
The_Scream___Eugeal_version_by_Eugeal
Commento di Pasquale Balestriere
Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare . Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo” -autentico, dico- (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.
Dino Campana (Marradi 1885 – Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni Turchetta a Luciano Anceschi, giusto per citarne alcuni.

Ardengo Soffici Chimismi
Ma perché Canti Orfici?
Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici, era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di Soffici (morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.
Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo. Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti accoliti in più ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.
È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana. Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe. Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti, abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.

Starry_Night by Eugeal
Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.
Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione –Canti Orfici– adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.
Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.
Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.
Dino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo visiva, come pur sostiene qualcuno, ma visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità, magari -come nel nostro caso- venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.
A questo punto si può tranquillamente affermare che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.
Pertanto, non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.
È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.
(da “I fiori del male”, Anno X, n. 60, gennaio-aprile 2015)

Dino Campana
Poesie di Dino Campana
LA CHIMERA
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
GIARDINO AUTUNNALE (FIRENZE)
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto.
Ella m’appar, presente.
LA SERA DI FIERA
Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni: colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
………………………………………………………………………..
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.
IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA
…poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
…………………………………………………………………………………….
E si distingue il loro verde canto.
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!…
…………………………………………………………………………………….
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…
VIAGGIO A MONTEVIDEO
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte tenebre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo della portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune …………………………………………….
FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI
Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.

Pasquale Balestriere
Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Viene infatti eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore. Nel 2000 viene chiamato a ricoprire la carica di Difensore Civico del suo Comune.
Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).
Molto documentato, suggestivo e puntuale questo saggio critico su uno dei poeti più celebrati, ma anche più isolati, del nostro Novecento: grazie a Pasquale Balestriere che ci invita a rituffarci nella poesia degli anni tra i più tumultuosi ed innovativi della nostra cultura, di respiro europeo, e che fa il punto sull’Orfismo.
(aiuta a capire anche la splendida, dirompente lettura dei Canti Orfici di Carmelo Bene).
Vale la pena di ricordare, a completamento di questo colto ed affascinante saggio, da meditare, il lavoro di Sebastiano Vassalli su Dino Campana. che porta il titolo La notte della cometa, del 1984
“…. se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest’uomo meraviglioso e ‘mostruoso’, ne sono assolutamente certo. L’avrei inventato così”.
Così finisce il libro di Vassalli, poeta che parla di un poeta, e che coglie in Campana una biografia che è parte di se stesso.
Diceva dei suoi versi: “Sono note musicali; – Sono stati di fantasia. – Sono colorismi più che altro. – Sono un effetto di colori e di armonia: un’armonia di colori e di assonanze. – Cercavo di armonizzare dei colori e delle forme”. Conclude Vassalli:
“Ogni ricordo si perde nel volger di pochi anni, al massimo di qualche decennio; le guerre e l’incuria dei vivi distruggono registri,archivi, documenti.- e sconsolato conclude-…Una panca, un tappeto possono durare per secoli: il ricordo di un uomo no . Come sta scritto nel libro: ”
Maria Grazia Ferraris
Mi permetto di aggiungere soltanto un link circa “Il più lungo giorno”, una versione digitale “sfogliabile” del manoscritto, proveniente dalla Biblioteca Marucelliana di Firenze
http://www.maru.firenze.sbn.it/CAMPANA/home.htm
Complimenti a Pasquale Balestriere per questo saggio.
A Mario Luzi, in margine a una conferenza che tenne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, chiesi da cosa aveva capito che la poesia della triade Carducci, Pascoli, D’Annunzio, stava cedendo il passo alla nuova lirica del Novecento. – Dalle poesie di Dino Campana- fu la sua risposta.
Dunque l’uomo che ha impresso la necessaria svolta alla poesia italiana, di cui fa bene Pasquale Balestriere a parlarne con la competenza che gli è riconosciuta, oggi trova “solo breve spazio in antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore.
In questo straordinario sfortunato paese non mi stupisco più di niente.
Ubaldo de Robertis
Non posso che esprimere a Pasquale Balestriere il mio più sentito apprezzamento per questo suo saggio critico puntuale, documentato con acribia e piacevole da leggere, da cui Dino Campana emerge in tutto il suo valore poetico, ingiustamente dimenticato o messo in disparte tra i minori da una Scuola che non offre un insegnamento dignitoso.
Nelle Antologie sul Novecento che avevo tra le mani al Liceo Classico, quando insegnavo, “caritate et gratia” era inserita la poesia “La Chimera” con poche righe sulla biografia del Poeta. Nulla di più.
Non mi permetto di aggiungere nulla a questo pregevole saggio introduttivo, ma desidero ricordare una vicenda persino assurda che si aggiunge alle tante singolarità biografiche del Poeta Dino Campana.
Terminato il libro con il titolo già menzionato da Pasquale Balestriere, Dino Campana consegnò l’unica copia del manoscritto ai critici sopra citati per la pubblicazione dell’opera. Il manoscritto, passando di mano in mano, andò perduto. Purtroppo era l’unico!
Dino Campana in brevissimo tempo lo riscrisse a memoria, con inevitabili varianti in alcune poesie, tra le quali la bellissima “Boboli”, divenuta “Giardino autunnale” nei “Canti Orfici” (Firenze 1914)
Mi piace mostrare la differenza tra le due stesure pubblicate nel mio blog “La mela rossa dimenticata” al link
https://giorginabusca.wordpress.com/2013/01/16/dino-campana-boboli-e-giardino-autunnale/
***
BOBOLI
Nel giardino spettrale
Dove il lauro reciso
Spande spoglie ghirlande sul passato,
Nella sera autunnale,
Io lento vinto e solo
Ho il profumo tuo biondo rievocato.
