Sotto le iniziali M. B. si cela il grande amore di tutta la vita di Brodskij, la Musa indiscussa a cui il poeta dedicò nel corso degli anni numerosissimi versi: Marina Basmanova. Così la descriveva, un po’ severa, Anna Achmatova: “Sottile, intelligente e com’è bella! E neanche un filo di trucco! Solo acqua fredda”. Ed effettivamente c’era in questa ragazza qualcosa di misterioso e grande.
Era nata e cresciuta a Leningrado. Suo padre era un artista famoso, allievo di Petrov-Vodkin. Trasmise quasi in eredità alla figlia l’amore per la pittura. Quando Marina, ancora una illustratrice all’inizio del suo percorso, andava all’Ermitage per immergersi nel lavoro dei grandi maestri, attirava involontariamente l’attenzione di molti visitatori. Alta e snella, con la fronte ampia, capelli marrone scuro lunghi fino alle spalle, sembrava uscita da un quadro del Rinascimento.
Il tuo ricciolo non si arrotola nell’anello
(e non si trovano dita per questo)
nel tentativo di delineare il viso
come prima lo delineava la ciocca.
(J. B.)
Non le mancavano gli ammiratori ma lei non aveva fretta di rinunciare alla sua libertà. Secondo la testimonianza degli amici che la conoscevano bene, la Basmanova si distingueva dalle sue coetanee anche per un altro aspetto: l’amore per tutto ciò che era misterioso ed enigmatico. Aveva inventato un suo linguaggio cifrato per tenere un diario e sulla parete della sua stanza era tracciato sempre in codice un inusuale motto: “Essere, non sembrare”. Perché scelse proprio lui, non lo sa nessuno. Passano gli anni e una degli amici intimi di Brodskij, la scrittrice Ljudmila Stern, nel suo libro “Brodskij: Osja, Josif, Joseph” così ricorderà la Basmanova: “Sembrava molto timida. Non brillava per acutezza e non partecipava alle punzecchiature verbali quando ci sfottevamo reciprocamente. A volte se ne stava per tutta la sera senza aprire bocca”.
Brodskij e Marina si incontrarono per la prima volta il 2 marzo del 1962 ad una festicciola a casa del futuro famoso compositore Boris Tishchenko. Il poeta aveva 22 anni e Marina due di più. Da quel giorno non si separarono più. Lui le leggeva i suoi ultimi versi, Marina lo iniziava alla pittura e lo portava per musei e mostre. Gli amici ritenevano concordi che presto si sarebbero stufati l’uno dell’altro: l’irriverente, sofferente Brodskij e la tranquilla, giudiziosa Marina. Fuoco e acqua. Luna e sole. Marina amava Brodskij col suo stesso ardore? E’ difficile dirlo… Di certo lui la idolatrava!
Io ero soltanto ciò
che tu sfioravi col palmo della mano,
su cui nella sorda, scura
notte chinavi la fronte.
(J. B.)
Ma già allora non tutto era rosa e fiori. Né il padre della Basmanova né i genitori di lui vedevano di buon occhio la loro relazione. E, cosa fondamentale, la stessa Marina non voleva sposarsi. I due litigavano spesso e di continuo “si lasciavano per sempre”. In seguito a questi screzi Brodskij cadeva in una profonda depressione. Spesso andava a casa degli Stern pallido come una mummia, con fresche bende insanguinate ai polsi, in silenzio fumava in cucina una sigaretta dopo l’altra. Ljudmila temeva che l’amico potesse davvero prima o poi farsi seriamente del male. Perciò, quando per l’ennesima volta si presentò da loro con le mani bendate, Victor Stern gli disse a bruciapelo: “Ascolta, Osja, smettila… così spaventi la gente. Se un giorno decidi davvero di farla finita, chiedimi di spiegarti come si fa”. Brodskij accettò il consiglio, non li “spaventò” più ma le cose non andarono meglio.
In questa storia non mancò un banale triangolo amoroso. All’inizio degli anni ’60, Brodskij aveva stretto una solida amicizia con Anatolij Najman, Evghenij Rejn e Dmitrij Bobiscev: facevano tutti parte del gruppo di poeti vicini ad Anna Achmatova la quale, tuttavia, stimava Brodskij più degli altri e gli aveva predetto una grande gloria poetica. Per questo, quando alla vigilia del nuovo anno 1964 Brodskij riuscì a sfuggire alla polizia, temendo di essere arrestato per parassitismo, chiese a Bobiscev di prendersi cura di Marina. Lui la portò da alcuni suoi amici in una dacia a Selonogorsk e la presentò come “la fidanzata di Brodskij”. Tutta la compagnia la accolse festosamente ma, siccome la timida Marina sedette tutta la sera in silenzio, presto si dimenticarono di lei. Cosa successe dopo nessuno lo sa: forse sofferente per l’indifferenza dei presenti o perché da tempo nutriva un interesse per il bel Bobiscev, fatto sta che la silenziosa Marina passò la notte con lui. Agli amici che lo rimprovereranno di aver tradito la fiducia di Brodskij, Bobiscev replicò di non ritenersi affatto colpevole asserendo che Marina era andata da lui e non viceversa e che alla sua domanda se non era la fidanzata di Brodskij, lei aveva risposto alterata: “Io non mi considero la sua fidanzata e quello che pensa lui, sono affari suoi”…
Che peccato che ciò che fu per me
la tua esistenza, non fu per te la mia esistenza.
(J. B.)
Quando giunsero a Brodskij le voci del tradimento di Marina, si precipitò a Leningrado, disgustato da tutto. Passeranno gli anni e ricorderà così tutto ciò: “Non me ne importava niente se mi sbattevano in galera o no. E tutto il processo successivo era una sciocchezza a confronto di quello che era accaduto con Marina…”.
Direttamente dalla stazione piombò da Bobiscev, ci fu tra i due una dolorosa spiegazione che li rese nemici per tutta la vita. Quindi andò da Marina ma lei nemmeno gli aprì la porta. Dopo qualche giorno Brodskij fu arrestato direttamente in strada e rinchiuso in un ospedale psichiatrico; ne seguì il famoso processo al termine del quale fu mandato a scontare una pena di tre anni nella regione di Archangelsk. In seguito, quando già viveva in America, raccontò senza remore alla Stern che: “Tutto ciò era per me meno importante della storia con Marina. Tutte le mie forze interiori se ne erano andate per riappacificarmi con questa infelicità”.
Addio, cara. Togliti l’anello, abbonati ad una rivista di moda.
E puoi sputare in faccia a chi prenderà il mio posto.
(J. B.)
Nel villaggio di Norenskaja Brodskij scrive alcuni tra i suoi versi migliori di nuovo grazie a Marina che lo raggiunse lì e vi rimase a lungo. Lui era pronto a perdonarle tutto purché non finisse la loro favola e stessero ancora insieme. Ma… arrivò Bobiscev e la Basmanova se ne andò con lui. Ma poi tornò. E così per diverse volte. Brodskij soffriva, vagava per la casa vuota ma non poteva cambiare nulla: non si sceglie l’amore, come la patria e i genitori. Tra questi incontri e addii nel 1968 nacque il loro figlio Andrej al quale fu dato solo il cognome della madre forse per evitargli il complesso destino di altri figli famosi, quali il figlio dell’Achmatova e Gumilev e il figlio della Cvetaeva. Il poeta sperava che ora Marina si decidesse ad ufficializzare la loro unione ma Marina rifiutò anche questa volta e nemmeno la notizia dell’espulsione del poeta dall’URSS le fece cambiare idea. Nonostante le sue speranze Brodskij se ne andò da solo.
In seguito Marina mise fine anche alla storia con Bobiscev, preferendo crescere da sola il figlio.
La ferita bruciò ancora a lungo: come per vendicarsi del tradimento, Brodskij si trasformò in un cinico che non credeva più nell’amore e cambiava donne come fossero guanti, asserendo più volte che non poteva vivere sotto lo stesso tetto se non col suo amatissimo gatto Mississipi. Ma continuò a scrivere versi dedicati a M.B. Una volta, in risposta ad un invito a tornare a Leningrado, rispose con amarezza: “No, non si torna sul luogo dell’amore!”
Tuttavia tutto cambiò quando nella vita di Brodskij apparve una giovane studentessa italiana di madre russa di trent’anni più giovane e straordinariamente somigliante a Marina, Maria Sozzani: nel 1991 si sposarono e dopo un anno nacque la loro unica figlia che chiamarono Anna in onore di Anna Achmatova. Gli anni passati con la giovane moglie furono felici e dall’inizio degli anni ’90 Brodskij non dedicherà più versi alla Basmanova.
Ma nel 1989 aveva scritto una poesia nella quale questa volta si era rivolto a lei con parole ironiche e sprezzanti:
…. Un quarto di secolo fa nutrivi una gran passione per il kebab e i datteri,
disegnavi a china sul block notes, cantavi un po’,
ti divertivi con me; ma poi ti sei messa con un ingegnere-chimico
e, a giudicare dalle lettere, sei diventata straordinariamente stupida…
Quando Ljudmila Stern lesse questi versi, gli scrisse una lettera furente: “Joseph, perdonami o detestami ma non posso tacere. Cosa hai annunciato al mondo con questa poesia? Che, alla fine, hai smesso di amare M.B. e ti sei liberato dopo un quarto di secolo del suo incantesimo? Che sei guarito dalla “malattia cronica?” Ed in onore di questo avvenimento l’hai colpita nel plesso solare? A che scopo l’indipendente “libero figlio dell’etere” sputa attraverso l’oceano in faccia alla donna che ha amato ‘più degli angeli e di Sé Stesso’?”
Brodskij non rispose ma poco prima della morte, chissà perché, dedicò a Marina Basmanova tutti i componimenti scritti nel corso della sua vita per diverse donne. Riunendoli nel libro Nuove stanze per Augusta, scrisse semplicemente e laconicamente: “Questa è una raccolta di versi di una ventina d’anni che hanno più o meno un solo destinatario. In una certa misura è la cosa principale della mia vita”.
Marina Basmanova continua a vivere a San Pietroburgo…e continua a tacere: non ha scritto memorie, rifugge dai giornalisti, non si è mai lamentata, non ha mai commentato i suoi rapporti con Brodskij, non si trovano sue foto. Non ha mai nemmeno visitato la Casa-Museo allestita in quella “stanza e mezzo” sulla via Pestelja, che dà il nome al famoso saggio che Brodskjj dedicò alla memoria dei suoi genitori che, com’è noto, non vide più dal giorno della sua partenza né vivi né morti. D’altronde lei, Marina, in quella casa non ci aveva mai messo piede.
Tra le poesie qui presentate riteniamo che “Anno Domini”, scritta presumibilmente nel gennaio del 1968 (lo stesso anno di nascita del figlio), meriti una particolare attenzione.
Sebbene il titolo ripeta quasi letteralmente quello del libro dell’Achmatova “Anno Domini MXMXXI”, Brodskij sottolineò più volte che il “suo” Anno Domini non aveva alcuna attinenza con l’opera della grande poetessa.
Si tratta della prima composizione in cui Brodskij codifica la vita personale e l’attività artistica in immagini che richiamano un convenzionale “Impero Romano”. Ciò si spiega con la passione che egli nutriva in quel periodo per l’antichità, per il mondo latino e i suoi poeti lirici. Seguiranno Post aetatem nostram, il ciclo Lettere ad un amico romano, il lavoro teatrale Marmo, pubblicato nel 1984.
Non si può non sottolineare che l’avvenimento chiave dell’anno precedente era stato la pubblicazione del Maestro e Margherita di Bulgakov. Inizialmente Brodskij aveva avuto un atteggiamento critico nei confronti del romanzo ma, successivamente, ammise che gli avvenimenti salienti della prosa russa degli anni ’60 erano stati la riscoperta di Bulgakov e la pubblicazione del Dottor Zivago di Pasternak.
Se la descrizione del vecchio governatore, insonne e malato, rimanda alle pagine dedicate da Bulgakov a Ponzio Pilato, secondo la professoressa polacca Szymak-Peiforova (traduttrice e profonda conoscitrice dell’opera di Brodskij) la figura del misterioso scrittore, raffigurato in Anno Domini, “… potrebbe essergli stata suggerita dal passo in cui Pilato invita Levi Matteo ad entrare al suo servizio e diventare il custode della sua biblioteca. Tutta la composizione viene, così, ad essere una riflessione su una ipotetica collaborazione dello scrittore col potere, sulla responsabilità dell’artista, una variante del comportamento dello scrittore successivamente vigorosamente respinta e condannata dal poeta”.

Iosif brodskij a Venezia
INDOVINELLO PER L’ANGELO
a M.B.*
Il mondo delle coltri è rovinato dal sonno.
Ma nello sguardo teso di qualcuno
si profila nel crepuscolo notturno
il mare tagliato dalla finestra.
Due barche mettono a nudo il fondo
facendo un tutt’uno con un paio di scarpe.
La coperta rigonfia e le onde richiamano
la doppia tessera del domino.
Stretta al cuscino, la mano
scivola lungo i fusti perpendicolari
irrompendo in queste nuvole
col suo gesto sgrammaticato.
La calza sfilata sulla pietra,
ricurva nel buio come un cigno
a mo’ di svasatura guarda il soffitto
come fosse una rete annerita.
Due mari con l’aiuto di una parete,
con l’aiuto di un pensiero incerto
qui in qualche modo così divisi
che le reti da pesca nel buio pendono
vuote in questa profondità
ma aspettano tuttavia di venire a galla
grazie al filo che, unendole entrambe,
passa attraverso la croce della finestra.
Gialla, una stella riluce sull’onda,
si profilano le barche immobili.
Solo la croce ruota alla finestra
simile ad un semplice argano.
Verso la superficie da due vuoti
due reti risalgono
sperando: la croce le sposterà
e le lascerà andare in un altro posto.
C‘è così tanto silenzio che non si sentono parole,
che ad una finestra vuota pare
che la speranza di un ricco bottino
sia più forte dell’immobilità della casa.
Ed ecco nel buio della notte
alla finestra col suo chiar di luna
due orticelli sembrano un’onda
e il cespuglio di fronte al portico – un’onda schiumosa.
Ma la casa è immobile e il recinto
nell’oscurità si tuffa a mo’ di galleggiante
e un’ascia piantata nel portico
da sola fa la guardia ai tronchi affondati.
L’orologio stride. In lontananza
soffoca con un brontolio il motoscafo,
come schiaccia ostriche nella sabbia
con il piede un incorporeo osservatore.
Due occhi trasudano un grido.
Solo le palpebre, emettendo un fruscio,
nel buio li proteggono
come fossero ante.
Per quanto tempo affogare questo dolore,
travolgere con la parola a motore,
per concederle che come vaiolo si diffonda
sul caldo biancore dell’avambraccio?
Per quanto tempo? Fino al mattino? Poco probabile.
E il vento fruscia nel tentativo
di togliere il velo di gelsomino
dal volto aperto del cancelletto.
La rete è stata scelta, nei cespugli l’upupa
con un fischio anticipa il furto.
E in silenzio si blocca colui
che vaga nel buio sulla spiaggia.
(1962)
* su questa poesia compare per la prima volta la dedica “a M. B.”
a M. B.
Ho abbracciato queste spalle e sbirciato
quello che accadeva dietro la schiena
e vidi che la sedia spostata in avanti
era diventata un tutt’uno con la parete illuminata.
C’era nella lampadina una incandescenza intensificata,
sfavorevole per il logoro mobilio
e perciò il divano all’angolo scintillava
di pelle marrone come fosse gialla.
Il tavolo era vuoto. Il parquet luccicava.
La stufa era scura. Nella cornice impolverata
si è congelato il paesaggio. E soltanto la credenza
mi sembrava allora animata.
Ma una falena girava per la stanza
e deviò il mio sguardo dalla immobilità.
