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Cinque Poesie “brutte” di Jonathan Rizzo, con una Lettera al lettore ignoto – Il poeta elbano costruisce il suo discorso in segmentazione progressiva. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote», i simulacri di ciò che è stato agitato nella poesia del novecento, nella vita quotidiana, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano flashback di film visti… non ci sono  domande, ma solo constatazioni. C’è il vuoto, però.

Ritratto Ionathan Rizzo Dino Ignani

 [foto Dino Ignani], Jonathan Rizzo, radici elbane, studi storici fiorentini, formazione poetica parigina. Ha pubblicato un romanzo poetico sperimentale, una raccolta di racconti saggi e poesie  di viaggio, due raccolte poetiche ed un romanzetto giallo. È in diverse antologie poetiche e di racconti di narrativa. È stato pubblicato su diverse riviste e tradotto in francese, spagnolo ed inglese. Conduce una trasmissione radiofonica sulla poesia e sulle piattaforme web. Organizza eventi poetici in tutta Italia.

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Una lettera al lettore ignoto

 Ho sempre considerato il lettore come un nemico per il poeta. Non il solo, ma tra i più insidiosi. Subdolo punto di arrivo per quei versificatori che battono con l’ammorbidente la penna sul foglio col pensiero ansioso di arrivare a chi inciamperà nelle loro parole, sogno caldo neanche troppo segreto di fare una carezza tenera a più persone possibili. L’ho pensata così a lungo e continuo a pensarla ancora in toni di grigio. Ancora oggi m’imbarazza sentirmi dire/dare complimenti sul poetare e lo scrivere che incespico. M’imbarazzano mortalmente al di là della puerile vanità umana dello scrittore. Il tempo e le sue passeggiate  mi hanno educato ad avere una faccia da “poker” davanti al lettore e che nemici più maligni per un poeta sono i critici, gli accademici ed i giovani tirapiedi di questi ultimi. Poetini mai usciti dal parco giochi dell’Università confortevole e non ancora svezzati da madri troppo melliflue nei loro baci a figli rimatori baciati, che mai hanno visto una pistola puntatagli sotto il naso ad urlare il dolore e smarrimento dell’essere umano. Lo scontro con il buco nero della realtà poetica italiana contemporanea fuori dalla mia dolce bolla da flâneur parigino mi ha corrotto l’anima ponendo totale rifiuto alla natura d’inchiostro che mi scorreva nelle vene e spingendo questo derelitto “uomolibro” verso una salvifica oasi fatta di letture mai contemporanee, sempre dei classici moderni, come si usa dire. L’onestà intellettuale pone di ammettere che per il poeta il lettore è un nemico, ma che per il lettore il poeta è un caro amico con cui vive, cresce, cambia, matura fino alle retoriche foglie d’autunno. Praticamente amare con tutto il fiato nel petto un cretino disadattato perché specchio intimo del personale sé disadattato e cretino, cioè la parte migliore di noi, quella senza maschere. La verità è che sono più felice da lettore che da scrittore. Non nemico di me stesso, ma sintesi finalmente raggiunta tra l’infelicità esistenziale necessaria dello scrivere e lo gioia egoista della lettura.

Caro amico lettore ignoto diffida dalle parole che sembrano state scritte per te.

Jonathan Rizzo

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«In definitiva, però, bisogna sempre tenere presente che la realtà della quale possiamo parlare non è mai la realtà in sé, ma è una realtà filtrata dalla nostra conoscenza, persino, in molti casi, da noi configurata. Se a quest’ultima formulazione si obietta che dopo tutto c’è un mondo oggettivo, completamente indipendente da noi e dal nostro pensiero, che procede o può procedere senza il nostro apporto e al quale in realtà ci riferiamo con la ricerca,a quest’obiezione a prima vista così ovvia si deve opporre il fatto che già l’espressione “c’è” appartiene al linguaggio umano e non può quindi significare qualcosa che non sia in relazione alla nostra capacità conoscitiva. Per noi “c’è” appunto solo il mondo nel quale l’espressione“c’è” ha un senso».1

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L’estraneazione è l’introduzione dell’Estraneo nel discorso poetico. Lo spaesamento è l’introduzione di un Avatar nel Paese del linguaggio poetico. Il mixage di instantgrammi e di shifter, la deviazione improvvisa e a zig-zag sono gli altri strumenti in possesso della musa di Jonathan Rizzo. Queste sono le categorie sulle quali il poeta elbano costruisce il suo discorso in segmentazione progressiva. Il verso è spezzato, segmentato, interrotto, segnato dal punto e dall’a-capo è uno strumento chirurgico che introduce nei testi le istanze «vuote», i simulacri di ciò che è stato agitato nella poesia del novecento, nella vita quotidiana, non esclusi i film, anche quelli a buon mercato, le long story… flashback a cui seguono altri flashback che magari preannunciano flashback di film visti… non ci sono  domande, ma solo constatazioni. C’è il vuoto, però.

Altra categoria centrale è il traslato, mediante il quale l’io parla mediante un retro pensiero o un pensiero interconnesso con quello; l’io così viene ridotto ad una intelaiatura vuota, vuota di emozionalismo e di simbolismo. Questo «metodo» di lavoro introduce nei testi una fibrillazione sintagmatica spaesante, nel senso che il senso non si esaurisce nella proposizione dichiarativa ma in altre proposizioni magari sottintese che correggono quelle dichiarative. L’eloquio fintamente conviviale è in realtà spaesante.

Lo stile è quello della didascalia fredda che accompagna i prodotti commerciali e farmacologici, quello delle dichiarazioni di voto al Parlamento, quello delle notifiche degli atti giudiziari e amministrativi mischiato alle proposizioni autoironiche e ironiche sull’io e sul contemporaneo. Jonathan Rizzo sa scrivere alla stregua delle circolari della Agenzia delle Entrate, o delle direttive della Unione Europea ricche di frastuono interlinguistico con vocaboli raffreddati dal senso chiaro e distinto. Questa severa concisione referenziale non esclude interferenze, fraseologie spaesanti e stranianti.

