GUIDO CAVALLI: DIECI POESIE  da “Nel castagneto” (Diabasis, 2015) dalla Postfazione di Giovanni Ronchini “Cercando un altro inizio”, “I lupi tornano sull’Appennino settentrionale”

pittura Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98

Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98

Guido Cavalli è nato nel 1974 a Parma. Coautore dei romanzi e dei racconti di Errico Malò (tra i quali Cielo di paese, Scaramuccia, La veglia, La neve ai cancelli) collabora con la rivista di filosofia Kasparhauser. È del 2005 la sua prima raccolta di versi, Piccolo canzoniere selvatico (Manni).

Dalla postfazione di Giovanni Ronchini, Cercando un altro inizio (o del bisogno di appartenere)

I dieci anni trascorsi tra la prima raccolta, Il piccolo can­zoniere selvatico, e la seconda, la coerenza di temi e di ac­centi tra i due libri ‑ sebbene, in questo, sembri che quei temi e quegli accenti siano oggetto di un ulteriore scavo, una discesa per certi versi più profonda e dunque più sma­scherante ‑ inducono a domandarsi dove nasca la poesia di Guido Cavalli, quale sia la sua matrice, da dove essa venga generata.

Ci sono infatti un bisogno e una necessità a indurre Ca­valli a scrivere versi: il bisogno di costruire una identità, un’appartenenza e dunque di contro la necessità di deci­frare i contorni della propria inappartenenza; innanzitutto la mancanza del padre, la sua sparizione, ha reciso i rami dell’albero genealogico, rischia di escludere Guido dalla sua storia famigliare:

Ancora adesso io confondo il fruscio / delle foglie e il bi­sbiglio del sonno / in cui calavo come fossi già senza padre / e senza me stesso creato, non generato, / risvegliato alla coscienza ma non nato / da te o da corpo umano

e ne ha per lui resa più complicata la possibilità di accoglier­ne le eredità, di sentirsi riconosciuto ‑ più che di riconoscer­si ‑ nelle proprie radici.

Sanare questa ferita, ricucirne i lembi sfrangiati, ricostru­ire la solidità di un vincolo di appartenenza (quello dei le­gami famigliari ‑ la condivisione di una stessa aria, di uno stesso linguaggio, di quella stessa “inguarita ferita” ‑ e del legame con la natura, vero e proprio punto di incontro con le proprie radici biologiche) e ingaggiare una lotta contro l’esclusione, questi appaiono i motori principali della poesia di Cavalli. Ciò può avvenire, sebbene non più in modo defi­nitivo, per sempre consapevole della cacciata dal paradiso, attraverso una rigorosa ripetizione di riti sedimentati nel tempo e depositati in fondo alla memoria inconscia.

Quello della natura è forse il principale dei lin­guaggi necessari alla ricostruzione del vincolo, una sorta di lasciapassare, la chiave per ricostruire e comprendere il re­sto; non tanto, si badi, la natura come “libro”, ma proprio come insieme di segni, una specie di ventre semiotico, una disposizione di elementi che uniti significano (e che dun­que vanno letti e interpretati), una Lingua madre di un paese ormai remoto, / cancellato dagli atlanti della storia, / verde casa dell’infanzia […], che per essere decifrata deve essere percorsa e tradotta (fare poesia, pertanto, è camminare tra i segni della natura, pre-sentire, cioè disciplinarsi all’ascol­to, all’osservazione attenta, alla costruzione dei nessi di una vera e propria sintassi): così la ghiandaia che occhieggia tra i rami è sospesa come una parola scritta, le cime lontane in un giorno sereno sono come parole che sulla pagina ristanno / inaccessibili, e il ghiaccio delle cime è un “foglio bianco”, così, ancora, il castagneto è una comunità di parole, “che tutto possono compiere”:

Ora qui ci incontriamo. / Tra le parole, come in un bosco / dove i faggi salgono diritti / e le radure s’aprono cieche / e l’incuria ha cancellato le carraie / che dalle ultime case del paese / vengono su. / […] Immersa nel folto, questa pagina / sia il luogo convenuto / per il nostro appuntamento.

Guido Cavalli Nel castagneto copertinaLa condizione di poeta è perciò una condizione privile­giata: è il poeta il solo che può instaurare un rapporto con­fidenziale con la natura:

Erano i giorni in cui cambia l’autunno. / Durante un’escur­sione solitaria / ecco la risposta: “sarai tu / il mio confidente”. // Restai a vagare a lungo / sotto gli sguardi accigliati / di certi abeti bianchi, / finché un cenno di rami poi non venne / a indicarmi da dove discendere

È il poeta l’unico in grado di pre-sentire, cioè possedere quelle “virtù premonitrici”, quella sensibilità più spiccata, più vibrante, che gli consentono di esercitare un ruolo quasi sacrale, religioso, vedere, prima degli altri, con occhi diversi i segni della natura, disporli secondo una logica grammati­cale e dare loro un significato, dunque interpretarli, capirne il senso.

Senza questa capacità e senza la volontà di farne uso, la natu­ra rimarrebbe un insieme disorganico di fenomeni, una lingua morta; è il poeta a liberarla dallo stato di “idea”, secondo una visione che sembra discendere direttamente da Schopenhauer, e a individuare ciò che essa rappresenta: in questo modo il poe­ta è anche l’unico in grado di ricostruire quella catena di vincoli per ripristinare l’appartenenza e l’identità perdute.

La poesia, però, richiede un’abilità manuale, la capacità di disporre le parole, di indirizzarne il senso, di scoprirne i suoni e la musica, di allacciarle alle tradizioni. Nel castagne­to, a differenza del Piccolo canzoniere selvatico, è un eserci­zio sull’endecasillabo, sulle sue virtù musicali; è, ancora, una sperimentazione delle infinite possibilità delle simmetrie, secondo una strategia che le adopera utilizzando una varietà di soluzioni. L’endecasillabo di Cavalli, specie strutturato in versi sciolti, il metro più frequentemente utilizzato in questa raccolta, è sinuoso, raramente franto da poche opportune cesure, modulato su una accentazione perlopiù canonica (sulla quarta o sulla sesta sede), e su un uso estremamente parco della rima (frequente, però, la rima al mezzo e talvolta le assonanze e le consonanze), variamente alternato a versi più brevi, soprattutto il novenario o il settenario: ecco allora presentarsi alcune forme della tradizione ‑funzionali al dia­logo che il poeta vuole riaprire con il proprio albero genea­logico, non solo pertanto quello famigliare, ma anche quello poetico ‑, a volte anche soltanto riecheggiate: la canzone, ad esempio, (che in certi casi sembra potersi sciogliere nel po­emetto narrativo, come nel testo eponimo Nel castagneto), ma anche il madrigale e, almeno in un caso, la filastrocca di origine popolare (si veda Il sentiero risale il fianco lento, con quel particolare ricorso alla rima baciata).

