
Alfredo De Palchi
Da uno scritto di Luigi Fontanella:
«Alfredo si trova rinchiuso, già da qualche anno, nel penitenziario di Procida, vittima di imputazioni infamanti. L’accusa è un omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, a opera di tale Carella, fascista e capo della milizia ferroviaria. Pur essendo del tutto estraneo a quest’omicidio, De Palchi viene accusato e processato. Come ho già raccontato altrove (mi permetto rinviare di nuovo al mio volume La parola transfuga, pp. 178-183), a monte di questa infame calunnia c’era stata, dietro la spinta di altri affiliati, l’insipiente militanza giovanile di Alfredo, allora diciassettenne, nelle file delle Brigate Nere, capitanate da Junio Valerio Borghese, uno dei leader più combattivi della Repubblica Sociale Italiana. […] Allo sbrigativo processo svoltosi a Verona nel giugno 1945, in pieno clima di caccia alle streghe, De Palchi, del tutto innocente, fu condannato all’ergastolo (il pubblico Ministero aveva chiesto la pena di morte!). Un processo-farsa che gli costò vari anni di prigione, prima al carcere di Venezia, poi al Regina Coeli di Roma, poi a Poggioreale a Napoli, poi al penitenziario di Procida ( 1946-1950), infine a quello di Civitavecchia (1950-1951). Un’esperienza durissima che dovette prostrare il nostro poeta e che avrebbe segnato per sempre anche la sua poesia, se è vero che quell’esperienza non solo è presente nella sua primissima produzione (strazianti e taglienti i versi, oltre che di La buia danza di scorpione, anche del poemetto Un ricordo del 1945, che tanto avrebbe colpito Bartolo Cattafi che lo presentò subito a Sereni […]) ma ricompare con tanto di nomi e cognomi nel recentissimo nucleo Le déluge, posto a chiusura del suo ultimo, intensissimo libro Foemina Tellus. Un’esperienza atroce che l’avrebbe segnato profondamente ma che gli avrebbe anche fornito la stoica energia a resistere, a reagire, a crescere, a leggere, a studiare, e infine a scrivere la sua poesia di homme revolté. Credo che chiunque si accinga ad affrontare la lettura delle poesie di De Palchi non debba mai prescindere da questa terribile vicenda biografica, tanto la poesia che da essa è scaturita ne è intrisa dalle prime prove fino alle ultime. Un’esperienza crudele che, a valutarla oggi dopo più di mezzo secolo, sembra perfino beffarda se si pensa che il nazifascista Junio Valerio Borghese, che pure era stato uno dei capi indiscussi della fronda repubblichina, al processo intentato contro di lui per crimini di guerra, sempre a Verona tra il ’46 e il ’47 (il processo si concluse esattamente il 17 febbraio 1947), riuscì a cavarsela con soli quattro anni di carcere, gli ultimi dei quali proprio a Procida, nello stesso penitenziario dove si trovava rinchiuso De Palchi. Sul quale, sia detto per sgombrare qualsiasi taccia posteriore di collaborazionismo, venne in seguito sciolta ogni accusa e provata la più totale innocenza. Mi riferisco alla revisione definitiva del processo, che avvenne nel 1955, presso la Corte di Assise di Venezia, alla cui conclusione De Palchi, assistito dagli avvocati De Marsico e Arturo Sorgato, fu prosciolto da qualsiasi accusa e assolto con formula piena”». (n.d.r.)
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Alfredo de Palchi
Alfredo de Palchi, originario di Verona dov’è nato nel 1926, vive a Manhattan, New York, dove dirigeva la rivista Chelsea (chiusa nel 2007) e tuttora dirige la casa editrice Chelsea Editions. Ha svolto, e tuttora svolge, un’intensa attività editoriale.
Il suo lavoro poetico è stato finora raccolto in sette libri: Sessioni con l’analista (Mondadori, Milano, 1967; traduzione inglese di I.L Salomon, October House, New York., 1970); Mutazioni (Campanotto, Udine, 1988, Premio Città di S. Vito al Tagliamento); The Scorpion’s Dark Dance (traduzione inglese di Sonia Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1993; Il edizione, 1995); Anonymous Constellation (traduzione inglese di Santa Raiziss, Xenos Books, Riverside, California, 1997; versione originale italiana Costellazione anonima, Caramanica, Marina di Mintumo, 1998); Addictive Aversions (traduzione inglese di Sonia Raiziss e altri, Xenos Books, Riverside, California, 1999); Paradigma (Caramanica, Marina di Mintumo, 2001); Contro la mia morte, 350 copie numerate e autografate, (Padova, Libreria Padovana Editrice, 2007); Foemina Tellus (introduzione di Sandro Montalto, Novi Ligure(AL): Edizioni Joker, 2010).
Ha curato con Sonia Raiziss la sezione italiana dell’antologia Modern European Poetry (Bantam Books, New York, 1966), ha contribuito nelle traduzioni in inglese dell’antologia di Eugenio Montale Selected Poems (New Directions, New York, 1965). Ha contribuito a tradurre in inglese molta poesia italiana contemporanea per riviste americane.

alfredo de palchi in Italia, 1953
Commento di Giorgio Linguaglossa «Il problematico è l’indicibile dell’ordine assertorio»
Il testo di Alfredo De Palchi è dichiarativo perché il locutore teme che esso possa essere equivocato dal lettore risponditore. Ecco perché il locutore De Palchi si esprime mediante una proposizionalità dichiarativa. Una frase dichiarativa è tale quando dichiara con la massima precisione il proprio oggetto. Al limite, anche una iperbole può essere dichiarativa, anche un insulto, perché riguardano immediatamente un oggetto. Quindi, dichiarativo nel senso di non interlocutorio, non ambiguo (nel senso di Empson dell’ambiguità connaturata al linguaggio poetico), anzi, dichiarativo nel senso di letterale, che evita il figurato per sfiducia nelle qualità denotative che il discorso figurato ha.
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L’ordine assertorio esclude l’indicibile dal logos. Lo stile dichiarativo sta all’ordine assertorio come due sorelle siamesi; ma c’è un terzo escluso: l’indicibile che ritorna con il ritorno dell’ombra mnestica e scompagina lo stile dichiarativo.
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Alfredo de Palchi opta per un discorso dichiarativo, dove il locutore tenta, attraverso una messa in ordine del discorso, di evitare il figurato mediante la pronuncia di una parola che non rimandi ad altro da sé, che non rimandi a nessun non-detto implicito. Ma è una pia illusione. Anche tra le maglie delle espressioni dichiarative, il non letterale, il figurato si insinua ripetutamente con il ritorno del rimosso. Il rimosso c’è fin quando vuole celare l’Altro, l’Estraneo. Come non c’è gerarchia tra il letterale e il figurato, così si dà una diversa problematicità a secondo della pressione che si fa sulla letteralizzazione o, al converso, sulla de-letteralizzazione. È la natura problematica del logos che sta a fondamento della ambiguità semantica, non quindi il significante sganciato da un soggetto, quanto il significante per un soggetto che, a sua volta, è in rapporto con un altro significante e con un altro significato.