Se un tempo ha vissuto qui un fantasma
allora ha abbandonato questa stanza.
(Komarovo, 2 febbraio 1962)
a M. B.
Lo sai, al calar dell’oscurità
cerco di stimare ad occhio,
calcolando il dolore su una linea retta,
lo spazio che ci separa.
E in qualche modo i numeri si sommano alle parole,
da dove si avvicinano a te
la confusione che parte dalla A,
la speranza che parte dalla B.
Due viaggiatori, stringendo ciascuno una torcia,
si muovono contemporaneamente nell’oscurità,
moltiplicando all’alba la separazione,
senza essersi neanche incontrati nella mente.
(31/5/1964)
a M.B.
Dando ascolto a voci minacciose,
i mei versi, rimasti indietro al tempo della traversata
del Giordano, vagano per i boschi,
sganciati dal ricordo e dalla realtà.
I loro suoni si bloccano (come anche io)
a metà strada tra la morte e la gloria
(nel mio petto) d’ora in avanti senza il diritto
di fidarsi come prima dei miracoli.
Ma un po’ sordamente, boriosamente,
ogni strofa, senti, ringrazia
te perché non è morta,
perché i sogni, che ti hanno circondata con un muro,
ora infuriano alle mie spalle
e inghiottono la cavalleria d’Egitto.
(agosto-settembre 1964, Norenskaja)
PROFEZIA
a M. B.
Io e te vivremo in riva del mare,
separati dal continente da una diga
altissima, in un piccolo cerchio,
costruito da una lampada artigianale.
Noi due ci faremo la guerra giocando a carte,
ascolteremo come la risacca fa follie,
tossiremo appena, respirando impercettibilmente,
di fronte ai troppo forti aliti del vento.
Io sarò vecchio, tu invece – tu giovane.
Ma succederà così, come insegnano i pionieri,*
che il conto sarà fatto in giorni – non in anni –
rimasti a noi fino alla nuova era.
Nella nostra Olanda, al contrario,
noi due coltiveremo un orto
e friggeremo ostriche fuori della porta
e mangeremo del polpo assolato.
Lascia che rumoreggi la pioggia sui cetrioli,
tu ed io ci abbronzeremo come eschimesi
e con tenerezza tu farai scorrere il dito
lungo la virginea, intoccata striscia.
Ed io guarderò nello specchio la clavicola
e noterò un’onda alle spalle.
Ed il vecchio geiger nella cornice di stagno
sulla cinghia sbiadita e pregna di sudore.
Verrà l’inverno, torcendo senza pietà
il falasco del nostro tetto di legno.
E se faremo un bambino
lo chiameremo Andrej o Anna**
affinché, stampato su una faccetta grinzosa,
non sia dimenticato l’alfabeto russo
il cui primo suono si allungherà dall’espirazione
e, quindi, si affermerà nel futuro.
Ci faremo la guerra giocando a carte ed ecco
la sinuosità della risacca
ci allontanerà dalla costa assieme alle briscole.
E nostro figlio in silenzio
guarderà, senza capire nulla,
come la falena sbatte sulla lampada
quando arriverà per lui il momento
di uscire fuori scavalcando la diga.
(1 maggio 1965)
*il ritornello di una famosa canzone dei pionieri diceva: ”si avvicina l’era//degli anni luminosi”.
** come detto, i figli di B. si chiamano Andrej e Anna.
SEI ANNI DOPO
a M. B.
Abbiamo vissuto così a lungo insieme che di nuovo
il due gennaio è capitato di martedì,
che il sopracciglio sollevato con sorpresa,
come dal vetro di un’automobile – un tergicristallo,
scacciava dal viso una torbida tristezza
lasciando limpida la lontananza.
Abbiamo vissuto così a lungo insieme che la neve
se cadeva, avremmo pensato – che era per sempre,
che, per non farle socchiudere le palpebre,
io le proteggevo col palmo e le palpebre,
non credendo che provavo a salvarle,
si agitavano lì come farfalle nella mano.
Eravamo così estranei ad ogni novità
che gli stretti abbracci nel sonno
disonoravano qualunque psicoanalisi;
che le labbra, che sfioravano la spalla,
con le mie, che soffiavano sulla candela,
senza vedere nient’altro, si univano.
Abbiamo vissuto così a lungo insieme che la famiglia
di rose sulla logora carta da parati
fu sostituita da un intero boschetto di betulle
e tutti e due avevamo adesso soldi
e per trenta giorni al mare, con le sue lingue,
il tramonto minacciò come un incendio di Turchia.
Abbiamo vissuto così a lungo insieme senza libri,
senza mobili, senza utensili, sul vecchio
divanetto che – prima di diventare tale –
il triangolo* era la perpendicolare,
messa dagli amici in posizione eretta
su due punti uniti.
Ho vissuto così a lungo con lei
che dalle nostre proprie ombre ci costruimmo
una porta – forse lavoravi, forse dormivi
ma i battenti non si aprivano separatamente
e noi, evidentemente, ci passammo attraverso
e dalla porta di servizio uscimmo nel futuro.
(1968)
* chiara allusione al loro triangolo amoroso.
ANNO DOMINI
a M.B.
La provincia festeggia il Natale.
Il palazzo del Governatore è coperto di vischio,
e le torce fumano all’ingresso.
Nei vicoli – ressa e monellerie.
Allegro, festoso, sporco, impazzito,
il popolo si accalca dietro il palazzo.
Il governatore è malato. Sdraiato nel letto,
coperto da uno scialle preso ad Alcasar
dove ha servito, riflette sulla
moglie e sul suo segretario
che di sotto accolgono gli ospiti nella sala.
Non è per niente geloso. Per lui
adesso è più importante rinchiudersi nel guscio
delle malattie, dei sogni, del rinvio del trasferimento
nella madre patria. Siccome
sa che per la festa alla folla
non è assolutamente necessaria la libertà,
per la stessa ragione anche alla moglie
permette di tradirlo. A cosa avrebbe
da pensare quando non lo assalissero
la nostalgia, le convulsioni? Se amasse?
Rabbrividendo senza volere
respinge i pensieri spaventosi.
… Il divertimento in sala va scemando
ma si prolunga ancora. Completamente sbronzi
I capi tribù con occhi di vetro
guardano una lontananza dove un nemico non c’è.
I loro denti, che esprimono la loro rabbia,
come una ruota schiacciata dai freni,
si bloccano in un sorriso e un servo
aggiunge loro del cibo. Nel sonno
un mercante grida. Risuonano frammenti di canzoni,
la moglie del Governatore con il segretario
sgaiattolano nel giardino. E sulla parete
l’aquila imperiale, che ha cavato a beccate
il fegato del governatore, guarda con occhi di pipistrello.
Ed io, lo scrittore che ha visto il mondo,
che ha attraversato su un asino l’Equatore,
guardo nella finestra le colline addormentate
e rifletto sulla somiglianza dei nostri guai:
l’Imperatore non vuole vedere lui,
mio figlio e Cynthia* – me. E noi,
noi qui spariremo. La superbia
non eleverà a prova l’amaro destino
che ci siamo allontanati dall’immagine del Creatore.
Nella bara saremo tutti uguali.
Cerchiamo almeno di essere diversi nella vita!
A che pro’ aspirare a fuggire dal palazzo chissà dove …
Non possiamo giudicare la patria. La spada della giustizia
affonderà nella nostra propria vergogna:
eredi e potere in mani altrui.
Che bello che non navigano le navi!
Che bello che il mare gela!
Che bello che gli uccelli nelle nuvole
siano fragili per corpi così pesanti!
Non puoi fargliene una colpa.
Ma forse a volte il nostro
peso è in proporzione alle loro voci.
Lascia che volino per questo in patria.
Lascia che urlino per questo al posto nostro.
Patria…signori sconosciuti
ospiti di Cynthia sulla culla
si inchinano come nuovi Magi.
Il bambino sonnecchia. La stella arde appena
come carbone sotto la fredda fonte battesimale.
E gli ospiti, senza sfiorare la testa,
sostituiscono il nimbo con l’aureola della menzogna
e l’Immacolata Concezione—con i pettegolezzi,
con il tropo sulla reticenza sul padre…
Il palazzo si svuota. Si spengono i piani.
Uno. Un altro. E, infine, l’ultimo.
E solo due finestre in tutto il palazzo
sono accese: la mia, dove di spalle alla torcia,
guardo come scivola il disco della luna
lungo il bosco rado e vedo – Cynthia, la neve,
il Governatore che, al di là della parete,
combatte tutta la notte in silenzio con la malattia
e attizza il fuoco per discernere il nemico.
Il nemico si ritira. La liquida luce albeggia,
appena dall’est del mondo,
si insinua nelle finestre, cercando di sbirciare
quello che avviene all’interno
e, inciampando negli avanzi del banchetto,
vacilla. Ma continua il cammino.
(1968)
* la donna amata dal poeta latino Properzio

josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo
a M.B.
Io ero soltanto ciò
che tu sfioravi col palmo della mano,
su cui nella sorda, scura
notte chinavi la fronte.
Io ero soltanto ciò
che tu, in basso, percepivi:
un’incerta fisionomia all’inizio,
molto dopo – lineamenti.
Proprio tu, appassionata,
a destra, a sinistra
il padiglione auricolare,
sussurrando, creavi per me.
Proprio tu, tirando
la tenda, nella umida cavità
della mia bocca mettesti la voce
che ti chiamava.
Io ero semplicemente cieco.
Tu, comparendo, nascondendoti,
mi donasti la vista.
Così lasciano impronte.
Così si creano i mondi.
Così, dopo averli fatti, spesso
li lasciano ruotare
elargendo doni.
Così buttiamo ora nel calore,
ora nel freddo, ora nella luce, ora nelle tenebre,
persa nell’universo
la sfera gira.
(1981)

Josif Brodskij
.
ELEGIA
a M.B.
Ancora adesso, ricordando la tua voce
mi eccito. Cosa che, tuttavia, è naturale. Poiché le corde vocali
non si possono paragonare ad un nudo muscolo, ai capelli, alle borse
sotto freddi occhi e non se le fanno sotto per il cedimento
delle cose con l’età. Preso fuori dalla carne, il suono
non si logora a causa dell’attrito
sull’aria rarefatta ma, miope, tra due mali
sceglie di solito il maggiore: la ripetizione
di quanto già detto. La testa sobria
vortica per questo fortemente a lungo nelle notti
proprio come un disco che consuma le parole,
e le dita impediscono l’un l’altra di estrarre l’ago
dalla tortuosità chiusa – come dando onore
all’ossessione in forma di scarsità del testo
a fronte dell’abbondanza della melodia. Sai, al mondo ci sono
cose, oggetti tra loro così saldamente
legati che, cercando di avere davvero
la nomea di madre ecc ecc, la natura
potrebbe fare ancora un passo e unirli
a due a due: il tum-tum del fox trot
con una gonna di crespo di seta, la mosca e lo zucchero, noi
in ultima analisi. Cioè superare in rango
i risultati di Michurin.* Il luccio già da ora ha
scaglie del colore di una lattina,
del colore di una forchetta in mano. Ma la natura, ahimè, divide
più spesso che mescolare. E riduce più spesso
che aumentare; ricorda la dimensione delle bestie
nella selva del Pleistocene. Noi siamo solo parti
di un grande insieme da cui si dipana un filo
verso noi tipo cavo del telefono, restando
dal dinosauro la semplice colonna vertebrale.
Ma non ho da chiamare
per suo mezzo da nessuna parte, eccetto come il giorno dopo,
dove risponderà solo un invalido – poiché
chi ha perduto un arto, la fidanzata, l’anima
è il prodotto dell’evoluzione. E comporre questo numero è per me
come uscire dall’acqua sull’asciutto.
(1982)
* Ivan Vladimirovic Michurin (1855-1936) agronomo, botanico e genetista russo famoso per le sue piante ibride.
a M. B.
Cara, oggi sono uscito di casa di sera tardi
a respirare l’aria fresca che spirava dall’oceano.
Il tramonto si spegneva sulla piccionaia come un ventaglio cinese
e una nuvola si alzava come il coperchio di un pianoforte da concerto.
Un quarto di secolo fa nutrivi una gran passione per il kebab e i datteri,
disegnavi a china sul block notes, canticchiavi,
ti divertivi con me; ma poi ti sei messa con un ingegnere-chimico
e, a giudicare dalle lettere, sei diventata straordinariamente stupida.
Ora ti vedono nelle chiese in provincia e nella metropoli
alle messe funebri di amici comuni, di quelle che vanno adesso in costante
successione; ed io sono felice che ci sono al mondo distanze più
inconcepibili di quella tra me e te.
Non fraintendermi: alla tua voce, al corpo, al nome
non mi lega più nulla. Nessuno li ha distrutti;
ma per dimenticare una vita ad un uomo è necessaria, come minimo,
ancora un’altra vita. Ed io ho compiuto questo destino.
Hai avuto anche tu fortuna: dove ancora, tranne forse le fotografie,
continuerai a vivere senza rughe, giovane, allegra, beffarda?
Poiché il tempo, scontratosi col ricordo, riconoscerà la sua impotenza.
Fumo nell’oscurità ed aspiro il marciume della bassa marea.
(1989)
.
“Tema di una poesia sull’amore può essere praticamente tutto quello che si vuole: i lineamenti della ragazza, un nastro tra i suoi capelli, il paesaggio dietro la sua casa, la corsa delle nuvole, il cielo stellato, un qualche oggetto inanimato. Può non avere nulla a che fare con la ragazza; può descrivere il dialogo di due o più personaggi mitologici, un mazzo di fiori avvizzito, la neve su una banchina ferroviaria. Tuttavia i lettori sapranno di leggere una poesia ispirata dall’amore grazie all’intensità dell’attenzione che si presta a questo o a quell’altro dettaglio dell’universo. Giacché l’amore è l’atteggiamento nei confronti della realtà, normalmente di qualcuno mortale, nei confronti di qualcosa di infinito. Da lì la necessità, dettata da questa intensità, dell’espressione verbale. Da lì la ricerca di una voce meno precaria della propria”.
(Brodskij, L’altra ego )
.
Grazie per queste intese poesie d’amore… Un augurio di felici vacanze a tutti gli amici e ai lettori dell’Ombra!
Giuseppe Gallo
INTERVISTA a Iosif Brodskij
Brodskij: …Quante sciocchezze ho scritto! Se in Russia avessi avuto la possibilità di pubblicare tutto quello che mi passava per la testa sarebbe stato un completo disastro. Quindi, in qualche modo, devo essere grato per tutti gli ostacoli frapposti dalla censura in patria. Meno male che esisteva la censura!
Brodskij: Ho iniziato a scrivere poesie per una semplice ragione: ti dà un’accelerazione straordinaria. Quando si scrive una poesia, vengono in mente cose che in fondo non sarebbero dovute emergere. Ecco perché ci si deve impegnare nella letteratura. L’ideale sarebbe che lo facessero tutti. È una necessità della specie, biologica, il dovere di un individuo verso se stesso, verso il suo DNA… in ogni caso, bisognerebbe parlare non tanto del dovere del poeta verso la società, quanto del dovere della società verso il poeta o lo scrittore. Ovvero, la società dovrebbe semplicemente ascoltare il poeta e cercare di imitarlo; non proprio seguirlo, ma imitarlo. Ad esempio, non ripetere ciò che è stato già detto una volta… Nei bei tempi andati era proprio così: la letteratura forniva alla società delle norme, dei modelli linguistici, e la società di adottava. Ma oggi, non si sa come, scopriamo che la letteratura si deve sottomettere alle norme imposte dalla società
Brodskij: Posso paragonare l’influenza di Auden a quella di Achmatova; lei, infatti, e soprattutto i suoi principi etici mi avevano influenzato più o meno allo stesso modo; e non poteva essere altrimenti, dato che a quei tempi ero un ragazzetto completamente ignorante. Con Achmatova, anche se non avevi mai sentito parlare di cristianesimo potevi fartene un’idea. Era questa la sua influenza, prima di tutto umana. Capivi che non avevi a che fare con un homo sapiens, o perlomeno non solo con un sapiens, ma con un homo dei, no? le dovrei fare tre nomi: Anna Andreevna, Auden e Robert Lowell.