I testi, poi, sono un reticolo di simmetrie e ripetizioni, ottenute attraverso l’insistenza su alcune figure come l’allit­terazione, in pochi ma significativi casi la paronomasia, la ri­presa di termini o sintagmi da una strofa all’altra (una specie di coblas capfinidas volutamente imperfette) e soprattutto, massicciamente, la similitudine (come, ad esempio, proprio Nel castagneto, dove le stanze del testo sono costruite in due sezioni ‑un’ombra, forse, di fronte e sirma ‑anticipate dalle due chiavi della similitudine, appunto: “come”/“così”).

pittura Antonio Ligabue Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite

Il risultato, anche alla luce di un lessico e di una sintassi sfrondate dalle ipoteche sia di oscurità ed espressionismi d’accatto, sia dal vizio della retorica:

Allora noi cercheremo un poeta, / uno che non ammali le parole, / uno che non le affami d’aria vuota, / che non rida a vederle zoppicare / come una bestia ferita, una ruota / piegata (Da una lettera di Karl Heinrich a Georg Trakl)

è un delicato ma acuto impressionismo, una poesia visi­va, descrittiva non immemore di alcune eredità fondative del verso novecentesco, primo tra tutti Pascoli. Oppure, seppure in misura minore, Jahier (quello di Ragaz­zo, in particolare nei versi dedicati al mistero del suicidio del genitore, come in A colloquio con il padre, dove si può leggere un distico come questo: Non è per solitudine che si uccide / ma per un senso di giustizia). Ma più d’ogni altra cosa è riconoscibile il fitto reticolo di elementi riconducibili al luogo di origine (non a caso si parlava, prima, di tradizioni e non di tradizione): il patrimonio popolare delle fiabe, dei culti pagani e pre-cristiani, la Bibbia rimasticata dai vecchi, il côté lessicale e narrativo della montagna (per certi aspetti non dissimile da quello sintetizzato nella poetica di Rigoni Stern), il Bertolucci alpestre di Casarola (alcuni versi, come già nel Piccolo canzoniere selvatico, sembrano rubati al poeta di Viaggio d’inverno), il Bacchini poeta scienziato, il lirico delle pietre fossili (O l’eco dell’abisso, custodita / nell’inca­vo della conchiglia fossile […]) a cui ci pare Cavalli faccia esplicito riferimento invocando “la Musa selvatica, antico sgomento”, lo Zucchi di Tra le cose che aspettano (seppu­re con minore partecipazione, limitatamente alla presenza totemica e metaforica dei lupi). E soprattutto la prosa del narratore antropologo parmigiano Mario Ferraguti (penso soprattutto a due sue opere, Dove il vento si ferma a mangia­re le pere, Diabasis 2010) e a Ti segno e ti incanto del 2012): con Ferraguti, Cavalli condivide la sensibile osservazione delle comunità dell’Appennino, quella umana – dei vecchi, dei racconti, delle fole, della mitologia della montagna, delle “antiche vergini silvane” “coronate di bacche selvatiche”, e dei loro riti magici – e quella naturale, la presenza discreta degli animali, dei vegetali, le loro tracce, la loro lingua, il messaggio che essi comunicano; con Ferraguti, infine, Cavalli con­divide anche la stessa età, così che forse si può pensare a un carattere generazionale al quale i due scrittori stanno dando voce: la polverizzazione delle identità e delle appartenenze (sociali, culturali, politiche, religiose, famigliari) e il tenta­tivo, da parte di chi ne avverte la mancanza, di un difficile restauro, una costruzione ex post, una vera e propria ricerca dell’identità perduta, un bisogno di appartenere:

Oggi che vivo in questo tempo incolto, / cammino insieme a tanti senza parte. / I vecchi sono morti e queste cose / le scrivo senza dover incontrare / il loro sguardo. (La discendenza)

pittura Antonio Ligabue Autoritratto 5

Antonio Ligabue Autoritratto

Da: Guido Cavalli, Nel castagneto (2015)

I lupi tornano sull’Appennino settentrionale.
Piccoli branchi compaiono all’orlo
dei boschi. Scendono lenti tra i campi,
fiutano l’aria dei paesi vuoti.
Sentono che non c’è più odore d’uomini
e allora vengono senza paura.
Girano intorno alle fontane asciutte.
All’aperto dei sagrati si coricano
e immobili nell’ora della sera
somigliano a grigie statue romaniche.

Un uscio vecchio sbatte per due volte.
Un cesto vuoto rotola nell’orto.
Un secchio gocciola sotto la fonte.
Intanto noi dove siamo? Perché
abbiamo preso la sembianza d’ombre
impigliate ai vetri delle finestre,
d’orme nei letti di polvere e cenere?

*

In mezzo all’erba incolta del pometo
frutti maturi che la troppa attesa
ha reso ormai amari. Qui a marcire
ristanno e bruni scioglieranno in terra.

Dalla casa di pietra abbandonata
non viene più nessuno a raccogliere
le mele e sotto il castagno spezzato
il padre e il figlio non siedono più.

Solo un rumore di pioggia echeggia
nell’aria azzurra. Nemmeno le anime
sono rimaste di chi è vissuto qui.

«Sempre recente nasce la natura,
mentre il nostro segno è già trapassato.

Ma se curiosità avessi di cosa
andavamo l’un l’altro conversando
seduti sotto il castagno spezzato,
dimmi, a chi mai potrei domandare?»

Con la notte viene il primo gelo.
Spaccherà la lucida corteccia
del melo, giù fino alla radice.

*

La sera in cima ai borghi di montagna
quando rabbuia, odore di legna
e l’aria si fa scura e sulla pietra
che un tempo stava in fondo al mare appare
dolce il colore del lillà. Intorno
tutto è fermato e sembra presagire
un ritorno a quell’epoca archeana:
già inabissano i vecchi cippi, sparsi
lungo i bordi dei campi incoltivati.
Poi in fondo alla notte della terra
si trasmuteranno in nuovi elementi,
parole rifulgenti come il sale.

*

Piove nel bosco. Rabbuia il cielo.
Tra i rami corre il lamento d’un vento
straniero. Forse è l’autunno che viene?
In alto le foglie bagnate specchiano
ancora l’ultima luce del giorno.
Forse qui intorno o già in fondo al sentiero
presto risuonerà un passo lieve.

*

Oltre l’ultima svolta del sentiero
finalmente appare ciò che precede
ogni attesa – io salivo distratto
per il bosco luminoso di maggio,
e c’era odore di foglie bagnate
e umidore di terre feconde.

pittura Antonio Ligabue Falcone bianco

Antonio Ligabue Falcone bianco

Piccole colonie di betulle bianche
sparse in alto lassù
lungo le dorsali dell’Appennino.
Giovani comunità cresciute
tra le valli mentre intorno
svettano faggeti e abetaie.