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È il tema dell’Altro, o dell’Estraneo che pone la necessità di chiederci se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».1 La risposta di Lacan sarà che il luogo del soggetto è radicalmente eccentrico in quanto esso nasce come campo dell’Altro. Luogo della catena differenziale dei significanti, il soggetto nasce con il significante, nasce diviso. Il soggetto che si costituisce a partire dall’Altro, è sempre un soggetto alienato, separato. Una struttura analoga la si ritrova in Heidegger, dove l’Ereignis (l’evento appropriante) è insieme e indissociabilmente Enteignis (espropriazione). L’Altro di Lacan è innanzitutto l’Altro del linguaggio come catena significante, così come per Heidegger il linguaggio è la «casa dell’essere» e «il modo più proprio dell’Ereignen», dunque l’ambito stesso in cui accade l’appropriazione reciproca di uomo ed essere. Questo rapporto si sostiene sulla priorità e autonomia del linguaggio rispetto all’uomo: come Heidegger afferma che innanzitutto «il linguaggio parla» e non l’uomo e che l’uomo è uomo in quanto è all’ascolto e corrisponde a questo linguaggio che sfugge al suo potere; così per Lacan «è il mondo delle parole a creare il mondo delle cose […] L’uomo parla dunque, ma è perché il simbolo lo ha fatto uomo».1
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Il testo dichiarativo per eccellenza è un testo testamentario, là dove il locutore deve attenersi con il massimo scrupolo alle esigenze della letteralizzazione proprio per evitare le ambiguità del discorso fonosimbolico. Il paradosso è che in questi testi della raccolta inedita Nihil di De Palchi, il locutore si esprime con un linguaggio apodittico, testamentario, nel senso di testamentum, di dichiarazione ultimativa delle volontà ultime del locutore.
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E qui de Palchi pronuncia le sue volontà definitive, si esprime senza curarsi del risponditore, il quale non dovrà fare altro che accettare il legato testamentario di una parola tellurica e tellurizzata da una ferita inferta ab origine. De Palchi ritorna all’engramma, alla ferita primordiale, a quando fu accusato dalla giustizia italiana di omicidio, subendo sei anni di carcere preventivo per poi essere prosciolto per non aver commesso il fatto. Il poeta in questi cinquanta e più anni è rimasto fermo a quella sconvolgente esperienza, a quel trauma. È il ritorno del rimosso che qui ha luogo. Una pulsione desiderante guida il discorso poetico di de Palchi per un riscatto che nessun risarcimento potrà mai acquietare. Un engramma profondo che ritorna alla coscienza e richiede una elaborazione secondaria del rappresentante ideativo. Appunto, è questa la funzione del discorso poetico di de Palchi, il suo essere un sostituto necessitato dell’engramma originario, il travestimento del rappresentante ideativo.
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La declinazione dei verbi al presente di tutta la raccolta poetica depalchiana, riflette questo ritorno dell’engramma, questa modalità di ripresentazione dell’Estraneo in ogni attimo della temporalità.
E la violenza effrattiva del lessico depalchiano è una spia dell’investimento psichico intervenuto a far luogo da quei lontani anni di ingiusta prigionia. Il soggetto depalchiano è un soggetto scisso, diviso, originariamente appartenente al campo dell’Altro. Proprio perciò il soggetto depalchiano è un soggetto desiderante in quanto «il desiderio è la metonimia della mancanza ad essere».2 Il desiderio, nel suo carattere eccentrico, è l’espressione di questa mancanza-a-essere, di questa negatività che attraversa il soggetto e gli impedisce di essere fondante e fondato. Ritengo questa problematica importante perché getta luce sul modo di procedere della poesia depalchiana e sulla sua natura effrattiva, frizionale, vulcanica. Non pacificata, insomma.
1 Lacan Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychalalyse (1964) Seuil, Paris
2Ibidem

Alfredo De Palchi con Gerard Malanga New York 2014
Poesie di Alfredo De Palchi da Nihil (2008–2013)
Idi di marzo
dalle fogne con coltelli
nel grembiule di macellai
da pugnalare la mia schiena di Giulio
che da oltreoceano conquisto arte
e Calpurnia ancora nel mistero della sua casa
non stringo mani insanguinate per macchiarti appena
ti raggiungo per rotolare insieme lungo la via
imperiale di archi musicali
poi non “si muore”
perché dalla gola smercio lo sputo definitivo.
*
Trema la terra della pagnotta e la mia si scuote
di bifolchi
si riconoscono nel sangue barbaro che insozza
e in chi sciacqua il coltello nell’Adige
tra la dissoluzione dei ponti l’eroica
viltà degli sfuggenti dal cranio sfuggente
prima del vagito segui gli eventi di amata alla deriva
nella corrente fluviale butti i fiori e struggente
corri tra la casa e la tomba di giulietta
le costole diventano pietre di procida
la volontà della mente frantuma la muraglia
ed è mediterraneo che diluvia sale
europa delenda est
non per tua causa di amata che tra dissidi
e onori errati eviti l’amato
invano lo disconosci come aberrazione girovaga
del tuo longineo corpo tellurico
delenda est per te oppure
rinascita après le déluge d’avril nelle Venezie.
*
pellerossa quanto la terracotta
s-centrato dal dottor calligaris
con olio di serpe unge e avvelena i funghi cosmetici
che cucini per cibarmi di orizzonti
a rasoterra dove l’humus cresce di vomiti
e predatori in camicia bianca
nell’antico otre di terracotta si raggruma
acqua piovana polvere del deserto
semenza arida che svuoti all’alba––
con mani di penelope
mi sfili attorno filo di lana per giacere
nella barca di fiume stretti dalla nostra ombra
l’onda veloce dopo onda ci srotola
sulla riva frastagliata due statue d’argilla
con la conchiglia falsa all’orecchio.
*
Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
di foglie che spiccano voli
da raffiche di vento sotto alberi
che passano accanto tra panche deserte . . .
in simili giorni abito il parco di Union Square dove
la folla indegna del bel tempo
mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
cartocci plastica giornali sputi
da disgustare i piccioni . . . e canestri vuoti di rifiuti
a nord sul piedestallo Lincoln
è il turista slavato che porge
grani a uccelli invisibili––
lo ringrazio con un cenno di mano
a sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
alla marmaglia nello sguazzo
strappando le ombrelle––
lo ringrazio con un cenno di mano
a est il desolato Lafayette mano destra al cuore
con la sinistra indica al suolo la saving bank
di fronte in greek revival fallita––
lo ringrazio con un cenno di mano
a ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
dallo spicchio d’acqua
“preparati per la scalata”…
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso dalla montagna”.
Il lavoro nobilita la belva alla vita
trascorsa a grattare il salario della paura
in una giungla di lapidi
si legge, qui giace dio il mediocre costruttore
e qui Cleopatra con una serpe in mano––giglio
offerto a Marcantonio
più in là giace un raccolto di ossi
attribuito al farabutto amico François
accanto a quello di Francesco impazzito di cristo
e della sua Chiara che per boschi giunge a Todi
da Jacopone, il più folle
e laggiù sotto quel rettangolo di letame
l’altro mio amico Arthur
giace con un abbraccio di zanne invendute
amata amica figlia madre sorella
prontamente perfetta per il mio arrivo
allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.
Rimando il lettore di questo blog a un mio scritto critico sulla poesia di Alfredo De Palchi pubblicato l’anno trascorso su questo stesso blog.
