente, dinamicamente, anche dolorosamente per dire la realtà che ci sta davanti, e non per dire una nostra idealizzata riduzione e privatizzazione del mondo, ecco che salta fuori quello che cerchiamo – il verso veicolante, illuminante.
    Non è un sogno, oggi ci sono poeti in tutte le lingue che riescono a fare questo.

    1. Vorrei ricordare, caro Steven, l’acutissima notazione di Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la sua novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

      Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non era che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
      Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

      Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è l’immagine (statica e/o dinamica); ma non dobbiamo dimenticare che l’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.

      Per esempio tu, in una tua poesia, nel tuo linguaggio ripeti mimeticamente la struttura elementare dell’universo. Mi spiego:

      Giravo le spalle all’orto, immerso
      nel grigio smisurato del cielo

      una voce chiarissima risuonò:
      “non hai visto?”

      con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
      in una nuvola di fiori
      “Ah, sì, il susino…”

      È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e.. scopre «il susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista scopre il «susino».
      Una poesia come la tua, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto più concreto si possa immaginare

    2. Valerio Gaio Pedini

      Questo discorso, che spesso, teniamo privatamente io e Giorgio Linguaglossa è fondamentale. Il verso libero va preso con cautela. Come la forma rima e le metriche. Giorgio con Uccelli (1992), scritto in endecasillabi, mostra una padronanza totale del verso. E la mostra poi anche con il verso libero sperimentale in Blumenbilder (2013). Altri poeti che hanno la padronanza metrica e libera sono primo fra tutti Antonio Sagredo o Alfredo De Palchi, Maria Rosaria Madonna. Quanto è utile tornare al distico? Potrebbe essere utilissimo, come puntare all’haiku, solo che i temi andrebbero variati, in modo che avessero un’attinenza sociologica maggiore. Il problema è che non li si evolve e penso sia gravoso per la poesia. Il verso libero è diventato una grande piaga, come la rima. Così, il verso libero a volte rischia di creare solo confusione, ho letto ultimamente poesie scritte da sedicenti poeti incapaci di capire che i loro versi erano goffi, degli a capo fatti a caso. Mentre la rima è un problema perché rischia di cadere nella scontatezza. e se non la si maneggia bene, diventa fumo. Ed è singolare che una giovanissima poetessa come Siria Eva Comite abbia compreso tutto ciò e scriva una poesia razionalissima, studiatissima, precisissima, senza perdere di intensità ma aumentandola, rispetto ad alcuni suoi precedenti tentativi di verso libero goffi.

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 POESIE SCELTE IN LINGUA URDU di MIRZA ASADULLAH GHALIB (1797-1869) traduzione di Steven Grieco-Rathgeb in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. UN POETA PER TUTTI I TEMPI – La lingua Urdu e il ghazal – Singoli sher (Prima traduzione in italiano)

IndiaCenni biografici

Mirza Asadullah Ghalib nacque a Agra nel 1797 e morì a  Delhi nel 1869. Discendeva da una famiglia turca dell’Uzbekistan. Come altri uomini di stirpe nobile e guerriera dell’Asia Centrale, il nonno, Mirza Kokan Beg, era calato in India verso la metà del XVIII sec. in cerca di fortuna.

Orfano del padre a 5 anni, Ghalib crebbe come rampollo di una famiglia aristocratica non agiata. Imparò in giovanissima età a scrivere versi in Persiano, oltre che in Urdu. A 13 anni fu sposato con Umrao Begum, una ragazza del suo stesso ceto. Dopo il matrimonio si trasferì a Delhi. Nacquero figli, ma i due non raggiunsero mai una vera intesa, vivendo in appartamenti separati nello stesso haveli (casa padronale). Tranne un lungo viaggio compiuto a Lucknow, Benares e Calcutta, il poeta non lasciò mai più Delhi.

La famiglia conobbe diverse disgrazie. Forse la più grave per il poeta fu la scomparsa in giovane età di Arif, l’amato figlio adottivo. Le ristrettezze economiche lo perseguitarono per tutta la vita. Non riusciva a pagare il macellaio e il vinaio, perché infatti mangiava quasi solo carne e pane, ed era bevitore appassionato. Spesso dovette ricorrere agli usurai.

Ghalib ebbe una relazione molto intensa con una cortigiana che morì giovane in circostanze mai del tutto chiarite, ma certo tragiche. Tali esperienze, e l’indifferenza dei contemporanei verso la sua opera, lo portarono sempre più ad appartarsi dal mondo. Per un breve periodo fu precettore poetico dell’ultimo Imperatore Mughal, Bahadur Shah Zafar, grazie a cui poté percepire una pensione, peraltro modesta.

Nell’ultimo periodo di declino dei Mughal, le casse di stato erano vuote, e la stessa famiglia regnante era ridotta sul lastrico. Nel Lal Qila, un tempo splendido palazzo imperiale, il Badshah, le mogli e i fedeli ormai occupavano poche stanze, dove erano costretti a vivere al lume di qualche fioca candela. La fine dell’Impero fu affrettata dalla presenza nel subcontinente degli Inglesi, intenti a influenzare le vicende politiche a proprio vantaggio, senza intervenire di prima persona. L’instabilità politica sfociò nella grande e cruenta sommossa nazionale, detta The Indian Mutiny (1857-59), di cui Mirza Ghalib fu diretto ma imparziale testimone.
 

huñ garmi-e nishāt-e tasavvur se naghmah-sanj
maiñ andalīb-e gulshan-e nah āfrīdah huñ

 
nelle mie melodie è il riverbero di una gioia profonda –
sono l’usignolo di un giardino che sarà

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

L’eco dei torbidi che sconvolsero il mondo e l’epoca di Ghalib sono in genere rintracciabili soltanto nell’epistolario di questo grande letterato, molto meno nella sua opera poetica. Le lettere ci dicono che egli visse i suoi tempi con tutto lo slancio umano di cui era capace un uomo della sua sensibilità. Oggi però noi ci ci rendiamo conto che l’angoscia ghalibiana dell’essere, la sua solitudine, hanno una dimensione  cosmica e senza tempo. Ghalib è poeta non della storia, ma dell’eternità.

In India il modernismo viene in genere fatto risalire al secolo 19°, e all’impatto che l’Occidente ebbe su questa parte del mondo. Senza negare questa ovvia realtà, l’opera poetica di Ghalib tuttavia esprime un modernismo Indo-centrico che non ebbe niente a che vedere con le influenze occidentalizzanti, ma è frutto di dinamiche culturali specifiche al Subcontinente, avviate in tempi più antichi, e di cui elemento fondante è l’incontro secolare fra due grandi tradizioni culturali – la Persiana e l’Indiana. Ghalib si situa al vertice di questo processo.

Se l’affermarsi dell’essere umano come individuo è uno dei tratti determinanti del modernismo in genere, possiamo dire che Ghalib fu uno dei nostri primi moderni. Egli iniziò a definire l’uomo in questo senso. Privato delle antiche narrazioni come modello per il proprio agire, delle certezze della tradizione, della solidarietà di un determinato ceto o gruppo sociale, della sicurezza di religione e fede in Dio, l’uomo moderno emerge come individuo solo, vulnerabile, ed esposto a tutte le intemperie, che si interroga su ogni cosa e vive con forte angoscia l’oscurità della vita. Non ha né casa né dimora, ma si trova, rahguzar, sul ciglio della strada (vedi sher n. 4, “non un tempio, non la Ka’aba…”).

Dove si pone dunque l’uomo in questo mondo ostile;  quale la condizione del poeta di fronte a se stesso e agli altri; dove si situa l’amore in una società caratterizzata dall’indifferenza?

Da qui è breve il salto al quesito cruciale – cosa sia l’Essere – che sottende tutta l’opera poetica di Ghalib. Tuttavia, egli è profondamente scettico di ogni possibile spiegazione: “ogni luogo, ogni attimo, cantano il proprio specifico non-essere nell’Essere”. In questo il nostro poeta si avvicina per certi versi al nichilismo occidentale. Con la differenza che in lui il rifiuto del mondo è del tutto assente, e la disperazione si stempera nella coscienza che la fine corsa del nichilista è anch’essa inganno, semplice tappa sulla via dell’infinita esistenza, della memoria che involontariamente crea i diversi stadi e le inesauribili trasformazioni della vita. A questo proposito, un suo distico, prossimo al pensiero indiano tradizionale:

Self-encrypted is what we take as our waking state
they are still in dream who have awoken in dream
 

ascoso in sé è quel che noi pensiamo realtà diurna
sono ancora in sogno coloro che si svegliano in sogno

India 5Il mondo allora diventa tamasha, uno spettacolo che ora diverte, ora lascia sdegnati. Ghalib ebbe suprema la facoltà di ridere di se stesso, della sua poesia e delle sue passioni. Da una parte il poeta intravede in ogni attimo l’unità del Tutto – “sempre il cielo si china giù per salutare la propria luce” – da un’altra egli si trova a contemplare i frantumi della vita, dell’amore, dello spirito.

Oggi Ghalib ci appare come un gigante della poesia, e noi volgiamo lo sguardo verso lui per ringraziarlo del suo estremo ardire e della sua angoscia, del suo spirito innovatore e penetrante, soprattutto per essersi addentrato, senza facili certezze, nel dilemma dell’essere e del non-essere.

Sempre scettico di se stesso, Ghalib spinge i suoi lettori a esserlo di se stessi.

donna cinese antica

donna cinese antica

La lingua Urdu e il ghazal

 La lingua Urdu si sviluppò in India dal X sec. in poi, negli accampamenti militari degli invasori musulmani provenienti da Occidente. Essa è commistione delle lingue locali, basate sul Sanscrito, con elementi di Persiano, Arabo e Turco. Con il tempo l’Urdu divenne lingua letteraria delle più raffinate. Grandi poeti lo preferirono al Persiano per scrivere le loro opere più significative.

Il ghazal, forma poetica di origine Araba e poi Persiana, si articola in una sequenza di singoli bayt, o distici, in numero variabile.

I due versi del primo distico fanno “rima” (più propriamente si tratta di un ritornelloradif). Questa si ripete nel secondo verso di ciascun distico successivo. Lo schema dunque è: aa, ba, ca, da, ea, fa, ecc.

Se è impossibile enumerare in questa sede le altre convenzioni stilistiche legate alla forma, è necessario però dire che il ghazal non prevede, in genere, lo sviluppo di un dato tema poetico su tutto l’arco della composizione – così come succede, ad esempio, nel sonetto occidentale (che da esso sembra derivare). Ciascun bayt (distico) affronta un tema, una riflessione, una immagine, e la sviluppa, risolvendola al suo interno, per cui risulta un mondo completo in se stesso.

Si dice che il ghazal sia l’anima della poesia Urdu. In Ghalib esso è come una collana di perle: ogni distico è unico, ma legato agli altri per mezzo di un filo tanto sottile quanto tenace.

Questa è la prima volta che viene proposta una scelta di ghazal del poeta indo-musulmano tradotta in italiano e disancorata dalla ricerca filologica pura.

Le poesie di Ghalib, specialmente in forma di popolarissime canzoni, costituiscono ancora oggi nel subcontinente un patrimonio poetico vivente amato e condiviso da tutti. Tipico di quell’ethos è proprio il singolare fatto che i versi di un poeta così arduo e spesso oscuro, possano stare sulle labbra anche dell’uomo di strada. Ciò è dovuto in parte al fatto che in Ghalib, è del tutto fluido il passaggio, nello stesso contesto, dal dialogo amoroso al dialogo profondo con il Sé e con l’Inconoscibile.

Presentiamo tre ghazal e una serie di sher,  nome che designa un distico che spicca per bellezza e significato, e viene dunque spesso scorporato dal ghazal di appartenenza e presentato da solo.

Per la traslitterazione dall’originale in lettere Romane, si è usato il sistema diacritico semplificato.

