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Commento di Luigi Celi su Le quinte le frasche le dune di Silvana Baroni
alta la vetta
ed io il mulo
che ancora va montando
verso l’eco del suo raglio
ho mal di vivere
e mal di denti
siedo all’ombra di San Pietro
sotto l’arcata dentale del Bernini
Questi due brevi componimenti sono le due poesie iniziali de Le quinte le frasche le dune di Silvana Baroni, silloge accompagnata dai disegni dell’autrice (Robin edizioni – To – 2016). Il 10 novembre, alla Biblioteca Mandela, organizzata da Roberto Piperno, se ne è tenuta la presentazione con il poeta e critico Paolo Carlucci, il poeta e artista Agostino Raff. Silvana Baroni è scrittrice, poeta, pittrice, autrice di teatro, aforista, fa il medico psichiatra. Dico ciò perché serve alla mia interpretazione, la professione ha qui il suo peso, in quanto la poesia e l’arte sono assunte come Cura, nel senso – direbbe Heidegger – della Sorge, di aver cura di sé, degli altri e delle cose.
Nel “breve dialogo con l’autrice”, in chiusura di raccolta, Paolo Carlucci parla di “necessità etica” con la quale “la parola dice la vita”, ma tutto ciò chiaramente sta a monte della poesia. Quali sono i cardini intorno ai quali ruota la versificazione della Baroni? Balzano agli occhi, in un rimando di chiaroscuri, in concordanza-discordanza, l’ironia e l’autenticità con cui la poeta si manifesta, l’uso agile della lingua nel suo intento iconico-simbolico, l’ispirazione unitaria dell’opera e la frammentazione, l’approccio aforistico, icastico e sghembo di affrontare l’esistenza e di porre in versi l’universo del Sé (das Selbst), la presenza del corpo e dei corpi, e osservo come avvenga che ad ogni riferimento realistico si opponga, per interne opposizioni e ossimori, la metamorfizzazione imprevedibile, a volte surreale e paradossale dell’esito.
al bar cinque ghigni, e al muro
due lancette ad urtare il tempo
(…)
difficile muoverle e al contempo
non offrirsi ridicoli a chi non vede l’ora
di far parte del pomeriggio
In un mondo che perde la memoria e distrugge il patrimonio artistico e urbanistico – scrive la Baroni – “anche Chagall siede a terra”, l’immaginazione non è certo al potere… A contrappeso dei suoi voli surrealisti i versi sono materici nel loro fondersi con le cose, abbiamo parole-alberi, parole-uccelli, parole-frasche, parole-umori, parole-immagini in uno sfregamento antinomico che li accende per brillare ed essere arsi. Per quanto innervata di concretezza, questa poesia è funzionale all’invisibile e al non detto; in alcuni testi fa capolino un’oscura intuizione di trascendenza, forse presentita come oggetto di una salvezza più estetica e poetica che religiosa, comunque tale – come sosteneva Rachel Bespaloff – da “non soffocare il tesoro di incertezze che rendono alla vita un senso inesauribile”. Di aperture religiose Wittgenstein era maestro. Scrive nei suoi Quaderni 1914-1916:
“Credere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto. Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso”.
Qui, però, nel testo della Baroni è proprio il senso che sembra fluttuare pericolosamente sul ciglio di un baratro; pessimismo della ragione che tuttavia si trasforma in ottimismo o volontà di lotta anche attraverso l’arte. Le oscillazioni semantiche – un modo per attenuare “terrore” e “orrore” – tradiscono anche, lo dico con grande rispetto, un qualche conflitto interiore… la tensione verso l’alto viene subito sottoposta alla prova difensiva della corrosione ironico-scettica.
Cito a specchio due componimenti antinomici (nel senso sopra segnalato), ne potrei citare altri:
è un grattacielo troppo alto
per essere visto dal basso
per intero
ch’è sua natura poi
tendere all’invisibilità
in quei giorni di pioggia
nei quali tutta la città usa
chiudersi in ombra
diffidente e sconsolata
a fare il solitario
la madre non le permise
di uscire dal confessionale
dalle mura della Basilica
alla poveretta da ogni crepa
del costato usciva sangue
il medico legale
si specchiò nel cratere della giovane
alla ricerca del divino lapillo
alla lunga diagnosticò
ch’era santa e di lava

La poesia si integra sinergicamente, come in altre opere dell’autrice, con la rappresentazione fumettistica, disegni dove lo spazio vuoto è importante come il segno grafico che a fil di ferro funge da appendiabiti della metasignificazione. L’autrice è per altro una straordinaria pittrice, che usa nei suoi quadri magistralmente il colore.
Dietro “le quinte” si copre, scopre e illumina ogni opacità dell’ente con lo scandaglio dell’invenzione e “la corrosione aforistica”. È come dire che la peculiarità denotativa dei versi ci obbliga a bruciare ogni paratia o ad aspettare che oltre il velo appaia un qualche segnacolo o maschera di verità. La struttura dei versi a frammento riproduce la frammentazione dell’esistenza, per quanto il frammento sia posto a inizio di un impegno a trascenderlo.