Ho sentito proprio ieri (15 febbraio) Alfredo per telefono: era gioioso per il successo, quasi un trionfo, che ha avuto, alla presentazione, il volume “Poems” edito da Chelsea Edition, e che senza la sua insistenza non sarebbe mai potuto accadere! – Questi miracoli possono ancora succedere fintanto esistono uomini come Alfredo De Palchi; di tali uomini, in Italia, non c’è traccia! Ed è bene che sia così: una terra che si proclama terra di Poeti, di Santi, Navigatori… ecc. è una terra che ha bisogno di tali figure ma soltanto per ucciderli! E non dico affatto una cosa scontata e del tutto nuova: anzi è banale che io la ripeta.
Eterna riconoscenza a Alfredo. Grazie.
a. s.
Su: “Una vita scommessa in poesia”, Omaggio ad Alfredo de Palchi (Luigi Fontanella, Gradiva Pubblications ) trovo le parole illuminanti del poeta su ciò che è la Poesia:
“ La poesia è vera, non quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che si svela in immagini saltellanti sulla pagina.”
Il vissuto rappresenta il rapporto con tutto ciò che ci circonda per arrivare allo scandaglio interiore.
Proprio in questi giorni, visto che anche dall’impianto sperimentale di Pisa, città dove risiedo, è partita la notizia che ha dimostrato la fondatezza della previsione di Einstein sulle Onde Gravitazionali, l’emozione mi ha riportato alla mente una straordinaria poesia del De Palchi datata 2007( In Paradigm).
Per inciso due buchi neri in collisione (o per un processo della loro fusione per dare origine a un buco nero più grande) produrranno onde gravitazionali, increspature nello spaziotempo, da considerare come perturbazioni del campo gravitazionale stesso.
Ho trasmesso la poesia del De Palchi, che trascrivo di seguito, all’amico Carlo Rovelli, un grande fisico che insegna a Marsiglia e fa onore al nostro Paese.
“ Impensabile quel buco tremendo di spazio
svuoto di stelle galassie buchi neri nello spazio
da confrontare al deserto che tu sei
esangue
snervata d’ogni verde e germe
solo sabbie e rocce
nell’aridezza agghiacciante del vuoto
dove tu residuo di niente circoli
la tua curva perpetua
senza mai scostarti dalla ignobile
presunzione.”
Lascio agli scienziati l’impegno di ricominciare a guardare l’Universo con rinnovata fiducia, e a me il piacere di rileggere e meditare su quanto mi ha scritto Alfredo De Palchi subito dopo Capodanno. Credo che queste parole siano un’ulteriore dimostrazione del rigore, del controllo, del rispetto che il Poeta italiano, residente a New York, ha per la Poesia.
“/Le feste sono terminate, e buon anno a te e a me che ho finito il lavoro proprio il 31 dicembre. So cosa ho combinato, ma ancora non ho deciso se è poesia./
/Il soggetto mi ha ispirato lo stile e la forma. Anche quando scrivo versi il soggetto mi dice come esprimerlo. Vedrò un giorno se farlo vedere a te e ad altri rari…/
Invio i miei saluti ad Alfredo De Palchi e a voi tutti.
Ubaldo de Robertis
Ho appena ricevuto al mio indirizzo di posta elettronica e la trascrivo la mail di Carlo Rovelli:
“ Poesia interessante, molto bella. Non conoscevo Alfredo De Palchi. Ora sono curioso di conoscerlo di più. Saluti, Carlo.
Ubaldo de Robertis
Della densissima inesauribile poesia di Alfredo de Palchi qui presentata molti versi ho avvertito magnetici. Condotta fra Roma e Verona, con i casi di Giulio e di Giulietta, ho veduto l’assegnato umano diviso fra destini, crudeltà e vigliaccherie come scorrere di acque dentro una città. A Verona l’Adige “tra la dissoluzione dei ponti l’eroica / viltà degli sfuggenti dal cranio sfuggente // prima del vagito segui gli eventi di amata alla deriva / nella corrente fluviale butti i fiori e struggente / corri tra la casa e la tomba di giulietta //”. Fra questa strofa e la successiva, la mutazione istantanea dello spazio-tempo proietta e ricolloca l’unicum Autore-lettore nel mare nostrum ove “le costole diventano pietre di procida / la volontà della mente frantuma la muraglia / ed è mediterraneo che diluvia sale //”. Qui si accerta che “europa delenda est”, compresa l’Italia, dal “longineo corpo tellurico”. De Palchi fa avvertito il beneficiario che legge che è bene guardarsi da “predatori in camicia bianca”. Nel mentre “l’onda veloce dopo onda ci srotola” e – nel ritorno del gesto poetico dell’ubiquità – i versi lanciano l’essere negli States autunnali dove “la folla” è “indegna del bel tempo”; da Sud a Nord, da Est a Ovest, in un “Ottobre” in cui “foglie spiccano voli”, le statue, quelle di Lincoln e di Washington, di Lafayette e di “Miriam con Jesus in braccio” e quelle con “la conchiglia falsa all’orecchio” , interagiscono con i ‘presenti e vivi’, ciascuna con precisi e voluti gesti ieratici, fermati nel tempo. Considerando che “Il lavoro nobilita la belva alla vita”, ben poca tregua rimane a risollevare l’anima, eseguendo il proprio “spartito di terra” assegnato.
Li ho letti questi versi e mi son piaciuti non perché li ha composti Alfredo De Palchi, perché oggettivamente mi hanno fatto pensare a una sentinella gigantesca. Incarnata nella poesia stessa, sorta di San Giovanni esiliato a Patmo, mentre scrive le sue Rivelazioni. Immagini di ogni giorno prestate a un presente apocalittico, dove è facile intravedere nella falsa conchiglia all’orecchio uomini, donne e bambini che si passano vicini, si scontrano, ma sono al telefono. Alfredo De Palchi sa scrivere ed è un Poeta.
Supponiamo per assurdo che tra mille anni non si rinvengano più biografie di Alfredo de Palchi e che nessuno sappia più la sua storia così importante anche per la sua stessa poesia. Supponiamo che un futuro lettore si ritrovi dinnanzi soltanto a queste poesie presentate oggi. Credo che non avrebbe nessuna difficoltà a rintracciare il percorso umano del poeta, trovandosi a leggere dettagli così precisi inerenti città e situazioni. Questo “Nihil” dà a piene mani una rara – in riferimento a quanto letto da me fino ad oggi – possibilità di fermarsi in un “nulla” talmente carico e profondo da essere una miniera senza altro dire. Alfredo de Palchi non mette in mostra il suo sapere, il suo vicino di casa, il suo lavoro, la sua città, il suo amore esplicito o il soprammobile conservato con affetto nel salotto buono, no; questo Poeta porta nella sua poesia la più terribile, complessa (e difficile da non rendere banale in versi) delle argomentazioni: l’aver vissuto e con questo, per estensione non sempre scontata, la Vita, intesa come qualcosa di talmente proprio da non dover essere sbandierata, ma raccontata con ponderata somministrazione di immagini, rimandi, memoria, rendendo tangibile qualcosa che conferisce grandezza alla poesia stessa e che a me pare molto difficile da ritrovare in tanta, tantissima poesia che ci circonda, il silenzio, pur nella natura “effrattiva, frizionale, vulcanica. Non pacificata, insomma” rilevata da Linguaglossa. Leggendo de Palchi si combatte con lui contro quello che (gli) è accaduto, ma si sottostà al silenzio – inteso, come esclusione di quel rumore di fondo, di quella forzata appartenenza a qualche corrente o gruppo letterario, a qualche cerchio magico o ad un ostentato apparire, di cui tanti poeti e tanta poesia contemporanea si nutrono e che addirittura ritengono necessario, perché la loro scrittura “colpisca” e la loro figura “emerga”- dicevo in questa poesia ci si inchina volentieri al silenzio di chi la Vita l’ha vissuta senza risparmiarsi e senza aggiungere una parola in più del necessario. Per me, una poesia da cui imparare moltissimo. Grazie.