Le incontro appena dietro una falsa cima
e m’accorgo d’esserci dentro solo quando
la luce è familiare,
le foglie basse trattengono l’aria
e l’eco di certe confidenze
che avevo dimenticato tornano
alla mente suggerite dai rami.

Fuori, nel bosco dei sempreverdi,
l’occhio resinoso delle cortecce
osserva severo il viandante
seduto a riposare un momento
sotto le betulle bianche.

*

Si mostra di nascosto la natura
e ciò che resta più in alto.

Anche addomesticata la sua forza
e dedotta dal caso la sua grazia,
nella sua voce è un dire ch’è parola –
la incontri nel folto del bosco
se lasci alle spalle
la favola del mondo.

«Perché non sediamo tra i faggi
e gli abeti, io e te l’un l’altro accanto?»

*

Riprendo in mano il libro del filosofo,
il suo colloquio con le parole
camminando per sentieri di montagna.

La pagina si apre e lo sguardo
si alza verso il vero e verso il paesaggio
dov’è ancora visibile la lotta
tra ciò che rimane e ciò che rovina.

«Ma la parola è custode. Ascolta
e ti indica dove guardare».

Finalmente la pioggia viene
sulla terra, sulle foglie e dove
l’autunno distenderà a marcire.

Rincasando in fretta chiudo il libro.
Spegne l’eco del dire e presto la cenere
del detto. Per oggi è conclusa
la scuola del presentire.

*

Così vado attraverso la natura:
senza toccarla, senza trattenerla
seguo il sentiero che porta più in l’alto,
risoluto alla ripida salita
salgo fino alle cime, all’abbandono
del riparo, all’esporsi dell’aperto.

*

Ora qui ci rincontriamo.
Tra le parole, come in un bosco
dove i faggi salgono diritti
e le radure s’aprono cieche
e l’incuria ha cancellato le carraie
che dalle ultime case del paese
vengono su.

«Scrivi, Grisha. Credi alle parole,
che tutto possano compiere, tutto
accada nel loro presente».

Immersa nel folto, questa pagina
sia il luogo convenuto
per il nostro appuntamento.

*

In quella casa accanto alla fontana
passammo insieme un’estate tranquilla.
Le bimbe raccoglievano nei prati
certi rari fiori d’arnica bianca.

Nelle ore più calde scendevamo
nel greto calcinato del torrente.
Oppure in mezzo ai boschi di nocciole
cercavamo ramaglia da intagliare.

Quando veniva la sera, sul colle,
quel paese stretto al suo campanile
bruniva al ridiscendere del sole
oltre il profilo acuto del crinale.

La notte, al sonno poi ci accompagnava
il discorrere prossimo dell’acqua.
Una luna silenziosa svoltava
tra costellazioni ferme e serene.

*

In alto scuotono le foglie secche.
Domani, l’ultimo colpo di vento,
e poseranno altrove,
cose tra le cose.

Intorno, quasi addormentate, battono
parole minerali, antichi salmi
e anche noi ce ne andiamo per la via
mentre già risuonano canti
di radi profeti.

26 commenti

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26 risposte a “GUIDO CAVALLI: DIECI POESIE  da “Nel castagneto” (Diabasis, 2015) dalla Postfazione di Giovanni Ronchini “Cercando un altro inizio”, “I lupi tornano sull’Appennino settentrionale”

  1. In una recensione al libro scrive Sergio Marano: “Nel castagneto è la seconda raccolta di poesie pubblicata da Guido Cavalli a distanza di dieci danni dalla prima. Diciamo subito che siamo di fronte a un’opera compatta, di indubbia maturità (stilistica e tematica) e di grande impatto emotivo. Se si vuole, Nel castagneto è una sorta di poema suddiviso in cinque sezioni: dalla casa di pietra, un altro inizio, la scuola del presentire, intorno al vincolo, il lasciapassare – quasi a scandire, come in una sinfonia, cinque tempi della propria esistenza, che hanno però un solo filo conduttore: il bisogno di ricostruire un’identità, la necessità di trovare un’appartenenza. L’esperienza traumatica della morte volontaria del padre è probabilmente il punto di partenza di questa ricerca di sé, poiché introduce nella vita dell’autore parmense uno iato, una ferita difficilmente rimarginabile:

    “Dalla casa di pietra abbandonata / non viene più nessuno a raccogliere / le mele e sotto il castagno spezzato / il padre e il figlio non siedono più. / Solo un rumore di pioggia echeggia / nell’aria azzurra…”.

    Più che la lirica di Bacchini, c’è “La capanna indiana” di Attilio Bertolucci in questo stile di Guido Cavalli, l’andante largo e lento di una lirica della natura che diventa canto della ricerca identitaria: il motivo della improvvida morte del padre diventa qui lo scandaglio attraverso il quale sondare il mistero dell’esistenza umana e della ricerca della autenticità mediante la riconciliazione con se stesso e con la natura. Direi che è la ricerca di una riconciliazione che guida l’ampia metratura endecasillabica di questo stile. Più che una poesia di frammenti si tratta di una poesia di ricucitura dei frammenti persi e dispersi. È una lirica alla maniera tradizionale, post-bertolucciana, antica forse, ma non per questo minore, anzi, di fronte a tanta poesia di oggi che cerca di mostrarsi alla moda, questa di Guido Cavalli vuole semplicemente essere se stessa, fedele alla propria vocazione, senza infingimenti e senza trucchi.

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    • Apprezzo molto Guido Cavalli,un poeta che fa del dialogo con la natura il fulcro del suo discorso in versi:un discorso che non finirà mai,per fortuna,anche se l’artificio di tanta poesia(di tutti i tempi) non sempra tenerne alcun conto.Felice l’illustrazione che accompagna i testi: quel Ligabue che pareva volersela ingoiare, quella natura che lo coinvolgeva fino allo spasimo.