Dalle aride pendici
Aspre, arrossate nell’ultimo sole
Giungevano i rumori
Rauchi già di una lontana vita.
Io su le spoglie aiuole
Io t’invocavo: o quali le tue voci
Ultime furon, quale il tuo profumo
Più caro, quale il sogno più inquieto
Quale il vertiginoso appassionato
Ribelle sguardo d’oro?
Si udiva una fanfara
Straziante salire; il fiume in piena
Portava silenzioso
I riflessi dei fasti d’altri tempi.
Io mi affaccio a un balcone
E mi investe suadente
Tenero e grandioso
Fondo e amaro il profumo dell’alloro:
Ed ella mi è presente
(Tra le statue spettrali del tramonto).
***
GIARDINO AUTUNNALE
Al giardino spettrale al lauro muto
de le verdi ghirlande
a la terra autunnale
un ultimo saluto!
A l’aride pendici
aspre arrossate nell’estremo sole
confusa di rumori
rauchi grida la lontana vita:
grida al morente sole
che insanguina le aiuole.
S’intende una fanfara
che straziante sale: il fiume spare
ne le arene dorate: nel silenzio
stanno le bianche statue a capo i ponti
volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzioso come un coro
tenero e grandioso
sorge ed anela in alto al mio balcone:
e in aroma d’alloro,
in aroma d’alloro acre languente,
tra le statue immortali nel tramonto
ella m’appar, presente.
Dino Campana, “Canti orfici” , Firenze 1914
.
Giorgina Busca Gernetti
« Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »
Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*
* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento 2013 Società Editrice Fiorentina.
Molto ben articolato e documentato.
già Carmelo Bene affermò agli inizi degli anni ’60 quanto scrive Linguaglossa nell’ultimo periodo del suo intervento. Il Bene stracciò dalla sua vita Montale quando andò a trovarlo a Forte dei Marmi: la Voce diceva di Poesia, quello si dilettava a giocare a far barchette di carta: lo mandò a fare in culo il Salentino, non prima di avergli detto che il Campana lo sovrastava totalmente! Che devo dire io di Montale se già all’inizio degli anni ’70 mi stava indigesto, tanto da scagliarli addosso ogni mia parola! Palazzeschi e Campana ben ci rappresentano nelle poesia europea del secolo trascorso.
L’invito alla lettura di Campana fa onore a Pasquale Balestriere e a L’ombra che lo ospita e lo propone. Dalla ricerca incentrata sui Canti Orfici,
si avverte in tutto il suo tragico incanto il senso di una sostanziale fusione fra l’artista e l’uomo, fra una vocazione d’arte e la parabola di una esistenza. Così come rumoreggia fra le parole di Pasquale Balestriere la storia d’un singolare “déraciné”, fratello spirituale dei poeti maledetti francesi, amante ed esperto di Wagner, di Masaccio, di Giotto, della grande tradizione plastica toscana, ma con l’occhio, ben educato all’arte, rivolto anche a De Chirico, ai futuristi, ai cubisti.
La precisazione di Giorgio Linguaglossa, estratta dal suo “Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea”, è quanto mai opportuna nel suo carico di verità… Neanche Gianfranco Contini, fra gli
altri, comprese la grandiosa scommessa campaniana di sporgersi oltre la musica e la plastica, per giungere in quel luogo misterioso dove suono e visione si fondono per farsi una cosa sola. Sibilla Aleramo, amandolo fino alle soglie della follia, aveva chiara in sé, nel teppismo, nel nomadismo di Dino Campana, la forza d’un uomo disposto a varcare monti e a solcare oceani nel coraggio supremo della fedeltà alla poesia, senza preoccuparsi né del pane né dell’avvenire, ma guardando al fanciullo di Whitman come mito segreto a chiudere i Canti Orfici “…erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo.”
Una pagina indimenticabile. Grazie Pasquale, grazie Giorgio.
Gino Rago
E pensare, gentile Gino Rago, che Gianfranco Contini, peraltro finissimo lettore e notevolissimo rappresentante in Italia della critica stilistica, ha addirittura etichettato Campana come un poeta “visivo, che è quasi la cosa inversa” rispetto a “veggente” e a “visionario”!
Stupisce constatare come l’acuto Contini non veda con chiarezza (come pur dovrebbe) una cosa elementare, lapalissiana, e cioè che il dato visivo (quando c’è, la qual cosa accade -a dire il vero- piuttosto spesso) non è mai fine a se stesso ma è solo iniziale, propedeutico e funzionale allo sviluppo torrenziale dell’impeto creativo di Campana che si concretizza e trova la sua maturazione nella fase del poeta veggente e/o visionario. Contini, insomma, si ostina a negare l’evidenza di un atto poetico di rara potenza, che trova la sua più evidente realizzazione e conclusione in un deragliamento sensoriale nel quale, quasi miracolosamente, si compongono in meraviglioso concento le percezioni più diverse della vita (spazio, tempo, suoni, colori, forme, rumori, voci…).
E spiace anche che Contini, nella sua visione riduttiva della poesia campaniana, non abbia tenuto conto dei pareri positivi di altri illustri critici, come Boine, De Robertis, Cecchi, Solmi e dello stesso Montale, per non dire di altri, contemporanei e successivi.