ci vogliono stelle vagabonde
rigorosi universi di comete
perché la poesia non sia
il trito da mezzaluna
il pesto di un anelito braccato
Il ruolo dell’ironia è anche quello di alleggerire l’arido peso della riflessione filosofica significata dalle “dune”, e tuttavia ciò fa lievitare i germi di consapevolezza rendendo relativo quel che potrebbe essere scambiato, a ragione o a torto, come pretesa d’assolutezza. Mentre si abbassa il tono, ci si accosta alle cose per metaforizzare e non per fotografare la loro ottusa datità. Diceva Wittgenstein: “Si può concepire la mera rappresentazione presente sia come la vana immagine momentanea in tutto il mondo temporale, sia come il mondo vero tra ombre. Ma ora finalmente è da veder chiara la connessione dell’etica con il mondo”. Ho più volte apprezzato gli interventi di Giorgio Linguaglossa sulla relazione soggetto-oggetto, anch’io sono intervenuto sull’ “Ombra delle parole” proprio in riferimento a questa vexata quaestio. Il soggetto oggi appare sfaldato, la “rivoluzione copernicana” kantiana non è riuscita del tutto a restituirci sul piano trascendentale ciò che l’empirismo critico humeano aveva dissolto, perché non era una questione meramente filosofica quella che si poneva nel moderno, ma un problema più complesso, strutturale, come vide in anticipo Marx. Tuttavia le dialettiche hegeliana e marxista, soprattutto quest’ultima quale “scienza assoluta dell’intero”, si sono convertite in totalitarismo, riducendo ogni cosa al progetto della ragione e della praxis, e hanno finito con il respingere tragicamente quale scarto sovrastrutturale l’umanità. Anche il movimento verso la globalizzazione favorisce processi centrifughi, l’alienazione e la frantumazione delle relazioni umane, per cui l’appercezione del soggetto si fa quanto mai difficoltosa e contraddittoria. La crisi dei valori va di pari passo con la dissoluzione dei rapporti sociali, l’espropriazione dei mezzi di produzione e i trasferimenti della ricchezza privata (immobiliare e mobiliare), da parte dei governi indebitati, verso le banche e le multinazionali finanziarie, toglie al bourgeois la certezza della sua stessa possibilità di esistere. Ciò investe la comunicazione, la stritola attraverso l’onnipervasività dei media in mano ai vari potentati, per cui avviene che il processo comunicativo si muti spesso in una sanguinosa “rossa prepotenza”. Scrive la Baroni:
rossa prepotenza
scegliere un fatto e parlarne
per voce di un altro
Buona parte della cultura laica moderna sembra essersi svincolata dalle garanzie trascendenti dell’esistenza di un Dio Padre, scambiato con il padrone (vedi Marx), o per averlo visto come “illusione” e sintomo ossessivo di una irrimediabile nevrosi (Freud). Lacan parla di “evaporazione del Padre”, ma per l’assenza del padre i figli sono caduti in un’irrimediabile orfanezza. Una conseguenza è il senso di sperdimento conseguente alla “morte di Dio”, affermata da Nietzsche – “Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? …” – da qui anche la perdita della certezza dell’io, non dico tanto come cartesiana “res cogitans”, ma come zoccolo duro di una appercezione di sé a cui comunque si riconosca un’ineliminabile problematica dinamicità. L’io (das Ich, in Freud) appare come escrescenza psichica, instabile struttura di mediazione tra forze contrastanti, Es e super io. Più complesso il Sé (das Selbst) junghiano, dinamicamente mirato all’individuazione (Individuationsprozess); il Sé non è un epifenomeno del corpo ma “un’esperienza” che si spinge negli aperti orizzonti del possibile (das Mögliche)… Resiste forse nella mistica o nell’inesausto mistero della fede l’idea cattolica dell’anima come persona/progetto (Logos) che ingloba il corpo in un unicum a cui è garantita l’immortalità dal suo Archetipo Personale, “a Sua immagine e somiglianza siamo stati creati”. Creati per mezzo del Logos e in vista del Logos (Parola/progetto) in “Cristo siamo stati risuscitati”… Ciò che sarà è già avvenuto nell’eternità di Dio e non c’è da temere “coloro che uccidono il corpo”. Notava nei Quaderni Wittgenstein: “L’Io, l’io è il mistero profondo! L’io non è un oggetto”. E poco prima aveva scritto:“Se la volontà non fosse, non ci sarebbe nemmeno quel centro del mondo che chiamiamo l’Io e che è il portatore dell’etica”. E nel Tractatus logico-philosophicus aveva acutamente dichiarato: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso (…). L’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale (Etica ed estetica sono uno)”. Tuttavia, se ritorniamo alla Baroni scopriamo come per lei tutto s’arresti dinanzi “al primo grappolo di favola”. Il dubbio sta acquattato “dietro la lapide”, e “l’aldilà” le “appare arcuato”, ripiegato sul mondo come lo spazio curvo all’orizzonte: “al di qua solo punti a croce/d’una sindone azzurrina/ ho volato su tappeti a cercarti/ fino al vortice dei minareti/ ma ora, sesamo!/ perché questo vortice di foglie?/ perché non m’apri?”. Versi, questi, che considero bellissimi nel loro porsi quasi come un’impossibile preghiera a un Dio impossibile eppure radicalmente Desiderato… Per chiudere, avendo parlato già delle “quinte” e delle “dune” occorre fare un cenno alle “frasche” – simbolo della “naturalità dell’uomo”, della sua “creaturalità” -, dimensioni terrene che sembrano solo in parte (abbiamo visto) appagare la poetessa. Il corpo s’infrasca negli umori della vita, si dibatte nel suo sottobosco tra piacere fisico e angoscia. Il divertissement anche del poetare – “seria è la vita, allegra è l’arte”, scriveva Schiller – sono una riprova del carattere erotico (di un erotismo lato, diffuso) di questa scrittura, per quanto la controfaccia dell’eros sia thanatos. Si vede chiaro che la Baroni gode scrivendo, seppure Curi o lenisca in sé e negli altri, a suo modo, non da medico ma da poeta e artista, la noia, il mal di vivere, l’angoscia, quella che Kierkegaard chiamava “la malattia mortale”.
ah, povera Italia!