Ecco il commento di Luigina Bigon postato su facebook
Grazie prima di tutto ad Alfredo per questa sua poesia che voglio leggermi e rileggermi, sprofondare nelle sue ossa e farmele mie, rinascermi nel trauma delle sue vicissitudini fino ad abbeverarmi del suo spirito-parola, e tanto ancora… Ringrazio poi il prof Linguaglossa per quanto ci ha detto del grande poeta ALFREDO DE PALCHI. E condivido soprattutto per gli amici poeti padovani che ne conoscono la statura, non ultimo il nostro poeta Silvio Ramat
Un commento alla poesia di Alfredo De Palchi, proposta da Giorgio Linguaglossa.
L’avvio è potente:”Idi di Marzo”: siamo già nella Storia,il flusso inesorabile in cui tutti, anche il più insignificante degli uomini,siamo inevitabilmente coinvolti. E Alfredo De Palchi è sempre nella Storia: martire (testimone)particolarmente sensibile, aperto allo scontro e al rischio, incurante del pericolo a cui ogni azione, ogni parola detta, inevitabilmente espone.
Testimone di una realtà immediata che lui osserva (e dice)con rara efficacia poetica.
Cito:“E’ l’ottobre di un pomeriggio freddo di pioggia/ di foglie che spiccano voli/ di raffiche di vento sotto alberi/ che passano accanto tra panche deserte”.
Eppure anche questa realtà così propria, così privata, una realtà che forse si vorrebbe vivere nel tepore della presenza amata,non consente la fuga dalla Storia: che è lì, e lancia i suoi segnali inevitabili: come “Lincoln, simile al “turista slavato che porge grani a uccelli invisibili”; come Washington a cavallo, che sembra voler scoraggiare l’inopportuna presenza di chi lo va a trovare”; come il desolato Lafaiette; come la Madonna col suo pargolo mirabile; e Cleopatra con la serpe in mano, e Francesco “impazzito di Cristo”. E Chiara tra i boschi, in cerca di gioia; e Iacopone, ”il più folle”.E l’amico Arthur che “giace in un abbraccio di zanne invendute”; fino alla propria donna, ponte tra cielo e terra, ultimo approdo. Come sempre, siamo grati a Giorgio per l’immane lavoro di ricerca della grande poesia, un patrimonio che lui ci tramanda con valore e tenacia,e sprezzo del sacrificio.
Sono sempre felice quando leggo in qualche blog poesie e commenti su questo grande autore Alfredo De Palchi non abbastanza ri-conosciuto – ancora – in Italia. Ringrazio Giorgio Linguaglossa che di quando in quando lo propone. Spero che siano sempre di piu’ ad occuparsene e a dargli il giusto spazio e merito. Un caro saluto.
Originalità. Esuberanza espressiva. Capacità cognitive. Sapere. Andrea de Palchi si conferma – come già nel 2002 lo stesso Linguaglossa affermò in “Appunti critici. La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nove proposte ” e più precisamente nella pars construens della ponderosa e importante raccolta di suoi saggi su poeti e fenomeni culturali italiani – come l’unico poeta espressionista puro degli ultimi anni, sempre pronto a ringhiare contro il dilagante conformismo del nostro dibattito letterario
(“La folla indegna del bel tempo…”)
Gino Rago
Penso che ogni mio commento risulti stonato alla poesia di De Palchi, che per la vita del poeta è incommentabile, anzi inesprimibile, ma nonostante tutto De Palchi è il poeta che più mi seduce con la sua ira e il suo amore disperato, che può essere paragonato a Dante che, Alfredo ama, a differenza di Petrarca che non sopporta,forse perché Dante era più combattivo, più uomo. E de Palchi non è dissimile. Ma ora che penso a De Palchi mi avvicino a due uomini vicini a me. Mi avvicino a uno che viveva con animali come scimmie, pappagalli, capre e via dicendo che era mio nonno. Mio nonno che era del partito opposto e ciò spiega anche delle mie inclinazioni politiche e poetiche.Mio nonno che da bambino venne scheggiato alla testa da una granata. Mio nonno che da bambino dormiva nei cimiteri. Persona irrequieta e anticonformista che detestava l’ipocrisia e lo Stato, poiché deluso dalla sua stupidità. E mi avvicino al padre di mio zio, monarchico, fiero di essere delle repubblica veneziana. La poesia ha il potere di dirci chi siamo,di svelare il nostro ego e di farci essere eroi, almeno per un po’.
Non saprei aggiungere molto al commento, davvero bello ed esauriente, di Angela.
Ma, ripeto, una poesia davvero forte e nervosa, in cui si respira nel contempo l’aria di un luogo geograficamente lontano dalle radici del poeta, ma che lui, dopo i lunghi anni di vita lì, sa evocare come meglio non si potrebbe, mai blasé. E questo incontro, della lingua italiana con il luogo geografico così lontano e non-italiano, si fondono, insomma: e dallo stile intenso, scarno, spesso tremendo, sempre incalzante, viene fuori un pathos singolarissimo, direi quasi dolcissimo.
E’ facile che nel lettore nasca un senso di profondo rispetto per questa figura di poeta (e desiderio di imparare da lui, addirittura di accogliere o tramandarne, chissà in quale modo, l’eredità interculturale), sì per le vicende crudeli che egli ha vissuto, ma ancora di più per il modo in cui negli anni le ha sublimate in questa scrittura rabbiosa, straniata, sconsolata, eppure piena di un senso di riconciliazione con il destino che curiosamente serpeggia ovunque nel suo netherworld. L’insegnamento sta in questo.
Io non posso permettermi molti commenti sulla poesia italiana della seconda metà del secolo scorso e degli inizi di questo, che conosco soprattutto come lettore straniero. Ma l’opera di De Palchi è una di quelle che vola in faccia all’adagio secondo cui essa abbia avuto particolari difficoltà a esprimere voci poetiche “alte”.
In realtà, l’humus c’è sempre. E’ il provincialismo che uccide.