Pasquale Balestriere
Trovo singolare l’accostamento tra Montale e Campana:l’uno, anche se schivo e indipendente, era consapevole del suo valore, probabilmente già presago della gloria che, prima o poi, sarebbe arrivata; Campana è un disperato che si muove sotto la spinta di una genialità perentoria, quasi stregonesca,in un mondo inquieto,illuminato dalla sanguigna”piaga rossa languente”; più che un uomo, era un angelo caduto tra i dèmoni,volava troppo alto perchè la cecità degli addetti ai lavori potesse sollevarsi fino a lui.ANNA VENTURA
Allorché si affacciavano nel panorama poetico italiano i Canti Orfici, nel 1914, Umberto Saba non aveva pubblicato che alcune sillogi di liriche, considerando che il Canzoniere, il primo, uscirà nel 1921. Cardarelli diede i Prologhi alle stampe nel 1923, nello stesso anno di Porto Sepolto con cui
esordiva Ungaretti. E Montale era poco più che un ragazzo: solo undici anni dopo ci avrebbe dato gli Ossi di seppia, un testo che sì notevole importanza avrebbe assunto nel quadro della lirica “nuova” italiana.
Come si fa a non accogliere le perplessità di Anna Ventura, se un pò di storia e di cronologia della nostra letteratura in fondo non disturba?
Gino Rago
Un po’ di storia letteraria, puntualizzata dalla cronologia degli autori e delle loro opere non solo non disturba, ma è necessaria per collocare opere e autori nel periodo preciso in cui si formarono e a poco a poco fiorirono, salvo poi inaridirsi e spegnersi del tutto, pur restando vivi fisicamente.
Risulterebbero così chiare le fonti letterarie e l’area spazio-temporale di ciascuno: i loro maestri, i “compagni di strada”, gli avversari, in breve tutto ciò che contribuisce a formare un autore, a parte il talento che è innato.
Giorgina Busca Gernetti
“Grida al morente sole/ che insanguina le aiole” mi paiono due versi che quasi compendiano lo straordinario camino poetico di Campana, sempre al limite di tutto,e la tragedia esistenziale che incombe, l’impossibilità di viverla la vita, se persino il mondo vegetale accoglie il sole con il sangue. Il saggio di Balestrieri così compiutamente lucido ci trasmette ancora una volta il desiderio di sprofondare nel mistero dei Canti Orfici. Salvatore Martino
Comparare i tramonti che insanguinano di Campana e del poeta ceco-moravo Brezina con il mattino insanguinato di Pasternak “Su un battello” è una esperienza unica che consiglio agli intervenuti, qui, di realizzare:
Era il gelo del mattino. Contraeva le mascelle,
e il fruscio delle foglie era come un delirio.
Più azzurra del piumaggio di un’anatra,
dietro la Káma luccicava l’alba.
E il mattino avanzava in un bagno di sangue,
come nafta dell’aurora traboccata,
per spegnere i becchi del gas nel quadrato
ed i lampioni della città.
1915
——————————–
in una mia nota n. 214, p. 83 (Corso su Pasternak 1972-73) scrivevo:
>> Il verso “E il mattino avanzava in un bagno di sangue” di ascendenza tipicamente impressionista, quanto è simile a un verso del poeta ceco-moravo Otokar Březina:” sangue,/è un oriente assolato, dove nel fuoco si bagna rinvigorito il giorno” (1898); così scrivevo nella mia tesi di laurea: Otokar Brezina : profilo critico del 1974-75 (pgg.144 e 234): “Spesso nei versi di Březina… i tramonti e i crepuscoli, le aurore e le albe e i mattini sono come ventagli variopinti, cangianti a secondo dell’umore del poeta; ma che succeda il contrario è nell’ordine delle idee del poeta. L’alba e il mattino sono quasi sempre tinti del rosso di un /dal fluido/ sangue [mi sovviene qui un verso impressionista del primo Pasternàk: ”avanzava il mattino in un bagno di sangue”]. — Sono talvolta similari le impressioni dei due poeti, per non dire della natura domestica: poesia da camera, insomma “casalinga”: luogo di creazione poetica preferito da entrambi [ma Březina volge il suo sguardo mistico al Dio-Universo; il russo alla sua riflessione interna, una sorta di implosione del/nel privato più intimo, e da qui alla storia/universo fuori che si svolge.” <<
“Comparare i tramonti che insanguinano di Campana e del poeta ceco-moravo Brezina con il mattino insanguinato di Pasternak… “.
E’ davvero un’esperienza poetica suggestiva notare quanto sia caro ai poeti menzionati il dilagare del sangue come metafora del rosso vivo al tramonto o del rosso arancio (rosa carnacino) dell’Aurora. Nei classici greco-latini, da Omero in poi, l’Aurora tingeva le plaghe del cielo “con le dita rosate”, oppure “tingeva di rose” l’arco del cielo. I poeti russi, cechi-moravi e il nostro Dino Campana “insanguinano” metaforicamente i tramonti e i mattini con icasticità davvero mirabile.
Giorgina Busca Gernetti
Ringrazio vivamente tutti voi che avete gratificato della vostra attenzione questo mio breve intervento. Sapendo quanto amava i lettori competenti, vi manifesterebbe la sua riconoscenza anche Dino Campana, se solo potesse…
Pasquale Balestriere
Caro Pasquale Balestriere,
il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi “politici” a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.
Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato”La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico” (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà molte novità e approfondimenti. A mio parere la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.
Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».
L’identificazione di una Linea dominante è un atto critico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il più grande poeta dopo Montale. Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne “La beltà” del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria, avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.
Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.
Sono sostanzialmente d’accordo con quanto sostieni, caro Giorgio Linguaglossa, soprattutto nella parte finale del tuo intervento. Quello invece che da tutti i critici, ma in particolare da uno del livello di Contini, mi sento di pretendere è la totale onestà intellettuale, messo da parte ogni motivo “politico” o anche qualsiasi teoria precostituita o presunta, finalizzata a raggiungere uno scopo predeterminato. L’atto critico deve essere operazione aperta, senza altro limite che non sia richiesto dalla competenza e dalla serietà dell’indagine.
Pasquale Balestriere.
Ho molto apprezzato i punti di vista espressi soprattutto dai critici, quali Giorgio Linguaglossa e lo stesso Pasquale Balestriere che ringrazio; mi permetto di aggiungere il punto di vista, invece, di un non addetto ai lavori di critica. Leggo nel commento del 29 dicembre 2015 alle 8:27 che (dopo il 1968) “si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.” (G.Linguaglossa)
“Dalla lirica al discorso poetico” è in estrema sintesi, secondo me, già un’indicazione precisa del percorso che sta compiendo la Poesia di questo periodo, quello in cui siamo immersi e nel quale scriviamo e leggiamo poesia. Il problema non sta solo nell’“identificare” la forma, quindi lirica (assolutamente fedele ad una metrica e ad un’argomentazione precisa) o discorso poetico (ossia capace di assommare in sé aspetti tipici della poesia, ma anche del teatro e dell’arte), ma anche nel far comprendere ai lettori, ma soprattutto agli scrittori di poesia, che quest’ultima è materia in divenire e, di conseguenza, come tutto quello che è vivo e vitale, passibile di evoluzione (evoluzione che può piacere o no) e che non è più possibile ancora oggi offrire testi non confacenti all’epoca in cui viviamo. Secondo me potrebbero andare bene come esercizi di stile, di espressione, finalizzati comunque al campo personale, foss’anche parlassero di grandi temi, sono “storia” poetica.
Insomma, penso che il punto stia anche nel chiedersi, da parte di coloro che “fanno” poesia, cosa vogliono materialmente essere loro stessi nell’ambito della Poesia, ovvero semplici espositori di esperienze personali o fautori \ partecipi di un cambiamento e, quindi, reali apportatori di novità degne di essere perpetrate nella memoria futura.
Il lavoro del critico è interessante, perché capace di aprire il ventaglio di un arco temporale preciso e dimostrare lo stato dei fatti, ma è il poeta che deve scegliere in tutta onestà cosa vuole esprimere con il suo lavoro e cosa vuole farne di questo (e, quindi, scegliere se essere un oggetto da vetrina, un frequentatore di salotti buoni o altro…). E’ il poeta che non deve fossilizzarsi su modelli ben riusciti, ma, se possibile, crearne dei nuovi al passo con i tempi che ha l’obbligo di vedere e di vivere.
A.Greco
Cari interlocutori,
Ecco una poesia che fuoriesce dalle secche della tradizione recente della poesia italiana. Leggiamo questa poetessa irachena che fa un tipo di poesia che fuoriesce dalla griglia concettuale Inno-elegia di Contini e rientra invece nella categoria di “Discorso poetico” da me ripresa dal Mandel’stam degli Anni Dieci, già pubblicata su L’Ombra delle Parole :
Dunya Mikhail
(1965)
La partita
È soltanto una pedina
salta sempre nella casella opposta
non si volta a destra né a sinistra
non si guarda indietro
è mossa da una regina demente
che attraversa la scacchiera in lungo e in largo
e non si stanca di portare bandiere
e insultare gli alfieri
È soltanto una regina
mossa da un re sventato
che conta i quadrati ogni giorno
sostenendo che sono di meno
e prepara torri e cavalli
sognando un accanito rivale
È soltanto un re
mosso da un abile giocatore
che si rompe la testa
e perde il suo tempo in una partita infinita
È soltanto un giocatore
mosso da una vita vuota
in bianco e nero
È soltanto una vita
mossa da un dio confuso
che un giorno ha provato a giocare con l’argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.
Traduzione di Elena Chiti
Poesia n. 309 Novembre 2015
Dunya Mikhail. Il mito più forte della guerra
A cura di Elena Chiti
da isoladeipoeti.blogspot.it
In un momento
.
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose.
.
P.S. E così dimenticammo le rose.
.
(per Sibilla Aleramo)
.
.Dino Campana (da “Inediti”)
Povero Dino Campana quasi sempre ignorato!
GBG
Davvero, una poesia struggente, di struggente intensità.
Dagli scacchi agli smacchi? E dove sono gli scarti (poetici)? Una declinazione della sconfitta dai livelli minimi (“pedina”) a quelli massimi (il “dio confuso”)? Un gioco di scatole cinesi da leggere (nel testo) dal basso verso l’alto? O più semplicemente siamo di fronte a un racconto, in forma di filastrocca, dal tono ironico-sarcastico e con -in fondo, come nelle favole- la sua brava morale?
No, Giorgio. Se questo è un assaggio del presente e del futuro della poesia, a me tale poesia non interessa. Meglio: in questo tipo di poesia non credo. Per essere ancora più chiaro: questa, a mio giudizio, non è poesia.