Commento di Donato Di Stasi
Silvana Baroni ha composto un libro fatto di sguardi che scorticano la superficie della realtà, scrutano, sezionano, fissano di sbieco, afferrano di sguincio. Mettere a nudo la vita è quanto con impietosa franchezza avviene nei suoi versi, dettati da una forza primaria, morale e spirituale, che è impossibile attribuire a un carattere fortuito di scrittura. Nel suo cammino l’Autrice annota, come in una sceneggiatura, controsensi e fiacchezze, miserie e larvali speranze che sono sotto gli occhi di tutti, se solo si trova il coraggio necessario per spostare il lastrone del sepolcro-benessere.
Capace di risciacquare e mondare la coscienza, di tenere il conto delle disillusioni e di prendere licenza dalle visioni prefabbricate, Silvana Baroni si affida ai modi strani e alla faccia sgherra della poesia per osteggiare inettitudine e svogliatezza, mancanze e fallimenti del nostro tempo.
Il lettore non viene afflitto dalla solita querula lamentazione sui mali del mondo, elencati da chi si imbozzola caldamente e comodamente nel benessere, piuttosto registra un autentico tempo di edificare, nel senso che l’Autrice crede alle possibilità della parola di dare voce alle esperienze umane e umanamente partecipabili, restituendo a ciascuna monade-uomo sentimenti propri e desideri collettivi, tutto ciò reso in termini letterari antilirici e non autoreferenziali.
Gli schemi vanno rotti e perseguite altre prospettive come la dis-locazione semantica, per cui impressioni, ricordi, scatti d’umore, sogni vengono rappresentati con accostamenti apparentemente gratuiti, in vero epifanie fulminee, slargature visionarie che gettano luce sulle ombre inquiete delle cose e sul loro senso ontico.
La sua scrittura fa pensare alle tessere di un mosaico, ricomposto in un disegno unico all’insegna di registri psichici inediti e nei termini di un’assoluta oggettività, in quanto ogni riflessione, affetto, anelito spirituale deve essere districato dal groviglio materialistico odierno per poterlo assegnare a una nuova identità non più banale, ripetitiva, soffocante.
Se l’esistenza si conforma a una prigione, a un incubo senza risveglio, a un luogo declive, periclitante in chissà quale baratro, la poesia deve strappare alle nostre paure qualche breve varco estatico, gremendosi di attese, di avventi, di sovra determinazioni.
Vengono toccati tre registri: metafisico, psicologico, morale per intercettare i galleggiamenti di differenti strati di realtà, per mettere in scena personaggi, frenesie, miti, giusto per non soccombere alla noia e alla nausea: il mondo occidentale viene interpretato come un estenuante cadere e corrompersi a fronte di salvazioni inavvertite e impercettibili.
Scomodamente a dorso d’inchiostro, la taumaturga-poeta Silvana Baroni (non a caso scrittrice e terapeuta) spalanca le pupille con effetto di straniamento, mentre la voce sterza verso una dizione documentaria e tagliente allo scopo di evidenziare che non esiste un universo unico, ma tanti universi quanti la nostra mente è in grado di proiettare e chiamare all’esistenza.
Una sorta di officina/fucina dagli spazi tristemente incombenti, oppure sotterranei e perigliosi, dove è difficile gestire voci e rumori, sovrapposti e confusi dalla distanza, così il gioco tra tono alto e basso, la commistione dei livelli, l’uso di metafore corpose, l’intonazione surreale della frase, il tenersi assieme dei termini, attraverso lo scarto e la mescolanza di figure distanti tra loro, determinano un’interessante moltiplicazione delle possibilità fruitive della scrittura, che si muove fuori e dentro la scena, teatralizzando il dire, catturando il senso del reale mediante i connotati variegati della denominazione.
Silvana Baroni adotta ogni strategia per smascherare gli inganni e le falsità del vivere, collocandosi in una scomoda posizione sghemba, consistente nel condurre il linguaggio in una dimensione meta semantica al di fuori dei normali valori significativi. L’intento è di costruire un sistema di segni autonomi che restituiscano valore e particolarità al soggetto a fronte dei disagi e della deiezione che continuamente subisce: si tratta di un labile, ma tenace richiamo all’assoluto, per il quale la parte (l’individuo) e il tutto (il contesto esistenziale) non sono più messi in conflitto, piuttosto convergono verso il medesimo centro sostanziale e spirituale, alternativo all’inessenzialità del crudo e feroce avere.
Si avverte il sentore di una sovversione, di un’avventura incalzante del pensiero: nella faglia temporale dell’istante la verità irrompe come un piccolo lampo, salendo dalla percezione puramente sensoriale al livello in cui il significante comporta necessariamente la significazione.
Gli stessi battiti dell’inconscio con la loro intermittenza e il loro disordine chiedono di essere ascoltati, riversandosi nella scrittura che, nei casi di vigore evocativo e profondità argomentativa, si fa gesto collettivo, si dispone a un’azione simbolica di incontro, di comprensione, rivolta a ciò che costituisce il contesto esterno.
A questo riguardo il dettato poetico riesce efficace in quanto si misura con la sorpresa, lo stupore, la trascrizione dell’inopinato. La poesia diventa guadagno di spazio, margine: ritempra la condizione spirituale che ignoriamo e che può darsi solo nella parola, corpo a corpo della soggettività con se stessa. Dall’aspra angoscia del nulla si passa al dolore chiaro e cosciente.
L’Autrice irrompe con l’impeto di parole asciutte e dure che all’occorrenza mostrano quella morbidezza e pastosità che è segno di capacità espressiva: si vede il febbricitante, il ben lavorato, il ben limato: l’eloquenza non è mal collocata né sciattamente esposta, ha la concisa nervosità e energia, lo spirito di uno stile riuscito per argomentazioni, facondia e immagini.