Tutto questo armamentario retorico era già in auge nel lontano novecento; qui, nella poesia del poeta elbano risulta nuovo, anzi, nuovissimo risulta il modo con cui viene pensato il discorso poetico dei nostri giorni dove il «lettore» viene definito un «nemico».

Ci sono la leggerezza e la destrezza di Apollinaire in certe rientranze e giocolerie stilistiche di Rizzo: («la gente che gioca alla vita leggera», « Le auto attendono, le barche galleggiano, tu scrivi»); certi andanti larghi descrittivi («Uomini, donne, bambini che vi fate saltare in aria, nemici ed amici»), shakerati con sintagmi da confessione («Amo la vita e non me la toglieranno più»), certi stacchi autoironici («Sono solo. Aspetto/ la mia donna ed il suo portafortuna tra le gambe»), certi spot della pubblicità della Buitoni («La campagna toscana con abito gentile»), mottetti irriverenti («Non conosco gelaterie in Francia»), sintagmi strappalacrime («Io urlavo lacrime e poesie»), sintagmi assiomatici («Dio è il concetto con il quale misuriamo il nostro dolore»), mini proposizioni constatative («Io non fumo. Dovrei iniziare a fumare»), sintagmi aristocratici («L’unica persona viva dorme»). Il tutto compostato in uno sketch stilistico di ottima fattura autoironica. Jonathan Rizzo immagina la sua condizione come quella di quell’umano che si mette nella condizione della cosa, anzi, che si offre  allo sguardo delle cose; la sua è, propriamente, una poesia della mancanza e dello sguardo delle cose sull’io.

Qual è il significato del distacco della poesia di Jonathan Rizzo dalle fonti novecentesche? Il fatto è che quelle fonti si erano da lunghissimo tempo disseccate, producevano polinomi frastici, dumping culturale, elegie mormoranti, chiacchiere da bar dello spot culturale. La tradizione (lirica e antilirica, elegia e antielegia, neoavanguardie e post-avanguardie) non produceva più nulla che non fosse epigonismo, scritture di maniera, manierate, magari ben  lubrificate e lucidate. Jonathan Rizzo dà uno scossone all’immobilismo della poesia italiana degli ultimi due tre decenni delle generazioni precedenti la sua, e la rimette in moto. È un risultato eccellente, che mette in discussione tutto il quadro normativo della poesia della sua generazione.

 (Giorgio Linguaglossa)

1 Werner Heisenberg, Indeterminazione e realtà, Guida Editore, p 2002, p. 123.

Jonathan Rizzo fotoA Fabrizio

L’unica persona viva dorme
mentre i poeti,
quelli veri,
parlano di metrica con logica acida matematica.
senza guardarsi negli occhi
ché il piedistallo di plastica
non concede che li si tocchi.

Ma l’unica persona vera russa
sdraiato per terra
con la custodia della pianola
a fargli da giaciglio
dopo pranzo, dopo il vino, rosso camino.

Riposa tra i fili l’erba nell’attesa perla
di sfiorare tasti neri
per farli divenire bianchi,
accarezzare chiari
per volo e dispetto
da mutare scuri.

Gioco d’ali
di colombe e falchi
nel tiepido meriggio Giunone
di fine primavera,
amica lieve, amante breve.

La campagna toscana con abito gentile
splende in un abbraccio di luce senza fine,
nuvole sconfinate,
un poco vicine, un poco lontane.

Ma i poeti, quelli veri, non hanno tempo per godere
della bellezza che il cielo ricama
a scherno degli uomini
briciole distratte.

Lamentarsi dello schifo che circondi i loro versi
è più importante
che masticare una spiga di grano controluce,
o fermarsi sulle nuvole persi.

Ma tutto questo inferno d’animo non scuote
l’unica persona normale
che sogna note e colori
da donare
come fanno i bambini alle bambine
con i fiori.

Ed io?

Ed io sono fortunato ad essere amico tuo
ed ancora
non come loro.

BESTIARIO PARIGINO

Sgattaiola nel calpestio de li uomini,
anime in contrabbando fragile.
Io non fumo. Dovrei iniziare a fumare.
Compro da bere. Io bevo. Dovrei smettere.
Sono solo. Aspetto
la mia donna ed il suo portafortuna tra le gambe.
Arriveranno con le strade lavate di fine estate.
Scrivo così bene a Parigi, solo per me stesso.
Non c’è fretta che il tempo cambi.
Filtro assenzio e pastis coi miei oi parei.
Occhi francesi,
passaporto al tricolore.
Non conosco gelaterie in Francia.
Altro cuscino in questo square fiorellino
tra il cicalare umano del caldo agostano.
Amico mio dammi la mano.
Passeggia da professionista
senza direzione tra i pensieri
e la loro corrotta memoria di orgogliosa miseria,
carne e sangue, piaghe di poesia ed isteria.
La muette freccia.
Non conta per dove.
Vola sopra la gente che gioca alla vita leggera.
Refrigerio canino,
esempio all’umano
bestiario.
Il ponte che passa.
Le auto attendono, le barche galleggiano, tu scrivi.
I ricordi di un sorriso vengono smantellati
dall’ineluttabilità del tempo.
Un nuovo passato ogni giorno da seminare.
Nascosta dal filo spinato
la vita perduta di alcune persone,
ma non, né rimangono impigliate tra le virgole pendule il nome.
Pare sempre domenica quando piove sulle luci di Parigi.
La festa di pace non si concluderà questa notte.
Nel seccarsi dell’inchiostro tra il foglio e la punta lenta
spunta il sole dietro le nuvole serie.
Si porge lieve come carezza di profumi gentili
per le persone sole.
Amore siamo in ritardo?
In ritardo per cosa?
I morti aspetteranno!