Di Auden nel 1937 ho letto tutto quello che si poteva trovare in giro. Ci si poteva procurare, ad esempio, l’antologia della nuova poesia inglese, pubblicata nel 1937… Per quello che ne so, tutti i traduttori di questa antologia sono stati fucilati o imprigionati. Ne sono sopravvissuti pochissimi… È stata appunto questa antologia la fonte principale dei miei giudizi su Auden. la qualità delle traduzioni era orrenda, naturalmente, ma allora l’inglese io non lo sapevo, e così mi limitavo appena a ricostruire e analizzare qualche frase. Pertanto, le mie impressioni su Auden non potevano che essere approssimative, come le traduzioni del resto; un po’ mi ci raccapezzavo, ma non del tutto. ma più andavo avanti e più imparavo. A partire dal 1964 circa, mi sono messo a leggere Auden con regolarità, quando riuscivo a trovarlo, decifrandolo riga per riga, e verso la fine degli anni Sessanta ho cominciato a capirci qualcosa. e finalmente ho capito – e come potevo non capire- non tanto la sua poetica quanto la sua metrica.
Cioè, la sua poetica è nella metrica, è in quello che in russo si chiama dol’nik, nel verso tonico, un verso disciplinato, molto ben organizzato, con all’interno la sua magnifica cesura da esametro. E quel tocco ironico. Non so neanche da dove venisse. Questo elemento ironico non è nemmeno un merito particolare di Auden, ma piuttosto della lingua inglese. E poi quella tecnica della reticenza tipicamente inglese. Insomma, Auden mi piaceva sempre di più. Alcune delle mie poesie le ho scritte sotto la sua influenza (nessuno potrà mai capirlo, grazie a Dio); Fine della Belle Époque, Canzone dell’innocenza e anche dell’esperienza, poi Lettera al generale (perlomeno fino a un certo punto), ed altre poesie. Tutte con lo stesso ritmo un po’ rilassato.
A quei tempi mi piacevano soprattutto due poeti: Auden e Louis MacNeice, e anche adesso mi sono estremamente cari; semplicemente, leggerli è una cosa interessantissima… Soprattutto amavo una poesia di Auden, la sua Lettera a Lord Byron, avevo lavorato duro per tradurla, ed era diventata il mio antidoto contro qualsiasi forma di demagogia. Quando ero al limite e stavo per crollare, leggevo questa poesia. Il lettore russo potrebbe apprezzare Auden perché, in apparenza, è tradizionale. Cioè, Auden utilizza la struttura formale della stanza con tutti i suoi annessi e connessi, ma è come se della strofa non se ne accorgesse nemmeno. Dopo di lui, credo che nessuno abbia scritto delle sestine così belle. Cyril Connoly, suo contemporaneo, critico e scrittore meraviglioso, una volta ha detto che Auden è stato l’ultimo poeta della generazione degli anni trenta le cui poesie si potevano ricordare a memoria. Auden è unico, e per me rappresenta uno dei fenomeni più significativi della poesia mondiale. Mi concedo una dichiarazione sconvolgente: ad eccezione di Cvetaeva, Auden mi è più caro di tutti gli altri poeti.
Grazie di cuore per le magnifiche poesie d’amore di Josif Brodsij e molti cari auguri per un ottimo riposo a voi tutti.
Un affettuoso saluto da
Mariella (Bettarini)
Ecco una Kitsch poetry
di Gino Rago
Bisogna risolvere l’affaire Dreyfus
Detto fatto
Il commissario Poirot
sulla Rue du Midi
sulla Rive Gauche de Paris
dice all’uccello Pettì che Madame Colasson
ha rubato un colibrì dalla consolle
Al n.40 della Rue du Midì
l’uccello Pettì incontra Madame Colasson
alla “Coupole”
mentre fuma una sigaretta senza filtro
e mangia un bonbon
con il confidente del Presidente Pompidou
interviene il commissario Poirot
che sequestra una bottiglia di Cointreau
e rimette il colibrì sulla consolle
accanto all’uccello Pettì
La poesia della poetry kitchen si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.
Al poeta è assegnato il posto nel “frammezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.
Vera aspirazione della poesia è quello essere di casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque ci si trova spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso.1
Le poesie d’amore di Brodskij rivolte alla sua amata Marina Basmanova in realtà sono solo un pretesto. La Basmanova è una icona irreale alla quale la poesia è indirizzata, diciamo, un intermediario metafisico posto in un aldilà, in uno Zwischen. È in queste poesie che Brodskij tasta il «vuoto», il vuoto di parole, in quanto l’amore non è dicibile in parole, è una esperienza che nella modernità si è resa non esprimibile, non esprimibile da un «io» che per giunta è posto in un «luogo» preciso dello spazio e del tempo e della storia. Quello che vorrei dire è che oggi, nel nostro mondo visione riesce davvero problematico riferire intorno ad una «esperienza», tanto più una «esperienza amorosa», e il linguaggio poetico che dovrebbe indicarla rimane invece «muto», cioè parla di «altro» (come ammette lo steso Brodskij nella nota riportata dalla traduttrice).
Oggi la poesia, quella più avveduta, si mostra refrattaria e indifferente alle «esperienze». Com’è accaduto questo fatto?, non saprei dire, io mi limito a registrare un fatto.
I 5Stelle hanno presentato una interrogazione parlamentare
al governo Draghi:
All’autogrill di Fiano romano una giraffa si reca al bar
sale sul cavallo a dondolo
il cameriere porta su un vassoio una porzione di camembert
e un crodino
il cavallo a dondolo si mette il rossetto
dice che è l’ippogrifo e che ha un appuntamento con l’Ariosto
che, per gelosia, lo ha spedito sulla luna…
Sono dei miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un significato, né attuale né remoto, né futuro, non hanno un referente, come è proprio delle poesie della nuova fenomenologia del poetico e della poetry kitchen: non c’è nulla del concreto, ma c’è del presente. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione.
1 Cfr. M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” a cura di W. Biemel, in Gesamtausgabe, cit., vol.LIII, p. 22; tr. it. a cura di C. Sandrin eU. Ugazio, L’inno, Der Ister di Hölderlin, , Mursia, Milano 2003,
“vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso”.
Faccio mie le parole di Heidegger, perché penso davvero che quella del ritorno sia per i poeti (ma non solo), non un’aspirazione ma l’oggettiva condizione di chi per estraneità tenta di riconciliarsi con i propri simili. Io vedo qui la principale ragione dello scontento esistenziale.
Di Iosif Brodskij apprezzo la testimonianza, specie quando dichiara di aver scritto un sacco di stupidaggini (rischio inevitabile per chi pensa di doversi approcciare alla verità). È per me poeta con lampi, ma sostanzialmente noioso.
In queste poesie d’amore mi ha piacevolmente sorpreso il verso ” Lascia che rumoreggi la pioggia sui cetrioli”. Inserito in una strofa che vale davvero la pena leggere, per l’enigma… che, penso, sarebbe bello lasciare intatto, chiuso alla ragione:
“una Parola ne chiamava un’altra
che ne chiamava un’altra ancora.
Lascia che rumoreggi la pioggia sui cetrioli,
tu ed io ci abbronzeremo come eschimesi
e con tenerezza tu farai scorrere il dito
lungo la virginea, intoccata striscia.
Ed io guarderò nello specchio la clavicola
e noterò un’onda alle spalle”.
Di notevole impatto anche queste descrizioni:
“Il palazzo si svuota. Si spengono i piani.
Uno. Un altro. E, infine, l’ultimo.
E solo due finestre in tutto il palazzo”
Ma fermati, accidenti! come si banalizza la realtà se trasposta in letteratura… E comunque Brodskij, forse per primo, tenta di sottrarsi al dovere di parlare a nome della propria nazione – peculiarità comune a tutti i poeti russi. Poesia è forza dissidente, per qualunque sistema, e sempre per la ragione di cui parlavo all’inizio del commento.
In poesia si scrivono un sacco di stupidaggini. Giorgio L. ne è consapevole e ne scrive con intenzione. La sua poesia è oggi derisoria. L’eccesso è reso evidente. Il fuori senso è semantico, è un fuori significato. Questo dimostra che, nell’improbabile grammatica del fuori-senso, possiamo andare un po’ dovunque tra le varianti: dal fuori senso sfumato dell’ordinario, di Mario Gabriele, alla zappa di Intini, con elemento sorpresa, a metà strada tra in-significato e linguaggio. Il fuori senso ottenuto per azione sul linguaggio, richiede secondo me dei ponti, o dei luoghi dove poter atterrare. Non certo il reale, parlo qui del comprensibile. Che di solito è riferito all’esperire.
La brocca appena ricevuta da Amazon, è fantastica.
Ho già smesso di usarla. Ma facciamone l’inizio
per una poesia come si conviene, cioè faticosa:
“Accendi il paralume spirituale
dove sgrassano pieni di formiche i peggiori istinti”.
inizio terminato. Le bucce di banana, via dal tavolo
del Presidente Bilden. Dev’esere scoppiata una bomba atomica
e non ce ne siamo accorti. Dilaga in cervelli che hanno perso
ogni chiusura.
– Dipende.
E tacque.
– È ormai rosolio anche l’ultima creazione di Armani.
LMT
caro Lucio,
provo qui a riscrivere la poesia con un diverso metro. Che ne dici?
La brocca appena ricevuta da Amazon, è fantastica.
Ho già smesso di usarla.
Ma facciamone l’inizio
per una poesia come si conviene, cioè faticosa:
“Accendi il paralume spirituale
dove sgrassano pieni di formiche i peggiori istinti”.
Inizio terminato.
Le bucce di banana, via dal tavolo
del Presidente Biden.
Dev’esere scoppiata una bomba atomica
e non ce ne siamo accorti.
Dilaga in cervelli che hanno perso
ogni chiusura.
– Dipende.
E tacque.
– È ormai rosolio anche l’ultima creazione di Armani.
Pubblicata (ahimè con refusi) per completare il commento, ma l’avevo appena scritta. “Accendi il paralume spirituale / dove sgrassano pieni di formiche i peggiori istinti” andrebbe in corsivo. E la poesia potrebbe continuare, solo che la mia attenzione adesso è rivolta a l’instant poetry (messo da parte, momentaneamente, la poesia “faticosa”). Non sono certo di voler pervenire a un discorso meglio organizzato: i versi mi arrivano in fortunata successione, con balzi, ma certo si può migliorare. Grazie, il tuo contributo, e sono anni, mi ha aiutato a crescere.
caro Lucio,
il direttore dell’Espresso, Marco Damilano, ha scritto in quest’ultimo numero del settimanale che la vera emergenza dell’Italia è la crisi della democrazia.
Quindi, ne deduco che è un’ottima occasione per la poesia italiana (in Francia non siamo ancora a questo punto, ma temo che ci arriveremo presto se vince le elezioni la Le Pen).
La poetry kitchen è una poesia da fine del mondo, da crisi spericolata, altro che divertissement come afferma qualche poetino da frigorifero che cincischia con la ciniglia
CHIEDO
a Giorgio Linguaglossa di ri-proporre in tempi più favorevoli alla lettura e alla scrittura, tempi più propizi senza incendi mafiosi, criminali incenerimenti e temperature disumane, questa pagina de L’Ombra, con il lavoro raffinato di traduzione di inediti di Brodskij a opera di Donata De Bartolomeo.
Dall’ EDITORIALE de Il Mangiaparole n.14
L’epoca della fine della metafisica
di Gino Rago
[…]
L’epoca della metafisica è inevitabilmente tramontata, quella metafisica è giunta alla sua fine, ciò che si apre è un nuovo scenario che porterà sul palcoscenico nuovi attori, una nuova recita e un nuovo copione.
Ma quella metafisica non può essere semplicemente defenestrata dalla nuova epoca post-Covid della odierna accumulazione del capitale: occorre ancora farci i conti perché quella metafisica ha esautorato l’impalcatura
dell’io con le sue retoriche, le sue adiacenze ed i suoi polinomi frastici[…].
* * *
Nomi e cognomi quindici
ci sono storie d’amore dove l’amore
è una fermata facoltativa dell’autobus
altre che iniziano con una vocale sbagliata
per terminare inseguite dall’alfabeto
Iosif Brodskij ne ha vissute a decine
tutte con la stessa persona
questo è il segreto di ogni storia d’amore
che voglia sopravvivere a se stessa
riuscire con la costanza del blu di prussia
a non sprecare la trasparenza dell’inchiostro.
Ho riscritto una mia poesia che era stata pubblicata nell’ultimo post a me dedicato qui sull’Ombra. Sono due gemelle estranee.
Prima versione:
Si tengono per mano in cerchio
i bambini di cinque e sei anni
fanno un girotondo intorno a un commissario
vestito con un impermeabile beige.
Egli si vede centro di una rotazione
che sfugge verso destra e poi verso sinistra
senza poterlo prevedere. Corrono
a perdifiato in là poi in qua. Cantano
una filastrocca tutti insieme
di un uomo che non incontra mai nessuno
nel mentre le parole lo attraversano tangibili.
Lo stesso cerchio di cerchi in rotazione inversa
toglie il respiro in un respiro
che non appartiene. Ecco l’indagine.
Inizia scalando una montagna
di asperità di pietra acuminata
poi scende portato dal peso di una caduta
gradini d’aria affianco alla stessa parete
più in basso avvertendo distintamente un mondo
di cose non raggiungibili. L’indagine
continua. Ascolta senza capire
dei rumori in lontananza.
Una sedia che si sposta
contro un albatro che vola.
Una cerniera che scivola sul mare
incantando lo stormo che passa di là.
La donna che parla in un bisbiglio di campana.
Un treno che deraglia sotto la scarpa.
Il frinire delle cicale adulte
che rovescia le coperte.
La buccia di banana che affranca
una sinfonia Fantastique di Berlioz.
L’indagine prosegue ben oltre.
Cani che saltano per leccargli il mento.
Segugi a turno che lo trovano
mentre cammina e si ferma in un punto.
Deve rinascere nella morte per proseguire a raggiera.
La foresta è abbattuta dal cielo.
Saltella sui ceppi cammina tra i ceppi.
Capisce che ogni passo è un orizzonte
e lì davanti e dietro ci sono mal di testa.
Strette di mani senza corpi
sentono l’ardere di falò.
Nascosto come tutti dietro un gatto
si dissimula a saltelli dietro le fiamme
apparentemente nevrotiche sul dorso a riposo.
Lì sotto si cala – sente ancora un rumore
di voci lontane – nelle acque solforiche di una terma
per poi uscirne e indagare ancora.
*
Riscrittura:
IL COMMISSARIO VERACE
Dei cerchi si tengono per mano
sono i bambini che sono 5.
Sei anni in un girotondo
su per un commissario conteiner
in un impermeabile beige ridda.
Egli vede il mento di una notazione
che sfugge sulla testa o verso una cresta di gallo indaffarata.
Essi decorrono
lo iato per di qua e più in bitcoin.
Dragano una filastrocca che beve al tavolo
di tutta Bisenzio
consunta nelle scatole da trasloco.
“Lo stesso cerchio di cerchi in rotazione dispersa.”
raglia il mirino col grido
che ammara. È una pagina.
La lavanderia incendiaria
sogna le folate schedate
e circonda l’orario illeso della verdura
di brividi in moto e di fiaccolate acquattate
sul contagiri che elemosina verde un asciugacapelli.