Silvana Baroni incide a suo modo nella ratio poetica, non mantenendola intatta rispetto al passato, perché non è più intatto il mondo, ma corroso e ridotto a simbolo di esperienze contraddittorie, proiezioni di una dolorosa sconfitta esistenziale. Silvana Baroni conduce la poesia alle estreme conseguenze gnoseologiche e ontologiche, traendola dagli aspetti mondani più inconsueti e paradossali fino là dove le parole sono ancora piene, fisicamente esistenti, e costituiscono ancora una realtà dentro cui è possibile entrare, sentirsi comunque a casa.

Silvana Baroni
Silvana Baroni, dopo gli studi classici, si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università “La Sapienza” di Roma, impegnandosi poi, sia clinicamente che didatticamente, presso la Clinica Universitaria di Malattie Nervose e Mentali per oltre dieci anni. Successivamente, sull’onda delle sperimentazioni basagliane, abbandona l’Università e assieme ad un manipolo di psichiatri intraprende la deospedalizzazione dei pazienti cronici del Santa Maria della Pietà. Contemporaneamente alla carriera ospedaliera, intraprende l’arte psicoanalitica presso l’associazione analitica junghiana di Roma (AIPA), attività che finirà per prediligere, in quanto miniera di materiale esperienziale anche per l’attività artistica.
Oltre alla saggistica pertinente al campo professionale, e a tre opere teatrali, Liti d’amore con Neruda, Le infinite metà del mondo, L’amore è una scatola di biscotti, andate in scena a Roma presso i teatri: XX° Secolo, Agorà, e Catapulta, ha al suo attivo numerose pubblicazioni.
Nel ’92 Tra l’Io e il Sé c’è di mezzo il me, aforismi e grafica – Il Ventaglio ed.; nel ’94 Stagioni, poesia – Il Ventaglio ed., prefato da Simona Argentieri e Carlo Villa; nel ’97 Acquerugiola-acquatinta, grafiche ed haiku – Dell’oleandro ed.; seguono per l’ed. Fermenti: nel ‘ 98 Nodi di rete, poesia, prefato da Mario Lunetta, nel ’01 Ultimamente, poesia, prefato da Plinio Perilli, nel ’02 Il tallone d’Achille di una donna poesia, prefato da Vito Riviello; nel 2005 Alambicchi, racconti per Manni ed.; nel 2006 Nel circo delle stanze, poesia, per la collana Controsensi di Fermenti prefato da D. di Stasi; nel 2007 Neppure i fossili, aforismi e pittura – Quasar ed.; nel 2011 Il bianco, il nero, il grigio, aforismi e disegni – Joker ed; nel 2012 Perdersi per mano, poesia, Tracce ed.; nel 2013 Criptomagrittazioni, poesia – Onyxeditrice; nel 2013 “ ParalleleBipedi, aforismi e grafica- La città del sole ed.; nel 2014 Il doppiere e lo specchio, aforismi e grafica- La mandragora ed.; nel 2015 “Lampi”, testo teatrale – La città e le stelle ed.; nel 2016 Fuori dalle orbite – Nulla di cosmico – La mandragora ed..
Inoltre dal lontano 1983 è presente sul panorama artistico italiano e internazionale con mostre personali curate da critici di nota fama, e installazioni di prestigio presso gallerie accreditate. Nel 1986 a Roma, espone la sua prima personale di pittura, curata dal critico Filiberto Menna, presso il Centro di Documentazione d’Arte Contemporanea L. Di Sarro. In seguito, oltre a mostre grafiche e di pittura, personali e collettive, in Italia e all’estero, esegue ardite installazioni: nel 1992 presso l’A.O.C. di Roma, nel 1996 presso Palazzo Farnese in Ortona, nel giugno 2005 presso Palazzo Valentini, Provincia di Roma, e nel 2009 presso la Casa internazionale delle donne.
Caratteristica principale della ricerca attuata dalla Baroni sta proprio nell’esplorare le più diverse interazioni tra indagine psicodinamica e le varie arti (scriptoria e grafico-pittorica). Invece di separare i due codici della sua creatività (arte e letteratura) preferisce associarli. Nelle sue opere spesso il testo iconico non è disgiunto dal testo scritto, anzi gli si avvinghia in una sorta di espressione complementare.
Quindi, un lavoro tra ipotesi creative a confronto, tra speculazione del pensiero e sensorialità, tra sentimento e critica morale, a sostegno di una ricerca impegnata, ma anche, per quanto possibile, giocosa.

Alta la vetta
ed io il mulo
che ancora va montando
verso l’eco del suo raglio.
*
Apri!
fammi posto, sono il fulmine!
disse
e il cielo prese a scoscendere
e l’acqua a palpitare nel setaccio
assieme a tutti i ciottoli del mare
era Amore
che attraversava l’orizzonte
già con la spocchia d’andarsene.
*
Al bigliardo si raccontano balle
e quando tutte cadono in buca
si passa ai pensieri corrucciati
ai fichi secchi della filosofia
certo, ci vuole un pizzico di diavoleria
per vivere squilibrati
e al contempo misurati
non scivolare giù per le scale
restare vigili in vetta
senza un asino che vola
un suggeritore
e qualcuno che ci batta le mani.
*
Da dietro la lapide
sale un odore aspro di mortella
l’acqua nella gronda tenta il solfeggio
mi distrae dalla civetta che canta
di un cuore a metà
mi acquatto avanti alla siepe
a far di conto, a sbriciolare con dovizia,
per darlo ai passeri, il plumcake
già dei morti non me ne curo
sempre vivono
insepolti nei miei dubbi.
*
Ci tocca nascere
perché un altro muoia
ci tocca accordarci con i cani
per non far vita da cani
ci tocca il toccasana
per ritardare lo scatto dell’ora
dal batacchio che scocca.
*
Seguo ostinata il suo profilo
che non s’allinea all’odierno confine
ma curva e torna rapido in coda
ho grande interesse per il futuro
per le sue inversioni di marcia.