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

               Ghazal

sab kahāñ kuchh lālah-o-gul meñ numāyāñ ho ga’īñ
ķhāk meñ kyā sūrateñ hoñgī kih pinhāñ ho ga’īñ

non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere

yād thīñ ham ko bhī rangārang bazm-ārā’yāñ
lekin ab naqsh-o-nigār-e tāq-e nisyāñ ho ga’īñ

anche noi ricordiamo lo splendore di sontuose e polìcrome feste
meri arabeschi ormai, che sbiadiscono nella nicchia dell’oblìo

thīñ banāt un-na’sh-e-gardūñ din ko parde meñ nihāñ
shab ko un ke jī meñ kya ā’ī kih ’uriyāñ ho ga’īñ

le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
perché mai ascesero nude, radiose nella notte?

jū-e khūñ āñkhoñ se bahne do kih hai shām-e firāq
maiñ yih samjhūñgā kih sham’eñ do firozāñ ho ga’īñ

la sera dell’addìo, sgorghi pure un fiotto di sangue dagli occhi –
mi farà pensare a due luci diventate incandescenti

in parīzādoñ se leñge khuld meñ ham intiqām
qudrat-e haq se yihī hūreñ agar vāñ ho ga’īñ

di questa progenie di fate ci vendicheremo in cielo –
se per giustizia divina le ritroveremo houri (donzelle) lassù

nīñd us kī hai dimāgh us kā hai rāteñ us ki haiñ
terī zulfeñ jis ke bāzū par pareshāñ ho ga’īñ

suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome

maiñ chaman meñ kyā gayā goyā dabistāñ khul gayā
bulbuleñ sun kar mire nāle ghazal-khvāñ ho ga’īñ

al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti

vāñ gayā bhī maiñ to un ki gāliyoñ kā kyā javāb
yād thīñ jitnī du’ā’eñ sarf-e darbān ho ga’īñ

e se anche andassi lassù, che risposta dare alle ingiurie di lei:
le preghiere che ricordavo le sprecai tutte sul guardiano

jāñ-fizā hai bādah jis ke hāth meñ jām ā gayā
sab lakīreñ hāth kī goyā rag-e jāñ ho ga’īñ

il vino è afflato vitale – le linee della mano che regge il calice
vanno tutte pulsando verso la grande vena dell’Essere

ranjh se khūgar hu’ā insāñ to mit jātā hai ranj
mushkileñ mujh par parīñ itnī kih āsān ho gaīñ

quando al dolore l’uomo si abitua, il dolore se ne va –
di guai me ne capitarono tanti, finché non mi parvero leggeri

yūñ hī gar rotā rahā ghālib to ay ahl-e-jahāñ
dekhnā in bastiyoñ ko tum kih virāñ ho ga’īñ

gente del mondo! se Ghalib continua a versare lacrime così
questi rioni affollati diventeranno una città fantasma

India 4
Singoli sher

* * *
yā rab zamānah mujh ko mitātā hai kisliye
lauh-e jahāñ pah harf-e mukarrar nahīñ hūñ maiñ

Dio mio, perché il Tempo mi cancella?
io non sono una lettera (cifra) scritta due volte sulla lavagna del mondo

* * *
ab maiñ hūñ aur mātam-e yak shahar-e ārzū
torā jo tū ne ā’inah timsāldār thā

e ora io sono, e il dolore di una città che anela:
lo specchio che rompesti era creatore d’immagini

* * *
dair nahīñ haram nahīñ dar nahīñ āstāñ nahīñ
baithe haiñ rah-guzar pah ham ghair hameñ uthā’e kyūñ

non un tempio, non la Ka’aba, non una porta, né una soglia:
stiamo seduti sul ciglio della strada – perché mandarci via?

* * *
nah gul-e naghmah hūñ nah pardah-e sāz
maiñ hūñ apnī shikast kī āvāz

non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
io sono la voce del mio stesso spezzarsi

* * *
hai kahāñ tamannā kā dūsrā qadam yā rab
ham ne dasht-e-imkāñ ko ek naksh-e pā paaya

dove sta il secondo passo del desiderio, oh Signore –
sulla desolazione del vissuto abbiamo trovato
l’impronta di un piede solo

India 6

Ghazal

hāñ khayo mat fareb-e hastī
har chand kaheñ kih hai nahiñ hai

no, non consumarti nell’abbaglio delle apparenze
anche se dicono, “qualcosa c’è, forse non c’è”

hasti hai nah kuch adam hai ghalib
ākhir tu kyā hai ai nahiñ hai

Ghalib, Essere e Nulla entrambi vacillano –
in fondo, come puoi tu essere e non essere

.

Ghazal

nah hu’ī gar mire marne se tasallī nah sahī
imitihāñ aur bhī bāqī ho to yih bhī nah sahī

se la morte non mi recasse alcun conforto, pazienza
dovessi superare altre prove, di nuovo, pazienza

ek hangāme pah mauqūf hai ghar kī raunaq
nauhah-e gham hī sahī naghmah-e shādī nah sahī

è il continuo via vai che dà calore alla casa –
se questo è un grido di angoscia, non un canto festoso, pazienza

nah satā’ish kī tamannā nah sile kī parvā
gar nahīñ haiñ mire ash’ār meñ ma’nī nah sahi

non ho sete di plausi, né bramo compensi:
se nei miei versi non è alcun senso, pazienza

.

Ghazal

zulmat-kade meñ mere shab-e gham kā josh hai
ik sham’a hai dalil-e sahar so ķkhamosh hai

nella mia buia dimora, la notte di dolore trabocca
c’è una candela, segno dell’alba, ma è spenta (ma ora riposa)

dāgh-e firāq-e suhabat-e shab kī jali hu’i
ik sham’a rah ga’i hai so vuh bhī ķhamosh hai

arsa dall’angoscia del notturno lasciarsi
è rimasta una candela – anch’essa è spenta

āte haiñ ghaib se yih mazāmiñ khiāl meñ
ghālib sarīr-e khāmah navā-e sarosh hai

giungono dal Vuoto questi temi all’immaginare –
Ghalib! il frusciare della penna è richiamo dell’Arcangelo

*Questo lavoro è frutto di una collaborazione fra A.shok Vajpeyi e Steven Grieco. Il primo dei contributori è poeta in lingua Hindi e saggista. Ha creato e diretto per diversi anni il Bharat Bhavan Culture Centre, Bhopal, nel Madhya Pradesh. Il secondo è poeta in lingua Inglese e traduttore.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com

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QUATTRO POESIE INEDITE di Steven Grieco “All’usignolo”, “Tradizione orale”, “Girasoli neri” “La protopoesia” – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa, Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Email: protokavi@gmail.com

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

È difficoltoso, per un lettore italiano, entrare dentro la poesia di Steven Grieco, poeta bilingue, inglese italiano, che ha vissuto e studiato per gran parte della sua vita in Asia, a contatto con culture antiche e un mondo in sviluppo tumultuoso come l’India dove lo sviluppo industriale convive con un mondo antichissimo e statico. Grieco, proprio per questa sua duplicità e la sua cultura cosmopolita, riesce a fare un discorso poetico complesso, che oscilla tra poesia e metapoesia, poliedrico, indiretto, allusivo, non immediatamente comunicativo, oserei dire trans-comunicativo (cioè che punta ad un surplus di comunicazione poetica mediante una apparente sottrazione di parole-referenti), che alterna il testo base con un testo (o sotto testo) parallelo, sottostante. Entrambi i testi (base e parallelo) si articolano tra serie di parole e di immagini, talora omonime o imparentate, a volte affini nell’aspetto fonico o in quello semantico, a volte diverse; le immagini vengono assemblate per omologia e isotopia, e anche per contrasto, così il testo, oltre che e prima che nella sua compagine sintattico-semantica, ci si rivela come un complesso schema di richiami e di rimandi tra parole, enunciati e immagini tra il testo base ed il testo sottostante, o parallelo (sottostante o soprastante o lasciato lievitare in sospeso tra le righe del testo base), suddiviso in strofe (che hanno anche una funzione fotogrammatica) che si susseguono secondo il concetto di variazione di ciò che è invariante.

Tutta intima, rastremata, interna e internalizzata su un letto di degenza, la poesia di Steven Grieco-Rathgeb sta nella camera operatoria della poesia in auscultazione di minimi cenni, di minimi trasalimenti, di sottili indizi e ossessioni che ritornano alla coscienza non per essere rivelate quanto per essere tradite. Alla luce del giorno (giacché la poesia di Grieco è intrisa di luce), la Poesia si incarica di ricacciare indietro alcune parole nell’oscurità, farle riposare all’ombra, nel crepuscolo, per poi, all’improvviso, osservarle nella piena luce del giorno con i loro colori splendenti. Grieco-Rathgeb lascia che le parole vengano a lui dopo una lunga trasmigrazione nel mondo e nel suo pensiero, soltanto dopo questa lunga trasmigrazione accetta le parole: «il loro germinare, / così le migrazioni rivelano orizzonti impensati». Nell’ode «all’usignolo», Grieco-Rathgeb si pone alla ricerca dell’origine, dell’inizio del canto, perché nessun canto è più puro di quello dell’usignolo in quanto libero dall’usura  del commercio semantico:

Nessuno meglio di voi canta
che il canto non ha inizio
 

– non laringe, non gola, non lingua –
questa follia avvampa
                                     si propaga!

Nell’usignolo c’è tutto il mistero della voce e del canto. Il mistero delle parole prive di semantica. Quali parole utilizzare e perché, si chiede costantemente Steven Grieco mentre accenna quasi distrattamente a parlare d’altro. Perché la voce precede il canto, mentre il canto si volge verso l’origine, come Orfeo che si volta a guardare Euridice. Ma è in questo labilissimo atto del volgersi indietro che il canto scompare e la magia si dissolve, ed Orfeo ripiomba nel buio. La poesia di Steven Grieco nasce, come ogni poesia che proviene da un pensiero poetante, da un divieto, da una proibizione, da una interdizione all’ingresso nel «sacro»; vuole oltrepassare la soglia, scardinare il divieto, sconfiggere la morte delle parole. È una lotta titanica quella che qui si intraprende. La poesia di Grieco non ha un oggetto come non ha un soggetto individuabili e stabili. Guarda da un luogo dell’aria e tende verso l’aria, misteriosa e guardinga, timida e ritrosa, vorrebbe il tutto e subito ma non può nulla, perché nulla è in suo potere. Avanza con passo da psicopompo e da vestale del tempio di Vesta con un verso anagogico lungo il precipizio di una scala a chiocciola, sempre più a fondo, sempre più ripida e scoscesa. Danse macabre attorno ad un fuoco fatuo, ad un girasole nero.

E mentre vi ascolto, non posso mai conoscere gli alberi che si
frappongono agli alberi

mai conoscere la luce gorgheggiata, il vostro cantare
che canta l’Io

Gli «alberi che si frappongono agli alberi» e che ottundono la visione. Un antico ideogramma cinese rappresenta l’Essere come un bosco pieno di foglie, foglie che impediscono la visione del lettore a spingersi al di là. «La luce gorgheggiata» del misterioso usignolo ci parla dal luogo che ottunde la nostra visione del bosco.

E gli alberi sulla collina, in questa tenebra così assorta, sono l’altro
da se stessi…

Steven Grieco

Steven Grieco

All’usignolo

1.

Nessuno meglio di voi canta
che il canto non ha inizio

– non laringe, non gola, non lingua –
questa follia avvampa
si propaga!

e per quanto possiamo desiderarne la scintilla
essa non è che una scintilla
insidia all’abbandono

che acquieta
le voci concitate
il pesticciare di passi in sogno

così che nella notte
stupefatto
arriva
questo suono illuminato

per dire infine
il suo, il nostro sparire

sempre radioso sempre magnifico
sempre luogo dell’inudito

vascello senza ormeggio,
naufrago e oscuro

soltanto per noi

2.

Minuscoli buchi di luce che ruota, sussurri che spargono solo se stessi

dilagando fuori dall’oscurità, ad occhi spalancati, l’imprevisto
essere così

Ovunque, adesso, in sempre più luoghi – buchi di luce che gorgheggia,
fissano, rispenti dentro la notte

E gli alberi sulla collina, in questa tenebra così assorta, sono l’altro
da se stessi, sono la propria incenerita nerezza che ti canta

Mentre ascolto, risuona l’inimmaginabile – la trasparenza d’ogni
nostro vissuto, questo sapiente fremente specchio-crepuscolo.

Il mio corpo fruscia, e penso “voi-ed-Io”; poi tutto tace, e ancora
cantate interni: e questo inganno, questo segreto svelato,
è soltanto loro sulla muta collina

E mentre vi ascolto, non posso mai conoscere gli alberi che si
frappongono agli alberi

mai conoscere la luce gorgheggiata, il vostro cantare
che canta l’Io

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Tradizione orale *

L’etimo di leggere: questo conosci.
E’ raggiungersi dentro e oltre,
sfiorare in ogni attimo l’estremo ardire?
O esiste chissà dove una soglia
che noi varchiamo verso un’origine nascosta?
Perché le parole che da ogni lato si volgono
ingannevoli,
non mostrano tutto il visibile
(visto che lo stesso guardare così presto
si vanifica)

Dunque non dire è “scritto”; non cercarvi
un tesoro favoloso, un senso
che mai nessuno pensò di dargli –

qualcosa è volato più in alto,
balenando oltre la propria ombra,
colpo d’ala
all’interno di una cupola:

e anche “cupola” è solo sordità, eppure
freme nello splendore di quell’eco,
risuona nella gioia che non ha eco.
Dopo, l’ala rabbuia.

Questa scala che sale così ripida
non potrà mai salire al proprio vertice.
Emozione di luce: un giardino, chissà.

.
*Il senso della poesia si muove fra tradizione orale e tradizione scritta. Il primo verso in inglese allude all’etimo antico germanico “rede” “eloquio”, da cui discende il verbo “to read” “leggere”. Vi è qui un curioso parallelo con la parola italiana “leggere”, che risalirebbe al greco “leg-ein” “discorrere”, “lexis” “parola”, e in ultima istanza al termine “logos”.

 

Girasoli neri

L’utile sulla perdita è stato grande,
il mondo s’è aperto come un libro aperto.

Ovunque guardo ci sono girasoli neri,
il loro splendore risucchiato nei propri abissi.