CANTO LA VITA. ODE A PARIGI

Parigi è viva,
ed io con lei.

Non abbiate paura.

Non regalategli voi stessi.

I mostri meritano pietà,
ma non il dono prezioso della paura.

Parigi è ancora viva, respira.

Io l’ho vista con questi miei occhi di uomo.

Non abbiate paura di farlo anche voi.

La paura è lo scudo di chi si fa forte con la violenza.

Noi siamo immortali
perché sorridiamo ed amiamo la vita,
le sue figlie ed i suoi figli.

Io sono uscito a petto nudo
per le strade spezzate dal pianto,
foglie morte al mio fianco.

Ed ho sentito sulla pelle
la chiara impotenza del derubato,
pensando debole
a tutte le vite che ho perduto,
pensando fragile
possono spararmi,
ma non spaventarmi.

Amo la vita
e non me la toglieranno più.

La condivido con voi,
tutti voi.

Uomini, donne, bambini che vi fate saltare in aria, nemici ed amici.

Non temo nessuno.

Amo e sono fatto di carne.

Abbraccio ogni volto stanco,
frustrato dall’odio e dall’ignoranza.

Più sarete lontani e più la mia mano si tenderà verso di voi.

Parigi vive ed io sono suo figlio.

Non moriremo mai,
perché nel petto abbiamo forte
l’amore e la fratellanza tra gli uomini ed i popoli tutti.

Odi mondo
alto si leva ancora il nostro canto,
siamo vivi e teneri tuoi amici,
io e la sorella Parigi.

Gli odi di uomini bruciati dalla paura non ci possono ferire più.

Amiamo disperatamente anche loro,
perché nessuno lo fa.

DEDICATO A JACK KEROUAC

Eravamo al solito su un placo scalcagnato,
rimediato facendo gli occhi dolci
ad una giovane ed ingenua Dea.

Il contrabbasso spingeva fiamme i pedali
cercando la fuga sui Pirenei del Jazz.

Io urlavo lacrime e poesie
ad una sala vuota di umanità e sorrisi.

La carta del Caffè letterario universitario
si stava rivelando un flop velleitario.

A vederci non era chiaro
se fossimo stati più ipocriti noi
a porci ad un pubblico sordo che sotto sotto disprezzavamo,
o chi a vent’anni non legge se non per obbligo d’esame.

Io ingenuo come un bambino
avevo preparato la performance a puntino,
importunando le muse delle arti maggiori,
ingaggiando maestri e leggende di uomini rari,
affittando sogni scritti meglio dei miei vuoti paroloni.

Pierangelo divino come un airone
volava leggero sopra le nuvole
incurante di come stessi perdendo per k.o. tecnico
quel match di pugilato chiamato poesia e vita.

La sala vuota rendeva ancora più ridicolo
quel mio agitarmi dinoccolato,
sottolineandolo con tono crepuscolare e disperato.

Per pietà una dolce farfalla aprì il portone sulla strada
sperando che i miei fuochi d’artificio gutturali
riuscissero ad impressionare i viandanti per la rada.

Era lei che avevo sedotto di fiore in fiore
e mi aveva staccato l’ingaggio per poche lire
e molto, troppo, esageratamente da bere.

Così mi piace farmi pagare,
qualche pompino e molto vino.

Da Marte responsabile ansiosa
per il mio fallimento marchiato d’infamia
sulla sua pelle graziosa.

Ai giovani universitari non interessa la cultura.

Ai fiorentini non piace la poesia.

Secoli alle spalle ce l’hanno dimostrato plurime volte.

Mentre i fantasmi di Dante Alighieri e Dino Campana
guardandomi teneramente mi suggerivano verità inevitabili,
il mio fedele pubblico si affacciò sulla strada,
unica amica reale rimasta gentile
per chi abbia attraversato lo specchio e sia divenuto favola da ricamare.

Io e Piero ci guardammo
e finalmente sorridemmo.

Non eravamo più soli.

Ardevamo scintillanti oscurando l’eclissi.

Un uomo,
una persona vera,
un clochard
si era fermato ad ascoltarci
accarezzando ogni nostro dolore,
note e parole.

Lui capiva quello che le corde pizzicate e quelle graffiate
stessero urlando e bruciando.

Vivi al mondo eravamo solamente noi tre,
stelle danzanti.

Ho sbagliato
e non mi giustifica il fatto che fossi così rapito e sospeso dalla sua bellezza.

Avrei dovuto scendere dal palco
ed elevarmi a livello dell’uomo.

Andare da lui, fuori nella realtà.

Abbracciarlo,
anzi meglio, ciò che conta,
offrirgli da bere,
pagargli da respirare.

Rubare una bottiglia di vino,
scappare dalla commedia e scolarla assieme fino al mattino.

Il resto erano puttanate.

Ho proprio intrapreso strade sbagliate,
ma sto imparando la differenza tra bene e male.

Quella sera per aver sputato sangue e sudato sperma,
ci pagarono una miseria.

Zero applausi di plastica nelle orecchie,
ma vino defraudato tra le viscere
e qualche sogno di morbide cosce
a porsi specchio sorridente d’orgoglio
alla presa di coscienza
di come il mio pubblico sia un esercito di barboni e puttane.

Unici esseri umani reali di cui valga la pena d scrivere,
con cui abbia senso brindare
a questo inferno pazzo che è il vivere.

Almeno finché Piero suonerà il contrabbasso al mio fianco
a scherno del resto,
scimmia idiota che non fa neanche ridere.

EPITAFFIO DAL PIÙ GRANDE POETA MORENTE

Dio è il concetto con il quale misuriamo il nostro dolore.

Non credo in Jonathan Lennon, pur citandolo.

Non credo alle stelle, pur usandole per portarmi a letto le belle ragazze,
alla loro luce morta milioni di fa.