*
Se deve essere un addio
meglio a Bisanzio
che le strade se ne fregano
della ruvidezza delle ciglia
dei corridoi scavati dalle lacrime
andarsene da Bisanzio
è come, letto il libro, regalarlo
a un turista di passaggio
ancora non sazio
privo di confidenza con il vuoto.
*

Al balcone è nato un petalo rosso
e il gesto di chi passa e lo coglie
è il primo giorno di primavera
lascio le chiavi alla portinaia
che mi guarda fuori dai vetri
anch’essa colma
di un nulla clamoroso.
*
Vola un pugno di semi
perché il melo rinasca
perché il suo frutto persista
a metafora del peccato
un comandamento per i figli
a cavarsela a morsi.
*
L’attimo
ha una gran fretta
disegna un rapido bozzetto
del proprio autoritratto
e lo inserisce
nel quadro ad olio
dell’intero giorno accademico.
*
La colomba propizia
copiosa d’intimo
di promesse capillari
ha un talento gotico nel volo
nel riapparire a misura
di petalo in annuncio
piove per darsi luce
in obbedienza all’anello che albeggia
in gravità felpata tra porose lanterne
in effimero premeditarsi
a materia di danza
a incontestabile decoro
d’essere nel mondo.
*
Si baciano le lancette sulle 12
sul perno del campanile
al centro della piazza del paese
nel giardino comunale petali in fiore
sogni a smarrire sottopelle
e dubbi a vagheggiare sul limite
incertezze che rinnovano
che sempre
ne basta una a tirarne altre
come le ciliegie
ch’è sempre il giardiniere innamorato
a coltivarle incredibili.
*
Un giorno come altri
lasciato lì a far domani
nel viola precoce
nel verde sparso
un’intima incline direzione
nel fermo immagine
un cuneo tra ieri e il futuro
che amo fotografare
perché ne resti, non il ricordo
ma la dimenticanza
a verosimiglianza.
*
Nostalgia
è la solita distanza
che vogliamo colmare
con la solita nostalgia
mi ripeto
tutto si ripete
anche le margherite sono le stesse
come la prima
di quando ti dicevo:
vedi? è primavera!
*
Minatore di stelle il cielo
governatore di chi lo merita a terra
ed io, sotto la sua volta
a ripensare all’infinito
a una siepe, e dopo quella a un’altra
e ancora dietro a una terza
oltre la quale valutare il bene e il male
nell’intento di non verificarne la fine
di così tanta promettente verzura.
*
Vasta la solitudine
che più la nuoto
più le onde smarriscono
anche il mare.
*
Ti illumini
dissipi notte luna stelle
ti scatta dentro il suono
spalanchi la casa
con il tuo clamore ingordo
ridendo
oh sole!
dalle mille torce negli occhi
abbi la mia devozione
d’animale soggetto
a ricominciamento.
*
La volpe
annusa rapida
le impronte nel pollaio
rincorre
e s’avventa sulla chioccia
succhia i tuorli dalle uova
s’arresta
al primo grappolo di favola.
*
Sedeva al tavolino
avanti alla caraffa per la sete
il lume lo bagnava di un sudore giallo
chiese una birra
strizzarono lo straccio
e gliela versarono
altre mani contavano il denaro
rattoppavano vedovanze
dissero che aspettava da sempre
ch’era per tutti un’abitudine
vederlo semplificandosi.
*
La gru alta in cielo
fa rapido lo strappo
via i cotti rossi!
via la memoria
dell’antico quartiere
la rugiada resta a bocca asciutta
solo riserbo e deserto
ogni speranza è indietreggiata
anche Chagall siede a terra.
*
Una giostra la vita
di lune finimondo e cieli gira stelle
e mai la verità da quelle nubi
che sempre piovono acqua
sempre la stessa
perduta
ritrovata.
*
Lui sbircia dove guarda lei
lei sbircia dove guarda lui
sono gli annoiati gelosi amanti
non altro che sbirciatori
per invidia
di ipotetici altrui miraggi.
*
Perde petali la distanza
solo punte di luce dalla torcia
lumache gettate nel buio
il solito sproloquio
da recapitare
i soliti gigli appassiti
sull’altare del rammendo
un nuovo dolore sottile
a rimedio di uno già spento.
*
Ci tocca nascere
perché un altro muoia
ci tocca accordarci con i cani
per non far vita da cani
ci tocca il toccasana
per ritardare lo scatto dell’ora
dal batacchio che scocca.
*
Non mi hanno convinta
e dire che erano tanti i pioppi
un pioppeto
un tappeto di spietati tipetti
tutti pioppi in perfetta
performans esclamativa.
*
Il primo amore fu l’altro
quello che tacque per essere eterno
e quando il camionista va sterzando
per i tornanti della montagna
sempre la canta la canzone di allora
quel persistere del cuore che vampa
contro l’impennarsi del vento
contro l’impermeabile alito
delle mandrie.
*
Amici di campagna
venite a farmi compagnia!
senza bagagli né giornali
né cellulari né smartphone
venite!
pascoliamoci attorno!
*
Le colonne d’Ercole
galleggiano alla deriva
su onde di petrolio
assieme alle nostre domande
sul Mediterraneo
ho deciso
né troppo vicino
né assai lontano
che sono queste
le distanze del killer.
*
L’intera storia
un finale liquido
sputato dal boccaglio
qualche bolla di ossigeno
carbonio appassito in mare
e di là dalla parabola
di là dagli archi di tutte le parabole
io là
tu qua
in accordo di formaldeide.
*
Due amiche
una gira la vite,
non sapendo
la gira al contrario
e la vite si svita
l’altra gira la vita,
sapendo come avvitarla
la svita.
*
Al bar cinque ghigni, e al muro
due lancette a urtare il tempo
la prova è rischiosa e interminabile
si tratta di spostare le lancette
prima che il pendolo suoni
difficile muoverle e al contempo
non offrirsi ridicoli a chi non vede l’ora
di far parte del pomeriggio.