Incredibile che questa, la progenie della luce,
stia al nostro cospetto come ciechi in un campo:
semi neri, a miriadi, pronti a involarsi.

Come il loro germinare,
così le migrazioni rivelano orizzonti impensati
dopo la fine di ogni attesa

quando è il volo ulteriore di quegli stormi
a definire ogni cielo, ogni paesaggio.

E dopo il viaggio così lontano da se stesse
queste parole, pronunciate, le sappiamo poesie:

ma lasciandoci dietro perfino le parole – girasole, seme, poesia –
sono perdita, solo perdita.

 

steven grieco il quadrato

steven grieco il quadrato

La protopoesia

ricordo di Anuradha Beri

Prima di entrare in questa sala illuminata a giorno
potevo ancora dire che in te stava il nostro ultimo calore:
ancora vivevamo nell’abbraccio della tua
notte.

Adesso cammini e cammini al piano di sopra,
nell’antico poema mistico che è la mia mente
ascolto il tuoi passi echeggiare sul pavimento di marmo lucente.
Qualcuno lo trova strano?
Per me ci sono segni e riferimenti:
e io torno, volta dopo volta, in segreto,
alla tua sala dagli alti soffitti
dove la luce diurna non si spegne mai
ma è notte
con tutte le macchine parcheggiate fuori
e ogni cosa
dimora del silenzio.

In questa chiarezza, le vie subito si perdono, il mio sguardo acuto
sfuoca; i pericoli stanno ovunque, il dolore
soltanto ricopre di un velo
la stretta fessura,
il grembo tra veglia e sonno
dove tenevi in braccio il tuo bimbo,
nella voragine tra due mondi.

Ma chi sono per negare
questa mia immagine di uno spazio aperto?
Perché odiare me stesso per un tale inganno
se è qui che sto,
nella tua sala dagli alti soffitti
dove la luce non si spegne mai
e io ispiro la tua notte

che vive: la tua notte
che mi toglie il respiro: dentro, fuori,
senza ormai alcun senso.

Mi siedo, libero da ogni pensiero.
Mi siedo, tormentato oltre ogni pensiero.

(2012)

giorgio linguaglossa 2011

giorgio linguaglossa 2011

 Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2005 esce il romanzo breve 24 Tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato Mimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. nel 2014 cura la pubblicazione dell’Antologia di poesia Poeti del Sud (EdiLet, Roma) e nel 2016 cura l’Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma)>; sempre nel 2016 esce il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Ha fondato la rivista internazionale di letteratura lombradelleparole.wordpress.com – sito  personale http://www.giorgiolinguaglossa.com e-mail: glinguaglossa.@gmail.com

12 commenti

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LA CENSURA DI NATALE – TRASCRIZIONE DI UN RECENTE SCAMBIO DI COMMENTI TRA GIORGIO LINGUAGLOSSA E LA SIGNORA CLAUDIA CROCCO SUL SITO “LE PAROLE E LE COSE” CON CONSEGUENTE CENSURA DELLE IDEE RITENUTE NON “PERTINENTI” ALL’ARGOMENTO

 Si trascrive per i lettori del blog un recente scambio di commenti tra Giorgio Linguaglossa e la signora Claudia Crocco sul sito “le parole e le cose” a proposito di un articolo della Crocco sulla poesia contemporanea. Crediamo sia interessante il modo con il quale la Crocco e la redazione del sito si siano sottratti a rispondere alle obiezioni di fondo espresse da Linguaglossa operando una censura delle idee, indice, non solo di debolezza teorica, arroganza e  presunzione, ma anche di incapacità ad accettare il terreno di un approfondimento critico delle questioni di poetica poste.

LA CENSURA DI NATALE

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

Giorgio Linguaglossa al Mangiaparole, Roma 2013

 giorgio linguaglossa

  1. 20 dicembre 2014 a 14:01

Pur apprezzando lo sforzo dell’autrice dell’articolo, mi chiedo: come si fa a dedurre delle linee generali di sviluppo della poesia italiana contemporanea se si parte da due libri di ragazzi, lasciatemelo dire, molto modesti; davvero, lasciamo almeno maturare un po’ questi ragazzi e non affibbiamo loro delle responsabilità eccessive. I testi riportati sono più che eloquenti intorno al loro modesto bagaglio tecnico e maturità espressiva. Ci sono autori contemporanei di maggiore livello estetico da prendere in considerazione sui quali costruire un discorso critico, credo.

  1. Gabriele Fratini
    21 dicembre 2014 a 18:56

Se posso chiederti, Giorgio, quali sono? Tu da chi partiresti? Un saluto.

  1. giorgio linguaglossa
    21 dicembre 2014 a 21:02

Gentile Gabriele Fratini,

in generale sono restio a fare dei nomi di autori di poesia contemporanei, chi ha curiosità in tal senso può rovistare nel blog lombradelleparole.wordpress.com che faccio con altri autori, ma certo una cosa va detta: è da molti anni che non vedo in giro un autore giovane (diciamo 30 o 40 anni) che abbia maturato una propria maturità espressiva, tutti più o meno scrivono in un buon italiano medio, mediamente coltivato; io cercherei invece in autori più anziani i quali hanno avuto il tempo di metabolizzare il mondo molto complesso di oggi. Potrei fare due nomi di poetesse morte: Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996) e morta nello stesso anno e Maria Rosaria Madonna autrice di un unico libro Stige (1992) e morta nel 2002. Tra i vivi io direi Anna Ventura, autrice che ha iniziato nel 1978 e che ha stampato quest’anno una Antologia Tu quoque (1978-2013) e, tra gli uomini, Roberto Bertoldo (che è anche filosofo) autore di alcuni pregevoli libri, Steven Grieco e Luigi Manzi. Ma, al di là dei nomi, mi sembra che la direzione di sviluppo della poesia italiana del tardo Novecento e di questi ultimi anni sia quella che io ho sintetizzato nella formula “Dalla lirica al discorso poetico” nel mio omonimo lavoro critico “Storia della poesia italiana (1945-2012) stampato con EdiLet di Roma . Il discorso critico sulla poesia italiana di questi ultimi decenni è ovviamente molto complesso e non può certo essere riassunto qui in poche righe, chi è interessato alla problematica della poesia contemporanea può consultare il blog sul quale scrivo.
Cordiali saluti

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 00:23

Grazie Giorgio Linguaglossa, leggerò ciò che trovo di questi autori, e il suo blog. Sono interessato ad approfondire. Tra lei e Claudia Crocco mi avete fornito molto materiale da leggere. Buone feste.

francesca diano

Francesca Diano

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 09:58

Gentile Gabriele Fratini,

trascrivo un mio commento fatto sull’ombra delle parole del 25 maggio 2014 alle 16.11=

«Sono particolarmente contento della qualità delle poesie di questo post: Antonio Sagredo, Annamaria De Pietro, Francesca Diano e Donatella Costantina Giancaspero ci offrono un tipo di poesia che si allontana e di molto dalla poesia che oggi va di moda un po’ troppo facile e, diciamolo pure, abbastanza scontata che tratta il “quotidiano” e il “privato”. L’intento dell’Ombra delle Parole è appunto quello di mostrare che c’è un altro tipo di poesia, che tratta tematiche e non tematismi, che ri-adotta le tematiche eterne, ad esempio quelle del rapporto che lega l’uomo contemporaneo con il Potere, e quella che tenta di decifrare(e leggere) in modo nuovo il Mito (e non usarlo in modo parassitario per abbellire una composizione).
Sono convinto che la scelta di un “tema” diverso è già in sé un atto ESTETICO e POLITICO, di contro all’omologismo che invade le scritture poetiche parassitarie che non pensano neanche a mettere in discussione i propri assunti di partenza. Per fare una poesia diversa bisogna prima pensarla, averla pensata lungamente; è fin troppo facile fare poesia di seconda mano, diciamo assumere come dato di fatto la “secondarietà” come un assioma basandosi sull’assunto che tanto il Novecento ha già detto tutto e che non c’è niente di nuovo a dirsi e a farsi. E allora, occorre dirlo in modo netto..e chiaro: c’è oggi in Italia chi fa, con ottimi risultati una poesia che non assume la “secondarietà” come dogma inconfutabile. La “secondarietà” si confuta da sola: chi continua a scrivere in continuità con la linea discendente di una tradizione che non c’è più tradisce soltanto il buon senso oltre che la logica elementare del pensiero.
È oggi possibile scrivere una poesia che non ricalca parassitariamente le orme di quella passata».

  1. Gabriele Fratini
    22 dicembre 2014 a 13:34

Sì grazie Giorgio lo avevo letto e sono abbastanza d’accordo. Ho lasciato un commento. Sto visitando anche il suo sito

Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 14:59

Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: che «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, che anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e nel disegno razionale. Per il pensiero liberale la Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc. Ma dopo due guerre mondiali e la guerra fredda non si può più formulare un pensiero come questo. Per Adorno dopo Auschwitz non si può più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica, giocosa etc.

Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la demoltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento. Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività?, la Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore?. Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento di un palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. La poesia ironica e scettico-urbana del post-negativo si muove in questa topografia assiale delle rovine (del linguaggio e del senso); si muove, con eleganza e ironia magari, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina!); si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie, omofonie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e de-negarlo ammiccando alla impossibilità per la poesia di prendere la parola, di parlare facendosi schermo dei famosi versi di Montale: «Solo questo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo».

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:23

@Giorgio Linguaglossa
Non deduco linee generali a partire da due libri: mi pare che il mio discorso sia un po’ più ampio, e che vengano tirate in ballo altre opere. Inoltre, cosa le fa pensare che io non abbia costruito discorsi critici su autori (e periodi) diversi altrove?
Mi fa piacere che abbia avuto modo di esprimere la sua opinione e di segnalare il suo sito. Da ora in poi, però, verranno approvati soltanto commenti in cui si discute il post.

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 17:42

gentile Claudia Crocco,

le faccio presente che mi sono limitato a rispondere alla domanda di Gabriele Fratini. Peraltro, la mia riflessione era intesa ad approfondire e ampliare il discorso da lei avviato. Ritengo che avviare un discorso critico parallelo a partire dal suo post sia utile e interessante per chi voglia capire di che cosa si sta parlando. Forse lei intende la riflessione come un semplice commento interpolazione al suo testo, io invece ho un’altra idea del dibattito critico che credo debba essere una agorà dove si confrontano le tesi e non un luogo dove si emettono dei silenziatori.

  1. Claudia Crocco
    22 dicembre 2014 a 17:49

Gentile Giorgio Linguaglossa,

se avessi voluto mettere dei silenziatori e non dare vita a un dibattito critico, non avrei approvato giudizi negativi sul mio saggio (un paio dei primi). E non avrei approvato cinque suoi commenti, nei quali il discorso critico si basa solo su citazioni da suoi testi (con l’eccezione di Adorno) e dal suo sito. Mi creda, non ho intenzioni censorie.
Mi pare che lei abbia anche risposto a Fratini e che nessuno lo abbia impedito.
Non vedo molta volontà di confronto, però, da parte sua.

Saluti,

C.

Peter Sloterdijk

Peter Sloterdijk

  1. giorgio linguaglossa
    22 dicembre 2014 a 19:27

gentile Claudia Crocco,

comprendo perfettamente che il suo angolo visuale parte dall’esame di due autori della generazione degli anni Ottanta (la sua medesima) per valorizzarne il lavoro, forse è giusto così, ognuno parte dalla cognizione dei propri interessi, il suo lavoro interpretativo è utile, ma necessariamente parziale, e, per rispetto del suo impegno, non sono entrato a contestare o dimidiare il suo articolo o parti del suo articolo, che va bene così, ha dato il suo contributo critico a una serie di problemi veramente vasti e complessi. Però, suvvia, sia concesso anche all’interlocutore di turno di ampliare l’orizzonte del discorso anche a chi utilizza altre categorie di pensiero critico, non si richiuda a riccio entro il proprio recinto, da parte mia non c’è alcuna intenzione paternalistica ma chiedo che da parte sua neanche ci sia una intenzione censoria.

  1. Claudia Crocco
    23 dicembre 2014 a 00:34

Gentile Giorgio Linguaglossa,

e invece si sbaglia. Parlo di due libri di miei coetanei, è vero, ma poi il discorso diventa più ampio, e altre opere vengono coinvolte. D’altronde, il Novecento è pieno di critici che compiono (senz’altro meglio di me, certo) la stessa operazione. Non penso affatto che parlare di opere della mia generazione sia limitante, né che conduca a usare categorie ristrette. Al contrario, mi sforzo di usare categorie che siano in continuità con la storiografia della poesia che ho studiato, e allo stesso tempo adeguate a ciò che si scrive oggi. Non so quanto mi riesca; però rifiuto del tutto il suo commento generico, superficiale, e paternalista. Ben venga qualsiasi commento puntuale, anche brusco, ma basta con questo tronfio tono condiscendente. Mi faccia pure le pulci, se vuole: you are welcome. Non approverò più commenti autoreferenziali in cui, per “ampliare gli orizzonti”, sponsorizza solo le sue opere e il suo sito.