Non credo al decalogo del poeta,
pur trasudandolo dalla pelle stanca
che ricorda e conosce solo l’urlo come affermazione di sé.

Non credo a voi gente per bene
Dai buoni consigli sterili.

Non credo all’uomo italiano e mediterraneo,
fascista vecchio, post, neo, borghese, padronale, legaiolo ed a 5 stelle, di cui ho già detto di non credere.

Non c’è resurrezione né speranza alcuna più.

Non credo nei populismi dell’homo homini lupus.

Non credo ai sacri confini degli stati
da difendere ciecamente con lo spauracchio della paura del diverso.

Credo al nomadismo,
credo al viaggio come unico senso della vita,
la ricerca di sé, di un perché
ad un’esistenza da trascinare tra la bellezza della natura e le storture dell’umana miseria.

Credo negli zingari,
il vero popolo eletto.

Gli unici rimasti seri e coerenti nel “belpaese”.

Non credo alla democrazia italiana,
mercato del posto fisso
in parlamento o in televisione,
che in questo paese malato se non appari non esisti.

Credo a chi si alza all’alba per portare il pane a casa ai figli.

E lo dico io guardandovi negli occhi,
io che sono sterile per fortuna,
una casa non ce l’ho
e non mi alzo mai prima di mezzogiorno
perché mi da fastidio il rumore della gente onesta che va a lavorare,
mi mette a disagio con la mia vigliaccheria.

Non credo più nel bene e nel male,
l’uomo non è all’altezza di entrambi.

Siamo fatti della stessa pasta della mediocrità che sta nel mezzo.

Non credo in Dio,
nel vostro Dio,
in qualsiasi Dio.

Mi ha abbandonato tempo fa.

L’uomo è solo in questo scarto di universo.

Non credo nella Dea,
Lorenza non merita una goccia del mio inchiostro di carne,
figuriamoci sperma e sangue.

Mi ha ucciso tante di quelle notti
che non so più morire.

Eterno poeta dell’inutile cantilenante,
eternamente errante errante.

Non credo nell’amore,
non credo più nella poesia.

Credo nell’eroina e nel whisky.

Non credo a te, padre, maestro, professore, direttore, generale, presidente, re, imperatore e pontefice massimo
che non sai neanche che esista.

Difficile chiedere il mio voto con queste premesse.

Credo nell’Anarchia,
unico volo di libertà
che l’uomo trova in se stesso,
animale armonia.

Non credo nella legge
che punisce il debole
e si fa ammansire dal potere.

L’uomo non è la proiezione di Dio,
ne è la scorreggia,
il lascito di seme
sulle lenzuola del cosmo.

Di un Dio in cui comunque non credo.

Non credo a Napoleone.

Dovevi distruggere la perfida Albione
e liberare l’umanità dalle catene
invece di rimirarti pingue
in specchi dorati
nel tuo mantello ali di aquila.

Non credo nei miti rivoluzionari del ’48, del ’17, del ’68, del ’77.

Tutti questi antenati da album di famiglia non credono in me.

Non credo al mio padre morale Charles Bukowski.

Devo combattere la mia battaglia,
non ricamare a bassa voce quella di qualcun altro.

E questo vale per me come per chiunque di voi.

Non credo in voi che amate ed odiate e cambiate sentimenti ed opinioni con la superficialità
di chi non conosce cosa sia l’amore e l’odio, il tormento e l’estasi,
ma pretendete d’imporre la vostra truffa a chi innocente crede
o credeva ancora.

Quando domani mi tirerò il collo
resterete solo la polvere che siete,
ombre di uomini e donne.

Credo solo in me stesso.

Il sogno è finito, Dio non esiste e l’abbiamo tutti al culo.

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Fabio Dainotti, L’albergo dei morti, manni, 2023, Lecce pp. 160 € 18, La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere

Fabio dainotti cover

L’osservazione di Andy Warhol secondo cui in futuro ognuno godrebbe di un quarto d’ora di notorietà esprime un totale scetticismo nei confronti della possibilità di fare opere artistiche tali da restare come azioni significative per i contemporanei e i posteri. Siamo diventati tutti degli scettici integrali, dei lucidi paranoici, abitiamo la follia dello psicozoico senza rendercene conto.
Occorre quindi prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: «Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione». Il delirio, la derelizione, il soliloquio a voce alta o voce bassa, soprattutto se sistematizzato e messo in forma di lirica, vorrebbe dare una apparenza di ordine e di senso alle esperienze di caos. È che è diventato impensabile dare un ordine di senso al caos dei giorni nostri, ma Fabio Dainotti è un affezionato storyteller, un raccontatore di storie, lui non vuole mettere ordine al caos né indire una gara per un concorso pubblico in materia di una lingua pura, la sua poesia è spuria, invariabilmente legata al plot, al racconto magari sui morti o sui nati morti alla maniera di Giorgia Stecher, senza però che intervenga l’elegia. Dainotti è un poeta ormai eslege e ipocondriaco, ha messo nel cassetto degli agenti patogeni l’elegia considerandola come una indebita intromissione di un esigente creditore nell’ambito del nostro conto corrente. È possibile pensare, sulla scia di Lacan, che il soliloquio sia una salutare reazione che ha luogo quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, ovvero, quel significante-escluso, significante-Padrone a cui non corrisponde alcun significato. Ora, è che questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto. La perdita di autorevolezza e di senso del soggetto-autore non riguarda soltanto la letteratura, ma ogni forma d’arte e di presenza nell’esistenza, Dainotti è uno spigliato investigatore, sa che l’intromissione dell’io nel testo poetico deve essere ridotta al minimo presentabile, e si comporta di conseguenza, la riduce ad un piccolo io che se ne sta in un cantuccio e di lì osserva lo sbrogliarsi della matassa dell’esistenza.
Questo preambolo per dire che al di sotto di quest’ultimo libro di Fabio Dainotti c’è una situazione storica di disincanto, di dissoluzione, di de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni prototipiche del nostro tempo di crisi epocale. Le tematiche del libro sono le più varie; mi limito a citare i titoli di alcune poesie, per lo più composte da una sola parola (Grillo, Scarpine, Sconforto, Mareggiata, Pioggettina, Bimbo, Bimba, Alla Madre, In morte, Notturno, Rimorso, Viaggi, Pierrot, Burlesque, Bisticcio, Cattedrale, Lettera, Ricordi di scuola, Sera, Ars poetica, Effe, Abatino, Sara, San Marco, Il gatto, Fillide, Congedo, Piove, Sguardo, L’albergo dei morti, Miliardaria, Mattino milanese, Mattino vicentino, Novecento, Cane e padrone, Famiglia, Cimitero marino, Orario d’apertura etc.). Come si vede già dai titoli, risalta la nominazione blasé, svagata e disincantata del dettato poetico di Dainotti:

Il mio cane si chiede certamente
se sia saggio passare le giornate
chiuso nel mio studiolo,
sul mezzanino triste.

Fuori, la vita celebra
i suoi trionfi, in questa
foresta innaturale.

A noi sembra degrado, ma qualcuno
più giovane, cresciuto,
se ne ricorderà.

È il cane il più saggio tra gli umani di oggi. È l’aspetto grottesco quello che traspare tra le parole gentili del poeta di Cava de’ Tirreni. Ecco un altro esempio di poesia disillusa e disincantata:

Eur Roma Nuvola di Fuksas Domenica 10 dicembre 2023

Ma dove sono i re e le regine
di cartapesta con le teste mozzate?
Prigionieri di polvere e incantesimi
negli abbaini pieni
e sogni infranti e di luna.

Dov’è re Ezio, prigioniero illustre,
dove la sua bionda carceriera?
e Federico, vento di Soave,
a quale porticina di convento
bussò, stanco di vivere e di regnare?

Son tutti morti, non c’è più nessuno.
L’erba è cresciuta e ora il vento la spinge
sulla collina.

Non ci saremmo mai imbattuti in questo genere di poesia, una sorta di neo-crepuscolarismo declassato e privo di elegia, se non vivessimo in un periodo di grande crisi economica, politica, sociale, e crisi del linguaggio poetico. Dainotti risponde alla crisi plurima con un linguaggio soliloquiale, limpido e disilluso di chi ha cessato di credere alle balsamiche virtù progressive della storia, malgrado tutto, e alle virtù benefiche dell’io plenipotenziario e penitenziario:

Le mie prime letture, i primi sogni,
i primi amori sfortunati, i primi
versi. Mi sembrava giusto che la vita
finisca dove è cominciata.

Ciò che resta non è neanche più il non-senso, che sarebbe pur sempre una istanza plausibile, quanto l’indebolimento del senso fino alla esaustione, fino alla fine del senso stesso. Tutti quei valori di un tempo che ci appare lontano, d’improvviso oggi non valgono più nulla, sono caduti in disuso, sono stati, come si dice oggi con una brutta parola, rottamati. Fabio Dainotti ne prende nota nel suo taccuino post-lirico e si rivolge al lettore con il suo registro post-musicale medio, con il suo tono sornione, dimesso e auto ironico da neo-crepuscolare giunto in ritardo all’appuntamento con il treno dell’ipermoderno.
La poesia di Dainotti è ciò che resta di tutti quei valori che in un tempo lontano erano ancora in auge, di cui oggi ci restano soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti; nulla è più integro, tutto il frantumabile è stato ormai frantumato, rottamato, compostato e deiettato. Il risultato è questo registro linguistico rimasto senza temi e senza tematiche, disilluso, privo di giustificazioni e, forse, priva di una vera ragione per esistere.

(Giorgio Linguaglossa)

da L’albergo dei morti, manni, 2023

Famiglia

“Un treno lanciato nella notte”
ci aveva portato su al Nord,
io all’università; tu per lavoro,
con la tua valigia da emigrante.
Si parlava di temi difficili: la vita,
e la letteratura, si fumava;
intanto si viaggiava
verso un incerto destino.

Era, la solitudine, ghiacciata;
neppure il vino mi scaldava il cuore.
Scrivevo lettere d’amore,
ma senza il suono di una voce umana
la voce della mia amata lontana.

Indossai il mio abito elegante,
e presi il treno da Pavia a Milano;
ed eccomi in Piazza Tricolore,
dove mi porta il tram, scampanellando;
poi pochi passi ancora, caro amico,
e suono il campanello alla tua porta.

Viene tua madre, in vestaglia ancora,
e sono già le undici.
È lei che porta avanti la famiglia,
l’emigrazione al Nord e poi il lavoro
trovato a tutti i figli. Anche al marito:

a un tratto lo intravvedo
dietro una porta semichiusa,
vestito già da vigile;
parrebbe un generale,
se non fosse il sorriso bonario.

Poi c’è Filippo, il figlio donnaiolo;
rincasa tardi d’estate, apre il frigo,
afferra qualche cosa da mangiare
incurante di me; poi ti canzona
bonariamente e se ne va a dormire. Continua a leggere

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Critica di una poesia elegiaca di Giorgio Caproni e di Patrizia Cavalli, “Alba” e “Cosa non devo fare”, La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento, Poesia limerick per bambini di Guido Galdini, poesie kitchen di Vincenzo Petronelli, Tiziana Antonilli, Antonio Sagredo

Foto Come arredare una parete bianca e noiosa

Poetry kitchen di Giorgio Linguaglossa

.

Come arredare una parete bianca e noiosa?
Qui ci metto un semaforo, sotto, un tavolino giallo con una tazza da caffelatte
Lascio i grattacieli in grigio sul cielo grigio
Accanto, in primo piano, mezzo divano In alto a dx c’è scritto Exit 7 – 800 m.
Due frecce in alto: Highway

.