*
Quiete sul molo
a guardare chi passa
fino all’ora buia che poi cede
due sorelle
due modi diversi d’intendere
a sbiadire partecipi
una ne resta
con il viso limpido di vedova
esatta esente presente
la sera affamata di dolcezza
dietro le tende.
*
Da bravi amanti
abbiamo diviso il tempo equamente
a te la metà del mio
a me la metà del tuo
è nel mezzo
che il tempo s’è distratto
ha perso tempo.

luigi celi
Luigi Celi è nato in Sicilia, in provincia di Messina, ha insegnato per trent’anni nelle scuole superiori di Roma. Esordisce con un romanzo in prosa poetica L’Uno e il suo doppio, e un breve saggio filosofico/letterario, La Poetica Notte, per le edizioni Bulzoni (Roma, 1997). Pubblica diversi libri di poesia: Il Centro della Rosa, Scettro del Re, Roma, 2000; I versi dell’Azzurro Scavato Campanotto, Udine, 2003; Il Doppio Sguardo Lepisma, Roma, 2007; Haiku a Passi di Danza (Universitalia, 2007, Roma); Poetic Dialogue with T. S. Eliot’s Four Quartets, con traduzione inglese di Anamaria Crowe Serrano (Gradiva Publications, Stony Brook, New York, 2012). Quest’ultimo testo, già tradotto in francese da Philippe Demeron, è in pubblicazione a Parigi. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti, premi e menzioni.
Sue poesie edite e inedite e suoi testi di critica si trovano su Poiesis, Polimnia, Studium, Gradiva, Hebenon, Capoverso, I Fiori del Male, Pagine di Zone, Regione oggi, Le reti di Dedalus ( rivista on line). Nel 2014 pubblica un saggio filosofico-letterario su Kikuo Takano per l’Istituto Bibliografico Italiano di Musicologia.
Presente in numerose antologie, tra gli studi critici a lui dedicati ricordiamo: Cesare Milanese su Il Centro della Rosa, nel 2000; Sandro Montalto, su “Hebenon”, nel 2000; Giorgio Linguaglossa, su Appunti Critici, La poesia italiana del Tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte Scettro del Re, 2002; La nuova poesia modernista italiana Edilet, 2010; Dante Maffia in Poeti italiani verso il nuovo millennio, Scettro del Re, 2002; Donato Di Stasi su Il Doppio Sguardo, nel 2007; Plinio Perilli, per Poetic Dialogue. È presente con dieci poesie nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) e Il rumore delle parole (EdiLet, 2015)
Con Giulia Perroni ha creato il Circolo Culturale Aleph, in Trastevere, dove svolge attività di organizzatore e di relatore dal 2000 in incontri letterari, dibattiti, conferenze, mostre di pittura, esposizioni fotografiche, attività teatrali. Ha organizzato incontri culturali al Campidoglio, un Convegno su Moravia, e alla Biblioteca Vallicelliana di Roma.
Donato Di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.
Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo. È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba. Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti)
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Gino Rago
QUASI UN BILANCIO DELLA POESIA ITALIANA DEL ‘900
La poesia italiana del ‘900, da rileggere?
Siamo ben oltre i tre lustri del XXI Secolo. Per chi agisce nel regno della poesia, come autore di versi, come critico letterario, come interprete, o anche semplicemente come lettore/amante della lirica contemporanea, è inevitabile che noi de L’Ombra delle Parole ci poniamo alcune domande, tutt’altro che oziose:
– Cosa davvero sappiamo, che pensiamo ormai della poesia italiana del ‘900?
– Le polemiche, i dibattiti, perfino gli scontri degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono ancora vivi o appartengono a un’epoca remota?
Nei nostri giorni sono ancora immaginabili o appaiono impossibili?
– La lingua degli ideologi di quelle stagioni (Sanguineti – Fortini – Pasolini) oggi è ancora comprensibile e/o traducibile in atti di poesia?
– Nelle Università italiane “ sulla poesia “ si tengono corsi, si assegnano tesi di laurea, si organizzano convegni?
Forse sì. Ma, se avviene, si tratta di eventi rari, di eccezioni.
Eppure, alla presenza di alcuni critici letterari e di alcuni poeti a Berlino, all’Istituto Italiano di Cultura, ben tre giorni ( di conferenze, seminari, letture di testi critici e poetici ) sono stati dedicati alla nostra poesia dagl’inizi del Novecento a oggi.
I risultati più importanti? Eccoli, in breve sintesi:
La poesia italiana di tutto il Novecento andrebbe riletta (anche sulla poesia di questi anni non sono mancati e non mancano disaccordi). Dell’ermetismo, sia di quello eminentemente legato alla “poetica della parola” (Bigongiari-Luzi- Parronchi), sia di quello “mediterraneo” (Gatto, Bodini, Quasimodo, De Libero, Sinisgalli) non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per la sua prima stagione lirica. Luzi resta interessante ma soltanto se letto accanto ai suoi coetanei: Bertolucci, Caproni, Sereni. I quali, secondo alcuni, (e qui il giudizio si lega alle metodologie critiche), superano in valori poetici i leggermente più giovani Zanzotto e Pasolini. Il primato di Saba e Montale resta indiscusso.
«Sperimentalismo»,« impegno», «avanguardia», « formalismo» sono termini ed esperienze ormai fuori corso. Giovanni Giudici, considerato il vero erede di Gozzano (e Saba ) sembra quasi dimenticato. La neoavanguardia degli Anni ’60 è considerata come una costruzione soprattutto ideologica.