La ruggine va a scuola in una foto del tempo
deterso in uno spago.
Una sedia in crosta
contro un albatro che tintinna.
Una cerniera si nutre
del panno di uno stormo.
La donna sarda è caramellata
come il quartier generale di Antigone.
Un treno a galla a scatto.
L’incudine in linea si offende.
La bistecca rotta da un motto.
La coda della pagina mangia i tetti.
I pistacchi del commissario contano l’alveo scontento.
Sui binari divaricati la Storia suda.
Il sermone dell’ascella.
I guanti delle ginestre mordono.
Secondo lui si disfa perspicace l’ostrica a meridione
sull’asola della Coldiretti.
I piumini fanno omicidi
e scontano i cadaveri.
La normale pera di un gatto
conduce il gioco dei nove sottoterra
e incontra Polifemo artefice del microfono.
La roccia va al trotto
contigua al sole malformato
contratto in un pavone.
Secondo me, forse un verso più lungo. E l’adozione di distici. Qualche punto in più, per sfrangiare. Togliere.
Tento un esempio:
…
La sedia in crosta contro un albatro che tintinna.
Una cerniera si nutre del panno di uno stormo.
La donna sarda è caramellata.
Quartier generale di Antigone. Un treno a galla a scatto.
L’incudine in linea si offende. La bistecca rotta da un motto.
La coda della pagina mangia i tetti. I pistacchi del commissario
contano l’alveo scontento. Sui binari divaricati la Storia suda.
Il sermone dell’ascella.
I guanti delle ginestre mordono. Secondo lui si disfa perspicace
l’ostrica a meridione sull’asola della Coldiretti.
I piumini fanno omicidi e scontano i cadaveri.
La normale pera di un gatto conduce il gioco dei nove sottoterra
e incontra Polifemo artefice del microfono.
La roccia va al trotto, contigua al sole malformato
contratto in un pavone.
Nel linguaggio avverto ancora presenza di auto censura. Ma questo è il male di cui soffre, penso, chi si accosta alla poesia Noe. Molte cose si possono togliere. – Il parere è del tutto personale;)
Da Instagram, un verso firmato Cuore di latta. È detta “Instapoetry”, sono frasi create per i social; che naturalmente contengono il peggio dell’Io, ma talvolta…
Sono come la copertina di un libro.
Tinta unita.
caro Jacopo Ricciardi,
qualche giorno fa un Sottosegretario del governo presieduto da Draghi, durante un comizio a Latina, ha proposto di cambiare la titolazione di un parco da Falcone e Borsellino al nome del fratello di Mussolini. La battuta proposta, derisoria e denigratoria, del Durigon costituisce una messa in berlina della democrazia italiana e dei suoi valori fondanti: la lotta al nazi fascismo e la lotta alla mafia. Ovvio che un tale atto, per la gravità e la gratuità e per i motivi risibili che lo hanno edittato, pone un gravissimo problema di lesione della carta costituzionale e non può rimanere senza conseguenze: il governo e il Parlamento devono dare una risposta immediata all’atto derisorio di sovversione dell’ordine democratico, perché di questo si tratta: di un atto di sovversione dell’ordine democratico.
Drghi ha fatto pervenire, per le vie discrete, al capo della Lega il suo vivo disappunto e la necessità di un provvedimento riparatore da parte della Lega.
Il silenzio di Draghi non è un silenzio acquiescente, ma un silenzio perentorio e dirimente. Se il capo della Lega non interverrà facendo dimettere in tempi brevi il signor Durigon, interverrà di persona il Capo dell’esecutivo.
Siamo dunque, come cittadini, in solerte e vigile attesa.
caro Jacopo Ricciardi,
l’idea di linguaggio che guida il lavoro di Lucio Mayoor Tosi rivela che dalla tua poesia si può andare per vie diverse e direzioni diverse. La lettura di Lucio è acuta e legittima, ma io sono di un altro avviso.
La mia lettura è un’altra, paradossalmente io preferisco la prima stesura, perché più chiara e compatta, la seconda mi sembra un processo in itinere. Probabilmente sei in viaggio verso un’altra forma e un diverso stile che, però, non hai ancora trovato.
Ad esempio, le prime due strofe della prima versione, io le trovo esemplari:
Si tengono per mano in cerchio
i bambini di cinque e sei anni
fanno un girotondo intorno a un commissario
vestito con un impermeabile beige.
Egli si vede centro di una rotazione
che sfugge verso destra e poi verso sinistra
senza poterlo prevedere. Corrono
a perdifiato in là poi in qua. Cantano
una filastrocca tutti insieme
di un uomo che non incontra mai nessuno
nel mentre le parole lo attraversano tangibili.
Vanno bene così come sono, anzi, potrebbero essere due poesie distinte. Probabilmente se tu lavorassi con la forbice a tagliare dalla prima stesura tante piccole poesie, otterresti un buon risultato.
La «illuminazione profana» di cui aveva parlato Walter Benjamin negli anni Trenta è un concetto importantissimo di cui la poesia italiana del novecento si è completamente disinteressata. Tuttalpiù i cattolici hanno equivocato con superficialità l’illuminazione profana equiparandola alla illuminazione religiosa, l’estasi, la congiunzione ipnagogica con il divino… etc. confondendo i concetti teologici con i concetti secolarizzati della civiltà laica.
Con le parole di Benjamin:
«Non ci porta molto lontano sottolineare… l’aspetto enigmatico di ciò che è enigmatico; al contrario, penetriamo nel quotidiano, grazie a un’ottica dialettica che riconosce il quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano».
Il commento di Giorgio completa quel che io non ho detto: concordo sulla prima versione. E in effetti è la cosa più importante. Le mie note, come su l’adozione del distico, erano dedicate all’aspetto formale.
caro Jacopo,
premesso che il risultato di una stesura di una precedente poesia si può valutare soltanto alla fine, all’ultima delle riscritture, mi sento di condividere il parere di Linguaglossa che preferisce la prima versione; vorrei dire che anche nella seconda stesura, nel lavoro di frantumazione del testo, si può notare un maggior vigore e una maggiore concisione,,, però avverto come se il lavoro iniziato dovesse essere portato a termine.
Vorrei segnalare un’altra strofa (dopo le due indicate da Linguaglossa) degna di menzione in quanto perfettamente riuscita e che potrebbe stare a se stante come poesia singola. Eccola:
Una sedia che si sposta
contro un albatro che vola.
Una cerniera che scivola sul mare
incantando lo stormo che passa di là.
La donna che parla in un bisbiglio di campana.
Un treno che deraglia sotto la scarpa.
Il frinire delle cicale adulte
che rovescia le coperte.
La buccia di banana che affranca
una sinfonia Fantastique di Berlioz.
Comunque le due versioni sono due gemelle non siamesi, sono due poesie diverse che hanno una radice comune. Probabilmente ne verrà fuori una terza versione, più frammentata (come suggerisce Lucio Tosi) e con strofe più brevi. Ma questo è soltanto un mio parere provvisorio in attesa di leggere una raccolta completa.
Io stessa ho sottoposta a successive revisioni tante mie poesie, anzi tutte. Le revisioni e le correzioni sono l’essenza stessa del lavoro letterario.
ad una signora che scrive poesie ho detto:
tu fai una poesia che risponde ad un dispositivo lirico che usa il misterico, il religioso, l’arcano, l’ipnagogico – io uso un dispositivo che invece esclude tutto ciò. Tra di noi non ci può essere dialogo. Mi spiace.
La politica del futuro dovrà esercitarsi nella «disattivazione della macchina del diritto», come scrive Agamben. Non è un caso che il termine che Agamben usa è «profanazione», cioè restituzione all’uso comune di ciò che è stato separato, «sacrato» (cfr Giorgio Agamben, Profanazioni, Edizioni nottetempo, Roma 2005).
Per Agamben è possibile un tempo messianico della liberazione in cui «l’umanità giocherà con il diritto, come i bambini giocano con gli oggetti fuori uso, non per restituirli al loro uso canonico ma per liberarli definitivamente da esso» (Giorgio Agamben, Stato di Eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 83
Ecco, io penso ad una poiesis in cui l’umanità futura giocherà con la poiesis come i bambini giocano con gli oggetti che non servono ad uso alcuno.
Ringrazio Tosi e Linguaglossa per le osservazioni su questa mia trascrizione che è in divenire, che vuole comprendere di quale pasta è fatta e in che modo usare la propria provenienza. La poesia originale è levigata e finita, e il consiglio di Linguaglossa di spezzarla in diverse poesie è stimolante, e paradossalmente incontra anche il lavoro futuro che volevo fare sulla trascrizione: una poesia di poesie disperse tra loro; riflettendo sulle ‘presenze’, il loro movimento, la loro azione legata al corpo poetico, anche attuale, ed elaborandolo. Vedere SE qualcosa si mostra di originale. Il lavorio per arrivare alla successione di parole dei versi è stato laborioso ma soddisfacente per sintesi trovata. Ciò che non mi piace è la gratuità di questi frammenti di frammenti. E qui prendo in considerazione lo spostamento delle parole nei versi riflettendo sui suggerimenti di Tosi, e prendendo in esame la frase di Benjamin che ben si adatta alla prima poesia, ma che potrebbe suggerire il terreno su cui far apparire e scomparire i frammenti della seconda. Provo a fantasticare: forse i personaggi da fantasmi della prima poesia possono diventare veri lampi che vagano nel vuoto. ‘Come’ non so ancora, ma so dove andare a cercare. Sempre stimolante l’Ombra. Grazie. (Prendo la riflessione politica di Linguaglossa come ulteriore humus per le parole di Benjamin).
Conviene leggere “Registro di Bordo” di Mario M. Gabriele (Ed. Progetto Cultura, 2020). Così si eviteranno gratuità di frammenti di frammenti.
Nel distico, il fuori senso non ha nulla di gratuito. È semmai il percorso alternativo che conduce al punto, fine di un pensiero (immagine, racconto, concetto o assurdità). La poesia Kitchen apre le maglie del discorso, ma la forma-distico è propedeutica per trovare sintesi e originalità nel proprio linguaggio.
5
Il tempo riannodò i fili della memoria.
Uscimmo per andare ai magazzini Spandau.
Negli scaffali trovammo mostrine delle Schutzstaffel
e l’ultima edizione del Die Tageszeitung.
Un giovane livoriano lasciò i Tamburi nella notte.
Non fu facile tornare a casa.
Il triciclo portava fiori a Shiva
per una grazia a Geltrude Bisleri.
Oh mammy, ora puoi salire sul Machu Picchu
e parlare con le colombe.
La ragazza sul treno adescava il Quinto Evangelio.
Al Savoia tornarono i ballerini di Grease.
Si sta in attesa di Hamm e Clov.
Beltrand si agita. Chiama un rom.
Gli dice di tenere tranquilla la notte.
Un puma fuggì dalla gabbia.
-Questa volta non lo prenderemo. Ci sono alberi e querce,
lupi e trappole nel bosco-,dissero i guardiani.
La linea della vita
è rimasta nella mano come una cicatrice.
Cara Dolin, ricordarti è stato sfogliare un album
con il rottweiler a guardia dei tuoi piercing.
6
L’azzurro non cambiò niente,
neanche la stagione.
Ci mettemmo da parte
a sentire il pop stereofonico.
Pensammo a Sonny
al limite degli anni e del punto zero.
Uscimmo a cercare un nuovo rifugio.
Qui è come rimanere in una stanza con i tempi di attesa.
Loters riparò il fuoristrada
per un tour a Val di Lupo.
C’erano tutti sui pick-ups: niggers e clochards,
Uccellacci e uccellini, Apocalypse Now.
Molti cartelli. Pochi annunci di arrivi.
Cancellati i voli per Pechino e Dubai.
Potrebbero aiutarci i risciò,
ma Orban non si farà sentire prima delle oblazioni.
Caroline studia le arterie occluse.
Ha ancora la Sindrome di Bernard-Horner.
Questa volta metteremo l’abito scuro
quando Duke suonerà Take the a train.
Si sono ingiallite le foto di Daddy
e le pagine di Bomb di Gregory Corso.
Nulla è rimasto,
se non il ricordo di Charlie Hebdo.
7
Erika colleziona black days.
Non manda lettere agli amici.
Conserva le parole del signor Wilson
come fossero marenghi d’oro.
-Va bene anche così-disse Charlotte,
conoscendo le incrinature di Erika.
In questo luogo e in questa casa
siamo rimasti soli.
Clelia si era seduta sul sofà
per seguire l’occhiolino della luna.
Vedrai che anche quest’anno verranno i Re Magi
senza lasciare nulla nelle favelas.
Siamo a percorrere le strade di ieri.
C’è chi gioca con l’Oblio.
Tu non balli, non prendi un Dufour, non pensi
al clima di Santo Domingo e di Rio Chavòn.
L’uomo sulla panchina
scambiò la cicuta per un Black Magic.
Non è che mi dispiaccia molto, ma anche i Fustemberg
non hanno gradito L’opera da tre soldi musicata da Kurt Weil.
Papà Modian ha rinunciato ai corsi della terza età
per un habitat ad Arquà Petrarca.
Mitos riconsidera tutto d’accapo:
la luce, il buio, “la vita liquida” di Bauman.
Un bulldozer rimosse le ossa verniciate di bianco.
Ci fu chi cercò il killer ad Alexanderplatz.
La sera ha un gran da fare
nel chiudere le finestre nel cielo.
-Signorina Klipster si accomodi qui, sono Sigmund,
lei sa quanti morti si porta dietro Godot?-.
8
Pentecoste tra figuranti
e parking-lots nei giardini.
Zia Adelina, igienista, con i guanti atermici,
ripuliva le pareti dalle muffe.
La ragazza del catering sbagliò indirizzo.
Uscimmo per un breakfast.
.
Ketty aprì a New York
un bookstore di Collected Poems e matrioske.
A Kamus chiesi di lasciarmi un posto
come guida turistica su King Lear a Stratford.
Nonno Vincent si appisolò
lasciando la gruccia sul sofà.
Anni con le bende agli occhi.
Era primavera e non lo sapevamo.
Una lettera da Rosebud rimise in gioco
il teatro dell’assurdo.
Kendy aveva finito di leggere
Doctor Sleep.
E già pensava di riscrivere la vita,
passando dalla città al ghetto.
9
Sei rimasta come le foglie del bonsai.
Mi scrivi:-salutami Stella e le amiche di Parma-.
Esco di rado. Qualche volta mi fermo al Cabaret.
Riapre il Nasdaq di Londra con le start-up a 10 Buy.
Non lontana dai borghi
c’è la discarica delle stagioni.
Ci riserviamo le prognosi future
e le segrete stanze dell’illusione.
Rispuntano gli ologrammi.
Stasera ci fermiamo con i turisti by night.
Leggo e ripongo After Strange Gods
dopo una giornata di meteo invernale.
Qui prepariamo i bouquet
per i compleanni della famiglia.
-Signora,sono arrivati i tulipani. Glieli mando a casa
così nessuno potrà dire: per chi suona la campana!-
C’è sempre un tempo per nascere
e un tempo per morire.
A digiuno ci fermammo nella certosa
ricordando Debora e Barak.
La nostra amica americana si è sposata con la tristezza
da quando ha letto Day by Day.
L’esserci è sempre nel punto di un attraversamento, l’esserci attraversa sempre una soglia; l’attraversamento è il disorientamento dell’essere che, fuori dal possesso, si confonde e confonde; allora avviene che le bussole di orientamento dell’esserci perdano la loro funzione di orientamento, avviene che non siamo più disponibili ad attraversare alcuna soglia, ci fermiamo, ci ritiriamo adottando un linguaggio impoverito, il linguaggio della società dello scambio. Avviene così che l’esserci non è più capace di dirigersi verso il linguaggio che ancora non c’è ma si accontenta del linguaggio trovato.