“Alba” di Giorgio Caproni

*
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.

dall’elegia alla nuova fenomenologia del linguaggio poetico

di Giorgio Linguaglossa

In questa poesia di Giorgio Caproni abbiamo un campionario degli stereotipi della poesia elegiaca: colori esangui, lividi, parole non pronunciate, forse fantasticate ma mai dette, si ode però da lontano «un tram», il personaggio che parla pronuncia parole deserte, create per aumentare il senso di angoscia e di sonnolenza della coscienza. La parola finale «morte» è la degna conclusione di una poesia manierata, stilizzata in eccesso, sovraccarica e sovrassatura di lividori. La poesia è ambientata in un luogo lontano e indistinto, «nei vapori di un bar», in un «inverno lungo», «che brivido attenderti!», «nel sangue è gelo», «tremitio tra i denti», «ora nell’ermo/ rumore oltre la brina io», «Amore, io ho fermo/ il polso», «Ma tu, amore,/ non dirmi, ora che in vece tua già il sole/ sgorga». C’è tutto il repertorio stereotipico elegiaco come concentrato, c’è tutto quello che ci deve essere per commuovere il lettore e adescarlo, farlo partecipe dell’angoscia e dell’infelicità dell’io parlante, c’è tutta una lessicalità scelta («nell’ermo rumore», «il sole sgorga», «attendo la morte») per intenerire il muscolo cardiaco del lettore.

La noesi della poesia elegiaca è una tecnesi, ovvero, è il prodotto eufonico di un campionario organologico che traccia una genealogia organologica dei suoi strumenti musicali. Ma è anche una nemesi. Gli strumenti sono sempre quelli della poesia elegiaca: si percepisce un sottofondo di pianoforte rallentato e ovattato e un violino che suona una musica sdolcinata. Si tratta ora di capire perché e come questa genealogia organologica collimi con quella di una economia libidinale regressiva, cioè al servizio del Super-Io, con una postura e una postazione ideologica avvitate nella «intimità», nella «interiorità», nel «dolore»; più precisamente qui si tratta di una economia libidinale caratterizzata dalla capacità che ha l’elegia di fissare una tecnesi e una noesi in un tempo e in uno spazio memorabili e slontananti di cui essa è la rappresentante estetica dell’economia libidica. L’elegia mette in atto una attività immaginativa orientata alla stabilizzazione e alla fissazione dell’economia libidica su un oggetto continuamente perduto e ritrovato («Ma tu, amore», «Amore, io ho fermo il polso»). L’elegia, che in sé è sempre regressiva, ha bisogno di una economia libidica anch’essa regressiva, implica sempre il ritrovamento di un passato, di una noesi e una tecnesi rivolte al tempo passato e al perduto «Amore», nonché, di una implantologia di strumenti musicali che fanno appello alle intermittenze del cuore. Sia chiaro, una organologia non vale affatto un’altra, una organologia elegiaca come questa di Caproni implica e riflette una economia libidinale sostanzialmente basica e statica, regressiva, arrestata in un tempo passato che non tornerà, che non potrà tornare. Appunto, regressiva.

Una poesia kitchen e una poesia per bambini invece implicano l’adozione di una implantologia organologica ontologicamente «altra» che corrisponde ad una «altra» economia libidinale e a un’«altra» postazione ideologica. La poesia per bambini deve tenere conto che i bambini vivono esclusivamente nel presente, che a loro il passato non dice assolutamente nulla, e che il futuro è importante solo come prosecuzione del presente; la poesia kitchen dunque implica una attività per il futuro. Una nuova forma artistica implica sempre una defunzionalizzazione e una rifunzionalizzazione delle precedenti noesi e tecnesi, in altre parole implica sempre l’invenzione di una nuova economia libidinale «altra», e di un controllo del Fantasma. Resta il fatto che questa rivoluzione noetica e tecnesica coinvolge un drastico ricambio della implantologia organologica che corrispondeva allo statu quo ante. Infatti, la poesia kitchen è progressiva, è diretta verso la disambiguazione del significato, fa appello al trans-individuale. Quando un fatto è immaginabile, ergo può diventare reale, si tratta soltanto di riuscire a pensare l’immaginabile.
* [organologia: elenco degli strumenti musicali di una data epoca]

La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento

La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento, non mi risulta che la poesia italiana della soggettoalgia ipocondriaca abbia fatto altrettanto. Ad esempio, la poesia della soggettoalgia controllata di una poetessa storica del novecento, Patrizia Cavalli, è oggi debordata a dolorificio permanente, a poesia della esondazione dell’io. Leggiamo una tipica poesiola della Cavalli:

Cosa non devo fare

 per togliermi di torno

la mia nemica mente:

ostilità perenne

alla felice colpa di esser quel che sono,

il mio felice niente.

.

La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, è per eccellenza aliena a far riferimento a qualsiasi soggettoalgia dell’io, anzi, nutre una vera e propria allergia alla fabbrica del dolorificio della poesia italiana di questi ultimi decenni, la nuova fenomenologia della poetry kitchen si rivolge alla mente recettiva dei bambini, ai negozianti, alle commesse della Oviesse e dell’Upim, al pubblico futuro che ama il metaverso, ha in sé una forza tellurica dirompente che viene agita e agitata da un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind, un «gioco» di citazioni dei linguaggi del mondo delle Agenzie linguistiche («lo stato di cose esistente» di Marx in versione attuale) che intende sovvertire la lettura normologante del mondo. Una sorta di remix e mash up di linguaggi radiofonici, telefonici, privati e mediatici, di voci interne e di voci esterne, di interferenze, di entanglement. Smash and mash up, potremmo dire riepilogando.