Sandro Penna con Amelia Rosselli hanno più di altri influenzato le nuove generazioni. Non Marinetti (poeta-vate elettrizzato) ma Campana – Rebora – Sbarbaro sono stati i veri « poeti moderni » della poesia italiana del Novecento. Il “Postmoderno”? Su proposta di Alfonso Berardinelli, tutti l’hanno accolto come «Sperimentalismo neoclassico».
Un sentito ringraziamento da parte di tutti è da rivolgere ad Angelo Bolaffi (direttore dell’Istituto di Cultura Italiana di Berlino) e alla Literaturwerkstatt berlinese, se non altro per la coincidenza quasi millimetrica delle conclusioni “berlinesi” con quelle emerse dai lavori proposti su L’Ombra delle Parole, dagli esordi della nostra Rivista di Letteratura Internazionale ad oggi.
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Alfonso Berardinelli
LA POESIA ITALIANA TRA GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA
[…] Con Franco Fortini sembra concludersi una fase della poesia italiana che va dall’acquisizione delle poetiche simboliste all’autoriflessione politica della lirica come falsa libertà del soggetto.
La categoria di «sperimentalismo», elaborata da Pasolini alla metà degli anni Cinquanta, costituì un momento di sintesi carica di possibilità negli anni che vanno dall’esaurimento dell’engagement neorealistico e del montalismo all’avvento delle nuove avanguardie. Il luogo di elaborazione delle ipotesi «sperimentali» fu la rivista bolognese “Officina“, una piccola rivista artigianale, dal pubblico estremamente limitato, che uscì dal 1935 al 1958 a Bologna, diretta da Roberto Roversi, Franco Leonetti e dallo stesso Pasolini. In questi tre scrittori (anche Leonetti e Roversi, come Pasolini, sono poeti e autori di opere narrative e di assemblaggi autobiografico-saggistici) la scelta definibile come sperimentale corrisponde ad un atteggiamento di opposizione, di aggressività «angry», ma anche ad una situazione di isolamento politico, in parte subìto, e in parte voluto, e fonte di continue oscillazioni.
Della perpetua lotta e rincorsa fra una scrittura poetica disposta a qualsiasi avventura linguistica e funzionale, e una realtà odiata-amata in costante movimento, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ha fatto il centro surriscaldato di tutta la sua opera. Un’opera che sembrava attentissima alla costruzione di un proprio programma strutturale e strategico, e che poi si è mostrata disposta ad andare letteralmente allo sbaraglio, rischiando tutto e tendenzialmente autodistruggendosi come tale, pur di mantenere la propria «presa diretta» sul presente. Perciò la passione e l’ideologia dello «sperimentare», attraverso la «disperata vitalità» della trascrizione improvvisata, non potevano che portare Pasolini alla fine di ogni «stile» (magari intesa come rinuncia e autospossessamento dell’autore incalzato dai suoi traumi e dalle sue disperazioni personali).
La versatilità creativa e intellettuale di Pasolini (se si considerano i limiti rimasti sostanzialmente inalterati della sua cultura: una cultura quasi esclusivamente, e anche limitatamente, letteraria, molto italiana e in fondo refrattaria alle influenze della maggiore cultura europea del novecento) ha dato vita ad un’opera eccezionalmente vasta: di narratore, di regista, di critico letterario (soprattutto con Passione e ideologia, 1960, e con Descrizioni di descrizioni, 1979, postumo), di poeta. E la poesia di Pasolini, dalle liriche dialettali e mistico-erotiche (La meglio gioventù, 1954); L’usignolo della Chiesa Cattolica, 1958) ai poemetti «civili» degli anni Cinquanta (Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961) fino ai poemi-collages e agli articoli in versi (Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971) è documento di un trauma personale e storico; dovuto non solo al fallimento fatale di una ipertrofia narcisistica del soggetto-scrittore, ma anche alla involuzione della democrazia italiana, soffocata dalla meschinità conformistica della sua cultura politica e del suo ceto medio.
In Pasolini, del resto, e in toni di violenza nostalgia, parlava un’Italia non ancora «razionalizzata» dallo sviluppo industriale: un’Italia rurale e municipale, frammentata nei suoi localismi regionali, e perciò «umile», legata alle sue origini contadine e preborghesi. Questa aderenza biologica al suolo rurale, inteso come protezione materna e come nutrimento primordiale, è presente, sebbene in forme molto diverse, anche nella poesia di Andrea Zanzotto (1921-2012). Zanzotto ha sperimentato su una base di partenza diversa: ha rinnovato la transizione orfica ed ermetica, spingendo la sua ricerca di laboratorio fino alla dissociazione molecolare delle unità del linguaggio, giocando contemporaneamente sula massima astrazione stilistica (con recuperi petrarcheschi, bucolici, arcadici) e su uno smembramento analitico che risospinge il linguaggio alle soglie dell’afasia, verso le sillabazioni e i balbettamenti infantili. Qui l’atteggiamento «sperimentale» non solo tocca i suoi limiti estremi, ma nel momento in cui, Zanzotto riesce a scrivere una stupenda lirica carnevalesca e apocalittica, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio rovesci il meraviglioso spettacolo linguistico nel grigiore del gratuito e dell’inerte.
Un caso a sé, in assoluto fra i più originali degli ultimi decenni, è quello di Giovanni Giudici (1924-2011). Con Giudici si misura la distanza che può separare un autentico scrittore in versi di questi anni da tutto quanto si è discusso, agitato e rimescolato nella cultura poetica italiana di circa mezzo secolo. Galleria ironica, funebre o sentimentale di personaggi in movimento, di situazioni grottesche e senza sbocco, in una inesausta recitazione stilistica, la poesia di Giudici (La vita in versi, 1965; Autobiologia, 1969; O Beatrice, 1972; Il male dei creditori, 1977) scavalca le scuole novecentesche, ritrova levità melodiche e attitudini realistiche settecentesche, attraversando Saba, Gozzano e Pascoli. Ma il suo protagonista è l’uomo medio dell’Italia impiegatizia, aziendale e democristiana…1]
1] A. Berardinelli La cultura del 900 Mondadori, vol. III 1981, pp. 350, 351, 352
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Giorgio Linguaglossa
Anni Cinquanta-Settanta – La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’Avvenire
Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Novecento», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una Poesia del prossimo futuro se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Novecento», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.