L’esserci non è mai in cammino verso qualcosa di preciso ed univoco, tanto meno verso il linguaggio. Si attraversa sempre e si è sempre attraversati dalle soglie e dai linguaggi in un flusso le cui direzionalità si moltiplicano, si intersecano, divergono e si contraddicono senza posa. Il mondo si rivela un estraneo, fuori dall’io siamo perduti e l’esserci si richiude nella propria singolarità, nella propria bara, cerca riparo nella cieca sopravvivenza, capisce solo il possesso. Ma l’esserci è vero soltanto fuori dal possesso e fuori dall’io. Siamo veramente soltanto rigettando l’io e il possesso. Il deserto dell’io è il deserto della follia. L’etica del capitalismo va rigorosamente rigettata come falsa. Il linguaggio trovato va semplicemente rigettato come falso. Il linguaggio vero è soltanto quello che non c’è.
Ringrazio, vivamente, Lucio e Giorgio con i loro interventi, per esprimere un pensiero sulla fibrosa questione del linguaggio poetico intorno al quale molto si è discusso in passato e tutt’ora trova le basi per una diversità operativa.
Si parla spesso in questo post dell’uso del frammento, non sempre assimilabile dai vari operatori, Questo perché la traccia archeologica della tradizione è un deposito calcareo ancora in uso, che non si toglie neppure con la candeggina.
Bisogna transitare verso altre direzioni, assimilandone i contenuti morfologici e strategici, diventando anche un esperto del linguaggio dei social-media. Qualcosa di questo genere l’ho trovata nei testi di Giorgio.
Non è una provocazione, ma una inevitabile mutazione che il tempo e gli eventi richiedono per evitare colonialismi lessicali. Ogni forma nuova, adottata in questo modo, detronizza le precedenti lasciandole in archivio.
L’arte di oggi è una galleria incentrata su eventi sociali ed economici, e di altri casi ancora, esposti in pubblico con scelte che azzerano l’estetica attraverso la grafica murale e il vocabolario da website .Non a caso la mia ultima poesia, da pubblicare ancora su Altervista, è caratterizzata da versi di questo stile, che mi trovano in completa attitudine, aprendo pagine di storia privata e pubblica, che diversamente non saprei fare se non tornando alle narrazioni.
Ne pas se pencher au dehors
dice Madame Colasson all’uccello Pettì
sul notturno Roma-Paris
Un talebano dice Ohibò al pappagallo Totò
e fa la pipì sulla moquette del wagon-lit
Si salvi chi può dice da un oblò
il Presidente Biden al nano Cocò
Jacopo Ricciardi scrive:
“una poesia di poesie disperse tra loro”
ecco è proprio questa la chiave: scrivere delle poesie disperse ed estraniate l’una dall’altra ma con un codice segreto in comune. Questo è il dispositivo di Jacopo Ricciardi, il suo personalissimo dispositivo.
Grazie Marie Laure, questa tua sottolineatura mi è molto utile per il lavoro ulteriore delle poesie. E anche tutti gli intervenuti mi hanno dato spunti su cui lavorare. Grazie a tutti voi e all’Ombra.
Dio ha spedito una lettera al mago Woland
l’ho trovata nella cassetta della posta
sigillata e profumata
ha chiesto al mago una recensione sull’universo…
il mago mi è apparso confuso stamane
ha assunto due pastiglie di Maalox
bevuto un caffè
una bottiglietta di amaro medicinale Giuliani
si è consultato con Azazello
e il pappagallo Totò
infine si è deciso
ha datpo una sbirciata all’orologio
e ha messo alla rinfusa in una valigetta 24 ore
camicie, calzini, mutande,
il dentifricio, il colluttorio, la cardio aspirina
un bloc notes, una biro,
cianfrusaglie varie,
il tutto costipato alla meno peggio
e un foglietto
con su scritta la nota di lettura sull’universo
l’ha in seguito consegnata ad un notaio
il quale è autorizzato a darne pubblica lettura
sub judice
la ricezione di una apposita liberatoria da parte del Signor dio.
gentile Signor dio
– ha scritto il mago –
la mia recensione sull’universo suo malgrado è negativa
ho una leggera dispepsia, allergie varie,
mi perdoni
sull’argomento penso che le parole siano di troppo,
occuperebbero troppe pagine
riassumo qui le mie conclusioni:
per favore rinunci all’impresa di riassestare la sfera
lasci rotolare il mondo per suo conto
non si impicci in questioni eccessivamente complicate
le faccende umane sono davvero un bel rebus!
per favore
lasci stare, chiudiamo qui la vicenda
senza rancore e senza remore
senza retro pensieri
«Ci sentiamo liberi perché ci manca il linguaggio necessario per articolare la nostra mancanza di libertà.»
top pop poesia, poetry kitchen, soap poetry e pop picture
Per capire il mondo attuale non abbiamo più bisogno della poesia.
L’arte che si fa oggi in Europa è simile al dolcificante che si mette nel veleno.
I piccoli poeti pensano al dolcificante in dosi omeopatiche…
I grandi poeti pensano al dolcificante in dosi macropatiche…
È molto semplice: Dopo le Avanguardie non ci saranno più avanguardie, né retroguardie, le rivoluzioni artistiche e non, non si faranno né in marsina né in canottiera. Non si faranno affatto.
Siamo all’interno di un gioco di specchi. Ciò che vediamo sono le illusorie metastasi della realtà.
Ripeto, Faust chiama Mefistofele per una metastasi, dal titolo eloquente del libro di Francesco Paolo Intini.
Va e viene da Elea. Lucky Strike tra le dita.
Parmenide e la convinzione di tirare su una palma dalle ciglia.
Una bozza di romanzo sull’immortalità
Un altro alle stampe e seppellito in veranda.
Joker ammazza Batman finalmente.
Una biscia intanto inghiotte un geco
Lo stomaco lungo un anno luce fa conteggi di Piraha.
Lo scuro per evadere il fisco,
il bianco gira le spighe di granturco
cocendosi a popcorn.
Le vedi schizzare fuori da anfore
inseguite da grosse spigole:
il peplo non basta a coprire i capezzoli.
Capisci Zenone non appena
Ammucchi il verde in una punta d’ ago.
Pinete a pastelli, però.
…
La stiva vuota, il molo partito.
E c’è posto sufficiente per barili di noia.
Ora il poeta grande riposa.
Ma lascia un siluro da affondare.
L’immortalità dell’anima è nel libro d’ottone
Autunno “ Zukov” avanza con scarpe da jogging e maschera di Riace.
Silla lo riconosci dall’ accento romanesco
Il selfie nella fodera del gladio
Mangia, invade, ordina Covid e arrosto di maiale.
Luce finalmente, curiosità d’ossiuro su carne macinata.
Poi venne lo yankee
Non fu civile, perse quota e avvitò l’aereo al secolo seguente.
La copertina non è stata sufficiente a contenerne l’urto vincente.
Doveva essere utero, invece, partorì sequoie
Così fu detto, di Scrooge Duck -a sproposito credo-
mangiucchiando tuba e chicchi d’ orzo bimbo.
…
Non basta la libido a tutto
Occorre dividere e razionarla
Pacchetti d’energia
In ogni ciotola di riso.
L’abbandono del campo del compagno Duch
interrogatori oltre cortina.
Dopo la spremitura
Un coltello di limone
Come s’immagina l’Inferno? Kampuchea eterna
Campi di trigemino
Anche le idee hanno la loro mietitura
Spighe d’uguaglianza, covoni di fratellanza
Se pensi bene c’è sempre un pizzico di paradiso
in ogni nervo d’ intellettuale
(“Spicchi di beatitudine” suggerimento di Pol Pot)
E dunque è un lavoro sporco da portare a termine
Fino alla corteccia cerebrale
Toro scatenato contro Martin Scorsese
La pellicola recita messa ogni mattina
Un buon odore di rucola. Incenso di Giordano Bruno.
E il tempo è una trottola all’incontrario
stringe in curva, getta fuori millennio.
Povero Faust che si avvita e sbatte contro il guard rail
Le idee danno zuccheri da mettere nel branco
Tu non sei l’idea che sopravvive su Manhattan
La coscienza resiste poco, cede al Boeing, sfregola l’acciaio fuso.
Dopotutto l’eternità è tecnologia di parole
Smontare “sempre” in quark.
Meccanica di protoni nel propulsore.
Noia uguale energia al quadrato.
A schede perforate e valvole sostituiremo
l’alfabeto Morse e dunque le dita della mano.
Le anime combattute mettono una margherita all’orecchio
ricominciano a contare sulla vetta di Elea
poi mandano un drone a perlustrare la periferia dell’universo:
a troppo stramonio corrisponde un blocco stradale.
Un tir fermo blocca la via lattea, ruggisce la Polare
L’onda ferma non sarà riavviata.
Buchi nella macchia dell’uliveto
Chi o cosa tiene assieme tanti “sempre”?
Le tre lingue dei colori fondamentali
nel fischietto una risposta.
Filini organizza una partita.
Di Sofocle il goal vincente.
di Mario M. Gabriele
inedito da Horcrux
Entrammo nel Website
digitando climate change.
Le Baby Bull
portavano leggings di pizzo
e orecchini-fiori
nella prima di Starzplay.
Al Cora Hotel,
Whitney decise di lasciare il fast food
per fare un film psicothriller
dal titolo The Black Moon.
Un gusto grafico portò Marie Watt
a creare magliette tessili
per i Natives di Toronto,
attivando posts
con Write Like Sherman,
Dream Like Billy,
Challenge Like John.
Le voci di wonder women
arrivavano oltre la pandemia
come anime allo sbaraglio.
Edgar Heap manda greetings
con twitter:
“Vivi per questo,
ama quanto hai fatto,
vedi il mondo in grande,
viaggia in un viaggio
e ciò che è”.
Alla fine dell’anno
tornano Kandinsky,
con la Geometria a colori,
e il Bacio di Klimt
Gutierrez ha messo la firma alla Fiber Art
per attivare Decolonize Feminism
con musica e film making
tra i ragazzi di TOMBOYS DONT CRY
nella folla di minoranze etniche
sempre alla ricerca di I Like You Now
e What you Say.
La showrunner Tatiana Polanski
ha formato un collettivo
per una Class-Action
contro la Fine o Death.
C’è chi fa scritture di frontiera.
Tarkovskij pensa a una nuova kitchen:
“La terra da sola ingoia sé stessa,
e caccia la testa nel cielo”.
Si direbbe lo stesso pensiero
del crossover Herman,
prima di passare a Taiwan
e dire a Kioto:
“Come sei bella questa sera”
mentre brucia la città”-.
da Entrammo nel Website
digitando climate change.
Le Baby Bull
portavano leggings di pizzo
e orecchini-fiori
nella prima di Starzplay.
Al Cora Hotel,
Whitney decise di lasciare il fast food
per fare un film psicothriller
dal titolo The Black Moon.
Un gusto grafico portò Marie Watt
a creare magliette tessili
per i Natives di Toronto,
attivando posts
con Write Like Sherman,
Dream Like Billy,
Challenge Like John.
Le voci di wonder women
arrivavano oltre la pandemia
come anime allo sbaraglio.
Edgar Heap manda greetings
con twitter:
“Vivi per questo,
ama quanto hai fatto,
vedi il mondo in grande,
viaggia in un viaggio
e ciò che è”.
Alla fine dell’anno
tornano Kandinsky,
con la Geometria a colori,
e il Bacio di Klimt
Gutierrez ha messo la firma alla Fiber Art
per attivare Decolonize Feminism
con musica e film making
tra i ragazzi di TOMBOYS DONT CRY
nella folla di minoranze etniche
sempre alla ricerca di I Like You Now
e What you Say.
La showrunner Tatiana Polanski
ha formato un collettivo
per una Class-Action
contro la Fine o Death.
C’è chi fa scritture di frontiera.
Tarkovskij pensa a una nuova kitchen:
“La terra da sola ingoia sé stessa,
e caccia la testa nel cielo”.
Si direbbe lo stesso pensiero
del crossover Herman,
prima di passare a Taiwan
e dire a Kioto:
“Come sei bella questa sera”
mentre brucia la città”-.
BOOKMARK THE PERMALINK.
Post navigation← INEDITO DA HORCRUX
[…]
siamo passati nel giro di pochi anni dal telefono fisso, quello di casa allo smartphone digitale che tutti abbiamo. È stata una rivoluzione come nessun’altra nella storia dell’homo sapiens, e non ce ne siamo neanche accorti, così si continua a fare quadri figurativi e pubblicare poesia delle ambasce dell’io, si continua a fare romanzi thriller di una banalità da banausici e story telling in quantità.
Leggere questa composizione di Mario Gabriele ci fa capire la distanza che abbiamo percorso senza che neanche ci muovessimo, ormai l’italiano è diventata una lingua secondaria e sussidiaria, l’inglese è passato da una penetrazione osmotica e lessicale ad una vera e propria colonizzazione dell’italiano, ad una lingua intessuta con la stoffa e l’ago degli anglicismi di Sua Maestà britannica; ma, nel cataclisma non c’è nulla di cataclismatico, come nella catastrofe non c’è nulla di catastrofico, è tutto normal, è tutto classic, anche il linguaggio di Mario Gabriele può essere considerato un classico, questo è il linguaggio che parlerebbe oggi il Principe di Salina de Il Gattopardo, un linguaggio fitto di twitter e di frasari sms e di facebook. È che oggi anche il papa s’è dovuto inchinare ai tempi e parlare un linguaggio terrestre abbandonando qualsiasi posa ieratica e chiericumale.
I linguaggi corrispondono all’antropogenesi linguistica dell’uomo, la quale non presuppone alcun fondamento ulteriore, è mera esistenza dell’ente umano gettato nella mancanza di fondamento è quindi una esistenza anarchica quella dell’uomo.
Il luogo in cui questa esperienza della parola priva di fondamento può essere accolta è per Giorgio Agamben, l’enjambement. Nel 1985 esce per Feltrinelli la raccolta di saggi di Agamben: Idea di prosa; nel secondo saggio si afferma che l’enjambement «esibisce una non-coincidenza e una sconnessione fra elemento metrico e elemento sintattico, fra ritmo sonoro e senso». Il 10 novembre 1995 Giorgio Agamben tiene presso l’Università di Ginevra una lectio dal titolo, La fine del poema, in cui si afferma che la poesia vive nella tensione e nello scarto «fra il suono e il senso, fra la serie semiotica e quella semantica». Questa caratteristica essenziale della poesia si manifesterebbe nell’enjambement. La disgiunzione essenziale di suono e senso, nel poema, ha come conseguenza che debba assumere una «importanza decisiva» la fine del verso che Agamben chiama «versura». Scrive il filosofo romano: «versura, dal termine latino che indica il punto in cui l’aratro si volge al termine del solco, questo tratto essenziale del verso, che, forse proprio perché troppo evidente, è rimasto innominato tra i moderni». Analogamente, la distanza fra suono e senso emerge nella poesia di Mario Gabriele dall’accostamento di parole inglesi e di quelle italiane, crea un interregno conflittuale tra suoni e senso, un campo linguistico intermedio all’interno del più vasto campo semantico, producendo spaesamento e sorpresa.
(Giorgio Linguaglossa)
«Il disallineamento frastico, il dislivello tra i singoli sintagmi, l’interruzione di ogni enunciato, è questo il lavoro nel quale sono personalmente impegnata.
Il significato deve essere bypassato, dribblato, eluso, solo così si può ottenere un significato ulteriore, citeriore, anteriore…
Aprire una parentesi all’interno di ogni enunciato, e un’altra parentesi fuori dall’enunciato, e così via…
Fare del terrorismo, terremotare ogni enunciato, dissestarlo, de-costruirlo, smobilitarlo.