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  2. Salvatore Martino

    Leggendo i commenti come quelli che appaiono sul blog mi convinco sempre più di non avere gli strumenti cognitivi per avvicinare la poesia. Quelli che agli altri appaiono versi poetici a me sembrano, come questi di Guido Cavalli della prosa e nemmeno straordinaria. La sintassi e la grammatica sono, sempre nella mia modesta visione, la spia che non si tratta di poesia di qualcos’altro…banalità descrittive. Musica cadenze ritmo immagini pensiero dove siete? Mi rendo conto forse di essere eccessivamente crudo nei miei convincimenti ma sono stanco di leggere versi che vanno arbitrariamente a capo e vengono millantati per poesia e magari anche avvalorati da giudizi positivi. Forse davvero sono troppo vecchio e rimasto ancorato a dettami ormai desueti, ma vorrei una volta ogni tanto potermi non dico commuovermi o emozionarmi ad una lettura ma almenio provare un briciolo di interesse. Credo che la “tragedia” attuale della poesia in Italia consista in questo oceano di produzione e di pubblicazioni che ha raggiunto ormai un orizzonte sterminato, dove il narcisismo autoreferenziale, lo ripeto ancora una volta, è divenuto devastante. E poi tutte queste centinaia di migliaia di pennivendoli non leggono nulla nè del presente nè del passato. E dico questo confortato da una lunghissima esperienza (più di cinquanta anni dedicati alla poesia e dieci all’ insegnamento universitario). Sembra che la poesia non abbia strumenti tecnici da adoperare come le arti visive per esempio, che non abbia regole precise, che non ci sia bisogno di apprendistato , di bottega quindi, che sia facile mettere perole in sequenza senza nemmeno il bisogno di una trama di una architettura come esige il romanzo. Un’altra cosa che mi irrita profondamente è l’incorraggiamento che si da a codesti “poeti” vuoi per amicizia, vuoi per ineresse, vuoi per piaggeria, vuoi per un disegno ipocrita così congeniale purtroppo all’italico personaggio. Il primo sostantivo che io insinuavo nelle menti e nelle coscienze dei miei allievi universitari era la :crudeltà, che la poesia esige verso se stessi e gli altri. Il buonismo dilagante non reca alcun beneficio a questa che certamente è un’arte molto difficile, aristocraticamente riservata a pochi. Bisognerebbe cominciare a difenderla con più coraggio e fermezza. Salvatore Martino

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  3. Gino Rago

    Il contatto con l’esperienza poetica di Attilio Bertolucci, sia della Capanna indiana (come indica giustamente Giorgio Linguaglossa), sia de La camera da letto, mi permetterei di aggiungere io, si avverte nei componimenti di Guido Cavalli come quell’aria che circola nei boschi appenninici sottratti per magia ai rumori, ai chiassi dissonanti della Babele urbana. Il volere ristabilire un legame forte e duraturo con la natura si coglie nella parola di G.Cavalli. E lo segnala in prefazione anche Ronchini, affiancandogli anche Pascoli.
    Ma forse il protagonista vero delle poesie che oggi leggiamo è il tempo. Il quale, proprio come nella poesia di Bertolucci, è il contenitore dell’universo poetico di Cavalli sia come tempo che passa e corre, sia come tempo delicato della “sosta”, della pausa, del transito lento verso quel serale “discorrere prossimo dell’acqua” prima “dell’ultimo colpo di vento”.
    Sulle questioni sollevate da Salvatore Martino, prima o poi occorre aprire un serio dibattito.
    Gino Rago

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  4. La circostanziata e dotta esegesi di Linguaglossa, posta all’inizio dello spazio riservato ai commenti dei lettori come il cerbero alle porte dell’Ade, ammutolisce, di per sé, chiunque abbia voglia di proferire una parola sull’argomento. Figuriamoci una modesta lettrice quale sono. Esprimerò, pertanto, solo qualche breve, spicciola considerazione. Ciò che mi ha colpito, in questi versi, è la presenza determinante dell’elemento naturale che in essi subito si impone, pervadendone la stessa sostanza. L’elemento naturale ci viene incontro fin dall’incipit stesso dei versi e poi fluisce ampio, proiettandoci, in una sorta di verde rifugio, un nido ideale che apre a dimensioni, atmosfere, miti che richiamano la psicologia pascoliana: una sorta di abbraccio interlocutorio, rasserenante, consolatorio che il poeta sembra sperimentare nel contatto con la natura. L’erranza, incarnata nelle solitarie passeggiate che hanno come meta il “cercare”, ha il senso di un tentativo di riappropriazione del se stesso più vero, un recupero come rifondazione e giustificazione della propria identità, messa in crisi dalla perdita del padre. La descrizione del paesaggio antropico ha toni spiazzanti rispetto a quella dell’elemento naturale, proprio perché in tale paesaggio manca l’uomo. Perciò appare svuotato, disabitato, lasciato solo, a se stesso, divenuto metafora di una condizione abbandonica che il poeta ha sperimentato in giovane età e che, ancora una volta, richiama alla memoria il simbolismo pascoliano (ma su tale vuoto sembra inscriversi ancora un altro vuoto, che riveste un significato più ampio: la spoliazione di quel senso di umanità che dovrebbe abitare le cose nate dalla mente e dal cuore degli uomini.) Su tale paesaggio pesa, dunque, l'”assenza”, ovvero la ferita per un dialogo che si è interrotto -e che sembra aver indebolito ogni legame con la vita, e messo in crisi le radici dell’essere più proprio- e questo in seguito alla perdita di quel mondo di affetti e valori incarnato nella figura paterna. Per questo, a contrappunto, la natura, il bosco, il castagneto, esprimono la ricerca di un modo nuovo di attingere alla vita, la possibilità di riallacciare i fili di quel dialogo interrotto, di eliminare lo iato venutosi a creare allora, una sorta di ponte ideale verso il passato, che consenta di riappropriarsi di una realtà andata in frantumi e di proseguire nel cammino della vita.

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  5. Caro Salvatore Martino,
    capisco il tuo ragionamento e la tua amarezza per l’oceano di pubblicazioni di amatori della poesia, cioè amatori della propria poesia… Nel caso specifico di Guido Cavalli, io non mi sentirei di essere così ultimativo nel giudizio non positivo, bisogna dare ai giovani il tempo di maturare, e Guido Cavalli ha le potenzialità per migliorarsi. Certo, dopo questa prova dovrà rinnovare il proprio strumentario retorico troppo ancorato ad esperienze stilistiche che Gino Rago ha ben individuato nel suo commento (la linea che va da Pascoli a Bertolucci e a Bacchini). Certo, se Guido Cavalli nel prossimo libro sarà capace di emanciparsi da questo stile endecasillabico di buona fattura ma pur sempre, alla lunga prevedibile, anche se un po’ troppo di scuola, sicuramente farà un passo in avanti verso un linguaggio poetico diversamente posizionato. Il problema è che i giovani sono abbandonati a se stessi, non hanno scuole né laboratori dove possono crescere e misurarsi con altre esperienze estetiche, non ci sono luoghi dove crescere come poeti, e sono condannati a fare tutto da soli. E so per esperienza quanto sia difficile fare da soli. Quindi, diamo loro il tempo per maturarsi e maturare i propri strumenti filosofici e linguistici. Comunque, fai bene ad essere severo. È giusto essere severi, i giovani se vogliono crescere devono dimostrare di essere capaci di elaborare una propria poetica emancipata.