Saluti,

C.

  1. giorgio linguaglossa
    23 dicembre 2014 a 10:15

gentile Claudia Crocco,

mi creda, lo ripeto, non sono entrato dentro la sua argomentazione critica non per snobismo o per (come lei mi accusa) paternalismo, ma perché i problemi sono veramente molto complessi i cui nodi si possono rintracciare (se li si vuole risolvere) ben prima della generazione degli anni Ottanta, e precisamente agli inizi degli anni Settanta. Prendiamo ad esempio l’opera del maggior poeta italiano del Novecento: Eugenio Montale. Partiamo da lì.

franco fortini

franco fortini

Dopo Composita solvantur (1995) di Franco Fortini, la poesia diventa sempre più piccolo borghese: si democraticizza, impiega una facile paratassi, la proposizione si disarticola e si polverizza, diventa semplice insieme di sintagmi molecolari; si risparmia, si economizza sui frustoli, sui ritagli, sui resti del senso (un senso implausibile ed effimero), si scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!), la «traccia»; il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha de-negato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la de-negazione della citazione. Il poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose la poesia si accostuma all’andazzo medio, fa finta di produrre «senso» e «valore», ma produce soltanto vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, per ri-usarli nell’economia stilistica imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione e della recessione. Si profila la Grande Crisi che ha prodotto gli ultimi tre decenni di «vuoto» della forma-poesia (altro concetto dimenticato)!. Che cosa si intende oggi per forma-poesia? Che cosa si intende per dismetria? Che cosa è rimasto dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzanti?.

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

Hamburger Banhof, Berlino, Città trasparenti

La poesia non ritiene più indispensabile cercare di edificare su Fondamenta solide, equivoca, prende l’abbaglio di credere che si possa costruire su Fondamenta instabili o, addirittura, sulla mancanza di Fondamenta. La poesia italiana contemporanea sembra aver perso energie, non crede più possibile ricreare le coordinate e le condizioni culturali per una poesia che voglia comunicare con parole «nuove» al pubblico (e poi: quali parole?, quale vocabolario?). La poesia parla del non-senso?, del senso?, del vuoto tra le parole?, del vuoto dopo le parole?, del vuoto prima delle parole?. Si ha l’impressione di una gran confusione. Ma qui siamo ancora all’interno delle poetiche della protesta e del disincanto del tardo Novecento!. La poesia ironica?, la poesia giocosa?, il ritorno all’elegia?, la poesia come battuta di spirito?, la poesia degli oggetti?, la poesia del mito?; il campo appare disseminato di mine, è un campo minato di rovine del pensiero. È vero?, dobbiamo credere ai pessimi maestri che ci hanno detto queste cose?, che il mondo è incomprensibile e altre sciocchezze?, e che la poesia si deve adeguare all’indirizzo medio e ai gusti di un medio pubblico mediamente acculturato?. La poesia tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta, dei materiali esausti, degli isotopi delle parole decadute, dei detriti per riutilizzarli in una composizione emulsionata e cementificata. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

Mauro Bonaventura sphere_red_man_giant

C’è una gran confusione, una «dissolvenza» di tutti i concetti «forti», «solidi». Qualcuno dice di preferire ciò che è «liquido», «leggero», che la «leggerezza» è una virtù; qualcun altro dice di adottare il «quotidiano», il «privato»; qualcun altro sostiene di voler adottare il linguaggio della comunicazione, e così via; ho il sospetto che si tratti di comodi alibi per non affrontare di petto quella cosa che abbiamo davanti: la Grande Crisi della poesia italiana. Si dice che non si dà più alcuna certezza, nessuno è così sciocco da investire né sulla «leggerezza», né sulla «pesantezza». E il poeta?. Qualcuno dice che il poeta non ha nessun salvagente cui aggrapparsi, nessuna ancora cui legarsi, nessun punto di vista da difendere, e che è costretto a fare poesia «turistica», da intrattenimento, poesia da bar; appunto, c’è chi difende il turismo intellettuale: la chatpoetry quale parente stretta della videochat; c’è chi prova a fare poesia con il linguaggio dei cellulari. Si va per iniezioni, tentativi inconsulti; e la poesia diventa molto simile ad una attività approssimativa che scimmiotta i linguaggi telemediatici.

eugenio montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Oggi va di moda

Oggi va di moda porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l’idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall’altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dalla letteralizzazione delle proposizioni, si procede sulla strada della de-metaforizzazione. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dopo “Satura” (1971), l’opposizione fra il letterale e quotidiano (Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stata espulsa la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base, risulta quasi incomprensibile (almeno a chi è abituato al modello segmentale del verso lineare). Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (parlo di due poetesse ormai defunte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato la poesia all’abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.

calvino e pasolini

calvino e pasolini

Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

martin heidegger nel bosco ala fontana

martin heidegger nel bosco ala fontana

Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1968), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

edmund husserl

edmund husserl

Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che inglobi la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

25 dicembre ore 10,00

Claudia Crocco

@Giorgio Linguaglossa.

Intervengo un’ultima volta per dirle due cose:

1) il suo commento esprime molta presunzione. Questo sito dà spesso attenzione a poeti di valore, e di recente ha pubblicato svariate cose su Fortini. Non mi pare che lei sia l’unico a occuparsi in modo serio di poesia contemporanea, come sembra suggerire qui.

2) Non approverò più commenti di questo tipo.

Saluti,

C.

 

helmut newton nudo in un interno

helmut newton nudo in un interno

25 dicembre ore 10.30

 Giorgio Linguaglossa

 gentile Claudia Crocco,

 lei è arrivata al dunque: con tono intimidatorio dichiara che censurerà (“non approverò”) ogni altro mio intervento “di questo tipo”, sottraendosi così al dialogo e all’approfondimento delle questioni estetiche che avevo posto con il mio contributo. Le faccio presente che io non ho espresso pareri irriguardosi o, come lei scrive, “Presuntuosi” nei confronti del suo articolo, anzi, ho scritto che andava bene ma che occorreva ampliare la riflessione sulla crisi della poesia e retrodatarla agli inizi degli anni Settanta. A questa mia legittima obiezione lei non ha risposto. Le ricordo che è lei l’autrice dell’articolo e se un interlocutore le pone una questione (fondata o infondata) è lei che deve rispondere con un approfondimento o una precisazione. Il suo  diniego a fornire alcuna risposta è indice di un atteggiamento sprezzante e irriguardoso non soltanto nei miei confronti (che avevo posto la questione) ma nei confronti di tutti i lettori del blog.

Chiedo infine alla redazione del sito se è lei che può decidere di censurare una discussione o se, invece, questo compito spetti alla Direzione del sito.

E questa è una domanda che pongo alla Direzione del sito, che, spero, non vorrà sottrarsi alla mia legittima richiesta. Preciso, inoltre, che anch’io sono direttore di un blog e che non ho mai censurato nessuno tranne commenti che sfioravano il codice penale con frasari offensivi o diffamatori.

cordialità. Giorgio Linguaglossa

Risposta della redazione del sito.

@Linguaglossa

  1. a) Come sempre, la moderazione del post spetta a chi lo pubblica. In questo caso, a Claudia Crocco.
  2. b) L’autore del post non “deve” rispondere a un bel nulla. Se vuole risponde, altrimenti no. In generale, si ha voglia di rispondere a obiezioni intelligenti, pertinenti e formulate in modo sintetico e rispettoso. Si ha meno voglia di rispondere a obiezioni autoreferenziali, verbose e palesemente fuori tema. Quando poi le obiezioni paiono servire soltanto a spostare l’attenzione di tutti sull’ego di chi le formula, la voglia di rispondere – o anche solo di leggere – rischia di sparire del tutto. Ci pensi.

(gs)

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TRE POESIE INEDITE di Steven Grieco testo inglese a fronte: “Il ritratto del pittore” “Entrò dentro una perla” “Queste piante, questi animali” – Traduzione di Steven Grieco dall’inglese

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

  Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. indirizzo email:  protokavi@gmail.com

 

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Commento di Giorgio Linguaglossa

 È difficoltoso, per un lettore italiano, entrare dentro la poesia di Steven Grieco, poeta bilingue, inglese italiano, che ha vissuto e studiato per gran parte della sua vita in Asia, a contatto con culture antiche e un mondo in sviluppo tumultuoso come l’India dove lo sviluppo industriale convive con un mondo antichissimo e statico. Grieco, proprio per questa sua duplicità e la sua cultura cosmopolita, riesce a fare un discorso poetico complesso, che oscilla tra poesia e metapoesia, poliedrico, indiretto, allusivo, non immediatamente comunicativo, oserei dire trans-comunicativo (cioè che punta ad un surplus di comunicazione poetica mediante una apparente sottrazione di parole-referenti), che alterna il testo base con un testo (o sotto testo) parallelo, sottostante. Entrambi i testi (base e parallelo) si articolano tra serie di parole e di immagini, talora omonime o imparentate, a volte affini nell’aspetto fonico o in quello semantico, a volte diverse; le immagini vengono assemblate per omologia e isotopia, e anche per contrasto, così il testo, oltre che e prima che nella sua compagine sintattico-semantica, ci si rivela come un complesso schema di richiami e di rimandi tra parole, enunciati e immagini tra il testo base ed il testo sottostante, o parallelo (sottostante o soprastante o lasciato lievitare in sospeso tra le righe del testo base), suddiviso in strofe (che hanno anche una funzione fotogrammatica) che si susseguono secondo il concetto di variazione di ciò che è invariante.

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

La prima poesia “Ritratto del pittore” è una dichiarazione di metodo e di poetica trattata in terza persona, intorno alle raccomandazioni che il pittore rivolge a se stesso «prima di iniziare il suo lavoro». «Chi vuole rappresentare?». Ecco il problema principe. Soltanto allora il pittore

capisce
che l’unica via è la via che va avanti,
il volto intero che mai ha osato immaginare

La rappresentazione sarà riuscita quando il volto rappresentato sarà il prodotto di un lavoro su di sé, tale che permetta al pittore di non dare

eccessiva importanza
ai semplici lineamenti del viso,
ma li porrà dove essi già stanno:
così come il senso scaturisce
dalle parole che dormono –

Dunque, come è evidente da questa poesia, il senso scaturisce «dalle parole che dormono»; soltanto allora « Il suo ritratto sarà la memoria stessa». Non è la zona d’ombra dell’inconscio che guida la poesia di Steven Grieco ma è la zona d’ombra dell’essere dormiente, le «parole che dormono», il non-visibile.

Nella seconda poesia c’è un Signore che «Entrò dentro una perla». È ovvio che è  impossibile nella vita diurna entrare «dentro una perla» ma, nella vita notturna delle parole, questo è possibile. Chi è questo Signore? La poesia non lo rivela ma lo lascia arguire dal moto ondulatorio delle immagini dei versi. Il fulcro della poesia è in questa strofe:

L’estraneità fra te e me
non era Lui – noi
ci dimenticammo l’uno dell’altro pur stando faccia a faccia,
mentre Lui, seduto, infilava questo sogno infranto
dentro la cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male, attraverso
gli stessi posti che tornarono
e ancora tornarono

Steven Grieco

Steven Grieco

È l’Io, il «pagliaccio» che ha predisposto un teatro tortuoso e avvolgente. Il filo della poesia, come il filo di Arianna, si rivolge a ritroso, rivela il cammino a chi sa tornare indietro sulle proprie orme e interrogarsi.

 Nella terza poesia, “Queste piante, questi animali”  viene introdotto, attraverso un moto sinusoidale del verso che si restringe in cerchi concentrici sempre più stretti, il tema della presenza di lembi di Empireo nel nostro quotidiano attraverso l’accenno alla danza dell’amore delle egrette, questi volatili vestiti di bianco che si introducono nel bosco (simbolo e metafora dell’Essere) e della dispersione dell’uomo.

 (Giorgio Linguaglossa)

The painter’s portrait

Before setting to his work, the painter
of this image should remember:
Who is he portraying? and reflect
how the narrow corridor
through this world of chance
lies strewn with breakable misery of fear
and violent mishap,
and sudden bottomless manholes:

for, clearly, the likeness of an illustrious forebear
or even the vision of all humankind
unlocking in one single vast flower,
are not what lies in his heart of hearts:

but considering that he may no longer
be shielded from the thought of accident,
know the only way to be the way forward,
the whole face he’s never dared envision.

Then he will do his work in the best of ways,
and accomplish what he had always
striven for, knowing this to move strangely
between waking dream and recognition:

and play down the importance
of individual traits,
putting the features surprisingly
where they should go – much as meaning
rises out of words that sleep,
the city at night
resembling itself, intently,
outside the window engulfed in darkness.

So that his image may finally be expressed.

Then the painter will not only
have rendered cheekbones and shading,
not only conjured light in the eyes.

His portrait will be memory itself.