Purtroppo (ma per necessità dei più) la poesia è in traduzione e si sa che la traduzione è sempre, in misura maggiore o minore, un tradimento, per cui addosso al traduttore grava un onere a volte insopportabile. E il lettore, che ignora la lingua originaria del testo, è posto di fronte a una doppia manipolazione del fantasma poetico (dell’autore e del traduttore), per cui fatica ad attribuire eventuali colpe e meriti. Però il risultato poetico che il testo da te proposto offre nella nostra lingua mi pare mediocre e, se c’è qualche guizzo, in questo exemplum piuttosto piatto e raziocinante, riguarda più la sfera del pensiero che quella, sostanziale, del linguaggio della poesia: unico e insostituibile elemento -il linguaggio, dico- a distinguere la poesia da tutti gli altri generi letterari.
E, a scapito di equivoci, quando prima affermavo di concordare con te, mi riferivo ai momenti salienti della discussione e cioè alla scarsa considerazione, assolutamente ingiustificata, di Contini nei confronti della poesia di Campana, al (giusto) ripudio della visione dualistica di matrice continiana, alla disseminazione (per me comunque positiva, in quanto indice di pluralità creativa) dei linguaggi poetici in quest’epoca di grandi rivolgimenti. Su questo, ripeto, concordo.
Non concordo affatto sugli effetti del tuo ragionamento, cioè sulla tua ammirazione per la poesia “La partita”, per te paradigmatica, della poetessa Dunya Mikhail. E quindi dissento, almeno su questa poesia.
Pasquale Balestriere
Caro Balestriere, mi scuso – prima di tutto – per la deformazione del tuo cognome ( io ne sono frequentemente vittima ). Ma passiamo ad altro. Ottimo il tuo lavoro su Campana, poeta che riprendo spesso smarrendomi e ritrovandomi nei suoi versi così visionari e insieme terreni. Ma vorrei segnalare anche la sua ” indignazione civile ” .Conoscerai senz’altro la sua invettiva: ” Letteratura Nazionale- Industria del cadavere. Si Salvi Chi Può “. Non ti sembra di permanente attualità ?
Tornando al Nostro mi piace ricordare anche lo straordinario frammento intitolato L’infanzia nasce, che riproduco testualmente e che forse è la più alta ricostruzione poetica dell’Eterno ritorno nicciano
“L’infanzia nasce da un ritorno di sè stessi giacchè in uno strano eco s’immobilizza e si allontana dai giorni anzi nasce proprio da una cosa
” specchiata ” con le ridenti spighe gialle e i campanili conoscenza eterna
( di poco tempo ) e sempre a sapersi da un tempo infinito come a stare sempre sulla riva di un giorno ”
( rispettivamente pag. 255 e 273 di Opere di Dino Campana ed. TEA 1989 )
Quanto alla laminetta aurea di attinenza orfica una si trova proprio nel Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia ( olim Hipponion, meno olim Montaleone ) alla cui provincia appartiene il mio paese di origine.
Di tale lamimetta parla anche Giorgio Colli nella sua monumentale opera La sapienza graca ,vol. I, Adhelphi 1977, pag. 173 ) .
Felice dell’incontro.Un cordiale saluto. Giorgio Mannacio.
Caro Mannacio,
ti ringrazio per le belle parole nei mie confronti. Devo dire che anche quello con la tua poesia è stato un felice incontro, tale, comunque, da indurmi a leggere almeno tre volte, a distanza di qualche tempo (in termini di ore), i tuoi testi pubblicati su questo blog. Sicché il mio commento è giunto buon ultimo. Dopo l’iniziale adesione emotiva – già di per sé significativa- i tuoi versi mi hanno imposto attenzione e circospezione, come mi capita davanti alla poesia di spessore e come già di mio faccio quando passo dalla fase di lettura a quella più propriamente esegetico-critica. Bene, la tua poesia mi ha convinto.
E andiamo oltre.
Che Campana sia stato poeta “totale” (per l’identità vita-arte) e assolutamente convincente è fuor di dubbio, e gli esempi da te citati lo confermano.
Chiudo con una breve notazione sulla importantissima laminetta di Hipponion (alla quale è dedicato un capitolo della mia ormai lontana tesi di laurea), una delle ultime scoperte ma certamente la più completa e più sicuramente orfica, con le sue 16 righe di iscrizione e una ricchezza di informazioni che ha indotto il compianto Giovanni Pugliese Carratelli a dividere – per primo, mi pare- le laminette in due serie: la thurina e la mnemosynia..
A te, caro Mannacio. un saluto e un augurio di Buon Anno
Pasquale Balestriere
caro Pasquale Balestriere,
davvero, il giudizio sulla valutazione di una poesia può essere spesso addirittura agli antipodi. In questo caso il tuo e il mio giudizio sono agli antipodi. Ma è normale quando si valuta la poesia contemporanea che il giudizio su di essa possa essere il più vario. Anzi, sono convinto che una poesia di livello obbliga i lettori ad adottare valutazioni differenti e spesso opposte. Ecco la poesia:
È soltanto una pedina
salta sempre nella casella opposta
non si volta a destra né a sinistra
non si guarda indietro
è mossa da una regina demente
che attraversa la scacchiera in lungo e in largo
e non si stanca di portare bandiere
e insultare gli alfieri
È soltanto una regina
mossa da un re sventato
che conta i quadrati ogni giorno
sostenendo che sono di meno
e prepara torri e cavalli
sognando un accanito rivale
È soltanto un re
mosso da un abile giocatore
che si rompe la testa
e perde il suo tempo in una partita infinita
È soltanto un giocatore
mosso da una vita vuota
in bianco e nero
È soltanto una vita
mossa da un dio confuso
che un giorno ha provato a giocare con l’argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.