Sulla linea di poeti come Eliot o Milosz la poesia di Alfredo De Palchi è abitata da un senso profondo della storia, quella dei nostri giorni così complessa e sfuggente, “ossimorica”, lanciata nel futuro delle onde gravitazionali e nel passato del più cupo medioevo. Proprio in questa capacità di testimonianza, in questa tensione a universalizzare le vicende autobiografiche, in questa intensità e forza comunicativa del verso emerge il senso di responsabilità morale della poesia, della grande poesia. Questo è il messaggio che mi giunge dai versi come l’eco di un’ultima chiamata…
Non entro nel merito della generosità di de Palchi, che apprezzo e a cui voglio bene, perché voglio credere che in Italia, a differenza di quanto sostiene Sagredo, ci siano scrittori generosi quanto Alfredo, ognuno in maniera diversa; ma riguardo il poeta entro nel merito, pur senza farlo in modo critico, per dire che, sebbene ci siano tanti libri di poeti italiani che mi piacciono, Alfredo de Palchi è, secondo me, tra i poeti che ho letto (sono tanti ma non tutti e voglio esplicitare questa ovvietà troppo spesso trascurata a sostegno della mia umiltà di giudizio) colui che ha creato l’opera poetica più importante degli ultimi sessant’anni. “Più importante” perché scevra di sperimentalismi eppure originale, quindi originale nel profondo, per necessità espressiva e non meramente formale, aperta a tonalità ricche, varie, spesso nuove, come l’ultimo suo libro che ho letto manoscritto testimonia ancora una volta. Sorprendente a 89 anni un poeta così creativo. In Italia Alfredo è adorato da alcuni e osteggiato da altri, come avviene di solito. Tra coloro che lo osteggiano ci sono va da sé gli invidiosi, e questi non contano, i classicisti rigidi, che ovviamente non possono apprezzarlo in quanto rigidi e non in quanto classicisti, gli ideologizzati e poi ci sono quelli che provano antipatia per la protervia di Alfredo, che è invece protervia apparente in quanto effetto della sua iniziale ritrosia superata la quale viene fuori l’uomo magnanimo che egli è. Certi danni d’immagine, di cui Alfredo non si è mai preoccupato per benvenuto spirito anarchico, sono spesso un deterrente per i lettori d’alto bordo, quelli che possono dare lancio mediatico all’opera di uno scrittore, e infatti neppure l’amicizia con Raboni, Zanzotto, Erba ha prodotto per la sua poesia quell’attenzione che meritava. Pazienza! Oggi Alfredo può contare su una serie di lettori che con serenità hanno scritto su di lui considerazioni più sensate di quelle che vengono ammannite riguardo gli scrittori blasonati. E il merito non è di chi scrive le considerazioni sensate ma, come riprova del valore del referente, della poesia che le suscita. Alfredo dice da sempre che la poesia deve “muoversi”, e quindi dico io suscitare considerazioni non vacue, ma la poesia, come un abito astratto, si muove e con eleganza quando a crearla non è il poeta, anch’esso astratto, ma l’uomo, con la sua sensuale presenza. A questo penso quando confronto, per esempio, l’abito poetico di Zanzotto con quello lirico, umano, umbratile di de Palchi.
“Carthago delenda est”, “europa delenda est”, après le déluge d’avril” e aggiungo “mai est revenu au beau”. Che dire di queste ultime poesie del Poeta De Palchi? Che ogni parola è funzionale e carica di significato? Scontato. Che l’esperienza traumatica della gioventù ritorna come un boomerang in una sola parola “Procida” da cui ogni cosa è scaturita, storia tout court, da legare memoria e vita? E il conflitto tra il poeta e il tempo, chiamato a irridere l’umano con l’intreccio della natura che è sempre presente come incarnazione, femmina, vita e morte, allusiva che da sempre ha costellato e intessuto la trama dei suoi versi?
I veri Poeti pongono sempre domande.
“Poi non “si muore” perché dalla gola smercio lo sputo definitivo”. Non si muore nemmeno dopo aver vagliato i loculi, i terrapieni, la giungla di lapidi, e lasciato un testamento “amata amica figlia madre sorella /prontamente perfetta per il mio arrivo/ allatta al tuo ombelico il mio spartito di terra.”
Lunga vita a De Palchi.
Condivido in pieno, conoscendo personalmente il carattere e la vita di Alfredo de Palchi, ogni parola di Roberto Bertoldo sulla vicenda e sugli esiti della poesia depalchiana, che vediamo farsi largo in virtù della sua indiscutibile forza. .
“Si è sempre in ritardo quando un poeta come Alfredo de Palchi, che ha sempre professato con orgoglio di far gruppo ed establishment solo con se stesso, quasi all’improvviso, o quando l’onestà lenta del tempo ha compiuto il suo corso, è riconosciuto grande. Oltre che fuori dal coro, Alfredo de Palchi è sempre stato un solitario instancabile ricercatore di identità e di senso, nel territorio reale del vissuto, sempre dichiarando con schiettezza la propria verità e il proprio credo etico-estetico. E solo da alcuni anni, dissoltasi l’ombra inconsistente dei pregiudizi, la forza”paradigmatica”della sua parola poetica finalmente trova la sua limpida collocazione all’interno del panorama poetico italiano.
Tutta l’opera depalchiana è infatti esemplare per la sua capacità di rivelare la lacerazione del nostro tempo, ma anche per le pieghe misteriose lungo le quali un uomo-poeta rivela le sue personali soluzioni di resistenza, la trincea cognitiva e comportamentale dove l’assedio del tempo può divenire sostenibile.”
… Questo ed altro scrivevo nel 2010 in uno studio dal titolo”Il tremore terrestre. Eros e donna nella poesia di Alfredo de Palchi”, pubblicato nel volume Una vita scommessa in poesia (Saggi in omaggio ad Alfredo de Palchi di autori Vari—a cura di Luigi Fontanella, Gradiva Pubblicazioni, 2011).
Una poesia che oggi continua, come vediamo in questi testi-consegna di Nihil, ad essere ineluttabile provocazione lanciata verso un’umanità alla deriva e che trova il suo felice compimento in una sorta di savia ebbrezza attraverso la parola. Una scrittura dotata di una potenza visionaria capace di raggiungere, e far raggiungere, i luoghi mentali più inaccessibili, attraversata da limpida irruente umanità. “Paradigma” poetico riconoscibile per la sua assoluta libertà, irriducibile a qualsiasi modulo novecentesco o a qualsivoglia post-post canone.
Dunque poco importa la distanza supponente di certa critica, perché già da circa un decennio, grazie anche alla ostinata e appassionata opera di divulgazione di tanti convinti sostenitori, e soprattutto di Luigi Fontanella, Roberto Bertoldo e Giorgio Linguaglossa, la poesia depalchiana sta raggiungendo in Italia la meritata notorietà presso il pubblico della poesia, che è quel che più conta. Sono felicissima che una scrittura di tale tempra dilaghi e invito tutti a leggere i libri depalchiani, nessuno escluso. Sì, lunga vita a de Palchi.
Annamaria Ferramosca
Ecco, questo è De Palchi. (Da un commento sull’Omba delle Parole)
Scuso e mi scuso senza ipocrisia untuosa; non indosso rancori. Mi si noti quale sono sempre stato: Nel 1961 Vittorio Sereni aveva scelto il mio poemetto in 13 parti, “Un ricordo del 1945” (1948), inedito come era tutto il mio lavoro, per il primo numero della nuova rivista “Questo e Altro”. Franco Fortini dichiarandosi mio nemico, spingeva e insisteva fortemente Sereni di abbandonare l’idea per motivi ideologici personali di uomo in simili casi per me piccolo. Sereni rifiutò di convincersi e pubblicò il poemetto. La storia si protrasse, Fortini da nemico ideologico. Io pubblicando delle sue poesie in versione inglese sulla mia rivista Chelsea. Gli feci avere una copia della rivista con una breve lettera in cui non parlavo della trascorsa vicenda; Fortini scelse il silenzio. Oltre cinquant’anni dopo, privo di fondi, Gianmario Lucini annuncia il Premio di Poesia Franco Fortini. Mi offrii di aiutarlo, e tuttora sono il solo a sostenere il premio. E perché? Perché non eleggo nemici e non ho rancori, ma contraddizioni. Ch’io sappia nessuno mai ha indovinato la mia ideologia: anarchia comunismo fascismo monarchia socialismo = anarchia. Mi è parsa giusta raccontare questa vicenda perché si capisca diversa la mia personalità
Alfredo De Palchi, Manhattan, 21 agosto, 2014
Questo vecchio commento di Alfredo De Palchi sui rapporti tra lui, Sereni e Fortini tocca un nodo controverso della storia letteraria e politica italiana. Di solito i blog di poesia tendono ad accantonare i mille fili che la collegano ai conflitti sociali e politici. E troppo facilmente i contrasti tra poeti e letterati vengono ridotti agli aspetti *personali* o di *carattere* o vagamente *ideologici*.