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  6. antonio sagredo

    Caro Martino Salvatore non posso darti torto:
    “Quelli che agli altri appaiono versi poetici a me sembrano, come questi di Guido Cavalli della prosa e nemmeno straordinaria”…
    è come se Tu mi avessi letto nel pensiero, e non dico altro.
    a.s.

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  7. Giovani già nati vecchi. Potrebbe essere accettabile la metafora dell’abbandono, dei borghi spariti, dei frutti che marciscono sui rami, ma il lessico antiquato ” ristanno”, “padre e figlio (?), il “viandante” (?) oltre a una mancanza totale di musica rendono il tutto inesistente.
    Ci vuole ingegno, ingegno!

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  8. Ubaldo.derobertis

    Quando uno come Giuseppe Panetta scrive in questo modo c’é da meditare. Quando Salvatore Martino esprime tanta amarezza c’é ancora da meditare. Ho a cuore la scrittura dei giovani e normalmente sono ben disposto, ma questa volta non ne faccio una questione di linea, Pascoli Bertolucci, ne di stile, é che non trovo profondità nella riflessione. Quanto si dialoga con la Natura questa é necessaria.

    Ubaldo de Robertis

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  9. Poesie ‘modeste’ come inventiva, ma solide e ricche di significato: mi piacciono al punto che vorrei averle scritte io.

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  10. Massimiliano Achille

    Bravo Luciano Nanni,
    le poesie di Guido Cavalli devono essere lette e gustate nel loro significato complessivo che le rende solide e ricche di significati (userei il plurale).
    Così esse dovrebbero essere lette con quel minimo di rispetto che si deve a un poeta giovane, un mister Nessuno (lo dico per farmi capire, perché non è certo il caso) che bussa alla porta di questo infervorato isolotto, regno di poesia (zattera di salvezza?) che il continuo lavoro, intelligente e appassionato di Linguaglossa sta tenendo a galla per tutti noi.
    Eppure ancora una volta riscontro con rammarico che ciò non avviene. Con la consueta puntualità alcuni si sono alzati da pulpiti, da loro immaginati qualificanti, per rigettare istantaneamente e senza appello Cavalli nel calderone nel quale stanno a bollire “centinaia di migliaia di pennivendoli”.
    Direi al bravo Cavalli (anche se probabilmente lui lo sa già) di non lasciarsi irretire da questi giudizi stroncatori, molto simili, come ebbi modo di dire una volta, ai fischi della trasmissione televisiva “La corrida”. Sono talmente apodittici da non potersi qualificare veri giudizi e sono dovuti a una idea sbagliata e retrograda del ruolo della poesia dopo i tanti “ismi” del secolo scorso che ha portato al disamore anche da parte delle classi acculturate nei confronti di questa forma d’arte. Provengono da un polo opposto che sta declinando troppo lentamente nel disinteresse quasi generale.
    Il mio modesto avviso è che i suoi componimenti sono molto interessanti e alle volte coinvolgenti.
    Ciò, pur condividendo quanto rilevato da Linguaglossa, ossia che Cavalli dovrebbe impegnarsi ancora nella ricerca di un linguaggio proprio (il ritmo già c’è), nel disancoramento da esperienze stilistiche e contenutistiche precedenti (che, peraltro, provano la vastità delle sue letture) e nel rafforzamento e personalizzazione del suo discorso poetico. Ma lui dispone del tempo occorrente e già lo sta facendo.
    Nelle poesie riportate nel blog, che sono le uniche da me conosciute, Cavalli è molto abile nell’introdursi nel mondo rarefatto della natura, appena liberatasi dalla presenza dell’uomo che si incontra in tante parti della nostra penisola e le sue descrizioni ci fanno restringere quel mondo all’Appennino.Le sue poesie, per questa parte sono estremamente “sensuous” alla Donne e forse il richiamo a Pascoli, che è stato azzeccato da Gino Rago, potrebbe persino essere insufficiente. Le immagini che Cavalli fa balenare sono piene, odorose, con rumori propri; riportano con forza in quell’habitat primigenio, dall’atmosfera per certi versi magica.
    Ma le più interessanti poesie, perché di poesia più che dignitosa si tratta, sono quelle dove viene scavato quel senso di perdita, di passaggio ineludibile delle cose che infonde la visione della natura quando seppellisce i segni della presenza dell’uomo (I lupi tornano, In mezzo all’erba, Ora qui ci incontriamo, In alto scuotono le foglie secche).
    Qui c’è un delicato ma accurato lavoro sullo scorrere del tempo , come rilevato da Rago e anche sulla possibilità di riallacciare i fili di un passato reciso da una perdita o dall’impellenza della vita, come ben detto da Rossella Cerniglia.
    Massimiliano Achille

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  11. E’ stata una lettura gradevole. Niente altro.

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  12. Salvatore Martino

    Carissimo Masimiliano Achille evidentemente leggiamo testi diversi perchè accomunare Cavalli a quel grande e profondissimo poeta che fu J.Donne e ancora a Giovanni Pascoli maestro anch’egli di profondità misteriose e variabilissime, ma sempre nel segno della musica totalizzante, mi appare una operazione quantomeno arbitraria ad essere cortese con entrambi lei e il “poeta” in questione. Ma lo vogliamo capire che la poesia è davvero una rarissima avis ( non mi stanco di ripeterlo) e che i giovani vanno incoraggiati non con un ipocrita plauso ma con una crudele stroncatura, che forse li farà riflettere e cominciare a leggere, studiare, indagare, vivere viaggiare, andare a bottega,ascoltare il proprio dàimon, il mondo inconsio magamatico,le ferite e l’eros, il colloquio con la morte, la propria visone del mondo, e uscire dai vortici dell’ignoranza, non scrivere soltanto versi ma vivere da poeti. A leggere tutte le pubblicazioni che appaiono su questo prezioso blog sembrerebbe che l’Italia fosse davvero un paese dove prolifera la poesia e questo è una grande falsità. Continuiamo ad incoraggiare i mediocri come avviene in ogni campo nel nostro squinternato paese e ci ritroveremo altre generazioni di individui presuntuosi, modesti, narcisisticamente autoreferenziali. Una notazione , e mi dispiace, personale: in gioventù fui bastonato nella mia poesia da grandi critici e alcuni anche poeti come Libero de Libero, Ruggero jacobbi, Enrico Falqui, ma quanto mi hanno insegnato e fatto riflettere !e sono fiero di aver seguito i loro insegnamenti e le loro stroncature…forse qualcosa ho imparato. Che i giovani d’oggi abbiano un tantino di umiltà e voi che li incoraggiate un po’ più di “crudele” severità. Salvatore Martino