Veramente, non saprei da dove cominciare per “difendere” la poesia di Dunya Mikhail. La poesia inizia informando il lettore che si tratta «soltanto di una pedina», una cosa da nulla, una nugae, che, insomma, si tratta di un gioco. Nel prosieguo, siamo avvertiti che c’è una «regina». La poesia inizia con la presentazione di una «pedina» «regina», che non può voltarsi né «a destra né a sinistra», una «pedina», che «salta sempre nella casella opposta», una «pedina» che «è mossa da una regina demente / che attraversa la scacchiera in lungo e in largo», che deve andare sempre avanti, che è condannata ad andare sempre avanti. C’è una duplicità tra la «pedina» e la «regina», o sono la stessa persona? Ecco, qui si ha la prima ambiguità concettuale: la pedina e la regina forse sono la stessa persona. Dunque, si tratta di una poesia concettuale e iconica, ma l’ambiguità concettuale fa dissolvere la univocità del concetto. Ma se andiamo avanti nella lettura scopriamo che si tratta soltanto di una «regina demente», che «non si stanca di portare bandiere / e insultare gli alfieri». Dunque, siamo nel mezzo di una battaglia, nel mezzo di una partita di scacchi, ecco la seconda ambiguità della poesia, che adesso, senza accorgercene siamo giunti in mezzo ad una battaglia, e la «regina» è sempre lì. Però qui il lettore viene informato che la «regina» è «mossa da un re sventato». E qui c’è un’altra duplicazione e un altro traslato. Riepilogando, prima c’era una pedina che è diventata una regina che, a sua volta, è guidata da «un re sventato». Davvero, è una strabiliante duplicazione di scatole cinesi!. Ma, andiamo avanti nella lettura. e scopriamo che «È soltanto un re / mosso da un abile giocatore». Siamo arrivati al centro della poesia. Ancora un traslato. Ancora una trasposizione. Dunque, c’è un «abile giocatore» che dirige tutti i movimenti di tutti questi personaggi (che forse sono soltanto un personaggio, che si traveste, un pagliaccio, una figura dell’inconscio, chissà!). Questi personaggi sono mossi dalla necessità, e la necessità è data dalla scacchiera, con il suo ingegnoso ingranaggio di regole poste lì per essere infrante, infrante da una misteriosa entità che aleggia per tutta la composizione, ma che non si manifesta mai, una entità che potrebbe intervenire, perché ne ha la facoltà ma che invece si astiene, e lascia che gli Eventi accadano come per spontanea volontà degli uomini (rectius, dei personaggi). Più avanti la poesia ci informa che questo «abile giocatore» «È soltanto un giocatore / mosso da una vita vuota / in bianco e nero». E qui il cerchio si chiude. Allora, si chiede il lettore: chi è questo «giocatore» che gioca con le vite degli altri personaggi, cavalli, alfieri che cadono sotto la sua mannaia? Ecco, bella domanda alla quale la poesia non può rispondere che andando avanti, riproponendo il medesimo meccanismo ossessivo che l’ha prodotta, un meccanismo psichico difensivo messo in atto dai bambini quando vogliono difendersi dalla pulsione ad abbattere il padre, il totem, l’inconscio cerca una via di fuga, la cerca ma non la trova. È un universo chiuso, mosso da una legislazione ossessiva dominata dalla legge della coazione a ripetere, ripetere gli stessi atti che sono andati a vuoto, ripetere le medesime duplicazioni che si sono rivelate impotenti. Ma la poesia non può fermarsi, neanche se lo volesse, è presa nella morsa delle sue intime, interne contraddizioni. Questo mostruoso giocatore il quale «perde il suo tempo in una partita infinita». Dunque, abbiamo un ulteriore elemento per capire questo infernale ingranaggio che muove la «pedina», la quale, a desso lo sappiamo, non potrà che soccombere, una forza soverchiante la sta attirando nel centro di una partita distruttiva che conosce soltanto cadaveri.
Beh, è chiaro che qui siamo davanti ad una rappresentazione del Potere, una rappresentazione dell’io e della impossibilità di uscire dal Labirinto costruito da un dio ottuso e «confuso», dal Potere imperiale che obbliga i personaggi (i duplicati) ad andare sempre avanti, verso la conclusione finale, verso il finale di partita. Chi è costui? È soltanto un dio che
un giorno ha provato a giocare con l’argilla
È soltanto un dio
che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato.
Caro Pasquale, tu dici che la poesia ha un tono «ironico sarcastico», ebbene io credo invece che la poesia abbia un tono disperato, e il finale mi induce a ritenere che essa sia senza speranza. La terribilità che la poesia ha narrato induce l’autrice di questa magnifica poesia nella condizione di essere senza speranza, e il suo sguardo è oggettivo, ossessivo, di maniacale chiarezza. E l’apertura dell’ultimo verso, assolutamente geniale («un dio / che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato»), in realtà è una chiusura, indica che il Labirinto non ha una via di uscita. La «pedina» verrà inesorabilmente schiacciata.
Ecco,forse sbaglierò, ma io ritengo questa poesia una delle cose più belle che abbia letto in questi ultimi anni. Basterebbe questa sola poesia a riconoscere che Dunya Mikhail è, senza dubbio, un poeta.