Vedendolo ora riproposto senza alcuna contestualizzazione storico-critica, mi sento in dovere di pubblicare uno stralcio di una mia lettera del 15 sett. 204 a De Palchi sull’argomento. Lo faccio non solo per rispetto alla memoria di Franco Fortini ma per un omaggio ragionato e non servile allo stesso Alfredo De Palchi.
Ecco lo stralcio:
[…]
Secondo me lei sbaglia a vedere le pressioni di Fortini su Sereni per non far pubblicare il suo poemetto “Un ricordo del 1945” come dovute a «motivi ideologici personali di uomo in simili casi per me piccolo»; e quindi a invidia o meschinità di Fortini stesso.
Per me è, invece, evidente che quello scontro tra voi non sia stato soltanto personale; e vada letto nella cornice dello scontro storico tra fascismo e socialismo/comunismo che si è avuto in Italia per tutto il Novecento. Si è trattato di uno “scontro tra padri”, tragico e pieno di atrocità, compromessi al ribasso e meschinità, prolungatosi anche nel dopoguerra con episodi di trasformismo quasi più distruttivi di quello stesso scontro (intellettuali, che erano stati fascisti fino alla vigilia del ’45, che diventano di botto democristiani o socialisti e comunisti; la lotta politica svilita a lotta per bande e per lobby, ecc.).
Questa storia ha pesato su di lei, che da giovane – consapevole o non consapevole – ha militato nelle file fasciste. E ha pesato, in altri modi, su Fortini. E pesa, in altri modi ancora, anche su noi delle generazioni successive (io sono nato nel 1941).
Lei ha ripensato quella storia arrivando a rifiutare “tutte le ideologie” e cercando di ritrovare un nucleo intatto “umano”, “elementare”, “autentico” su cui costruire la sua poesia (« Seguivo una anarchia mentale libera da costrizioni. Mi consideravo da sempre un apolitico: monarchico fascista repubblicano comunista liberale socialista = anarchico, senza mai il desiderio di dinamitare luoghi e gente»).
Fortini, invece, – e parlo, ripeto, sulla base di quanto ho potuto capire da quel che ha scritto e fatto – si è rifiutato di uscire dai vincoli che la storia pone agli umani che la vivono. Per lui questa era una soluzione illusoria. Convinto com’era di una cosa: l’unica verità o autenticità che si può dire e praticare è quella che non si distacca dalla storia, che non la cancella.
Per lui (e anche per me) non si debbono saltare o mascherare le differenze (sociali, politiche, culturali) che dividono e spesso contrappongono fino alla guerra i vari gruppi umani. Si devono affrontare per cercare di abolirle o almeno ridurne gli effetti dannosi e distruttivi.
Questo comporta fatica e anche lotta contro altri uomini, avversari o nemici. Da combattere, sì, ma mai dimenticando che anche nel nemico e nell’avversario più feroce c’è una scintilla di umanità e autenticità e generosità, che chissà se e quando potrà venire alla luce.
Ecco perché – è sempre una mia interpretazione – io credo che il silenzio, che Fortini scelse quando lei pubblicò – con atto di reale generosità, sia chiaro – le sue (di Fortini) « poesie in versione inglese» su Chelsea, era dovuto non ad astio o a rancore personale nei confronti della persona Alfredo De Palchi, ma proprio ad una volontà precisa e seria di non cancellare sbrigativamente (come fecero tanti altri della sua generazione) quella storia tragica, che vi eravate trovati a combattere su sponde contrapposte. E che – non va dimenticato – se aveva segnato duramente la vita personale del giovane Alfredo De Palchi, altrettanto duramente (umiliazioni e persecuzioni subite da suo padre a Firenze dai fascisti, ecc.) aveva marchiato quella di Franco Fortini.
E la poesia del 1954 che Fortini dedicò a Vittorio Sereni:
Sereni esile mito
filo di fedeltà
non sempre giovinezza è verità
un’altra gioventù giunge con gli anni
c’è un seguito alla tua perplessa musica…
Chiedi perdono alle ‘schiere dei bruti’
se vuoi uscirne. Lascia il giuoco stanco
e sanguinoso, di modestia e orgoglio.
Rischia l’anima. Strappalo, quel foglio
bianco che tieni in mano.
(da F. Fortini, L’ospite ingrato, Testi e note per versi ironici, Bari, De Donato, 1966)
a me pare sia stata indirizzata anche a lei; e sia, in un certo senso, la risposta che non le arrivò direttamente da lui.
Queste dunque sono le mie “obiezioni” – niente affatto malevoli nei suoi confronti – sulla sua generosità, gentile De Palchi.
A differenza di molti miei coetanei, scrittori o poeti, che pur stimo, non dico che la sua visione di quel passato dell’Italia sia “peggiore” di quella di Fortini, che sento a me più vicino. Ritengo solo necessario che la storia dei padri (come lei e Fortini e Sereni e tanti altri) vada interrogata ininterrottamente e non rimossa. E che questo interrogarsi serve anche alla poesia.
Lealmente e con stima
Ennio Abate
Caro Giuseppe Panetta,
quando un giorno seppi da Lucini che lui voleva istituire un premio di poesia denominato *Franco Fortini*, gli chiesi quale credenziale speciale lui avesse per denominare un premio “Franco Fortini”, visto che non era né la moglie, né il marito, né il suocero di Franco Fortini. Lui reagì in malo modo. Capisco che a volte le mie intemperanze possono disturbare, ma ancora oggi ritengo non del tutto infondata quella mia eccezione. Insomma, non tutto il possibile è anche ammissibile. Questa è una regola, credo, una regola di origine kantiana. Ma forse sono io che sragiono e sono un po’ fuori moda. Ad esempio, io penso ancora che quando si fa una prefazione ad un libro di poesia si debba stare attenti, molto attenti a non farsi prendere la mano e slanciarsi in spericolati complimenti. Ma, forse, appunto, appartengo ad altri tempi. Dopo quello scambio di battute tra me e Lucini calò un po’ di gelo.
Però, devo dire che da allora non ho cambiato opinione. Altrimenti anch’io potrei fondare un premio di poesia e intitolarlo “Dante Alighieri”. Ciò è possibile (forse anche giuridicamente), ma non è ammissibile. Credo.
Caro Giorgio Linguaglossa,
non entro in merito all’ammissibilità o meno nell’istituire un premio “Fortini” o uno a “Don Milani”, per esempio (Lucini ne aveva istituito uno anche a nome del presbitero, maestro, scrittore, educatore etc.). Personalmente non istituirei nessun premio dedicato a chicchessia, né farei mai parte di una qualsiasi giuria di un qualsiasi premio.