Fare del terrorismo all’interno di ogni enunciato è un lavoro serissimo, che dovrebbe appartenere al bagaglio di ciascun poeta, perché oggi non si può adottare un significato così come ce lo consegna già confezionato il sistema delle emittenti linguistiche.»
(Marie Laure Colasson)
ricevo da Adriana Gloria Marigo questa riflessione:
In LAVORI DOMESTICI individuo una diversa ontologia della relazione: Guido Galdini si appropria degli oggetti funzionali ai luoghi domestici per problematizzare il tema del rapporto con il mondo – in altre parole, con diverse parole, inusuale semantica –: i luoghi intimi, in particolare, dimostrano il basso continuo del tema che attraversa i millenni dell’individuo, dei gruppi sociali, delle più vaste società, per cui l’impiego di oggetti dell’uso comune per delineare il tema e il suo svolgimento nei modi partecipati dall’autore è la caratteristica che sovverte l’ordine fin qui consueto alla poesia dell’esistenza: l’inquietudine della domanda di senso è abbandonata, non è più quanto connota di dignità e invera il problema della relazione. Galdini frequenta in tal modo il vuoto della parola, ne porta le insegne e al tempo stesso ne dimostra la necessaria esemplarietà.
Nel Distretto n. 18 (di Linguaglossa) è evidente il distanziamento dal “soggettivismo esistenzialistico”, la chiara e inevitabile assunzione di conoscenza sulla frammentazione dell’intero (comprendo tutto ciò nei minimi dettagli), la denuncia che la polverizzazione non è tanto circostanza, quanto realtà diffusa: su di essa si principia – prima – il lavoro di ricognizione, – poi – la costruzione (non la ricostruzione!). Aderendo alla evidenza dei materiali detritici discende una forma versificatoria molto prossima alla sceneggiatura di un ambiente chiuso, procedendo secondo un crescendo nell’ordine della psicologia percettiva: dal distale (premo l’interruttore della luce) – la presenza fisica dell’oggetto –, al prossimale (luce accecante) – l’informazione – A mio avviso questo procedere poetico implica un fattore necessitato: eliminare dal reale ogni possibilità di illusione; porre il reale nella evidenza di tutta la sua materica consistenza, evitandogli la collusione con strutture di tipo metafisico.
(Adriana Gloria Marigo)
A tarda sera. Una piccola mitragliata.
Dal buco della serratura colpita un ombra.
Una meritata avversione per gli aggiornamenti di sistema. Dall’altra parte del video un camaleonte
con l’occhio mobile, Pippo Baudo sorride dietro la mascherina, Colombina e le fasce laterali.
L’ossatura a ridosso degli scriba. Piegati
gli angoli, riposti gli orli. Il cartello chiuso per ferie.
Le voci poi continuano vanno da se. Ripercorrono
lo stesso pastore errante. Succhi eh!
(grazie Ombra)
in Profanazioni (2005), Agamben afferma che fra la percezione ed il riconoscimento della propria immagine riflessa nello specchio vi è un intervallo. Quest’ultimo è ciò che i poeti medioevali chiamavano “amore”. Il luogo dell’amore è l’intervallo in cui ci si riconosce nel proprio essersi dis-conosciuti, è il luogo in cui avviene una desoggettivizzazione in una soggettivizzazione, in cui si assume il proprio essere inassumibili, la propria maniera,il proprio esser-così. Agamben sostiene la tesi secondo la quale se si abolisse l’intervallo, ci si crederebbe padroni della propria immagine e non si potrebbe più amare.
Nelle poesie d’amore di Brodskij è evidente che il suo stile diventa più personalistico, l’attenzione è rivolta alla vicenda del suo amore, alla singolarità dell’esperienza amorosa e della propria vicenda umana. Nella passione amorosa della modernità, al contrario di quella di Dante ad esempio, Brodskij scopre la propria intima singolarità, scopre la vulnerabilità della passione amorosa; nella passione amorosa l’uomo moderno si scopre, paradossalmente, privo di sovrastrutture teologiche e, quindi, indifeso e vulnerabile in quanto entità singolare scissa dal tutto. L’uomo moderno immerso nel processo di soggettivizzazione massima richiesta dalle esigenze della moderna vita sociale, si scopre de-soggettivato, mancante, si scopre essere un essere desiderante immerso nel flusso di un desiderio prigioniero del principio di prestazione e del principio di realtà. Scopre, in una parola, la propria condizione di incompletezza e di infelicità.
.
“Scopre, in una parola, la propria condizione di incompletezza e di infelicità.”:
e quando mai l’uomo è stato il contrario: completo e felice!
Secondo un filosofo cinese della dinastia Wang essere completi e felici è la condizione primaria per non esserlo affatto!
Infatti provate a farvi ricoverare nella Clinica della Felicità… e qui ritroverete le grandi infelicità della Storia… e quanto ad essere completi bisogna ricorrere alla geometri euclidea che esclude qualsiasi idea di completezza pena la totale incomprensione della geometria stessa.
LA METÀ DELL’ANNO È PASSATA
La metà dell’anno è passata. Nella stanza al pianterreno
la radio trasmette musica rock.
Sono arrivate le vacanze. Per metà dell’anno
ho pensato: in estate scriverò poesie. Ora
sto qui seduto e ancora una volta
una falena bianca mi entra nella mente.
La falena volava intorno alla betulla ieri sera
e io sentii che avrei potuto scriverci su una poesia; sentii
che avrei scritto su questa sera,
questa betulla e questa falena,
sarebbe stata una poesia. Forse la falena
era solo un segno, un segno di qualcosa
lontano, più alto e più profondo,
come un paio di volte prima. Un segno:
qualcuno è fuggito, prende il volo,
vola via.
I rami dondolano nel vento della notte. Una poesia.
Venuta. Andata.
(Traduzione di Raffaella Marzano)
POOL AASTAT ON LÄBI
Pool aastat on läbi. All toas
mängib radio rocki.
Puhkus on käes. Pool aastat mõtlesin:
suvel kirjutan ka luuletusi. Nüüd
istun siin ja meelde tuleb
kõigepealt jälle liblikas, ööliblikas,
kes eile õhtul lendas kasevõrasse ja mina
tundsin, et võiksin sellest kirjutada,
et see, mis ma kirjutan sellest õhtust,
sellest, et ma sellest liblikast
ja sellest, et ma sellest kirjutan
ongi luuletus. Võibolla see liblikas
on märguanne, märguanne millestki
kaugemast, kõrgemast, sügavamast
nagu paar korda varem. Märguanne:
keegi, kes pääseb välja, tõuseb lendu,
lendab minema.
Õhtutuuules õõtsuvad oksad. Luuletus.
Olnud. Läinud.
L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
Sulla Poetry kitchen
«Il disallineamento frastico, il dislivello tra i singoli sintagmi, l’interruzione di ogni enunciato, è questo il lavoro nel quale sono personalmente impegnata.
Il significato deve essere bypassato, dribblato, eluso, solo così si può ottenere un significato ulteriore, citeriore, anteriore…
Aprire una parentesi all’interno di ogni enunciato, e un’altra parentesi fuori dall’enunciato, e così via…
Fare del terrorismo, terremotare ogni enunciato, dissestarlo, de-costruirlo, smobilitarlo.
Fare del terrorismo all’interno di ogni enunciato è un lavoro serissimo, che dovrebbe appartenere al bagaglio di ciascun poeta, perché oggi non si può adottare un significato così come ce lo consegna già confezionato il sistema delle emittenti linguistiche.»
(Marie Laure Colasson)
L’ultima mia poesia da Les choses de la vie di prossima pubblicazione:
47.
Rue de la Vieille Lanterne
Eredia assise sur le trottoir
au côté de Marcel Duchamp
ouvrent une boîte de pâté de canard
et regardent passer une roue de bicyclette
Que faites-vous ansi sur le trottoir?
demande l’ombre de la blanche geisha
voilée d’un burka couleur citron
Nous regardons les rayons du soleil
qui transpercent la cinétique d’une roue
sans rien comprendre c’est évident
Eredia je t’en supplie le désert des pensées
est une combustion sans étincelle
de l’indécent royaume de Facebook
Viens avec moi boire un panaché
pour écouter Frank Sinatra chanter “My Way”
chez “Zeyer” sur la place d’Alésia
avec mes amis Giacometti et Mohsen Makmalbaf
*
Via della Vieille Lanterne
Eredia seduta sul marciapiede
a fianco di Marcel Duchamp
aprono una scatola di pâté de canard
e guardano passare una ruota di bicicletta
Che fate così sul marciapiede?
chiede l’ombra della bianca geisha
velata sotto un burka color limone
Guardiamo i raggi del sole
che trafiggono la cinetica d’una ruota
senza capire niente è evidente
Eredia te ne prego il deserto dei pensieri
è una combustione senza scintilla
dell’indecente regno di Facebook
Vieni con me a bere uno spritzer
ad ascoltare Frank Sinatra che canta “My Way”
da “Zeyer” a piazza Alesia
con i miei amici Giacometti e Mohsen Makmalbaf
È il gioco della mancanza
Il parlare del soggetto rimanda qui ad altri soggetti, ad altre maschere (Eredia, Giacometti, Mohsen Makmalbaf, Frank Sinatra, la bianca geisha, Marcel Duchamp etc.), rimanda al soggetto dell’inconscio, soggetto che è un effetto, ma effetto di linguaggio, effetto di un ordine simbolico e dunque di una struttura, del registro del simbolico. Questa struttura è generatrice, crea, nella misura in cui è originata da una mancanza, un difetto centrale che dà il moto all’inconscio, alle sue rappresentazioni, ai suoi ritorni continui sulla stessa soddisfazione la quale, più che riguardare un oggetto ben definito, riguarda sempre e solo il ritrovamento di sé, in tal modo l’oggetto è sempre perduto. L’oggetto perduto dà luogo alla mancanza. È il gioco della mancanza. Ciò che costituisce il destino del soggetto, ciò che produce il ritorno dell’oggetto come non-rappresentabile, ovvero come significante-errante, allucinazione o altra scena che sia. È la mancanza, essa si localizza in un corpo, si espande verso il piacere e si scopre desiderante, si volge così agli oggetti, sostituti molteplici, e si fa parola che chiede, come si è visto, e torna poi all’Altro di cui non può fare a meno: Ordine in cui deve perdersi per ri-trovarsi come ri-conosciuto.
Un soggetto parla.
Il discorso poetico è un testo che sovrascrive e lascia trasparire un pre-testo nelle sue lacunosità, nelle sue forzature, nelle sue cadute logiche, nei suoi salti logici. Il testo che opera al di sotto rimanda all’inconscio, alle sue formazioni: produzione ineliminabile, giocata tra visioni, desideri, domande. Così agisce il fantasma, formazione eccellente che si produce tra conscio e inconscio, schermo e scena mediante cui la realtà acquista sostegno. Formazione importante quella del fantasma sia perché ha in sé i fondamenti dell’io, sia perché le sue modalità di articolazione sono direttamente connesse con l’erranza del desiderio rispetto all’oggetto verso cui è diretto. E, mentre nella parola la mancanza-a-essere viene ad essere rappresentata da un significante, nel fantasma vi è un eccesso ad un qualche modo d’essere.
Il soggetto parla perché c’è un altro testo che è stato cancellato
L’altro testo, il testo cancellato segue delle regole precise, la strutturazione su due assi linguistici fondamentali: quelli della metafora (sostituzione/ condensazione) e della metonimia/ sineddoche (combinazione/ spostamento). La metafora riguarda l’inserimento di un significante in una catena significante in sostituzione di un altro significante che rimane latente e disponibile per un’altra catena significante. La metonimia/sineddoche riguarda la sostituzione di significanti per rapporto di continuità, sostituzioni per cui va ad intendersi tra altre figurazioni: la causa \ per l’effetto, l’effetto per la causa, il contenente per il contenuto, l’astratto per il concreto, la materia per l’oggetto.
Il soggetto non è un dato di partenza ma si costituisce da un qualcosa che gli preesiste, l’Altro, ovvero emerge come soggetto dell’inconscio, come significante per un altro significante, soggetto di linguaggio nella struttura metonimica del desiderio. In ogni caso il soggetto e la struttura sono presi nella logica del significante che è una logica strutturale della mancanza.
caro Mario Gabriele,
tu pali di rielaborare, assimilare e comporre la «storia privata e pubblica» e il lessico mediatico – giustissimo; scrivi: «la traccia archeologica della tradizione è un deposito calcareo ancora in uso, che non si toglie neppure con la candeggina. Bisogna transitare verso altre direzioni, assimilandone i contenuti morfologici e strategici, diventando anche un esperto del linguaggio dei social-media».
La tradizione aveva di vista il «senso» e il «significato», un macchinario infernale che spegneva tutto. Quella tradizione è pleonastica, inficiata da ideologemi: il quotidiano, lo sperimentalismo, il panlogismo, l’orfismo… se non per via negativa, bisogna sciacquarla la tradizione con la candeggina, occorre riconoscere la sua inanità, prendere cognizione che quel «senso», quel «significato» erano una macchinazione di ideologemi, una perversione di ideologemi, una costruzione delle ideologie che hanno abitato il novecento e questi ultimi lustri postruisti. Quegli ideologemi sono finiti nella catarifrangenza della implosione del simbolico, vanno semplicemente disattivati e abbandonati nella loro interezza. Per abitare poeticamente il nostro mondo occorre disfarsi degli ideologemi dell’io panottico e panlogico.
Il fatto è che noi abitiamo una scatola vuota con all’interno il vuoto, all’interno di questo vuoto c’è un altro vuoto, e così via… nominare il nulla o il vuoto non è affare di poca contezza, lì dentro non c’è più quella cosa catarifrangente e catafratta che va sotto il nome di «io», il mondo non lo si capisce più se lo leggiamo dall’angolino dell’«io», va letto dal punto di vista del «vuoto». Ed ecco che il mondo, improvvisamente, si anima, si popola di tante cose che non immaginavamo. La poetry kitchen (con le sue varianti instant e kitsch) ha dato il benservito alla poesia euforbica ed ergonomica che va di moda nella nostra epoca di autostrade digitali, di dittature sanitarie, di autovelox digitali, di no vax e di no tax e di «io» digitalizzati che ci narrano delle adiacenze dell’io postruista. Quello che mi colpisce nella poetry kitchen è la sistematica dis-connessione di tutti gli ideologemi, de-pressurizzazione semantica, sintattica, metrica del suo procedere linguistico, il non dar conto di nulla a nulla e a nessuno, e lo fa con una fragranza asciutta, ilare… Se qualcuno dirà: ma voi siete privi di utopia, privi di progetto, privi di contenuto! Rispondetegli così: È l’account del «vuoto» che noi abitiamo, sono i nuovi avatar ciò di cui narra la kitchen poetry… la poetry kitchen si fa da sola, a strati, con la panna e la crème caramel… così facendo e disfacendo si nomina il «vuoto» che è in noi, attorno a noi, in ogni luogo e in ogni tempo.
gentile Colasson
trovare una empatia da parte sua nel mio commento mi onora moltissimo, associandosi a quella che ritengo nella nostra poesia l’inizio di un divario il cui percorso richiede sostegno e fiducia. L’esposizione deduttiva e critica di Linguaglossa permette una difesa dei nostri elaborati concedendo ad ognuno di noi il proprio modo di esprimersi. In questa libertà abbiamo creato il “vuoto” che per forza di cose riflette squilibri endogeni.
Per Lacan il soggetto come res cogitans manca incessantemente il reale in quanto il soggetto è in-adeguato rispetto alla verità e al reale ed è portato a negare la realtà a vantaggio di una continua auto rappresentazione. Ovvero, l’io penso si traduce in un «je/me/dis» e quindi ad una adesione all’interpretazione heideggeriana del Cogito «je/me/ représente», sottolineando così la distanza tra il soggetto dell’enunciazione e l’enunciato che lo rappresenta. Lacan ritiene che il soggetto non può rapportarsi a se stesso nell’atto dell’enunciazione se non a condizione di alienarsi nell’atto dell’enunciazione stesso in cui il soggetto «se re/prèsente»: in qualche modo un monologo che diventa dialogo, un dialogo che diventa delirio.