Caro Giorgio,
ti ho seguito attentamente in questa analisi, la quale mi appare più come un’esegesi volta innanzitutto alla ricostruzione del testo, del quale hai fornito a mano a mano alcune interpretazioni più o meno convincenti (per esempio, trovo non pertinente, qui, la tua tesi che chiama in causa il rapporto conflittuale padre- figlio, con relative pulsioni).
Al posto tuo, però, io avrei detto preliminarmente che il gioco degli scacchi è, in questa poesia, nient’altro che una metafora della Vita (prima ancora che del Potere). E, quanto ai “personaggi”, a mio parere, la “pedina” e la “regina” sono entità distinte l’una dall’altra (come, del resto, tutte le rimanenti), poste dalla poetessa in ordine di (presunta) potenza, e non, come dici tu, “forse … la stessa persona”. E queste, insieme agli altri “personaggi” della poesia, sono collocate in un contesto segnato da limiti e barriere di ogni genere. Proprio come accade nella vita. In più, a definire differenze e disuguaglianze della società umana, tutti i personaggi sono disposti in ordine gerarchico, in senso crescente: dall’umile “pedina” al “dio confuso”, che si è divertito a “giocare con l’argilla” (piccato riferimento al Dio della Genesi) e che però “ È soltanto un dio / che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato”. Tu qui, caro Giorgio, vedi disperazione. E aggiungi: “E l’apertura dell’ultimo verso, assolutamente geniale («un dio / che non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato»), in realtà è una chiusura, indica che il Labirinto non ha una via di uscita.” Io qui, caro Giorgio, eliminerei l’avverbio “assolutamente”, perché basta (e avanza) il “geniale” e sarei più cauto sul termine “chiusura”. Per ciò che mi riguarda, vi leggo una condizione non (o, almeno, non ancora) definitiva di smacco, perché non è detto che quel dio, ora impacciato, non saprà un giorno “uscire dal guaio in cui s’è cacciato”. Aggiungo, chiarisco, confermo e sottoscrivo che nel dettato linguistico e nel senso complessivo che ne deriva si può captare l’ironia o il sarcasmo, non la disperazione che tu affermi, visto che, sotto il profilo testuale, mancano elementi linguistici e indicatóri utili a suffragare la tua tesi. Certo, in questa realtà gli agenti (?) appaiono tutti “agìti” e perdenti (e quindi non è solo la “pedina” ad essere, come dici tu, “inesorabilmente schiacciata”). Del resto il tema non è nuovo, anzi: questo testo di Dunya Mikhail è originato da quella percezione della vita, intesa come inganno e smacco, comune a tanta poesia e letteratura del secolo scorso.
Per finire, questo tentativo di tra-durre in poesia (e, ripeto, nella vita) il gioco degli scacchi a me pare, nei suoi esiti, operazione più di prosa che di poesia. Perché? In via preliminare, caro Giorgio, ti pregherei di interrogarti, in tutta sincerità: in questa poesia che cosa reagisce PREVALENTEMENTE agli stimoli lanciati dalla poetessa attraverso il suo messaggio, la mente o il cuore? Attenzione, perché la differenza non è di poco conto, ma addirittura fondamentale. Nel primo caso vince la prosa (magari intelligente o brillante), nel secondo la poesia, la quale parla al mondo degli affetti, che comunemente si identifica con il cuore. E poi mi dici, Giorgio, dove ravvisi gli scarti poetici, i passaggi che scuotono, emozionano, attraggono, affascinano il lettore? Dove, quell’imperioso richiamo che viene solo dalla vera poesia e che non ti consente scampo?
Per concludere, a me pare che la caratteristica migliore di questo testo sia l’allusivo e continuo rimbalzo dal gioco degli scacchi al “gioco” della vita e qualche intuizione realizzata, come quella, finale, da te ricordata. Poca cosa, per me, perché si possa dare a questi versi patente di poesia.
Pasquale Balestriere
caro Pasquale Balestriere,
io do per scontato che davanti ad un testo di poesia, le valutazioni siano le più disparate, quindi capisco il tuo punto di vista, comprendo le eccezioni che sollevi.
Tu parli degli «scacchi come metafora della Vita». Esatto. Ma nella «Vita» c’è il problema del «Potere» e il problema dell’esistenza degli uomini (le «pedine» della poesia). Ora, in tutta la grande poesia occidentale il problema vero, quello al centro della poesia è il problema del potere e della Morte che proviene dal Potere. Anche in questa poesia di Dunya Mikhail non si parla certo dei problemi piccolo borghesi tra un «io» e un «tu», degli innamorati che cincischiano come si fa nella pseudo poesia dei nostri giorni climatizzati dal riscaldamento globale. Oggi c’è in Occidente una sorta di cecità globale forse dovuta al riscaldamento globale delle menti per cui viene apprezzato un altro tipo di poesia psicologica, ironica, giocosa, ilare, auto ironica etc. Io personalmente ritengo che la vera poesia non si debba occupare di queste briciole esistenziali ma debba andare direttamente al centro dei problemi della nostra epoca, ormai non c’è più tempo per gli indugi e per le strategie difensivo elusive.
La poesia di Dunya Mihhail parlando del gioco degli scacchi in realtà ci parla della CRISI DELLA RAGIONE, la ragione assertoria e della omogeneità assertoria che fonda giuridicamente il Logos occidentale e, quindi, alche il logos della poesia.