(2003)

.
Il ritratto del pittore

Prima di iniziare il suo lavoro
il pittore di questa immagine ricordi:
Chi vuole rappresentare? e rifletta
come l’angusto corridoio attraverso
questo fragile mondo dell’alea
è cosparso di paure e disperazione,
di violenti sinistri
e improvvise botole senza ritorno:

perché le fattezze di un illustre predecessore,
o anche la visione di tutto il genere umano
che si schiude in un singolo grande fiore,
non sono certo quello che lui ha nell’animo:

ma invece, sapendo di non essere più al riparo
dal pensiero di sciagure, capisce
che l’unica via è la via che va avanti,
il volto intero che mai ha osato immaginare.

Allora svolgerà il suo lavoro nel migliore dei modi,
realizzando ciò che da sempre si era prefisso,
ciò che lui ben sa muoversi oscuro
fra il sogno e l’estrema lucidità:

e non darà eccessiva importanza
ai semplici lineamenti del viso,
ma li porrà dove essi già stanno:
così come il senso scaturisce
dalle parole che dormono –
città di notte
assorto specchio di sé,
fuori della finestra nel buio incommensurabile.

Affinché la sua immagine possa compiersi.

Allora il pittore non solo avrà reso
zigomi e ombreggiature,
non solo evocato la luce degli occhi.

Il suo ritratto sarà la memoria stessa.

steven grieco il quadrato

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries –

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t Him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad, through
the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was transformed into air!

into a dome of twilight
with persons going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly He encompassed, slowly
encompassed us
till He hid
Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on

My heaven has split from top to bottom
And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

till I thought this life will last forever

(1999-2005)

 

Entrò dentro una perla

Entrò dentro una perla nel mondo
attraversò muri che nascosero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era Lui – noi
ci dimenticammo l’uno dell’altro pur stando faccia a faccia,
mentre Lui, seduto, infilava questo sogno infranto
dentro la cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male, attraverso
gli stessi posti che tornarono
e ancora tornarono

Sul sentiero che saliva così impervio,
la via si trasformò in aria!

in una cupola d’ombra
dove persone entrano e escono,
e ciascuno si fabbrica
il suo proprio sciame di pensieri,
larvati fantasmi e naiadi d’immagine,
e li appende
nella sua bianca desolazione

Pian piano Lui ci circondò,
circondò da ogni parte
finché scomparve

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
fa’ ruotare sulla punta del dito
la sfera su cui oscillo

Il mio firmamento si è spaccato da cima a fondo

E poi noi, prismi inconsapevoli,
tornammo sfavillando
nelle nostre prigioni

finché mi parve questa vita non aver più fine

 

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

These plants, these animals

Someone speaks of these beings
and his syllables are white, like them, and go
in the midday
hushed air

so that every tree can listen and glow
stock-still
grouping in the forest of clarity

and this be the brightest space
a non-space
as of felled logs

and audition spread among the gleaming
houses, almost a childlike cry
that all this IS
the perfect and pure of
“unrealized” –

and each blue-veined unreal one,
imperishable in the grass roots
of ever-presence

yet still bending
real and uncorrupted
into this duration

these thousands everywhere

egrets in a dance blinding one another
in their fever of white,
these live ones living in slant-eyed
bewitching fixity.

Ah, your instant of panic creation
But through my I,
through my enveloping clod of earth –

now and then
goes the luminous beam

the high whistling of words…

(2005)

.
Queste piante, questi animali

Qualcuno parla di questi esseri,
e le sue sillabe sono bianche, come loro, e vanno
nell’aria placata
di mezzogiorno

perché ogni albero possa ascoltare e risplendere
immoto
radunandosi nella foresta così chiara

e questo essere lo spazio più luminoso
un non-spazio
come di tronchi abbattuti

e l’ascolto allargarsi fra le case
radiose, quasi un grido fanciullesco
che tutto questo È
il perfetto e puro
“irrealizzato”

e perché ognuno d’essi, pur irreale e venato d’azzurro,
immarcescibile nelle radici dell’erba
della presenza-sempre

possa chinarsi
reale e incorrotto,
discendere in questo tempo finito

queste migliaia in ogni dove

queste egrette in una danza d’amore, l’uno nell’altra
abbagliati dal niveo delirio,
questi esseri viventi, che vivono occhieggiandosi
in magica fissità.
Ah, il vostro attimo di panica creazione…

Ma attraverso il mio Io,
attraverso la zolla di fango che mi racchiude

di quando in quando
va il raggio luminoso

l’alto inneggiare di parole…

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SETTE POESIE di Anna Ventura “Atena” “Noli me tangere” “Venere uscì dal mare”  “Antinoo” “Arbiter” “L’angelo freddo” “Gli sposi di pietra” – Sul tema Poesie su personaggi storici mitici o immaginari – Commento di Steven Grieco-Rathgeb

statua femminile

statua femminile

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti. Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo. È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013)

anna ventura

anna ventura

 Commento di Steven Grieco-Rathgeb

Il pensiero poetico di Anna Ventura si distingue, mi sembra, per una “velocità” tutta particolare: non necessariamente quella raggiunta attraverso la metafora o altre figure retoriche, e nemmeno quella di certi poeti orientali del passato, in cui la tensione metafisica preme in modo così forte sulla dimensione esistenziale-reale, che si crea un moto, capace di imprimere una inaudita, perfino auto-distruttiva, velocità nell’espressione poetica. In Anna Ventura sono l’estrema pulizia e chiarezza del verso i veicoli che le permettono di raggiungere di colpo il concreto delle cose e degli oggetti del pensiero. Su questo punto aggiungo soltanto qui qualche considerazione in più a ciò che è già stato rilevato da Giorgio Linguaglossa nella sua prefazione.

Dunque una velocità che rinsalda – paradossalmente – l’andamento pacato, equilibrato, intenso del verso; in cui le innervature dell’angoscia “esistenziale” sono per lo più sottintese, o espresse comunque con economia, e soprattutto senza quel particolare tipo di ironia “leggera e distaccata” che tanto ha contribuito a trivializzare la poesia a cavallo fra XX e XXI secolo.  In lei il ritmo serrato serve a superare la pesantezza dell’ogni giorno, che non è necessario ribadire, per ricordare invece frammenti di vissuto che rilucono di un qualche senso e possibilmente indicano un filo di continuità. Nei momenti migliori, infatti, le sue poesie dischiudono, tutte insieme, un intimismo puro, nitido, pasternakiano. Una somiglianza con il poeta russo che non è casuale, anzi la dice lunga sui nostri tempi, in cui vige una censura sottile, strisciante, della libertà di pensiero, così come un tempo in Unione Sovietica esisteva la censura ufficiale. Laddove impera infatti un Pensiero Unico, di qualsiasi colore esso sia, viene sempre danneggiata la solidarietà emotiva ed intellettuale fra gli individui, la loro capacità di pensarsi pienamente “umani”.

anna ventura

anna ventura

 Nell’attimo “inimmaginabile” di questa poesia, l’autrice deve a Blake (Tiger tiger burning bright / in the forests of the night) tutto quello che lei può o potrà mai dire in campo poetico: e nello stesso tempo al poeta inglese lei non è debitrice di assolutamente niente, non del minimo granello di polvere contenuto nella sua più piccola poesia. Per un semplice motivo: Anna Ventura ha saputo ri-forgiare questa, fra le tante immagini primordiali dell’uomo: il senso di stupore di fronte all’ignoto, che resiste a qualsiasi sistemazione filosofica, teologica o scientifica: la stessa immagine a cui Blake dette espressione due secoli fa in Inghilterra, e qualcun altro in Asia o in Africa mille o forse diecimila anni fa. Questa volta è stata Anna Ventura a ricreare l’immagine: conferendole quel senso inaspettato della cosa appena nata, appena emersa dal nulla, miracolosa come l’elefantino o il cerbiatto appena usciti dall’utero della madre, a stento capaci ancora di tenersi in piedi.

Ma quante proto-immagini e quanti elefantini sono nati e rinati nei milioni e milioni di anni? Ecco un aspetto fra i più importanti della poesia autentica: stare – a modo suo – vicinissima alla vita, quella che ognuno di noi vive. Ed è in questo senso che ho usato più sopra la parola “inimmaginabile”: che non denota semplice “sbalordimento”, bensì indica l’attimo pre-cogitativo, prima che la capacità immaginifica umana si muova e inizi a manifestarsi.

Nella poesia di Anna Ventura c’è inoltre forte il desiderio di tornare a casa, in uno spirito totalmente privo di ogni sentimentalismo. È la nostalgia per un senso più compiuto, più ricco, delle cose del mondo, che sentirono anche i poeti e le poetesse giapponesi del periodo classico (IX-XIII sec.). Essi chiamarono questo anelito furusato, letteralmente “l’antico villaggio” “la casa avita”, “il cuore rammentato delle cose”Comunque sia, con Pasternàk, e altri poeti di quel paese, l’autrice ha in comune la facoltà di gioire della presenza discreta delle cose: come loro, ha chiaro il concetto che è la concretezza a rivelare in essi l’energia nascosta (anche numinosa). “Res”.

(Steven Grieco)

 

Atena

Atena

ATENA

Atena uscì dalla testa di Giove
con lo sguardo fosco e la fronte turrita: già sapeva
quanto le sarebbe costato
essere all’altezza di un tale privilegio.
Prese a invidiare
le dee frivole e belle
che altro non dovevano fare
se non mostrarsi al meglio
delle loro grazie,
parlando il meno possibile.
Lei no; lei avrebbe dovuto anche parlare, all’occorrenza,
perché non poteva deludere
chi l’aveva messa tanto in alto.
Troppo per una donna,
anche se questa donna era Atena.
Un giorno si tolse le insegne divine
e scese tra gli uomini,
che non la degnarono nemmeno
di uno sguardo. Ma lei non fece una piega:
conosceva la superficialità degli dei,
poteva immaginare quella degli uomini.
Poi un bambino piccolissimo,
nella confusione di un mercato,
perse la sua mamma, e, con la manina,
si attaccò al braccio di Atena, cercando protezione.
Atena si commosse al punto che,
quando tornò sull’Olimpo,
immaginò che il bambino
stesse ancora con lei
e decise di tornare sulla terra
per rivederlo; il piccolo, a sua volta,
dopo aver ritrovata la madre,
ancora sentiva il calore
di quel braccio sicuro
e sperò di stringerlo ancora,
nell’allegria del mercato.

noli me tangere Correggio

noli me tangere Correggio

Noli me tangere

L’auriga di Delfi,
col suo broncio di bravo ragazzo
appena uscito dalle mani di sua madre,
non sa di essere tanto bello,
né, forse, tanto valente.
La tunica che lo ricopre
fino ai piedi perfetti,
simile a una colonna dorica,
è il “noli me tangere”
di chi appartiene al destino.

 

Venere Botticelli

Venere Botticelli

Venere uscì dal mare

Venere uscì dal mare
coperta di goccioline. Vulcano la vide,
dal fondo della sua fucina,
e pensò che, un giorno o un altro,
gli si sarebbe spezzato il cuore. Venere
se ne era accorta,
ma non sapeva che farci:
non era una colpa
se, di tutte, lei era la più bella. Poi
avvertì un brivido, e un altro,
e un altro ancora:
l’acqua del mare, rappresa,
si stava congelando:solo
la fiamma del dio deforme
poteva riscaldarla.
Con i suoi piccoli piedi,
Venere scese nella fucina;
e lì rimase per qualche tempo;
ne uscì fuligginosa e contenta,
perché finalmente era fuori dal gelo
della sua corazza invisibile:
la consapevolezza di un ruolo,
il pregiudizio degli eletti.
Mentre la vita è altrove:
nell’umiltà dell’amore,
nel rischio di spezzarsi il cuore.

(Inediti)

Anna Ventura copertina tu quoque

 

 

 

 

 

 

 

Antinoo

Adriano contemplava Antinoo;
la sua bellezza lo stregava:
volle che gli artisti tentassero l’impossibile:
fermare quella bellezza per l’eterno.
Tutto
avrebbe potuto chiedere – e ottenere –
il giovane dio.
Purtroppo, non voleva niente:
era un corpo di cera,
che un giorno si scoprì
galleggiare sull’acqua,
in mezzo ai petali dei fiori.:
quella era la sua meta, il suo destino.
Restarono le statue.

Petronio arbiter

Petronio arbiter

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Arbiter

Era tanto snob,
Petronio Arbiter,
che sfidava la sorte in campo aperto. Sapeva
che ogni suo gesto, ogni parola,
venivano osservati e giudicati,
anche per potersene impadronire. Lui
non faceva nulla per evitare
un tale avamposto della morte.
Nell’impari duello
contro la volgarità e la bruttezza
vinsero loro. A Petronio restò la morte,
che era quello che voleva.