Lacan dirà che la verità parla mentendo, che la verità si mostra nella truffa, nell’inganno e nella menzogna, ovvero con tutto ciò che ha a che fare con la rimozione. La verità parla per il tramite del soggetto paranoico.
Il rapporto tra rimozione e menzogna non è di riduzione della seconda alla prima, la menzogna è la verità. La strada della verità è lastricata dalle mattonelle della menzogna. Non c’è dimenticanza, tra verità e menzogna c’è un patto di alleanza e di comunanza. Io, la verità, parlo attraverso la menzogna, dirà Lacan. La rimozione si rivela come il non-essere più del desiderio. La rimozione è la verità del desiderio e quindi rimuovere significa percorrere la verità. La verità dunque è dell’ordine della menzogna e della rimozione del desiderio. Si tratta di un movimento di svelamento e di velamento che richiama la verità presso Heidegger. Il soggetto paranoico della attuale fase di civiltà è strutturato nella non-verità, le sue allucinazioni, la sua psicastenia lo relegano nella parte del soggetto alienato e allucinato che produce menzogna a seguito di uno scambio nella catena metonimica: la causa per l’effetto, cioè capovolgimento e inveramento della menzogna nella verità.
“Se qualcuno dirà: ma voi siete privi di utopia, privi di progetto, privi di contenuto! Rispondetegli così: È l’account del «vuoto» che noi abitiamo, sono i nuovi avatar ciò di cui narra la kitchen poetry…”
M.L.Colasson
/
Le auto, le stesse con una piccola modifica.
A succo di frutta. Vegane.
Che si assottigliano. Più piccole di un minuscolo
bulldozer. Bud corrugava la fronte e partivano.
Poi vennero quelle al the e alla camomilla,
in fronte portavano i segni inconfondibili,
Sparring partner con filo. Lividi.
Che tutti abbandonavano. Sulle autostrade,
in fondo ai vicoli, alle stazioni, nei parcheggi.
Le carcasse modificate senza neppure
l’accensione, manichini
da crash test.
Sulle sciovie sempre alla stessa distanza.
Grazie OMBRA.
(I video fateli partire nello stesso istante)
– Omaggio alla Colasson-
Ils sont six
les cyclopes
fument des clopes*
en paquets de dix
Sono in sei
i ciclopi
fumano dei sigari
in pacchetti da dieci
clopes, parola argotica che significa sigaretta
Riscrittura in distici della poesia di Mauro Pierno:
Meglio….
Il GIGANTE E VERSI TOLTI DAL MONTE MAGNOLA
Coda che sbatte su pista da sci.
La sella del silenzio addosso.
Non tutto fila liscio tra panna e cappuccino
Lo zucchero ha un vuoto di memoria.
La luna è meno pezzata
se Saddam si libera dal lazo.
A ogni pomodoro una camera del lavoro
E al sole si sta peggio che in bottiglia.
Ah il ribollire dell’ultimo orizzonte!
Un cielo in meno e una rivoluzione in lattina
Aiutano la digestione.
L’Afghanistan ha i denti cariati
Perché un cuculo è covato dal cuculo.
Sul Gigante una nuvola possente.
Dito che gratta l’Amazzonia.
Fa molto buio in cantina
Uno spumante si rimette gli occhiali neri.
Rotolerà un dado dall’osso occipitale.
Il numero vincente?
Quale numero?
Versi tolti:
L’inconscio vuota intestini.
Nel teschio qualche cent.
Mucche a pascolo sul palato.
(Francesco Paolo Intini)
Chuang-Tse (Zhuangzi) 753 d.C.:
«Il punto culminante del discorso si situa in una modalità di espressione che sarebbe allo stesso tempo non-silenzio e non parola».
Quella zona che è allo stesso tempo non silenzio e non parola può essere identificata come la zona del rumore. In questa accezione penso che la poesia di Intini sia «rumoresque», da non considerare antitesi del «pittoresque» ma come suo estraneo.
“La fine della filosofia e il compito del pensiero” –
Questa citazione di Heidegger è tratta dal titolo di una sua conferenza del 1964, che potremmo parafrasare così:
La fine della poesia e il compito della poiesis –
E in effetti si tratta di rumoresque. Che altro accogliere in un distico seriale? Si tratta di frammenti senza capo né coda, pezzi raccolti durante la colazione alle falde di un monte d’Abruzzo, tra un cappuccino e la panna e chissà cosa manca allo zucchero per interferire nel dialogo tra un orecchio e l’altro E un cigolio di watsapp. Ci passa lo stridere della fune intorno al collo di Saddam, il femminicidio di massa e infine la warholiana di una madre che cede il suo bambino a degli sconosciuti pur di salvarlo e per cui:
K di Troia
Il nome ad Ecuba? Schiava di Ulisse
Ma è Astianatte l’incognita.
In verticale il gesto di quokka
nessun indizio tra gli orizzontali
Di Andromaca il lancio del figlio?
Euripide arretra. Poesia moderna!
Segno dei tempi e dunque bisognerebbe animarla con colori diversi, appenderla alle pareti di questo 2021 senza un calendario degno di questo nome. Anche il verso del cuculo interferisce. Uno canta stelle e strisce l’altro falce e martello oppure soltanto gocciola il papavero su campi contesi a suon di Kalashnikov. C’è una confusione enorme nella testa dell’uccello bendato. Vorrebbe fare una conferenza e convincere i suoi simili che si tratta di quello buono, il più puro dei volatili e che i suoi figli hanno licenza di uccidere, violentare per dono di natura.
Ecco allora sul monte irrompere una nuvola che gratta una foresta. È il rumore di chi fu lampo e tuono ma ora partorisce dadi senza numeri sulle facce.
Qual è il numero estratto?
Ogni faccia reca lo stemma bianco dell’ incognita che mangia il tempo, il resto è una perturbazione, onda che oscilla, ascolta, mescola e va avanti senza coordinate precise.
GRAZIE, CIAO
“I ripostigli sono tanti.
Puoi metterci tutto
anche le ossa di Tutankhamon
e di Withney Houston.”
Leggendo questo verso di M.M.Gabriele ho colto improvvisamente tutto il mio limite culturale.
La finitudine della mia letteratura. Il limite intrinseco delle mie parole. Girovagando su altervista.org.
ho estrapolato dalla raccolta inedita, Horcrux, questo cammeo,
la parte sottintesa della mia personale Metamorfosi! Si coglie nella scrittura contemporanea,leggendola, la propria
limitazione culturale, storica e politica.
Il proprio limite! Questo specchio di verità di un
ripostiglio dalle pareti a vista. Ho letto Kafka, tanto teatro, Cechov, Eduardo e Vassalli…
(Davvero ho pensato che le poesie di Gabriele fossero piene di citazioni e di elucubrazioni, ma evidentemente mi sbagliavo: misuravo a versi la mia ignoranza.)
Grazie OMBRA, grazie Gabriele.
Noto con piacere che la poetry kitchen ha rassettato la squadra. Ci compete un compito duro, prioritario è non demordere.
«il rifiuto del soldato Josef Schulz il quale, posto nel plotone di esecuzione dinanzi a 15 giovani serbi condannati alla fucilazione, dichiara semplicemente «io non sparo».
Questo gesto segna una linea divisoria tra l’autenticità e l’inautenticità. Posto dinanzi alla scelta se obbedire ad un ordine e sparare o disobbedire all’ordine decidendo di non sparare e condannarsi a morte certa, il soldato Josef Schulz sceglie la seconda possibilità con un formidabile atto di decisione anticipatrice della morte.
La morte è una possibilità dell’esserci, è la possibilità più propria (concerne l’essere stesso), incondizionata (l’uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano tutte le altre possibilità), certa.
Con la anticipazione della morte, l’uomo comprende autenticamente se stesso. Gettato nella situazione emotiva dell’angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, il soldato Josef Schlz sceglie la morte, annullando ogni altra possibilità che lo avrebbe condannato alla inautenticità.
Dunque, Essere-per-la-morte.
La morte non va rifuggita, ma affrontata con la decisone anticipatrice di essa, sostiene Heidegger: non è il suicidio o l’attesa (forme di realizzazione che tolgono il carattere di possibilità), la soluzione, ma è tenere presente che questa possibilità c’è sempre. Accettare quindi con la decisione anticipatrice la possibilità della morte, ci richiama al nostro destino di mortali.
I pensieri del poeta Gaio Cornelio Gallo a proposito del suo collega Druso
Druso ha sempre i piedi sporchi nei calzari di cuoio,
il ventre prominente e parla un latino infarcito di dialettismi della Sabina;
inoltre, a tavola non è mai sobrio, ama l’eccesso
in libagioni e in amorazzi con le sue schiave
e con i mori che acquista al mercato al suono di sesterzi d’oro.
Nel Foro non prende mai una posizione
univoca, chiara, ciò che dice in
privato non lo ripete certo in pubblico.
È abile, sfuggente come una biscia, oleoso
come la resina del Ponto Eusino,
dire che non lo amo sarebbe un eufemismo,
una ipocrisia, ma ciò che è più grave,
non riesco neanche a detestarlo.
Mi dico: «Druso è un codardo, un mentitore,
un fingitore, un voltagabbana» ma, ciononostante,
non riesco a detestarlo. Forse che dovrei rimproverargli
il suo faccione impolverato di cerusso?
In fin di conti è un mio simile: un teatrante, un attore,
ha un mento, due occhi, un naso aquilino, proprio come me.
«Non c’è alcuna differenza – mi dico – tra noi».
Druso ha gli occhi foderati di cerone da teatro
il volto scivoloso di biacca, il mento leporino
e gli occhi cisposi per il vino in eccesso
bevuto la notte innanzi, ascolta
ciò che gli torna immediatamente utile,
quando non gli conviene fa il pesce in barile;
dei nostri discorsi sulla res publica
dice «che sì, che no, che forse, che insomma…».
Del resto, sto molto attento quando
nei conviti privati mi porge il cratere colmo di vino,
fingo di bere con un sorriso sordido…
mentre con la coda dell’occhio
sbircio sempre in allarme la porta d’entrata.
Evito di guardare in volto il capo delle guardie
quando fa ingresso in casa di Mecenate
con il suo codazzo di pretoriani e di ottimati profumati.
Anch’io parlo sempre meno in pubblico
dei miei pensieri privati, e in privato
dei miei pensieri pubblici…
da How the Trojan War Ended I don’t Remember, trad. ingl. di Steven Grieco, 2018
La perdita delle case intermedie
di Alfonso Cataldi
… dalla forma indefinita di titoli e cognomi.
La ragazza con la valigia porterà comunque il vestito di paillettes
lasciapassare non richiesto sul canotto alla deriva.
Nel dubbio, Maria pesca.
Equazioni tra le nuvole.
Una mattina si è svegliata e si è chiusa nell’armadio.
ha partorito l’incendio delle case intermedie.
**
Settecento grammi di neuroni impoveriti e la frittata è fatta
– quanto il nocciolo della bomba sganciata su Hiroshima –
“Come? Usavo il tegame o la padella?
Meglio il fuoco grande o quello medio?”
Con chi non sa o non ricorda, gli agenti della CIA non si perdono d’animo
ricorrono al waterboarding.
“Confesso, l’ho ucciso tirandogli dietro un ombrello
nel giorno in cui la pioggia ha cancellato le coordinate.
ma è una tortura perdere le terre rare dentro di noi
ancora prima che sotto di noi”.
**
Dove si confermano le vicissitudini del mondo?
Non lo so, ma lei è stata cancellata da tempo
da qualunque parte si guardi
Giacomo sei pronto per il primo giorno di scuola?
No, non ce la farò, risponderò cose a caso
tipo che dodici più dodici fa trenta.
Da grande vuole fare il tipografo
Dice che non combacia più nessun carattere
attorno al cadavere ritrovato
la parola è sempre più lontana dalle immagini evocate.
L’arte per la poetry kitchen è ciò che si offre gastronomicamente, ma con segno invertito, alla delibazione e alla degustazione dei palati; ciò che si offre come delibazione, medaglia male appiccata sul petto, ornamento mal messo, si è convertito nel suo contrario. La poiesis kitchen si dà piuttosto come ciò che «chiude» la possibilità dell’aprirsi di mondi storico-destinali. La poesia kitchen è «chiusura» di mondi storico-destinali, ciò che si sottrae alle sirene dell’avanguardia e ciò che si sottrae alle malie di una retroguardia. È il «I prefer not to» di Bartleby di Melville ripetuto e reiterato all’infinito come possibilità dell’impossibile. Estrema ratio. È la nuova utopia del rifiuto assoluto e drastico, ad oltranza dei significati stabili e stabiliti.
La nuova fenomenologia della poiesis che chiamiamo poetry kitchen rientra nel mondo epocale del Ge-Schick dell’essere di cui parla Heidegger: non più apertura di mondi storico-destinali, non più apertura di epoche, non più inaugurazione di epoche storiche nelle quali si dà l’essere, non più il susseguirsi (trasmissione, Ueber-lieferung) di aperture, di epoche, non più come ciò che viene in presenza, ma come ciò che
viene in «chiusura» di un mondo storico-destinale, come inaugurazione della «chiusura». «Chiusura» che però non si dà mai come fine ma come tentativo di oltrepassamento del fine, tentativo di oltrepassamento della soglia del fine, e impossibilità di quell’oltrepassamento come superamento della metafisica della presenza e della luce che consente ed assicura quella luce. Quindi la fine della metafisica. In questo tragitto dovremo procedere con drasticità verso l’interminabile dissoluzione della presenza, che è il modo con cui si dà la presenza nell’orizzonte della metafisica, al di là della concezione metafisica del segno come ciò che «sta per» il significato, che tende a derubricare il segno scritto come ciò che sta per qualcosa che a sua volta sta per altro; procedere verso la liberazione del significante da ogni dipendenza che caratterizza oggi, nelle società mediatiche, la subordinazione del significante ai significati stabiliti dalla comunità.
È ovvio che qui stiamo parlando della fine dell’arte come rappresentazione e della fine della metafisica della presenza. La «casa dell’essere» non è più il linguaggio, l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia e adesso se ne va a ramengo per il mondo non più mondo. Il linguaggio poetico come cristallizzazione e sedimentazione di opere classiche e iscrizione monumentale è diventato una bara, la tradizione si è allontanata dalla tradizione, ha preso congedo da essa ed è rimasta orfana di senso.
1 Un recentissimo studio di una agenzia internazionale ha verificato che durante la pandemia i ricchi si sono arricchiti mentre i poveri si sono impoveriti. E che 40 famiglie italiane detengono una ricchezza pari a 160 miliardi di euro. (certo, una flat tax, ove fosse possibile, aumenterebbe a dismisura la ricchezza dei ricchissimi e impoverirebbe, a dismisura, i già poveri).
2 G. Vattimo, Introduzione a La scrittura e la differenza di J. Derrida, Einaudi, 1971 XXIII.
quello che ha scritto Linguaglossa è pregno di significati ulteriori e di conseguenze inopinate per la poesia:
“La «casa dell’essere» non è più il linguaggio, l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia e adesso se ne va a ramengo per il mondo non più mondo. Il linguaggio poetico come cristallizzazione e sedimentazione di opere classiche e iscrizione monumentale è diventato una bara, la tradizione si è allontanata dalla tradizione, ha preso congedo da essa ed è rimasta orfana di senso.”
Se l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia ne deriva che tra essere e linguaggio si è verificata storicamente una Spaltung, una Scissione.