La poetry kitchen contiene in sé una carica di libertà, di vivacità, di allegria e di sedizione veramente rivoluzionaria, incontenibile, imprevedibile; mi fa piacere questa magnifica espressione di libertà e di grottesca ilarità che mette all’asta il minimalismo elegiaco svelandone l’arcano implicito: che chi cerca il minimal prima o poi finirà con il trovarlo accontentandosi del minimal. Ma noi non cerchiamo il minimo, semmai, il maximum telluricamente esperibile e compossibile.

La poetry kitchen è una struttura complessificata che vede la convergenza di una simultaneità di spazi, di tempi (reali e immaginari), di frasari allotri, è una hilarotragoedia, tanto per usare una parola nota. C’è una corrispondenza biunivoca fra la sintassi e la semantica: la semantica inaugura un movimento di sensi e di significati, costruisce una narrazione, una storia; la sintassi dipana un ordine, definisce uno stato, edifica una tradizione. La fine di una metafisica ha prodotto un capovolgimento fra l’alto (il sublime) e il basso (il cafonesco), ha prodotto un capovolgimento tra la lontananza e la prossimità, un capovolgimento fra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose; telos della poiesis è di stabilire un riallineamento, un diverso dis-ordine tra le cose, un dis-ordine fra le parole e fra le parole e le cose. La fine della metafisica è la fine della tradizione con tutte le sue convenzioni e categorie e si preannuncia con grandi sommovimenti e rivolgimenti dello «stato di cose esistente»; la nuova poiesis non può che riflettere le forze soverchianti della storia che l’hanno prodotta. Così stando «lo stato di cose esistente», perorare la continuità della poiesis e della tradizione nello stato di cose esistente, è un atto politicamente regressivo, culturalmente disarmato, significa voler accontentarsi di salvaguardare la funzione ancillare e decorativa della poiesis.

Vincenzo Petronelli

Fragmenta historica

Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico.

Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.

“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.

Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”

“Who by fire? Who in the night time?”

Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.

Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.

.

pseudolimerick per bambini

di Guido Galdini

c’è una giraffa seduta sul sofà
che ha ordinato una coppa di Campari
a chi le chiede: dimmi, come va
risponde: mica male i miei affari
vieni a sederti un poco qui vicino
che ci facciamo un giro di ramino

ma la giraffa è animale assai ingombrante
per alzarla ci vuole un carro ponte
così il malcapitato che ha subito
l’onore di ricevere l’invito
si è dovuto ridurre alla metà
per non essere invaso e stritolato
da quell’ampia giraffa sul sofà.

.

Tre poesie di Tiziana Antonilli

Il protocollo

Il paziente aveva firmato il lenzuolo n. 14,
la notte legarono una vena al lavabo.
Anche alla vegetariana imposero la camicia di forza
infermieri e carcerieri giocavano a poker con i vitelli.
I testimoni sempre off line, ma provvisti di consenso informato.

.

Manuale in cinque punti

Bere un filo d’erba per gli omega tre
fare un riassunto dei globuli rossi e cestinarli
corpo a corpo dopo il primo sgarbo ai glutei.
Infilzare due volte al giorno le papille gustative
consolare il chilo e l’etto per il complesso d’inferiorità.

.

Controvento

I migranti sulla crosta di ghiaccio
si erano piegati gli abeti in tasca.
Con i guanti non ancora scaduti
si prendevano per mano
e ritoccavano il make up della bora.
I muscoli cardiaci sprizzano sangue sui pattini.
Se i Tre Confini preparano intemperie
non resta che il Daspo perenne.

.

Una poesia di Antonio Sagredo

Il sogno dello specchio confortò la sinfonia,
i tasti riflessi si mutarono in suoni libertini
e si sparsero sulle note i grani di un eretico rosario.
Mancò un’arietta per essere linfa e cenere.

Il settenario appoggiò i gomiti su uno scordato pianoforte
e si scarnificò la gola per cedere all’ugola dorata il canto.
Non c’erano che merletti e uncinetti tra le dita intricate
come le immagini ricciute d’un etilico poeta irlandese.
(2023)

Tiziana Antonilli ha pubblicato le raccolte poetiche Incandescenze (Edizioni del Leone), Pugni e humus (Tracce). Ha vinto il premio Eugenio Montale per gli inediti ed è stata inserita nell’antologia dei vincitori “7 poeti del Premio Montale” (Scheiwiller). Tre sue poesie sono entrate a far parte di altrettanti spettacoli teatrali allestiti dalla compagnia Sted di Modena. Il suo racconto “Prigionieri” ha vinto il Premio Teramo. Ha pubblicato il romanzo Aracne (Edizioni Il Bene Comune) e la raccolta di poesie Le stanze interiori (Progetto Cultura, 2018). Insegna lingua e letteratura inglese presso il Liceo Linguistico “Pertini” di Campobasso. Sue poesie sono presenti nella Agenda. Poesie kitchen edite e inedite, Progetto Cultura, 2022.

Guido Galdini (Rovato, Brescia, 1953) dopo studi di ingegneria opera nel campo dell’informatica. Ha pubblicato le raccolte Il disordine delle stanze (PuntoaCapo, 2012), Gli altri (LietoColle, 2017), Leggere tra le righe (Macabor 2019) e Appunti precolombiani (Arcipelago Itaca 2019). Alcuni suoi compomnimenti sono apparsi in opere collettive degli editori CFR e LietoColle. Ha pubblicato inoltre l’opera di informatica aziendale in due volumi: La ricchezza degli oggetti: Parte prima – Le idee (Franco Angeli 2017) e Parte seconda – Le applicazioni per la produzione (Franco Angeli 2018). È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Vincenzo Petronelli, è nato a Barletta l’8 novembre del 1970. Sono laureato in lettere moderne con specializzazione storico-antropologica, risiedo ad Erba in provincia di Como, dove sono approdato diciotto anni fa per amore di quella che sarebbe poi diventata mia moglie, ho una figlia di 14 anni.