.
L’angelo freddo

Chi può dire che cosa non ci appartiene,
chi segna i confini delle proprietà,
chi chiude le porte e col gesso scrive
i limiti del possibile?
Chi, se non un angelo malvagio,
al quale bruciamo inutili incensi,
l’angelo conformista di un galateo di menzogne,
l’angelo di pietra che sta sulla tomba,
e aspetta solo che gli stiamo a tiro,
ma non ha fretta,
perché già ci possiede?
A quest’angelo freddo
è inutile strizzare l’occhio:
ignora spirito e fantasia;
non ha la luciferina gaiezza
del Satana piede caprino,
né la buia durezza del Maligno:
alita soavemente sulle nostre case arredate,
governa le nostre automobili,
i bambini grassi e le serve.
E’ la nostra ottusa certezza,
la fede indegna di essere creduta.
I ladri, i rapitori, il dolore
sono l’unico baluardo
contro di lui.

gli sposi etruschi di Volterra

gli sposi etruschi di Volterra

 

 

 

 

 

 

 

Gli sposi di pietra

Forse la tartaruga di Volterra
parla con i sarcofaghi sommersi
nella terra morbida
del giardino del museo.
Sono sempre due,
gli sposi etruschi di nessuna bellezza,
stretti in una scatola di pietra,
che non si annoiano e ridono
di un sorriso che non si spiega ed è beffardo.
Il mistero etrusco non è la scrittura,
non è la remota provenienza,
ma la tenacia testarda
dei loro matrimoni eterni.
Contro la durezza quadrata
di queste scatole di pietra
si spezza
e diventa segatura
il biondo dell’oro sibarita.
Sommerso nella terra, minuscolo,
l’ultimo sarcofago
aspetta di sopravvivere
al giorno del giudizio.
Ha gli sposi mangiati dal tempo,
caduti i nasi di pietra,
interrotto il sorriso sulle bocche,
il filo d’argento di una solitaria lumaca
li percorre, e ammiccano
nell’ombra della fratta più nascosta,
dove è il mistero del mistero, la tana
della tartaruga di Volterra.

dalla Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013) EdiLet, 2014

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POESIE di DVORA AMIR (1948) poetessa israeliana a cura di Steven Grieco, Prima traduzione in italiano

Il muro di Gerusalemme

Il muro di Gerusalemme

 Presento qui una poetessa che il lettore italiano forse non conosce. Persona comunque schiva, da quanto è dato capire, Dvora Amir ha pubblicato libri di poesia, fra cui Slow Fire, 1995, insignito del premio letterario israeliano Kugel, e Documentary Poems, 2003, vincitore del Prime Minister’s Award.

Come il lettore ha capito, mi sono permesso di fare una traduzione di una traduzione (ebraico-inglese-italiano), pensando soprattutto allo spessore umano di queste poesie, e che difficilmente il lettore le troverà già in versione italiana. Non c’è bisogno di un mio intervento, le poesie parlano da sole, o meglio “si scrivono da sole”. Posso solo dire che nel lavorarci sopra, non ho incontrato quasi nessuna asperità linguistica, e questo mi fa pensare a quella che deve essere la limpidezza originaria dello stile, la poetessa non ha bisogno di pirotecniche o virtuosismi per delineare le sue parole semplici ma forti.

(Steven Grieco)

Dvora Amir 5Di seguito un commento di Rami Saari sulla poetessa:

Dvora Amir è nata a Gerusalemme nel 1948, durante la Guerra d’Indipendenza. I suoi genitori giunsero in Israele dalla Polonia. [..] Nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, studiò letteratura ebraica, filosofia ebraica e Kabbala alla Hebrew University di Gerusalemme. Nel 1975-76 studiò letteratura inglese alla University of Illinois. Attualmente lavora al Centre for Educational Technology di Tel Aviv, dove scrive programmi di formazione linguistica e letteraria.

Come dice Dvora Amir di se stessa, “è difficile descrivere le (mie) poesie. Si scrivono da sole, e sono semplici, spero.” Tuttavia, anche se lei privilegia  “il contenuto soprattutto,” le sue poesie rivelano una maestria, un immaginario in cui si intrecciano passato e presente. Talvolta le sue poesie sono come “sussurri contro l’oblio,” un modo per “lenire il dolore della separazione.” Spesso la poetessa si concentra sulle persone amate che non ci sono più; raccoglie particolari precisi e molto personali, e così fa rivivere il mondo scomparso di sua madre e dell’immigrazione Russo-Polacca in Israele. Ogni poesia è un interrogativo, un organismo esaminante, un corpo umano vivo che soffre stupito la vita e le privazioni.

© RAMI SAARI

Le prime quattro poesie e il commento di Rami Saari sono tratte da “Poetry International Rotterdam”, la quinta da “MPT, Modern Poetry in Translation”.

Dvora Amir

Dvora Amir

GEOGRAPHY LESSON

What creates poetry, you ask
and I, like the coal man in the Basque movie,
run to brace the tumbling stack of coal.
We’re talking about a lifesaving act, I say,
the courage to touch the heat collapsing.
“Beyond all this,” as Larkin wrote,
“the wish to be alone.”
This grinding land rests on my neck.
The knife, the dagger, and the spear
have been contaminated since the day people thought to produce them.
We walk about like those who have lost their minds,
drumming our exposed chests in crazy ceremonies.
The poems, I promise you, haven’t experimented on animals.
Everything is done carefully and strictly, created humanely,
after all, we’re talking about human beings.
The head of a Palestinian woman bandaged in white cotton lies on a platter
like the head of the Baptist presented to Salome.
In the land of vengeance dripping mother’s milk and blood
poems are moveable property –
stones, ridges, houses, fences.

© Dvora Amir
From: Shirim doqumentariyim (Documentary Poems)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 2003

© Translation: 2004, Lisa Katz

Translator’s Note: “The knife, the dagger, and the spear/ have been contaminated…”: Here the poem challenges a line of rabbinical text which defines the purity or impurity of metal tools.

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LEZIONE DI GEOGRAFIA

Cosa crea la poesia, mi chiedi
e io, come il carbonaio nel film basco
corro ad abbracciare la pila di carbone che vien giù.
Stiamo parlando di un atto che salva la vita, dico,
il coraggio di toccare il calore che collassa.
“Oltre tutto ciò,” come scrisse Larkin,
“il desiderio di stare soli.”
Questa terra lacerata mi pesa sul collo.
Il coltello, il pugnale, e la lancia
sono contaminati* dal giorno in cui la gente pensò di produrli.
Noi andiamo in giro come quelli che hanno perso il senno,
tamburellando sui nostri petti esposti in folli cerimonie.
Le poesie, ti prometto, non sono state sperimentate su animali.
Tutto viene fatto con attenzione e severità, creato umanamente,
in fondo, stiamo parlando di esseri umani.
La testa di una donna palestinese bendata di cotone bianco sta su un vassoio
come la testa del Battista presentato a Salomé.
Nella terra della vendetta, che goccia latte e sangue di madre
le poesie sono beni mobili –
pietre, crinali, case, recinti.

* Nota della traduttrice inglese: “Il coltello, il pugnale e la lancia / sono contaminati…” in questo punto la poesia contesta un passo di un testo rabbinico che definisce la purezza o meno degli arnesi metallici.

esercito israeliano in azione di guerra

esercito israeliano in azione di guerra

HOW MANY WINDOWS DOES A PERSON NEED

How many windows does a person need to open himself,
so he won’t be like Captain Nemo, trapped in the webs of length
and width coordinates
hunted by his world. Among navigation instruments, “moving
within the moveable base,”
closed in, as if saying let the world come through my porthole,
let it accustom itself to me.
And on his eyes he put patches made of glass to keep tears
from pouring to the light.
He too needed several windows to save his life.
A tiny slit, a teeny gate to look through, and from the inside out.
Like Jonah in the belly of the whale, in the closing darkness
he saw a sparkling pearl,
pressed up against the fish’s pupil like an old man to the
keyhole in his door.
He saw flowing water moving towards him, and knew: the fish as well as the various creatures of the sea
like him live their lives in a trap,
and he heard his mouth tell his ears, I am alive.

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: 1991, Linda Zisquit
From: Modern Hebrew Literature No. 6
Publisher: Institute for the Translation of Hebrew Literature, Ramat Gan, 1991

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DI QUANTE FINESTRE HA BISOGNO UNA PERSONA

Di quante finestre ha bisogno una persona per aprirsi,
perché non sia un Capitan Nemo, imprigionato nelle trame
delle coordinate in lungo e in largo
braccato dal suo mondo. Fra gli strumenti di navigazione, “muovendosi
entro la base movibile,”
chiuso all’interno, come se dicesse, sia il mondo a penetrare dal mio oblò,
sia lui ad abituarsi a me.
E sugli occhi mise toppe di vetro perché le lacrime
non colassero alla luce.
Anche lui ebbe bisogno di diverse finestre per salvare la propria vita.
Una sottile fessura, un cancellino attraverso cui guardare, e dall’interno verso fuori.
Come Giona nella pancia della balena, nell’oscurità crescente
vide una perla splendente,
premuta contro la pupilla del pesce come un vecchio al
buco della serratura del suo uscio.
Vide le acque ondeggiargli incontro, e seppe: il pesce, e le diverse
creature del mare
vivono come lui le loro vite in una trappola,
e sentì la sua bocca dire alle sue orecchie: sono vivo.

Dvora Amir

Dvora Amir

UNDER THE SUN

When Auden wrote about Icarus
He looked at Brueghel’s painting in a framed museum haze.
He did not expose his pupils to the direct glow of light,
and did not open his nostrils to the odor of sage,
and did not undress his body to the touch of a ray that drugs every feeling
that which melts and drips like wax.

And now for the young boy who falls from the sky.

I was there, in Crete, and saw it myself
and like the peasant I continued to plow
and like the very elegant boat I embarked further on my way
and like the olive I stood
and like the small river I flowed
and like the rock I hardened my heart and didn’t pay
attention to his suffering
and I also said, “a person can’t find – which means understand –
what is done under the sun.”

Crete, Fall 1988

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: 1991, Linda Zisquit
From: Modern Hebrew Literature No. 6
Publisher: Institute for the Translation of Hebrew Literature, Ramat Gan, 1991

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SOTTO IL SOLE

Quando scrisse di Icaro, Auden
guardò il quadro di Brueghel nella cornice di un museo ovattato.
Non espose le pupille allo splendore diretto della luce,
non aprì le narici all’odore di salvia,
non si denudò il corpo al tocco di un raggio che inebria ogni sensazione
ciò che si scioglie e sgocciola come la cera.

E ora veniamo al giovane che cade dal cielo.

Io ero lì, a Creta, e vidi cosa successe,
e come il contadino seguitai ad arare,
e come la barca tanto elegante proseguii per la mia strada
e come l’olivo stetti
e come il piccolo fiume scorrevo
e come la pietra indurii il mio cuore e non
badai al suo tormento
e dissi inoltre, “una persona non può trovare (ovvero, comprendere)
ciò che si fa sotto il sole.”

Creta, autunno 1988

La poesia di W. H. Auden a cui si riferisce la poetessa israeliana è Musée de Beaux Arts. È stata tradotta da Nicola Gardini nel volume, Un altro tempo. Adelphi, Milano 1997. Si può trovare la poesia riprodotta su questo blog.

 

WHAT SINKS IN

Every photo in your album has women workers crowded
so close together their temples touch each other,
staring straight ahead, as the photographer wanted.
You in the corner, kneeling, sorting sugar beets,
as if refusing to take part in the proletarian pose.

The day I looked gently at your beautiful legs, I discovered teeth marks
on your calf. That’s how a child discovers by chance a scrap
of her parent’s torment. All the years you walked around this country –
a world foreign to me was driven into your legs, a forbidden garden,
as it were, a cruel landlord, watch dogs, a girl attacked.
And once in George Eliot Lane, close to the Sisters of Zion convent,
I was overwhelmed by fear they’d drag me in, put me in orphan’s clothes,
lock me in a cellar soaked in the odor of crucifixes, and from the folds
of a monk’s black robe, Satan’s dogs would bite me.

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: Translated by Shirley Kaufman
From: The Defiant Muse
Publisher: The Feminist Press, New York, 1999, 1-55861-223-8

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COSA RIMANE IMPRESSO

Ogni foto nel tuo album mostra donne operaie pressate
così vicine le une alle altre che le loro tempie si toccano,
lo sguardo fisso in avanti, così come il fotografo voleva.
Tu in un angolo, inginocchiata, sceglievi barbabietole da zucchero,
come rifiutando di partecipare alla posa proletaria.

Il giorno che il mio sguardo si posò sulle tue bellissime gambe, scoprii segni di denti
sul polpaccio. E’ così che un figlio scopre per caso un brandello
del tormento del genitore. Tutti gli anni che girasti a piedi questo paese –
un mondo a me ignoto penetrò con la forza nelle tue gambe, un giardino proibito,
come dire, un proprietario crudele, cani da guardia, una ragazza aggredita.
E una volta in George Eliot Lane, vicino al convento delle Suore di Zion,
ebbi il terrore d’essere costretta a entrare là dentro, vestita con abiti da orfana,
rinchiusa in una cantina intrisa del tanfo di crocifissi, and da dietro le pieghe
di un nero saio di monaco, i cani di Satana che mi mordevano.