Detto questo, non capisco il senso del tuo intervento rivolto a me. Io ho solo riportato una dichiarazione di De Palchi rilasciata sull’Ombra nel 2014. Mi pare sia un documento importante, no? Volevo semplicemente aggiungere un tassello significativo alla sua statura d’uomo. Poi, per le poesie, parto sempre dal testo e da quello cerco di andare a ritroso.
Riguardo alle prefazioni dei libri, sono sostanzialmente d’accordo con te. Anzi, direi di più, meglio un libro senza nessuna prefazione. Infatti, se mai ne scriverò un altro non inserirò nessuna prefazione.
Aggiungo, dopo aver letto e riletto l’ultima poesia “Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia” che essa è magistrale, spacca in quattro l’America e arriva da noi, “europa delenda est” con il ” dio il mediocre costruttore” e Jacopone da Todi “eo porto el tuo prefazio/ e la maledezzone/ e scommunicazione.”
Sconvolgente.
Scrivo anch’io anche se Alfredo sa bene il mio pensiero sulla sua poesia. Glielo detto è scritto più volte anche in alcuni interventi critici. Ora però voglio ribadirlo su questo blog.
Come Roberto, che ci ha messo in comunicazione per la prima volta, anch’io sono diventata fraterna amica di Afredo. Ciò non toglie che con stima, semplicità e umiltà ci comunichiamo a volte anche le nostre perplessità sui rispettivi lavori in fieri. Qui non c’è ne sono state.
Le Ombre di questo ideale cimitero di Alfredo non sono soltanto quelle della sua troppo ripetuta ferita iniziale, Alfredo è anche troppo a great lord man per rimanere col pensiero del perché le mura di un carcere e la sua vita successiva lo ha dimostrato ampiamente. In queste Ombre II Alfredo fra ancora un passo più avanti, si pone in un cimitero e insieme a lui pone le ombre dei ricordi tutti, dei suoi ideali poeti e dei suoi ideali di artista e di uomo. E quindi sì il suo “assassino” ma anche Arthur e Francois e il suo amato Adige e, nelle sue ormai immaginate passeggiate dal luogo della casalavoro, il ripetere del suo girovagare mentale affettivo e fisico attraverso i quattro punti cardinali indicati dai personaggi storici di una New York ancora e comunque crocevia di arrivi e di delusioni (quante le sue offerte a iosa da critici ed editori, sicuramente ancora cocenti) ma anche di arricchimenti mentali e non. New York dunque città simbolo della vita del novecento e di inizio millennio. Quello di Alfredo, appunto. E questa città è anche città di dispersione, la dispersione umana sempre più iperegoica per ciascun io per risolversi in un Nihil assoluto. È questa, a mio avviso, la sua lucidissima analisi poetico-filosofica.
Grazie Alfredo.
Forse sei destinato soprattutto ai lettori che hanno e avranno il distacco necessario per comprenderti, intendo soprattutto quelli privi di interessi quelli con occhi vergini ma senza ansie maliziose, quelli di critici senza pre-giudizi o con pre-confezionate idee pronte per ognuno e per ogni occasione, quelli che forse fra 50, anche 100 o 150 anni avranno l’opportunità di entrare in questo tuo cimitero – mondo e del mondo e soprattutto nel Paradigma tuo, caro carissimo amico.
Voglio raccontare un aneddoto.
Un giorno un giovane autore di poesie mi ha detto, in privato: «Tutti questi post per Alfredo de Palchi mi sanno di piaggeria. Non è che state lodando a dismisura questo poeta?».
Confesso che la mia colpa fu di rispondere a quel presunto poeta con la ragione. Cercai di persuaderlo della bontà della poesia di De Palchi ricorrendo a vari argomenti. Ma sbagliai. In realtà avrei dovuto deiettarlo e basta dal giro dei miei conoscenti. Lui piccolo, piccolo autore di poesia di Frascati non avrebbe mai potuto capire la poesia di un poeta autentico. Questo avrei dovuto dirgli, ma non lo feci perché cerco sempre di ragionare, anche con gli sciocchi e gli invidiosi. Anche se so, per esperienza, che con gli sciocchi, i presuntuosi e gli invidiosi è del tutto inutile ragionare.
Detto questo, rispondo anche ad altri interlocutori i quali mi hanno spesso obiettato che quando scrivo di critica non faccio i complimenti agli autori. Ma forse parliamo due lingue diverse. Chi fa critica deve restare oggettivo, deve esternare dei ragionamenti oggettivi eliminando ogni aspetto soggettivo inerente al proprio gusto personale. Questi autori (che hanno letto poco o niente di critica autentica) dimenticano che la poesia non è uno spaghetto alla amatriciana, e che il critico degli spaghetti non coincide affatto con il critico di poesia. Si tratta di due cose del tutto differenti. E, inoltre, dico che un critico di poesia non è un tuttologo, un critico è un essere umano e, in quanto tale, ha dei limiti. Io personalmente sono portato per la interpretazione di un certo tipo di poesia e sono sordo verso un altro tipo di poesia. Credo che questo sia umano, ogni critico ha una propria particolare versatilità. Così come del resto ogni poeta. Una reciproca cecità è una ottima componente per la reciproca comunicabilità.
In tal senso, nella mia analisi critica della poesia inedita di de Palchi ho tentato di rimanere oggettivo, evitando qualsiasi forma di soggettività e di gusto personale. Non saprei dire se ci sono riuscito, ma ho tentato.
Ecco il tribuno della plebe in azione:
https://www.youtube.com/attribution_link?a=f5a8p0k2woU&u=%2Fwatch%3Fv%3DCOUa8ij3Dds%26feature%3Dshare
Raramente intervengo due o più volte sulla stessa “pagina” de L’Ombra.
Ma in questo caso è incontrollabile il desiderio/bisogno di farlo, senza il timore di affermare idee sconvenienti, senza la pretesa di sostenere idee sconvolgenti.
I commenti su de Palchi sono tutti indistintamente di elevata cultura letteraria. Né, come del resto ci sta abituando a fare Giorgio L. nei suoi interventi critici, possiamo fare a meno di leggere, compresi i lavori poetici di Alfredo de Palchi, le voci poetiche italiane, proposte da L’Ombra, al di fuori della tridimensionalità storica, psicologica, stilistica d’una opera poetica.
Ma qui la questione, a mio parere, è ben più ampia, ardua, impegnativa.
Questione che in sintesi così oserei rappresentare ( a rapido volo rapace
l’ha sfiorata Valerio Gaio, nel suo commento): le suggestioni e la presenza di Petrarca, del petrarchismo e dei petrarchisti nella poesia italiana del Novecento.
In questa chiave di lettura interpreto l’asse Saba – Onofri – Palazzeschi – Campana – Rebora come sostanzialmente, ancorché per diverse ragioni, lontanissimo dal “modello” petrarchesco. Mentre d’altri assi non saprei dire. Ora, assunta la storia personale di de Palchi, assunti i riverberi psicologici della sua stessa storia, rimane la cifra stilistica della sua esperienza poetica. La quale, così a me pare, si sdipana per intero al di fuori del petrarchismo.