Dopo un primo percorso post-laurea che mi ha visto impegnato come ricercatore universitario nell’ambito storico-antropologico-geografico e come redattore editoriale, ho successivamente intrapreso un percorso professionale nel campo della consulenza aziendale, che mi ha condotto al mio attuale profilo di consulente in tema di comunicazione ed export; nel contempo proseguo nel mio impegno come ricercatore in qualità di cultore della materia, occupandomi in particolare di tematiche inerenti i sistemi di rappresentazione collettiva, l’immaginario collettivo, la cultura popolare e la cultura di massa. Dal 2018 sono presidente del gruppo letterario Ammin Acarya di Como, impegnato specificamente nella divulgazione ed organizzazione di eventi nell’ambito letterario e poetico. Alcuni miei scritti sono comparse nelle antologie IPOET 2017 e Il Segreto delle Fragole 2018 (Lietocolle), Mai la Parola rimane sola, edita nel 2017 dall’associazione Ammin  Acarya di Como e sul blog letterario internazionale “L’Ombra delle Parole”. È uno degli autori presenti nella Antologia Poetry kitchen nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, Cantos del Moncayo, Ediciones Olifante, Zaragoza, 2022,2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj  le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale). Ha curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e KateYina Zoufalová; i poemi: Edison (in Lozio,& ., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L ozio», 1988) di Vitzlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudenkova, di Zbynk Hejda, Ladislav Novák, di JiYí KolaY, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar BYezina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.

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PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini”

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

 Riprendiamo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”  sempre secondo Gianfranco Contini, perché a nostro avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni e tutte le questioni come linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri.
(n.d.r.)

giorgio linguaglossa

21 dicembre 2015 alle 11:42 Modifica

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Gino Rago

21 dicembre 2015 alle 16:31 Modifica

L’invito alla lettura di Campana fa onore a Pasquale Balestriere e a L’ombra che lo ospita e lo propone. Dalla ricerca incentrata sui Canti Orfici (1914), si avverte in tutto il suo tragico incanto il senso di una sostanziale fusione fra l’artista e l’uomo, fra una vocazione d’arte e la parabola di una esistenza. Così come rumoreggia fra le parole di Pasquale Balestriere la storia d’un singolare “déraciné”, fratello spirituale dei poeti maledetti francesi, amante ed esperto di Wagner, di Masaccio, di Giotto, della grande tradizione plastica toscana, ma con l’occhio, ben educato all’arte, rivolto anche a De Chirico, ai futuristi, ai cubisti.
La precisazione di Giorgio Linguaglossa, estratta dal suo Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, è quanto mai opportuna nel suo carico di verità… Neanche Gianfranco Contini, fra gli altri, comprese la grandiosa scommessa campaniana di sporgersi oltre la musica e la plastica, per giungere in quel luogo misterioso dove suono e visione si fondono per farsi una cosa sola. Sibilla Aleramo, amandolo fino alle soglie della follia, aveva chiara in sé, nel teppismo, nel nomadismo di Dino Campana, la forza d’un uomo disposto a varcare monti e a solcare oceani nel coraggio supremo della fedeltà alla poesia, senza preoccuparsi né del pane né dell’avvenire, ma guardando al fanciullo di Whitman come mito segreto a chiudere i Canti Orfici “…erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo.”
Una pagina indimenticabile. Grazie Pasquale, grazie Giorgio.
Gino Rago

giorgio_caproni

giorgio caproni, foto di Dino Ignani

Pasquale Balestriere

29 dicembre 2015 alle 0:56 Modifica

E pensare, gentile Gino Rago, che Gianfranco Contini, peraltro finissimo lettore e notevolissimo rappresentante in Italia della critica stilistica, ha addirittura etichettato Campana come un poeta “visivo, che è quasi la cosa inversa” rispetto a “veggente” e a “visionario”!
Stupisce constatare come l’acuto Contini non veda con chiarezza (come pur dovrebbe) una cosa elementare, lapalissiana, e cioè che il dato visivo (quando c’è, la qual cosa accade -a dire il vero- piuttosto spesso) non è mai fine a se stesso ma è solo iniziale, propedeutico e funzionale allo sviluppo torrenziale dell’impeto creativo di Campana che si concretizza e trova la sua maturazione nella fase del poeta veggente e/o visionario. Contini, insomma, si ostina a negare l’evidenza di un atto poetico di rara potenza, che trova la sua più evidente realizzazione e conclusione in un deragliamento sensoriale nel quale, quasi miracolosamente, si compongono in meraviglioso concento le percezioni più diverse della vita (spazio, tempo, suoni, colori, forme, rumori, voci…).
E spiace anche che Contini, nella sua visione riduttiva della poesia campaniana, non abbia tenuto conto dei pareri positivi di altri illustri critici, come Boine, De Robertis, Cecchi, Solmi e dello stesso Montale, per non dire di altri, contemporanei e successivi.
Pasquale Balestriere

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

giorgio linguaglossa

29 dicembre 2015 alle 8:27 Modifica

Caro Pasquale Balestriere,
il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi “politici” a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato”La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico” (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà molte novità e approfondimenti. A mio parere la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

L’identificazione di una Linea dominante è un atto critico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il più grande poeta dopo Montale. Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne “La beltà” del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria, avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.

Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

campana_dino1

Dino Campana

Pasquale Balestriere

29 dicembre 2015 alle 13:55 Modifica

Sono sostanzialmente d’accordo con quanto sostieni, caro Giorgio Linguaglossa, soprattutto nella parte finale del tuo intervento. Quello invece che da tutti i critici, ma in particolare da uno del livello di Contini, mi sento di pretendere è la totale onestà intellettuale, messo da parte ogni motivo “politico” o anche qualsiasi teoria precostituita o presunta, finalizzata a raggiungere uno scopo predeterminato. L’atto critico deve essere operazione aperta, senza altro limite che non sia richiesto dalla competenza e dalla serietà dell’indagine.
Pasquale Balestriere.

 

 

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