Dvora Amir

Dvora Amir

ON THE RIM OF ABU-TOR

On the rim of Abu-Tor an Arab boy is walking
across his roof. A schoolbook in his hand,
he goes sure-footed right up to the edge.
All around is quiet, houses anchored to the slope
like the ships of some giant.
A brown cow lazing on the path
could be a rusted scrap from a stolen car.
In front of the house a drainage stream gapes wide
moistens its throat as if waiting for its prey.
Why do his confident steps cast such terror upon me?
Something intimately foreign creeping
through me like the vine that weaves
entwined between our courtyards.
He walks, and I dare not take my eyes off him,
as if my gazing were bidden to protect his soul.
I tend to the flowers in my plot, I water them
but my heart is on watch for his every step
dangling like my life before my eyes.

(Abu-Tor is a mixed Jewish-Arab neighbourhood
on the south-eastern edge of Jerusalem)

© Translation: Jennie Feldman, Modern Poetry in Translation, Issue: Series 3 No.9 – Palestine. This poem was translated with the author.

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SUL CRINALE DI ABU-TOR

Sul crinale di Abut-Tor un ragazzo arabo cammina
sul suo tetto. Un libro di scuola in mano,
avanza con piede fermo fin sul ciglio.
Tutto intorno è quiete, le case ancorate al pendio
come le navi di un gigante.
Una mucca bruna che se ne sta pigra sul sentiero
potrebbe essere il rottame arrugginito di un’auto rubata.
Davanti alla casa un canale di spurgo si allarga a dismisura,
s’inumidisce la gola come aspettando la preda.
Perché i suoi passi sicuri mi danno così tanta angoscia?
Qualcosa di intimo-estraneo mi percorre furtivo
come la vite che tesse
e si intreccia fra i due nostri cortili.
Lui cammina, e io non oso distogliere gli occhi,
come se al mio sguardo fosse chiesto di proteggere la sua anima.
Curo le piante nel mio giardinetto, le annaffio
ma il mio cuore è attento ad ogni suo passo,
lui che penzola come la mia vita davanti a me.

(Abu-Tor è un quartiere misto ebreo-arabo a sud-est di Gerusalemme.)

La poesia, tradotta in inglese da Jennie Feldman e l’autrice, è apparsa in MPT Modern Poetry in Translation, Issue: Series 3 No.9 – Palestine. (La trovate anche sul sito internet di MPT)

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.

protokavi@gmail.com

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea

POESIE di Annamaria De Pietro “Petizione”, “La vana conta degli astragali”,  Steven Grieco “Preveza”, “Firenze, febbraio: sera”, Giuseppina Di Leo “Per mia madre”, Umberto Simone “Seppellendo Afrodite”, Salvatore Martino “ Sopra un quadro di Böcklin”, Rossella Seller “Olocausto”,  Anonimo “Scena della vestizione” SUL  TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Arnold Böcklin (STIGE o ACHERONTE)

arnold bocklin Toteninsel (L'isola dei morti)

arnold bocklin Toteninsel (L’isola dei morti)

 Arnold Böcklin (1827-1901) dipinse diverse versioni del quadro fra il 1880 e il 1886. L’opera fu estremamente popolare all’inizio del XX secolo e affascinò personaggi come Sigmund Freud, Lenin, George Clemanceau, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio. Adolf Hitler ne possedeva una versione originale, acquistata nel 1936.

Tutte le versioni del dipinto raffigurano un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura. Una piccola barca a remi, condotta da una persona a poppa, si sta avvicinando all’isola. A prua ci sono una figura vestita di bianco e una bara bianca ornata di festoni. L’isolotto è dominato da un bosco fitto di cipressi, associati da lunga tradizione con i cimiteri e il lutto, circondato da rupi scoscese. Nella roccia sono presenti quelli che sembrano essere portali sepolcrali. L’impressione complessiva è quella di uno spettacolo di desolazione immerso in un’atmosfera di mistero.

Arnod BocklinToteninselArnold Böcklin non ha fornito alcuna spiegazione pubblica circa il significato del suo dipinto, anche se l’ha descritto come «un’immagine onirica: essa deve produrre un tale silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura». Il titolo, che gli è stato dato dal mercante d’arte Fritz Gurlitt nel 1883, non è stato specificato da Böcklin, anche se deriva da una frase scritta in una lettera inviata nel1880 ad Alexander Günther, che aveva commissionato l’opera. Non conoscendo la storia delle prime versioni del dipinto, molti critici d’arte hanno interpretato il vogatore come una rappresentazione di Caronte, che nella mitologia greca conduceva le anime agli inferi. L’acqua è quindi il fiume Stige o l’Acheronte, e il passeggero vestito di bianco un’anima recentemente scomparsa in transito verso l’aldilà.

Arnol Bocklin Isola_dei_Morti versione originale

Arnol Bocklin Isola_dei_Morti versione originale

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga. L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi.

Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

annamaria de pietro 2010 febb

annamaria de pietro 2010 febb

annamaria de Pietro Magdeburgo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annamaria De Pietro

Petizione

Morte, in vece della falce
che recide i garretti, sia la spada
l’arma che tiene il guanto.
Prendi il cuore soltanto,
non strisci a banda bassa la tua strada
come una nota in calce.

 

La vana conta degli astragali
(profezia bolla chiusa)

L’anno lancia gli astragali, e nel fosso
dentro pianura li conta la rana
quanti le bolle d’aria che nell’aria
rende oltre l’acqua all’aria e sale e varia
la conta e scoppia a tempi a spazi vana,
somma che è zero, conto chiuso in rosso.

(da Magdeburgo in Ratisbona, 2012)

 

Steven Grieco

Steven Grieco

foto di Steven Grieco

foto di Steven Grieco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Steven Grieco

Preveza

Sono tornato a queste acque ipnotiche,
ai promontori azzurri
alle montagne in un velo di foschia

per ritrovare coloro che non vedevo da tempo,
invecchiati,
la lunga strada abbandonata
che va verso il mare
fra i giunchi piegati dal vento;
di nuovo sono entrato negli interni oscuri
nell’ora accecante di mezzogiorno

pensando,
in questo orizzonte di lungomari
e caffè deserti
e uomini disoccupati seduti fuori ai tavolini
come poeti in attesa,
di ritrovare le stesse figure
che affollano lo specchio nascosto delle mie notti.

Ma anche questo è falso,
come se il nostro rischioso oscillare
fra l’identità e il suo inganno
fosse “noi”,
scissi per sempre fra questo e quello:

come se il nostro senso delle cose,
una volta compiuto
(con ogni colore imprigionato nell’azzurro),
non potesse mai più spezzarsi,

mai più trasfigurarsi.

(Questa poesia, nella sua versione originale inglese, è stata pubblicata nel 2012 nella rivista online Mediterranean Poetry).

 

Firenze, febbraio: sera
Per M. and V.

Tredici anni fa, come oggi,
noi tre sediamo al tavolo di cucina
davanti alla finestra,
guardando il sole fermo
sopra chiese e palazzi.

L’aria si accende
con una domanda senza risposta

un uccello scioglie il nostro abbraccio,
divincolandosi dalla pietra si invola
nell’ora dopo ogni addio:

e noi, stupiti, entriamo, figli miei,
nell’imbuto che si apre a dismisura
per intravedere come l’oggi
ignaro di ogni esperienza
gioca pericolosamente
con le tinte dei giorni passati e futuri.

Laggiù, nelle piazze e nelle vie
dilaga il tramonto che si mescola alla luce
dei lampioni,
cento facciate di case avvampano nell’oro,
i folli bevitori di vino si riversano nella notte
con gli occhi illuminati.

Che questo non ci dia dolore:
perché le nostre vite
già disperse in città lontane
come blocchi di pietra in muri impervi

affronteranno lo stesso splendore
quando esso di nuovo viaggerà
verso il nord del mondo.

Nessun inganno ci tradirà.

Ma restiamo adesso, per qualche attimo,
assorti qui: contempliamo
l’oscurità di questo momento.

Un’arancia risplende
sul nostro tavolo – i suoi spicchi
senza numero

(trad. dall’inglese dell’autore)

 

giuseppina di leo

giuseppina di leo

foto di giuseppina di leo, Lisbona

foto di giuseppina di leo, Lisbona

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppina Di Leo

Agnizione

C’è stato un tempo in cui calanchi erano le parole
scurità apicali infilzavano occhi discendenti lame
bocche orribili. E di un dio non vidi mai la fine.
Mezza pagina era troppo. Né parlarti
spostava lo sgomento dei tre sì e dei tre no.
Su quale fragile armonia s’incammina la rabbia
stesa in alto pressa un tavolo di accordi poche facce
si riconoscono tra gli estranei nel momento del saluto.

*

Con l’odio serrato nel petto scrivi pure
la nenia per addomesticare le belve
ama il prossimo tuo evitandolo da sempre
erigi l’altare della benevolenza sotto il grido
uccelli auspici colpisci con la fionda;
la lingua di sangue bagnata nel ruscello
scherma il velo alla ragazza
mai amata né tradita, solo schernita.
– h.: 16,40

*

Giovedì 28 marzo 013
Autori poco noti ritraggono il pensiero
per facili associazioni affermazioni sostengono.
Ma lei sentì la veglia che dal mio corpo
il vento stanco le trasmise. In desiderio
in crescendo la mano raggiunse la porta. Eloisa
ha pallidi i lineamenti, le scarpe ai suoi piedi sollevati
come la veste intorno alla coscia sinistra adagiata
su di un lato aspetta il corpo che sussulti
che sia portato fuori all’alba. Ma che nulla resti
che non chiudano la porta. Ci penserà lei stessa dopo
a ribatterla con forza.

(inedito)

 

Umberto Simone

Umberto Simone

 maschera

 

 

 

 

 

 

Umberto Simone

Seppellendo Afrodite

Spranghe coltelli roncole, ecco la mansuetudine
dei Cristiani se vincono! e anche gli schiavi nati
in casa, dopo tanti gai Saturnali in famiglia, un battesimo
basta per farne estranei dagli occhi troppo accesi –
perciò stanotte, in gran segreto, solo,
a una buca scurissima nell’angolo più occulto del giardino
affido i tuoi candori, mia piccola Afrodite,
che hai finora abitato gentilmente il ninfeo, sopra una festa
sussurrante di rivoli e di mirti,
opera luminosa di un allievo fra i più illustri
dell’eccelso Prassitele , ma per costoro opera del demonio,
idolo immondo, sconcia nudità.

Non voglio che i martelli ti spengano il profilo, che disperdano
le armoniose avventure dei tuoi riccioli,
che infrangano per sempre quell’accenno di gesto con il quale,
per malizia, o pudore, o l’uno e l’altra insieme,
non dimentica d’essere, prima che dea, una donna,
inviti al pube in ombra, forse, o forse lo schermisci …
Distruggere? è un momento – mentre occorrono giorni e giorni e giorni,
e una lenta erosione d’amore e di dolore,
perché il marmo di Paro somigli a carne, e quella carne al sogno.
Non lo sanno, i pii barbari: non pensano al miracolo di te
che viva sei davvero spuntata dalla pietra come inventano
sia evaso dalla tomba spezzandone il macigno il loro Re.

Ma adesso sei sparita di nuovo, tutta . Spiano il suolo, elimino
ogni traccia. E rientrando la tua nicchia deserta
è un’orbita spolpata, acque e fronde si sono ammutolite
quasi già strette dal vetroso inverno –
un corpo privo d’anima sembra a un tratto il giardino senza te.
E proprio questo cercano, editto appresso a editto,
odiando e salmodiando, imperatori baciapile in serie:
strapparci vista e voce ed innalzare
una rete spinata di cilici
intorno alla bellezza, e deformarci in angeli con ali
e aureole, e senza i sensi – i musicali,
i colorati sensi. Ma falliranno. Perciò ti preparo.
Coltelli e spranghe e roncole non sono eterni, e invece tu lo sei.
Vincono, i mansueti Cristiani, ma per poco. E tornerai.

E accadrà all’improvviso. Staranno forse costruendo un ponte,
una strada, una casa. Si fermerà il cantiere. Chiameranno
in una lingua ancora sconosciuta,
levandosi il berretto, tergendosi il sudore, gli operai.
Arriva un vecchio, il capo, e s’inginocchia, per guardare meglio –
già s’inginocchia, sì, senza nemmeno
averti vista intera! perché soltanto un che di bianco affiora …
Dalla terra riemergi stavolta, non dal mare.
E felice colui che, delicato,
intimidito, come un inserviente
delle terme di fronte ad una Augusta,
con un’umida spugna indugerà su chiome e spalle e seni,
lavandone via i secoli e l’esilio e le tenebre, lavandone
la polvere sconfitta. Continua a leggere

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana del novecento

SEI POESIE di UDAYAN VAJPEYI (prima traduzione in italiano) da ADRSHYA JIVAN, LA VITA INVISIBILE, traduzione dal hindi e presentazione di Steven Grieco

Udayan tempio Jain

tempio Jain

Udayan Vajpeyi

Udayan Vajpeyi

(con la gentile consulenza di Dr. Shalini Sharma e Francesco De Mandato)

Udayan Vajpeyi nato nel 1960 a Sagar, nel Madhya Pradesh, è letterato e medico di professione. Vive a Bhopal (dove nel 1984 avvenne il disastro dello stabilimento della Union Carbide). Ha pubblicato diversi libri di racconti, due libri-intervista fra cui Abhed Aakash (Spazio indiviso) con il regista Mani Kaul, e inoltre molti saggi su argomenti filosofici, sulla pittura e la musica, sul teatro classico sanscrito e infine sulle popolazioni tribali originarie del suo stato, il Madhya Pradesh.