Gino Rago
Ricevo alla mia email e inoltro il commento inviatomi da Adam Vaccaro:
Unendomi agli utili accenti e rilievi fin qui fatti, aggiungo qualche mia notazione. Anche questo testo mostra come la poesia di Alfredo de Palchi sia un intreccio che scuote, grazie alla sua incessante oscillazione tra vertici di pietas e di indignazione, tra i muri di ignominie e miserie erti lungo la catena di eventi inanellati dalla storia grande e infima. Questo intreccio ci tocca perché va ben oltre le vicende personali, ri-creando un flusso che trova (ad esempio) nell’Adige una immagine liquida e vivida, comune e condivisa, che lo incarna, tra le profondità rimosse e silenziose che custodiamo in noi e quelle che intuiamo o scopriamo nelle immensità dell’universo.
Un intreccio incessante tra sé e altro da sé, che – lo dice esplicitamente e lucidamente Alfredo – sono co-autori della sua forma. L’Altro lacaniano, della lingua, crea con un co-autore immerso nel flusso delle cose, senza il quale l’Autore non (ci) sarebbe, o sarebbe altro, dentro e fuori dalla pagina.
Questo è per me il paradigma, il dono e il magistero di de Palchi, che ho cercato di tra-durre in alcune mie letture critiche.
È un esempio di tensione alla totalità, che ci viene trasmesso e produce il coinvolgimento sia di riflessione critica, sia del piano affettivo.
ADAM VACCARO
Conosco Il pezzo di Luigi Fontanella direi quasi a memoria, però mi dispiace di non leggere quello di Giorgio Linguaglossa e commenti vari. Con l’unico occhio che vede un po’ indovino nomi e cognomi in grassetto degli autori. Ringrazio vivacemente chi non mi apprezza e chi mi stima. Perché sono un autore, raro, che si è sempre detto: “se la mia poesia dovesse piacere a chiunque mi sospetterei imbarazzato e forse insicuro”. Inoltre questo vecchio leone mostra un’altra forza o volontà: ruggire con simpatia conoscenza e intendimento ai beneficenti e all’invidiosi mentre ancora sono ospite grato al pianeta. La scrittura è la mia incivile serieta.
Stamperò articoli e comenti per leggerli alla luce e lente di un apparecchio costoso per orbi. quasi. i ho messo pi`u di mezzora per battere queste righe, spero chiare.
Grazie e abbracci.
Sbaglierò, ma perché nati in un paese cattolico e parecchio ipocrita, ci sentiamo inclini alla positività del buono, del bello, saggio e sapiente. Invece, De Palchi, sembra rivolto ad un pubblico di ribelli, siano outsider o patologicamente borderline: individualismo a mille, dal paese, l’America, che ne ha fatto ideologia. Poeta difficilmente ascrivibile nella tradizione italiana (per quanto Gino Rago, nel suo secondo commento abbia offerto una soluzione assai credibile); con queste sue poesie volutamente disarmoniche e frammentate, ma scritte sapientemente e con linguaggio personalissimo, pone contenuti spigolosi, urticanti, che piegano l’estetica del bello al loro servizio. E qui è abilissimo, lo si capisce anche leggendo a caso. Formalmente, offre insegnamenti; e se questi inediti sono recenti, anche il vigore dei maestri che l’esercizio ha reso instancabili. Quel che colgo del suo messaggio, è l’universale invito a non lasciarsi addomesticare.
Quando nel mio libro Dalla lirica al discorso poetico. La poesia italiana 1945-2010, definivo Alfredo de Palchi uno dei principali poeti degli anni Cinquanta Sessanta, ho commesso un errore, probabilmente i componimenti inclusi poi in Paradigma (2001) Foemina tellus (2010) e in questi inediti che ho potuto leggere con la dovuta attenzione, sono poesia di maggiore gittata e di maggiore potenza. Poesie urticanti, graffiate, sgraziate anche come scrive Mayoor Tosi, frastagliate e frammentate, costipate di tratti sopra segmentali, irose e imbelli appunto in quanto irose e irascibili. Si tratta di una poesia in statu di esplosione continua, sotto tensione, sotto pressione. Ricapitolando, perché avevo perso il filo, mi sembra di dover dire che de Palchi qui abbia toccato uno dei vertici della sua intera produzione e della poesia nazionale di questi ultimi anni.
Una ultima cosa importante c’è da dire: che la poesia di de Palchi non si offre al lettore con la facilità dei poeti che vanno di moda oggi, intendo i poeti che fanno poesia narrativa, poesia da intrattenimento piacevole, poesia da salotto, magari spiritosa, e quindi comprensibile e commestibile. Sarebbe da fare una scansione della fonologia dei sintagmi fonematici per mostrare come la sua lingua sia una lingua costipata di fricativi e di suoni secchi, di schiocchi, come di rami spezzati, tra l’altro suoni difficoltosi da trovare in una lingua come quella italiana che non ne offre in abbondanza; questa durezza sonora della lingua depalchiana non è casuale ma fortemente voluta dall’autore che persegue una idea di poesia ricca di suoni difficili, acuminati, spezzati, divelti quasi dai suoni morbidi contigui. Ne deriva un assemblaggio vigoroso di suoni contrastanti, un combattimento quasi di suoni che entrano in agonismo e in contraddizione. e questo mi pare un elemento peculiarissimo della poesia ultima di de Palchi.
ad Alfredo De Palchi
Da un martirio all’altro detesti il mio carapace e il supplizio
del trionfo e la giostra dei piaceri inattuali… la carne ricucita
accusa le cicatrici dell’armonia per un atto mio blasfemo
che genera una eresia carnale e circoncisa.
Non hai che strumenti in avaria e un’orchestra che registra
suoni mai uditi – Non hai nemmeno la lingua, una parola,
un senso che rifiuta il cicaleccio infame di chi in quel giorno
d’aprile di 84 anni fa uno sparo deviò la destinazione.
È la natura che corrompe la nostra intelligenza, e empietà
e oltraggio non servono ad un “indovino segretato che non sostiene
più il morso” e sul tenero rogo quel grido gigliaceo “Cari amici, andiamo
a morire allegramente”… la sua cenere fu più che una pluralità di mondi!
Non so se nel tragitto equino, Alfredo, il calvario s’era già compiuto in apnea
se il pesce crudo della nostra mente fu geloso del crematorio, ma dove il tuo
cuore di medusa inquisì l’abbecedario della conversione c’è un obitorio!
Perfino Saul sa che a Damasco non successe nulla, e che le fandonie
sono il sale dei tribunali di un qualsiasi, purissimo, Torquemada!
Antonio Sagredo
Gran Sasso d’Italia (Assergi), 14 venerdì di marzo 2014
Ultimamente sono molto assente come commentatrice da questo blog, anche se seguo costantemente i post. I motivi sono vari, fra i primi la mole di lavoro che mi trovo da alcuni mesi e che mi impegnerà a lungo. Ma non potevo non ringraziare in questo caso Giorgio per Alfredo De Palchi, perché è grazie a lui che l’ho conosciuto. Ogni volta che leggo le sue poesie mi sento afferrata alla gola, tale è la violenza e la potenza della sua invettiva. E di quel dolore rabbioso che però non l’ha mai piegato. Ho grande ammirazione per l’Uomo e per il Poeta.
Francesca Diano (perché ho notato che c’è anche un’altra Francesca ogni tanto)