Quello che mi affascina in questa poesia è che tutto ciò che vi accade, tutti gli eventi descritti indica che c’è all’interno della Ragione Occidentale un momento indicibile, ed è l’indicibile dell’ordine assertorio. Ecco perché la poesia fa appello, come tu giustamente e acutamente scrivi, alla «mente» piuttosto che al «cuore», fa riferimento alla Crisi di quella Ragione che ha fondato la razionalità occidentale perché ha creato, insieme alla penicillina e agli antibiotici, insieme alle astronavi e all’arte anche le stragi degli innocenti e gli eccidi di massa. Qui c’è un problema, sembra dirci Dunya Mikhail, che Dio è morto e che QUELLA Ragione che era il punto di partenza della razionalità, è scomparsa, che non si sa più di che cosa render ragione nella catena proposizionale se non della catena stessa, che sopravvive, come mostro proposizionale. E tutto l’edificio della Ragione Occidentale ne risulta minato. La ragione intesa come concatenarsi proposizionale giustificatorio, che è priva di fondamento. E questo spiega la CRISI perché non c’è più un Originario, non c’è più un Fondamento. Il punto debole della razionalità occidentale è il suo punto di partenza. Quello che la poesia di Dunya Mikhail ci vuole far capire è che il punto debole è innervato in quella «pedina» con cui ha inizio la poesia. È essa che è minata dal Discorso assertorio che dissimula nella propria assertoricità il suo ordine interno malato, la propria infermità. È lo stesso Ordine assertorio con il quale è fatta la poesia. Paradossalmente, l’aspetto geniale di questa poesia, io la rinvengo proprio in questo atto: quello di parlare della Crisi della Ragione proposizionale con la stessa stoffa con la quale essa ci parla, con un ordine assertorio che parla alla «mente» (come tu acutamente scrivi) senza nulla concedere al «cuore». Per la poesia del cuore ci sono gli sterminati eserciti dei piccoli poetini abatini…
Alt, caro Giorgio. Comincio dalla fine. La poesia del “cuore”, cioè dei sentimenti e della passione nell’accezione più ampia di questi due termini, ha innervato i più grandi prodotti artistici dell’Otto-Novecento, dal Romanticismo in poi. Altro che piccoli poetini, ecc. Aggiungo che i risultati della “poesia del cuore” dipendono esclusivamente dalla dilatazione creativa del cuore stesso, per cui sono certamente poetini quelli che, con cuore ristretto, riducono tutto a dimensione privatistica, egoistica, asfittica. Ma come definisci tu, caro Giorgio, il poeta che, scrivendo di sé, scrive di tutti, coinvolgendo in toto l’essere umano e la sua condizione? E dunque c’è cuore e cuore, dipendendo tutto dal peso specifico di chi tiene in mano la penna.
Dici bene quando affermi che nella Vita c’è il problema del Potere. Ma vorrei farti notare che quel Potere si esplicita su tutti i “personaggi” della poesia, non solo sulla “pedina”, che è però l’ultima ruota del carro. Ma se la “pedina” subisce l’azione della “regina”, questa subisce a sua volta l’azione del “re”, e così via. Si tratta, sì, dell’azione di un Potere, ma verticalizzato e distribuito in gerarchie, frantumato, in un certo senso. E pare che sia addirittura sopra ogni cosa, domini dal di fuori una realtà in cui “dio” stesso è impotente, se “non sa come uscire dal guaio in cui si è cacciato”.
Dici bene anche quando sostieni che il ” gioco degli scacchi in realtà ci parla della CRISI DELLA RAGIONE, la ragione assertoria”, vista la grande confusione che muove e in cui si muovono i personaggi della poesia. Ma tutte queste cose sono spiegazioni e interpretazioni del testo e non attengono all’essenza della vera poesia che io continuo a cercare e che non trovo nell’atmosfera complessiva creata da questo testo, e nemmeno nei singoli lacerti, rinvenendovi piuttosto una sorta di narrazione che oscilla tra fiaba, favola e l’espressione impersonale (od oggettiva, ch’è la stessa cora) d’un pensiero.
E su quest’esito, caro Giorgio, penso che non saremo mai d’accordo. Ma tuttavia, viva la pluralità dei punti di vista!
Buon anno e buona vacanza.
Pasquale Balestriere
Gentilissimo, lei sa bene che il Romanticismo e l’Orfismo non hanno mai realmente attecchito nel cuore degli italiani, il primo fenomeno essendo sostanzialmente roba di importazione nordica di derivazione cristiana-medievale, il secondo roba continentale di derivazione pagana-greca. La poesia e l’arte italiana storicamente sono più “di testa”, umaniste, studiate, intellettuali. L’italiano medio non ha un animo “maledetto” ma borghese, godereccio, melodrammatico (non drammatico senza il “melo” davanti), nel bene e nel male. Perciò abbiamo potuto creare il Rinascimento e il Classicismo, ma non il Romanticismo e l’Orfismo, poco connaturati alle nostre caratteristiche. Campana rimane un grande poeta ma è nato al momento giusto nel posto sbagliato.
Un saluto.
caro Pasquale,
è sempre utile confrontare le proprie ragioni con quelle di altri. Solo gli sciocchi e gli altezzosi scrivono per avere ragione, io scrivo per mettere a fuoco delle idee. Buon Anno anche a te e a tutti i lettori del blog.
Pingback: PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo
Pingback: PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo
Pingback: PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo
Pingback: PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo
Pingback: PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo
Pingback: Dunya Mikhail , La Partita | Il sasso nello stagno di AnGre