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  13. Gentile Linguaglossa, sono sinceramente un po’ in imbarazzo. Ora capisco meglio tutte le sue accorate raccomandazioni sul non prenderla sul personale, accettare le critiche ecc che mi avevano tanto incuriosito, è un po’ come quando si invita un ospite a casa e si teme che quello zio insano di mente inizi a straparlare contro tutti i miserabili e i mediocri del mondo, e si confida che altri attingano a tutta la pazienza e la buona educazione che possiedono per non degenerare. A dire il vero, subito ho pensato se interloquire, con la massima delicatezza, ma ho capito di essere sprovvisto dell’unico valido argomento che avrebbe fatto al caso, una mia galleria di foto ritratti, plastici e iconici, a torso nudo in parete o in vetta a una montagna. Ma provvederò, ho meditato, ho imparato la lezione e ho capito che se voglio essere un vero Poeta, con una vita da vero Poeta, con l’eros e il daimon, un inconscio abbastanza magmatico e una decina di auto pubblicazioni sullo scaffale e tutto il necessaire per barba e capelli, certi sacrifici vanno fatti. Ecco, un confronto sulla polarità che da sempre esiste in poesia, tra quella eminentemente egoica, che è innegabile e ha prodotto anche innegabili capolavori, e quella che tenta (inutilmente?) di allontanare il linguaggio dall’io, di spogliarsi da ogni esibizionismo con il rischio di apparire talvolta piana e misurata, controllata, alla ricerca della forma del linguaggio che è cosa molto diversa dall’esteriorità delle parole (e in questa differenza sta anche il lungo e intenso rapporto, in poesia, tra significato e sintassi, gentilmente adombrato dallo zio nell’affermazione “questa non è poesia è prosa sciatta!”, che mille e mille volte nella tradizione non si è tradotto in un sistematico stravolgimento di quella), ecco forse questo sarebbe stato un confronto interessante, anche da posizioni molto distanti. Ma purtroppo, mi spiace constatarlo, questo non si è rivelato un luogo idoneo. Come si dice in questi casi, si è fatto tardi! La lascio ai suoi amabili amici.

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    • Credo che miglior complimento ai commentatori di questo blog, me compreso, non potesse fare. Nel frattempo si attrezzi per il book fotografico, inizi magari a depilarsi il petto. Ai giovani piacciono glabri. un saluto.

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    • Caro Guido Cavalli, un autore che non sa accettare le critiche dimostra di non essere un autore maturo. Le ripeto: il blog è libero e ciascuno deve sentirsi libero di esprimere il proprio parere. Queste sono le regole del gioco. O meglio, queste sono le regole della rivista telematica, chi invia i propri testi le deve accettare a monte, altrimenti fa bene a non inviare i testi che, come dice la parola, vivono nella testualità, nella intertestualità e nel confronto con i lettori.

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      • Ma sarei stato davvero molto contento di confrontarmi con chi ha mosso critiche anche dure ma argomentate e non offensive – e qualcuno ci ha provato ed è stato subito redarguito. Sono ben consapevole dei miei immensi limiti e credevo appunto che la pubblicazione su blog come questo potesse essere occasione di confronto e crescita. Ma, come anche altri hanno fatto notare, gli interventi che hanno catalizzato il dibattito non contenevano critiche, liquidavano sprezzantemente quello che scrivo come non poesia, inutile ingombro in un mare di spazzatura, e con toni arroganti. Sbaglio? So bene che sui cosiddetti social questo livore è consueto, e la percezione della realtà e del senso del ridicolo sono labili. Tuttavia, rimane il fatto che la maturità che lei richiede è qui solamente la pazienza o la rassegnazione dell’aver a che fare con persone insolenti. Qui l’umiltà è letteralmente abbassare le orecchie davanti a chi abbaia più forte. Non capisco davvero perché dovrei accettare una cosa del genere. E credo sia corretto (forse utile?) da parte mia segnalare la distorsione delle cose che percepisco. Mi creda, cerco di farlo con la maggiore oggettività di cui sono capace. Ma sinceramente non mi è mai capitato nulla del genere e sono curioso di capire fin dove arriva questa strana dinamica in cui si sceglie di pubblicare un autore, altri autori a loro volta pubblicati sul medesimo blog si scatenano in una offensiva denigratoria e il primo viene anche ammonito se osa ribattere…

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  14. Salvatore Martino

    Carissimo Cavalli le sue rimostranze alle critiche salite nel bog dimostra, come suggerisce Linguaglossa, la sua totale mancanza di umiltà nell’accettare le ssuddette critiche che guarda caso provengono da persone che hanno una grande dimestichezza con la poesia e una lunga produzione peraltro tutt’altro che pagata, come lei cortesemente afferma. Un Condsiglio trattenga per sè le sue iconografie fotografiche penso che non aggiungerebbero nulla ai suoi modesti versi. LA VICINANZA O L’ALLONTANAMENTO DALL’IO NON COSTITUISCE DI PER Sè UNA DISCRIMINANTE TRA POESIA E NON POESIA: LIRICA, EPICA, POEME EN PROSE, LA POESIA PUò ESSERE TUTTO QUESTO E IN EGUAL MISURA ESSERE VALIDA O NON. Il suo discorso poetico, almeno da quel che appare dalle poesie qui pubblicate, è di una monotonia sconcertante, oltre che con un linguaggio desueto , e tanto più grave perchè nel suo caso trattasi di “poeta” molto giovane. e infine a chi dovrebbero essere dirette le sue immagini a torso nudo? Pensa davvero che qualcuno apprezzerebbe o ne sarebbe turbato? E l’insulto di zio insano di mente lo riservi a qualche suo familiare o mentore. Umiltà mio caro, umiltà. controllo allo specchio, e un po’ più di educazione e di rispetto. Mi spiace che Linguaglossa non abbia stigmatizzato abbastanza le sue offensive parole…forse non ha letto bene tra le righe e non. Salvatore Martino

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  15. Caro Guido Cavalli,
    io credo che lei deve essere molto soddisfatto delle numerose critiche positive che la sua poesia ha riscosso, da parte di poeti che hanno una lunghissima frequentazione della poesia moderna. E poi credo che la mia presentazione positiva, come redattore coordinatore della rivista che ha la responsabilità della sezione di critica, abbia un peso non trascurabile; ci sono stati autorevoli commenti positivi (Gino Rago, Rossella Cerniglia, Achille Chiappetti); che poi ci siano stati commenti non favorevoli (Salvatore Martino, Antonio Sagredo, Flavio Almerighi), anche questo rientra nell’ordine NATURALE delle cose, non si può piacere a tutti. Per essere esatti, le dico che quasi tutti i poeti presentati nella Rivista hanno riscosso critiche anche virulente, ma mai oltraggiose o offensive… questo fa parte delle regole del confronto dialettico, ed è bene che un confronto dialettico ci sia in un luogo pubblico di livello. Anche le mie poesie, quando le ho pubblicate sul blog, hanno riscosso pareri non favorevoli. E con questo? Io sono stato onorato cmq delle attenzioni ricevute, in un senso e nell’altro. Anche le poesie di Gezim Hajdari (che è un autore di livello europeo) hanno subito critiche. ed è giusto che sia così, purché le critiche vengano espresse in buona fede, diciamo e senza livori personali.