«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che metta in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, qualcosa che ci induca a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’«impensato»? Che cos’è l’«impensato»?
Mi sorge un dubbio: che l’idea che abbiamo della poesia del Novecento sia già stata pensata. Come possiamo immaginare la poesia del «Presente» e del «Futuro» se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di «Ieri»? Che cosa è stata la storia d’Italia del primo Novecento? E del secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quale poesia portare nella scialuppa di Pegaso e quale invece abbandonare? Che cosa pensiamo di questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?
Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose. Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che portiamo con noi, e su ciò che abbandoniamo alle tarme.
Anni Cinquanta. Dissoluzione dell’unità metrica
È proprio negli anni Cinquanta che l’unità metrica, o meglio, la metricità endecasillabica di matrice ermetica e pascoliana, entra in crisi irreversibile. La crisi si prolunga durante tutti gli anni Sessanta, aggravandosi durante gli anni Settanta, senza che venisse riformulata una «piattaforma» metrica, lessicale e stilistica dalla quale ripartire. In un certo senso, il linguaggio poetico italiano accusa il colpo della crisi, non trova vie di uscita, si ritira sulla difensiva, diventa un linguaggio di nicchia, austera e nobile quanto si vuole, ma di nicchia. I tentativi del tardo Attilio Bertolucci con La capanna indiana (1951 e 1955) e La camera da letto (1984 e 1988) e di Mario Luzi Al fuoco della controversia (1978), saranno gli ultimi tentativi di una civiltà stilistica matura ma in via di esaurimento. Dopo di essa bisognerà fare i conti con la invasione delle emittenti linguistiche della civiltà mediatica. Indubbiamente, il proto sperimentalismo effrattivo di Alfredo de Palchi sarà il solo, insieme a quello distantissimo di Ennio Flaiano, a circumnavigare la crisi e a presentarsi nella nuova situazione letteraria con un vestito linguistico stilisticamente riconoscibile con Sessioni con l’analista (1967). Flaiano mette in opera una superfetazione dei luoghi comuni del linguaggio letterario e dei linguaggi pubblicitari, de Palchi una poesia che ruota attorno al proprio centro simbolico. Per la poesia depalchiana parlare ancora di unità metrica diventa davvero problematico. L’unità metrica pascoliana si è esaurita, per fortuna, già negli anni Cinquanta quando Pasolini pubblica Le ceneri di Gramsci (1957). Da allora, non c’è più stata in Italia una unità metrica riconosciuta, la poesia italiana cercherà altre strade metricamente compatibili con la tradizione con risultati alterni, con riformismi moderati (Sereni) e rivoluzioni formali e linguistiche (Sanguineti e Zanzotto). Il risultato sarà lo smarrimento, da parte della poesia italiana di qualsiasi omogeneità metrica, con il conseguente fenomeno di apertura a forme di metricità diffuse.
Dagli anni Settanta in poi saltano tutti gli schemi stabiliti. Le istituzioni letterarie scelgono di cavalcare la tigre. Zanzotto pubblica nel 1968 La Beltà, il risultato terminale dello sperimentalismo, e Montale nel 1971 Satura, il mattone iniziale della nuova metricità diffusa. Nel 1972 verrà Helle Busacca a mettere in scacco queste operazioni mostrando che il re era nudo. I suoi Quanti del suicidio (1972) sono delle unità metriche di derivazione interamente prosastica. La poesia è diventata prosa. Rimanevano gli a-capo a segnalare una situazione di non-ritorno.
Resisterà ancora qualcuno che pensa in termini di unità metrica stabile. C’è ancora chi pensa ad una poesia pacificata, che abiti il giusto mezzo, una sorta di phronesis della poesia. Ma si tratta di aspetti secondari di epigonismo che esploderanno nel decennio degli anni Settanta.
I contributi critici di Alfonso Berardinelli (“La poesia italiana fra anni Settanta e Ottanta”) e di Giorgio Linguaglossa (“La dissoluzione dell’unità metrica e la poesia dell’avvenire”) gettano nuove luci sul tentativo, che prima o poi dovrà essere affrontato, e scartocciato nelle sue linee fondamentali, di una rilettura del ‘900 poetico italiano.
Anche se molti aspetti già compiutamente emergono sia come “conseguenze” poetiche di suggestioni e influenze lontane, sia come basi estetiche verso un nuovo corso poetico italiano. Qualche deduzione sull’orizzonte operativo della “nuova” poesia italiana quindi forse è possibile, forse può essere tentato:
– sembra in via di liquidazione l’intimismo, almeno quello che in termini di teorie simboliste, ha permeato la lirica dai crepuscolari agli ermetici;
– pare definitivamente in crisi l’istanza di quel realismo di matrici sociologiche e marxiste, con tutti gli estri rivoluzionari a farsi interpreti di quella massificazione a opera d’una società industriale avanzata;
– si colgono, disseminati e sparsi qui e là, taluni semi e segni di una certa critica del linguaggio tradizionale (Crovi, Ceronetti, Pignotti) tesa alla ricostruzione d’una espressione in grado d’inglobare in sé tutti i frammenti – mitici – delle idealità perdute.
Forse in una certa misura, con la rottura dell’unità metrica segnalata nel suo lavoro critico da Giorgio Linguaglossa, sul finire del ‘900 la lirica italiana prende atto del fatto che il “come evolversi esteticamente” per lei significasse passaggio a nuova vita, senza rimpianto per le vecchie forme passate.