Udayan Ragione 18

India

In ambito poetico, notiamo tra le altre raccolte significative, Adrshya Jivan, La vita invisibile, tradotta in francese e pubblicata prima presso Cheyne éditeur nel 2000, e in seguito ripubblicata da Ragage éditeur nel 2007. Da questo volume sono tratte le poesie che seguono.

Sue poesie sono state tradotte in diverse lingue indiane, in inglese, svedese, polacco, bulgaro, e altre. Ha tradotto in hindi testi di Octavio Paz, J. L. Borges, Anton Chekhov, Iosif Brodsky, Philippe Jaccotet, Shuntaro Tanikawa, Balchandran Chullikad, e altri. Dirige la rivista Samas in lingua hindi, ed è membro di diverse redazioni di riviste letterarie e di poetica, fra cui Kavita Asia.

Ha parlato su arte e letteratura a Mosca, Parigi, New Delhi, Heidelberg, Bombay e altrove.

udayan_vajpayi conversation

ARRIVO

“Prepara la casa, che abbia l’aria felice.” Questo disse, o forse fui io a sentirlo. Avevo la febbre, lei era esausta per la giornata. Sulla sua fronte e nell’aria piovosa, un’oscurità fitta. Non c’era nessuno degli ospiti che non ci avrebbe visto litigare. “Prepara la casa, che abbia l’aria felice!” ripeteva di continuo.
L’acqua continuava a bollire sulla stufa.
C’era ancora tempo prima dell’arrivo del treno.
Sulla strada gli ubriaconi borbottavano fra di loro. Nei sobborghi sudici della città i mendicanti avevano preso sonno. Nell’albero del neem la vedova nera tesseva la notte.
Venne la sua voce dalla cucina: “guarda, guarda, il geco morto è tornato in vita e sta correndo sul muro! Alzati! Alzati! Le pareti (di casa) sono ancora piene di polvere e ragnatele!”

Udayan Vajpeyi est né en 1960. Il vit à Bhopal, dans la centre de l'Inde, où il enseigne la physiologie

udayan vajpeyi est né en 1960 il vit bhopal-dans la centre de linde il enseigne physiologie

LA NOTTE

E’ la notte di Tija1, la Mamma, che era dalla Nonna, è corsa a casa sua. Qualcuno dorme sul divano di legno nella veranda. Non sa che il Papà si è già addormentato. La Nonna la redarguisce per piccole questioni. Mi impedisce di dare una risposta. L’immagine di argilla di Parvati2 è già ricoperta di fiori. Le donne cantano i canti devozionali. Papà cammina afferrando le ginocchia con le mani. Vuole rinascere prima ancora di morire. La Mamma si accorge di un singhiozzare soffocato fra i canti; apre la bocca per un po’ d’acqua. Papà si gira nel letto.

Oltre la pelle trasparente della Nonna, appare la vita invisibile di Mamma.

1. Terzo giorno del calendario lunare, giorno di digiuno completo per le donne sposate.
2. La dea madre Parvati praticò durissime austerità e digiuno per sposare Shiva.

udayan vajpayi

udayan vajpayi

FOTOGRAFIA

Sembra che dalla fotografia Mamma stia lanciando fuori uno sguardo furtivo. Sullo sfondo, il fiume è diventato immobile per sempre.
Papà, malato, mormora di fronte ad una sconosciuta: “ormai il leone è sconfitto.”
Il Nonno materno, avvicinandosi al finestrino del treno, saluta Papà che parte in viaggio per farsi curare.
Dentro le lacrime negli angoli degli occhi di Papà trema il viso del Nonno pieno di rughe.
Pur leggendo giorno e notte,1 Mamma non riesce a capire dove è sparito Papà.

Cogliendo la mia voce che arriva da dietro, mi giro, e ho un sussulto. Papà è lì: anche lui nel sentire la propria voce si gira, sussultando.

Tranquilizzata, Mamma ci guarda dal cielo remoto, silenzioso.

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1. Probabilmente si tratta della lettura del Ramacharitmanas, vedi nota alla poesia “Intervallo” qui sotto.

Udayan Vajpeyi untitled by Hemray

untitled by Hemray

INTERVALLO

La Mamma appiccica gallette di sterco di vacca sul muro dietro casa. Papà esce indossando un abito formale, da ufficio. Nonno in calesse percorre ansimando la salita verso il tribunale. All’incrocio della via, il sarto apre il suo negozietto tremando di freddo, Papà lo vede attraverso il finestrino dell’auto che lo porta lontano da casa.

Mamma recita il Manas1 in due parti: prima quando tutti dormono, poi dopo la partenza di Papà. Nel breve intervallo, l’acqua del tè bolle sulla stufa. La Nonna mi chiama, io accorro, sto in piedi davanti a lei: “chi verrà con lui?” mi chiede lei. Nella stalla Mamma copre le bestie con sacchi di juta.

La camionetta che nel buio della notte trasporta il cadavere di Papà verso la città vicina fa un fruscio simile alle foglie secche.
1. Il Ramcharitmanas, antico poema epico reinterpretato nel 16° sec. dal poeta e santo Tulsi Das, in cui si narrano le gesta di Rama, re giusto che salva la moglie Sita dopo che questa è stata rapita dal demone Ravana, re di Lanka (l’odierna isola di Ceylon).

Udayan foto di Nihal Mathur

foto di Nihal Mathur, India

IMBRUNIRE

Nella stanza delle preghiere Mamma rompe il digiuno mangiando della frutta. All’interno del quadro, Re Rama si accinge a partire in soccorso di Sita.
Il Papà, indossando dhoti-kurta1, si muove verso la sua auto. Dal lato opposto della strada inizia a farsi sentire la voce di Nonna.
Il Nonno sfoglia silenziosamente alcuni documenti del tribunale. Mamma smette di colpo di mangiare la frutta e si avvia correndo verso la casa del Nonno. Con occhi muti, Nonno vede nascosta in lei la sua piccola figlia.
Ora la casa è vuota. La Nonna prende della farina e la dà a Mamma.

La morte attraversa il cortile poggiando attenta ogni passo sui frammenti d’argento2 del culto.

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1. Pantaloni larghi e casacca in cotone leggero (di colore bianco quando vengono indossati in casa).
2. Frammenti di sfoglia d’argento che si incollano sulle immagini sacre con un po’ d’acqua del Gange, durante il culto alle divinità prescelte.

Udayan Vajpeyi

Udayan Vajpeyi

VENTRE

Il ventre di Mamma si è disteso, come se un’onda dell’oceano fosse venuta a posarsi lì. Io mi tuffo in quest’onda immensa, sono tutto bagnato, vedo la Mamma che dal suo di là mi sorride.

Alla Nonna questo non piace. Mi ingiunge più volte di tornare a riva.

Ignorando tutto ciò, il Nonno mi porta ogni sera ai giardini. Io, nascosto dietro i densi cespugli, vedo sul viso di Nonno approfondirsi l’ombra dell’età.

Dopo la partenza di Papà, l’onda dell’oceano è tornata all’oceano. Nella sabbia sparsa sul grembo di Mamma, le impronte dei miei piedi iniziano a riempirsi.

*

Poeta, autore poliedrico, Udayan Vajpeyi è sempre rimasto fedele nella sua scrittura creativa alla lingua hindi, risolvendo in questo modo la questione delicatissima, che si pone ad ogni scrittore indiano oggi, se comporre nella lingua ancestrale o in inglese, la quale da tempo viene considerata lingua “subcontinentale” a pieno titolo.

Molto ci sarebbe da dire sulla sua poesia, ricchissima. Basti indicare qui l’influenza sul suo stile del linguaggio cinematografico, e questo sicuramente anche grazie alla sua decennale profonda amicizia con Mani Kaul, uno dei massimi rappresentanti del cinema d’arte indiano nella seconda metà del XX sec.

Nella sua raccolta Adrshya Jivan, La Vita invisibile, oltre a gettare luce sui complessi rapporti umani che intercorrono fra i membri all’interno della famiglia indiana estesa, Vajpeyi riesce in un’impresa davvero sorprendente: esprimere pienamente l’inesausta continuità della vita, senso tradizionalmente condiviso da tutti gli abitanti del subcontinente indiano, indipendentemente dalla convinzione religiosa o dalla non-credenza. Tale continuità è poi ciò che la nostra coscienza in qualche modo percepisce attraversando di continuo, nel corso della vita, i tradizionali tre stati d’essere individuati dal pensiero indiano antico: la veglia, il sogno e il sonno profondo. (Il quarto stato, turya, di questi completamento e superamento, rimane indicibile e inesprimibile). Ma al pari di ciò, anche la morte, così come la vita terrena, non sono che stadi temporanei all’interno di una durata esistenziale più vasta. Di fronte ad una visione di questa portata, poesia, scienza, filosofia, i travagli dell’umano vivere, tutto si accartoccia.

E malgrado l’ampiezza quasi insostenibile di tale visione, alla quale Vajpeyi si riallaccia pienamente ed esprime in versi di talvolta difficile comprensione, quanta umanità e semplicità nelle poesie qui presentate, quanta pena e fragilità, sempre trattenute dal distacco illacrimato del poeta.

(Steven Grieco)

Onto Steven GriecoSteven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ (Parte V) Steven Grieco, Marisa Papa Ruggiero, Letizia Leone, Silvio Aman, Silvana Baroni, Giuseppe Panetta

Ulysses and the Sirens, mosaic, 3rd century AD Roman from Dougga/Thugga, Tunisia   Photo Credit: [ The Art Archive / Bardo Museum Tunis

Ulysses and the Sirens, mosaic, 3rd century AD Roman from Dougga/Thugga, Tunisia
Photo Credit: [ The Art Archive / Bardo Museum Tunis

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia «tra Atene e Gerusalemme», «tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione». «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione».

 

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur

 

Steven Grieco

Etnomusicologia

1 Euridice

Talvolta diciamo essenziale
conservare le musiche dei nostri avi:
patrimonio che per forza di cose
tramonta, un po’ alla volta.

Musiche che già adesso ci sembrano
l’inutile gracchiare da una bocca cariata,
mentre scendono senza appello
negli smisurati archivi dell’oblio umano.
Perché il Tempo, nel suo torcersi lento
e massacrante, ne deforma le sonorità,
oscura il senso,
porta a compimento nuovi misteri.

(E quelle persone che piangono
sull’inesorabile invecchiare del mondo.)

Orfeo Giorgio De Chirico

Orfeo Giorgio De Chirico

 

2 Orfeo

Giunto fin qui dal suo remoto villaggio
quel vecchio
aveva anche lui, ti sembrava,
smarrito i motivi. E tu,
scegliendo da mille musiche simili
ma mai uguali, ti sforzavi
con tutto te stesso di ricrearle.

Sempre invano, però.
Lui poteva solo indicarti la potenza
che dal gioco di armonie
balza fuori inudita.

Marisa Papa Ruggiero 1
Marisa Papa Ruggiero

Il viaggio

Ero prima di me e mi cercavo
Fulgente di stelle la notte infinita lasciata nel cosmo
Memore un lume sto alla costa ghiaiosa come
il peso al suo corpo
a lampi a fiocchi di neve, l’ora gira la curva
dentro il mio sasso, in apnea glaciale
– famelico, cieco, mi chiamo –
risalgo l’enorme distanza il fiume gelato
al travaglio del seme,
appena germoglio, pulsante di pena
risalgo pinnacoli d’ombre
tra spoglie pareti di stanze sbarrate scontando
la dismisura del bianco in lento cadere,
bendato un pensiero
dalla tempia si stacca, il viaggio
abissale scavo sotto le ossa

E mi prendo per mano, una spina
di luce dove l’unghia s’incarna prelevo a una sete,
un feroce richiamo, scalciando alla sabbia,
che odo da dentro, il taglio
che odo di forma sapiente
nel passo del giorno, sapienza del raggio
segnare i confini sulla creta del corpo,
– o dell’asta solare come bisturi l’ombra –
crudissimo un nervo di colpo sguinzaglia
una fame chiodata
e ascolto

Marisa Papa 5

la molecola ambrata cantare nel fondo
la forza dei nomi tremando sui volti
che infine saremo
nel bosco degli echi, noi nudi
alla pioggia alla brezza salata, sulla roccia riflessi
noi siamo più grandi
nell’attimo errante, sospeso
infinito

ed entro
nel fresco sentiero di erbe,
distante il raduno dei corni, dei cembali accesi,
appena sgusciando alla stretta del cappio,
il viso affondato nell’umida terra che prega
e ti guardo
ti guardo, bambina, la corsa spezzata
al bivio di sassi,
sospesa a un pensiero, le orbite fisse

bambina invetriata nei ghiacci