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    • Grazie. Naturalmente ho apprezzato i complimenti e soprattutto fatto tesoro di tutte le critiche, persino, mi creda, quelle che ho colto tra le righe dell’invettiva di Martino e che, come ho cercato di dire, alludevano a una questione non priva di interesse. Ma ho dovuto stigmatizzarne l’arroganza. Punto. Mi spiace perché questo ha occupato lo spazio che mi era stato concesso sul suo blog. Cerchiamo (faticosamente) di insegnare ai nostri figli che l’online non è una dimensione in cui si possa derogare al rispetto per le persone. Ma bisogna essere coerenti.

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  16. Caro Guido Cavalli,

    in effetti, molto spesso chi fa una critica, molto spesso si limita ad esprimere il proprio gusto in modo telegrafico e, spesso, in modo così conciso che il giudizio sembra dettato da una pulsione dettata dalla immediatezza. E questo non è bene perché così si rischia di fare di tutto un pacco e mettere nella valigia delle deiezioni anche le poesie di Milosz (come qui qualcuno ha fatto). Che dire? Antonio Sagredo ha impallinato le poesie di Marianne Moore e di Brodskij. Altri non si sono neanche degnati di rispondere alle critiche rivolte loro. Ognuno si comporta come crede meglio… Altri mi hanno tolto il saluto perché si aspettavano una mia difesa d’ufficio, insomma, la casistica è varia e fa falklore. Tutti noi abbiamo delle idiosincrasie, io ho le mie, lo ammetto, e non sempre sono lucido, la precipitazione poi mi fa spesso annuvolare le idee… Ma parliamo d’altro, per esempio mi piacerebbe sapere la sua opinione sulla poesia di Sanguineti e, in particolare, su quella di Laborintus. Lei è un autore giovane che sicuramente avrà letto Laborintus.

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    • Massimiliano Achille

      Caro Linguaglossa,
      Desideravo rispondere a Cavalli da quando – nell’evidenziare il dispiacere per il fatto che il blog fosse stato guastato da interventi privi di contenuto – egli ha parlato, con evidente riferimento al suo lavoro, “della poesia che tenta (inutilmente?) di allontanare il linguaggio dall’io, di spogliarsi da ogni esibizionismo con il rischio di apparire talvolta piana e misurata, controllata”.
      Sono termini ben scelti perché allontanare il linguaggio dall’io e spogliarsi da ogni esibizionismo sono capisaldi che distinguono ciò che è poesia da ciò che non lo è. Parlare lontano dall’Io per passare al Comune a tutti, fino a poter arrivare all’Universale e togliere di mezzo la propria ingombrante presenza d’uomo sono due condizioni ineludibili.
      L’io nella sua essenza deve, invece, essere sempre presente, perché senza di esso i versi restano senz’anima, senza sangue, senza pathos. Il poeta è lo strumento che, attraverso la propria peculiare sensibilità, riconduce fatti, sentimenti, eventi e persino semplici cose, su di un piano superiore e diverso, rendendoli poesia, ossia comunicazione di sensazioni dell’animo umano.
      Nel lavoro di Cavalli, l’Io è ben presente e il suo allontanamento meramente formale costituisce una buona qualità del suo linguaggio poetico.
      Ricorderai che ho distinto, tra le poche sue composizioni che leggevo nel tuo blog, due ordini di componimenti.
      I primi, quelli nei quali Cavalli ci trasporta nel mondo rarefatto della natura, con immagini realistiche e piene di godibilità, “sensuosità”, un senso dell’animo umano evidenziato da Donne (subendo, solo per questo, richiamo un inconsulto attacco). Il pregio di quella poesia è la capacità di invitarci con forza a risentire il mondo della natura, come un ritorno bucolico (N.B. per i super critici: mi guardo dal richiamare Virgilio), senza rimpianti e solo con la lieve malinconia per la vicenda del ritiro dell’uomo, perché tale mondo è ben presente e ancora godibile da tutti.
      Sono poesie piane, misurate e serene che possono aiutare ad astrarci un attimo dal mondo viziato e disumanizzato in cui viviamo.
      In esse l’Io sembrerebbe del tutto assente. Eppure non è così: esso è soffuso nell’intero testo. Questo è permeato dal modo di sentire del poeta riportato da parole che ne traggono la forza di suggestione che altrimenti non avrebbero.
      Nel secondo gruppo di componimenti, la descrizione della natura diviene occasione per la manifestazione di sentimenti più propri dell’autore: il senso di perdita, il peso del passare del tempo, suoi fatti personali. L’Io è più presente, anche se l’allontanamento formale lo rende ancora evanescente. Si tratta di significati aggiuntivi che danno peso al discorso e lo arricchiscono. Qui la Con-partecipazione è più approfondita.
      Si vede come il variare dell’allontanamento del linguaggio dell’Io può incidere sulla comunicazione poetica, rendendola suadente e più o meno in grado di coinvolgere e in forme diverse la sensibilità del lettore.
      Massimiliano Achille

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      • Sì, la questione è questa. La differenza tra parole e linguaggio, a mio modo di vedere, è come una soglia, che è possibile attraversare in due direzioni diverse. Da una parte lasciandosi alle spalle il linguaggio e ricoprendolo, nascondendolo dietro l’esteriorità delle parole, dall’altra cercando di attraversare le parole alla ricerca del linguaggio che rimane non detto tra quelle. L’io è sempre il punto d’ingresso in questo territorio da attraversare, in questo paesaggio, e dunque le prime cose che abbiamo da dire sono sempre quelle prossime a questo punto d’ingresso, siamo noi, la nostra biografia, la nostra esperienza ovvero la scuola della nostra esposizione all’estraneità, ma poi bisogna cercare di allontanarsi davvero, di fare dell’io una provenienza, non una destinazione. Quel tentativo di scendere verso la “prosa” che aizzava Martino – che a sua volta ha aizzato me in una risposta scomposta, me ne scuso –, è il tentativo, nelle mie poesie, di allontanarsi dall’esibizione di gesti ritmici esasperati, scarti, spigoli, di una sintassi artificiosa, ovvero esattamente di avvicinarsi alla forma del dire del linguaggio, di lasciar dire al linguaggio, come una corrente che cerca la sua linea se non è contenuta e imbrigliata dentro argini artefatti. Al contrario, a mio modo di vedere c’è una poesia, che si vorrebbe “attuale”, non priva talvolta di un suo fascino estemporaneo, che indulge in questo: fare delle parole una superficie rugosa, una crosta, e del gesto poetico proprio l’affastellare gesti verbali che segnato, graffiano, incidono questa superficie e finiscono per evidenziare e esasperare appunto questa superficie e nascondere ciò che dietro le parole è possibile vedere, se le parole cercano di farsi chiarezza, intelligibilità, cercano la forma del dire. L’effetto esasperante di questa poesia è, in me, proprio l’impossibilità di dimenticare le parole che continuamente e infantilmente continuano a richiamare l’attenzione, e finalmente ascoltare ciò che hanno da dire. Certo questo impone il coraggio di verificare duramente l’urgenza e la necessità di ciò che si ha da dire, una verifica che spesso si preferisce evitare, approfittando proprio di quello scarto tra parole e linguaggio di cui è molto facile farsi scudo e in cui è altrettanto facile trattenere il lettore. Ma le forme della poesia non devono essere l’arbitrio di chi scompone o impone, ma un ritrovamento. Allora emerge una semplicità che è il profilo netto del linguaggio toccato, disegnato dalle parole, come una cosa che emerge dal fondo e definisce un contorno, un avvenimento. Per questo il superamento della tradizione è sempre illusorio. Se chi introduce elementi di novità, lo ha fatto in un confronto vivo con le forme che il linguaggio ha assunto nel tempo, anche le cose “novissime” si faranno tradizione, ovvero rimarranno. Altrimenti diventano in breve tra le cose più vecchie e ci siano, perché inutili e arbitrarie, scivolando nella mera storiografia com’è già stato per tanta poesia “contemporanea”. La tradizione è proprio ciò che ha la forza di rimanere, dove il tempo ha smussato, si è rivelato inessenziale alla forma del dire, che anzi sembra nella distanza trasparire con forza ancora maggiore. Vedete come la poesia, se affronta e vince la prova del tempo, scioglie sempre ogni finto ermetismo? E l’evocazione diventa ancora più perfetta quando riesce, appunto, a chiamare fuori qualcosa di nascosto, non lasciarlo nascosto, ma convincerlo a mostrarsi. Quando infine nulla si mostra e tutto resta nell’impreciso, non esiste calembour o gioco di prestigio che giustifichi se stesso oltre l’effetto dell’immediato. Allo stesso modo deve dirsi dei “contenuti” della poesia. Se quel graffio della superficie è stato oltre che la forma, anche il contenuto della poesia novecentesca, perché in esso il soggetto moderno ha voluto mostrare tutta l’esasperazione ma anche la finitezza della propria condizione, bene, il novecento è finito. I balbettii, i rantoli, le angosce del soggetto sono ormai oltre il cono di luce del linguaggio. La soggettività novecentesca è ormai una comparsa che rischia il ridicolo, se non cerca di capire chi abbia preso al suo posto la parola. La natura, che non è certo quella arcadica o ecologica, è solo l’ultima parola che è rimasta a nominare ciò che ritorna. Non solo nei “miei” territori montani, ma ovunque. È l’altro inizio – dice Heidegger – che in modo inapparente riprende ad accadere ovunque sia fallito e interrotto il nostro progetto storico. L’unica voce capace di ribattere alla tecnica quale nuova soggettività della storia. O davvero riteniamo che “attuale” sia ciò che si dice sul meridiano zero della globalità, nella sincronia totalizzante della rete? Io credo di no, questo è solo il fronte di un conflitto epocale, quello di una civiltà in lotta contro il suo passato, che ha fatto del passato il proprio nemico e del proprio rinascere da sé, senza padri e senza dei il proprio fondamento, ma il terreno sta sprofondando sotto i suoi piedi e ora arretra, con le spalle rivolte a un futuro che non vede, come l’angelo di benjaminiana memoria.

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        • Correggo: La tradizione è proprio ciò che ha la forza di rimanere, dove il tempo ha smussato ciò che si è rivelato inessenziale alla forma del dire, che anzi sembra nella distanza trasparire con forza ancora maggiore. Ecco come la poesia, se affronta e vince la prova del tempo, scioglie sempre ogni ermetismo. E anche l’allusione più oscura diventa più evocativa quando riesce, appunto, a chiamare fuori qualcosa di nascosto, non lasciarlo nascosto, ma convincerlo a mostrarsi.

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  17. Credo che Guido Cavalli con grande acume ha colto un punto nevralgico delle poetiche che in questi anni di stagnazione spirituale stanno sorgendo e sorgono dopo l’esaurirsi del Novecento. Condivido la lettura di Cavalli in riferimento a quel grande inabissamento della “tradizione del Novecento” che si sta consumando sotto i nostri occhi e che i più giovani e meno provveduti non intercettano, o intercettano, equivocandolo, come un benefico addio. Non è l’addio il punto nevralgico ma, come ha bene indicato Guido Cavalli, deve essere un addio che è un «ritrovarsi» e un ricominciare.

    Scrive Cavalli: «Da una parte lasciandosi alle spalle il linguaggio e ricoprendolo, nascondendolo dietro l’esteriorità delle parole, dall’altra cercando di attraversare le parole alla ricerca del linguaggio che rimane non detto tra quelle. L’io è sempre il punto d’ingresso in questo territorio da attraversare, in questo paesaggio, e dunque le prime cose che abbiamo da dire sono sempre quelle prossime a questo punto d’ingresso, siamo noi, la nostra biografia, la nostra esperienza ovvero la scuola della nostra esposizione all’estraneità, ma poi bisogna cercare di allontanarsi davvero, di fare dell’io una provenienza, non una destinazione».

    Bene, mi sembra che il giovane Guido Cavalli abbia le idee chiare di come proseguire, e in quale direzione. Non mi sono del tutto sbagliato quindi quando ho creduto di vedere nella sua poesia questo valore posizionale del «ritrovarsi» e del ricominciare nella continuità con una tradizione che ha già salpato per i lidi dell’oblio ma che un poeta degno di questo nome non può tollerare senza reagire, pena l’isterilimento e la paralisi della parola superficiaria, delle parole da rotocalco, si diceva una volta, delle parole della cronaca, si dice oggi.

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  18. Giuseppe Panetta

    Se la sua poesia, gentile Cavalli, rispecchiasse minimamente ciò che nel suo precedente intervento dichiara, saremmo a cospetto di un poeta di razza. Apprezzo la teoria dichiarata, ma, per mia esperienza diretta, la poesia non procede per teorie a priori. Essa è un canto slegato, liberato, anarchico (si può e si deve dire tutto, il contrario di tutto) congiunto a un essenziale studio critico della tradizione, per trovare la propria voce.
    Io le auguro di trovare la sua voce.

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