La conseguenza è che il linguaggio che si impiega in poesia oggi è un linguaggio usufritto, fasulloide, fascistoide che sa di celluloide e di rifritto, da cestinare dunque, senza remore. Bene fa Intini e bene anche Alfonso Cataldi a prendere atto di questo precetto.
Quanti sono in Italia le persone che la pensano alla Durigon? Che pensano che Falcone e Borsellino siano stati dei cialtroni da cestinare?
inedito
di Mario Gabriele tratto da Horcrux
Che ne dici, Lucy, se ci fermiamo a trovare
la Signora Doran nella RSA?
E’ rimasta sola
dopo la morte di Andrea.
Lucy riaprì un discorso
sulla sostenibilità del ricordo.
Cose d’altri tempi, riferì Tom,
come il volume Screwtape letters di C.S. Lewis.
Un messaggio arrivò in WhatsApp
decodificabile con il sistema d’accesso.
Era un’anteprima di modelli Live Style,
non profit per il Continente Nero
sostenuto da Goldman Sachs.
La storia su Romeo e Giulietta
era ancora nelle mani dell’MI5, dopo la Sars-CoV2.
Mi sembra che i libri abbiano storie diverse
rispetto ai social network.
-E’ una Lobby Time- disse Mike Jordan
che dal backstage aveva un occhio
per il Big Management.
Ma guarda come ti sei ridotta Lucy!
Ora chi vuol sentire Donna Joel?
Non basteranno le sutures cutanées
per essere la cover di Playlist
con gli scatti di Sebastião Salgado
su mondi estremi e biodiversi.
Ti ricordi di Overland?
Perché te lo chiedo?
Erano tutte donne che puntavano
alla bellezza in copertina
tranne Kathy Bates,
diabolica femmina in Misery.
La nostra storia ha capitoli finiti.
Il futuro è sempre possibile
imitando Gli ultimi fuochi di Elia Kazan.
Giorgio Linguaglossa says:
agosto 26, 2021 at 5:42 pm
In the room the women come and go
Talking of Michelangelo.
Il significato letterale di questi versi di Eliot sembra chiaro benché al livello più profondo sembra sollevare altre questioni
In “The Love Song of J. Alfred Prufrock, ” il verso “I have measured out my life with coffee spoons”, allude al personaggio Prufrock che ha dissipato il suo tempo e il suo talento in festicciole e nella abulia della everyday life.
Dissimilmente, le frasi di questa composizione di Mario Gabriele possono essere lette ad un livello di superficie e ad un livello più profondo… ma è come se ci fosse qualcosa che impedisse di raggiungere una qualche profondità di lettura, qualcosa che resiste e che non ci consente di adire ad un livello più profondo… quel qualcosa di insondabile che si nasconde nel nostro odierno modo di vita, quel nucleo fatto di cinismo e di misericordia posticcia, quel divagare a buon mercato, quello scetticismo miserabile e quella miserabile impenetrabilità della superficie che è la vera essenza della vittoria della falsa coscienza.
caro Giorgio,
il tuo esame ermeneutico mette in osservazione un testo poetico vivisezionandolo come un corpo autoptico. E’ chiaro che qui non si tratta di chiamare la Squadra Omicidi, per accertare omissioni o elementi fisiologici tenuti in disparte, ma di affrontare le tante ibernazioni psicologiche che si estetizzano con i versi, anche se non tutto è sistematicamente prelevato dal catrame dell’ES,
Se è vero che molte cose, in gran parte, provengono dall’esterno, ciò che turba l’Essere del poeta e la sua attività psichica, che non ha nulla a che vedere con le fasi di occultamento, ossia con i fatti che possono essere custoditi, ma sempre identificabili, tutte le volte che bisogna rimuovere o portare in superficie l’Universo occulto. Non vado oltre, anche perché queste cose non ti sono sconosciute come poeta e critico.
Kitsch poetry
di Gino Rago
Il signor Qualunque da Forlì
prende il treno per andare a Bordeaux
però ha dimenticato i doposcì
che fa?, torna indietro
ma sbaglia binario e arriva a Canicattì
dove il critico Carlo Bo
sta partendo per andare a Bordeaux
ma anche lui sbaglia binario
e litiga con il signor Mercoledì
«Tutto qui?», chiede Carlo Bo
«Tutto qui!», risponde Mercoledì
Il punto centrale del libro di Giorgio Agamben, Ontologia e politica, a cura di Valeria Bonacci, Quodlibet, 2019, pp. 576 €. 26,00, verte sulla «impossibilità di parlare».
Che cosa significa «impossibilità di parlare»? Significa, secondo Agamben, che il linguaggio è qualcosa che eccede costantemente i soggetti che lo parlano: gli esseri umani nascono in-fanti (non-parlanti) e devono poi apprendere il linguaggio fino ad una certa età, un linguaggio che evidentemente non hanno inventato loro ma che ereditano dalla tradizione culturale in cui sono nati. Questo significa che l’atto di dire «io», di parlare e situarsi nel linguaggio, racchiude qualcosa di paradossale. Il soggetto del linguaggio può essere tale, infatti, solo costituendosi in un’insanabile frattura: quella fra la propria (presupposta) singolarità che resta indicibile e un linguaggio che si presenta come una grammatica di regole astratte.
La poesia intesa come «modello di inoperosità» da Agamben vive nella destituzione dei dispositivi del Politico. «La schiavitù di massa» si può leggere agevolmente sulle opere letterarie e di fiction di oggi in quanto queste ultime oscuramente si reggono su di quella. La luminosa «macchina antropologica» (che Agamben riprende da Jesi) è l’eco dell’annichilimento dell’animale che l’uomo si porta dentro, sono esempi delle opacità con cui l’archeologia ha da confrontarsi. Possiamo concludere che il «polittico» è una tipologia di archeologia che si occupa della «opacità» della vita politica dell’uomo contemporaneo e dell’indebolimento della sua «memoria».
Il potere oggi si presenta come struttura paradigmatica che governa restando nascosta, si configura come habitat, «milieu», dove avviene la «nuda vita». In situazioni ordinarie, tale forma di potere è sul piano empirico del tutto invisibile. Il polittico è la sede in cui la invisibilità-opacità del sistema politico diventa visibile.
Per Agamben, la poesia è ciò che resta della lingua, dopo che di essa sono state disattivate le normali funzioni comunicative e informative. Pertanto, la lingua della poesia, la lingua che resta, «ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde»1. Infatti, secondo Agamben, «l’immagine di pensiero» di cui parla Benjamin sarebbe da intendersi, come l’allegoria rinascimentale, un mistero «in cui ciò che non può essere esposto discorsivamente per un attimo brilla attraverso le rovine del linguaggio»2
Quato alla poesia, intesa come sopravvivenza di una «lingua morta», Agamben evidenzia il fatto che in essa si condensano «immagini mobili», ma senza vita, anche se è possibile, quasi per incanto, che il poeta le rianimi e che le renda di nuovo canto, musica e voce. Se è vero che parlare e poetare significa fare esperienza della lettera come morte della lingua e della voce, tuttavia il mitologema originale della poesia prevede proprio la memoriale conservazione della voce nella lettera 3. Il poeta, infatti, è «colui che nella parola genera la vita» e tale vita presuppone una mutazione antropologica, dal momento che essa «è sottratta tanto al vissuto dell’individuo psicosomatico che all’indicibilità biologica del genere».4
1 Id., «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018].
2 Id., La ragazza indicibile, in Giorgio Agamben, Monica Ferrando, La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Milano, Electa, 2010, pp. 7-32; la citazione è a p. 25.
3 Id., Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Torino,Bollati Boringhieri, 2009, p. 16. 17 Id.,
Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 71-72.
4 Ivi, p. 88
Alfonso Cataldi
Come dirimere la direzione delle venature
(scritta a quattro mani con Giorgio Linguaglossa)
L’astronauta rovistava fra gli avanzi del pranzo
del giorno prima quando fu sorpreso da certi marziani verdi i quali
erano di stomaco forte e mangiavano delle bistecche di montone crudo
e io ne fui sorpreso perché invece della resina di pino
bevevano cognac con della Cola Cola e Ginger Fizz
e fumavano del tabacco cubano… non saprei dire altro però,
Signor commissario…
no, non erano dell’era glaciale ma di prima, direi del cenozoico, o giù di lì…
– con quella gamba messa male
erano atterrati col paracadute sulla terrazza della Tower Trump at Chelsea, New York
mentre Olga dichiarava il suo amore eterno per Billy the Bud…
tu mi chiedi che fine ha fatto Billy the Bud?, ma che importanza vuoi che abbia!
la stanza era di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
consolidarsi, senza preavviso…
nel monolite apparente del tempo che rimane in sospeso…
La signora Madeleine vende la sua ombra alla casa di riposo
e fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
abbandonate a causa della guerra.
Una giovane insegnante sbagliò ad imboccare il viale dietro il piccolo cancello
e si trovò di colpo su Titano a meno settanta gradi centigradi con il colbacco in testa
e gli autoreggenti di pizzo…
ma forse questi ricordi sono un po’ confusi però spiegano bene
la teoria evolutiva dell’azzardo cosmico quando un bel giorno iniziò il Big Bang…
Giacché l’amore è l’atteggiamento nei confronti della realtà, normalmente di qualcuno mortale, nei confronti di qualcosa di infinito. Da lì la necessità, dettata da questa intensità, dell’espressione verbale. Da lì la ricerca di una voce meno precaria della propria”.
(Brodskij, L’altra ego )
In effetti, trovare la propria voce non è affatto semplice, occorre un lunghissimo lavoro su se stessi, sul linguaggio e sul reale. E’ un trinomio davvero complesso, per questo è indispensabile essere aperti al reale, per trovare una voce meno precaria della propria, dice Brodskij, invece i poeti piccoli si arrestano alla propria voce, ed è ciò che li condanna implacabilmente alla secondarietà, perché non esiste una “propria” voce ma una voce esterna che interviene come e quando le piace.
Foresight Academy
Descrizione
Complessità, accelerazione, discontinuità e incertezza sono la cifra dell’epoca che viviamo. Mai come ora tutto questo è evidente. I cambiamenti sono sempre più profondi e repentini in ogni contesto a vari livelli, sia sui territori e nelle comunità, che nelle aziende, nelle organizzazioni, nei gruppi. Il programma intende fornire nuove abilità e nuovi strumenti di leadership e management che consentano di prevedere gli scenari possibili di mercati, contesti e comportamenti così da prendere decisioni nel presente capaci di avere un impatto nel futuro.
Come funziona
Percorso blended (in campus e online) articolato in:
laboratori esperienziali in campus, online live workshops, lectures, micro-learning, mentorship, follow-up.
Training in campus (48 h): 6 laboratori (8 h)
Training online (38 h): 6 workshops (3 h) + 12 lectures (1,5 h) + microlearning
Mentorship e project work challenges: esperimento di applicazione concreta su sfide proposte da player dell’ecosistema
Per chi
Imprenditori, manager, professionisti, chi ricopre ruoli di direzione in ambito strategico – marketing, commerciale, innovazione, IT, HR – e chi progetta prodotti e servizi con un potenziale di impatto elevato. Si rivolge anche a ricercatori e freelance nei settori profit, pubblico e non profit.
Obiettivi e metodi
L’intenzione è ampliare il bagaglio di competenze strategiche e di progettazione di roadmap, planning e strategie a lungo e breve termine, nutrendo il potenziale innovativo e stimolando le capacità di adattarsi ai diversi scenari possibili e ai cambiamenti veloci e imprevisti dell’epoca in cui stiamo vivendo. Il percorso unisce discipline di tanti campi differenti, dalla sociologia all’economia, dall’architettura al design, dalla comunicazione al marketing, senza tralasciare la psicologia. Durante il percorso i partecipanti lavoreranno su un project work incentrato su un sfida ad impatto sociale proposta da diverse aziende.
Il volto
I greci definivano lo schiavo, colui che non è padrone di se stesso, «aproposon», letteralmente «senza volto». Soltanto l’uomo fa del volto il luogo del suo riconoscimento e della sua verità. L’uomo è l’animale che si osserva allo specchio e, allo stesso tempo, si riconosce e non si riconosce nella immagine del proprio volto; torna a specchiarsi e di nuovo si riconosce e non si riconosce, vede nel se stesso l’altro che vi è celato, il proprio demone, e torna a specchiarsi di nuovo senza potere avere la conferma di riconoscersi eguale a come era ieri o un minuto prima. È la maledizione dello specchio che qui ha luogo, Borges docet. L’uomo maledice lo specchio che riflette la sua immagine che, giorno dopo giorno, invecchia e diventa la caricatura della immagine della giovinezza. L’uomo è l’unico animale che maledice lo specchio che gli rivela questa obbrobriosa verità, e poiché l’uomo è l’animale che rifiuta la verità è anche l’unico animale che maledice se stesso, che rifiuta se stesso. Il volto è sia la similitas, la somiglianza, che la dissomiglianza. L’uomo è l’unico animale che non ha volto, perché ogni giorno, ogni minuto, ogni attimo il suo volto cambia impercettibilmente, e lo specchio glielo rivela con crudeltà.
Un uomo senza volto è un mostro. Per questo il volto è il luogo della politica come dialettica della verità e della menzogna. Le informazioni che gli uomini si scambiano attraverso l’osservazione del volto altrui sono necessariamente menzognere, l’uomo vuole celare dietro il proprio volto le proprie reali intenzioni. Se gli uomini sapessero davvero leggere il proprio volto e il volto altrui saprebbero anche leggere la menzogna che il volto cela e rivela. Gli uomini hanno innanzitutto da comunicarsi la loro verità e la loro menzogna; il loro riconoscersi l’un l’altro in un volto, è il riconoscere la menzogna che hanno rivestito di verità. Il luogo del volto è il luogo della politica come luogo in cui gli uomini si scambiano messaggi di menzogna travestiti da verità. In questo senso il volto è il luogo politico per eccellenza. Guardandosi in faccia gli uomini possono mentire reciprocamente, e così si riconoscono e si appassionano gli uni agli altri, percepiscono menzogna e verità, distanza e prossimità.
Gli uomini sono sempre nella menzogna perché sono sempre nella verità, è questo il modo che gli uomini hanno per riconoscersi. Il volto lascia intravvedere questa commistione tra verità e menzogna, ma soltanto per un attimo a chi sappia guardare veramente, perché gli uomini sono sempre nella menzogna e sono sempre nella verità.
Ricevo e pubblico questo Commento di Antonio Sagredo.
Commento alle poesia di….. qualcosa su Brodskij
Le riflessioni che scriverò unicamente sulla poesia di Josif A. Brodskij si riferiscono soltanto alle dieci poesie “d’amore” (dal 1982 al 1989 – più la dodicesima delle Elegie romane, 1981) tradotte da Donatella De Bartolomeo e Kamila Gayazova e pubblicate di recente sul blog “l’Ombra delle parole”. (In una nota finale è scritto che : le poesie qui presentate sono tratte dalla raccolta Stichotvorenija i poèmy – Versi e poemi- – due volumi – edita a San Pietroburgo dalla casa editrice Lenisdat nel 2017).
Delle vicende tra il poeta e la sua “musa” Marina Basmanova è detto quanto basta nella presentazione, prima delle poesie; queste vicende come si somigliano ad altre del passato fra il poeta e la sua musa, a cominciare da Puškin!
Ho davanti a me queste poesie in lingua russa per potermi fare una idea la più precisa delle loro traduzioni in lingua italiana nei limiti delle mie possibilità odierne. Le traduzioni sono eccellenti, e questo non mi sorprende più, poiché conosco altre traduzioni egualmente eccellenti delle due traduttrici.
In questo caso, sulla resa di queste poesie di Brodskij, non si poteva fare di meglio. Azzardo che il poeta coi suoi versi ha tradito la bravura della De Bartolomeo e della Gayazova, nel senso che loro hanno dato davvero il massimo –lingua e stile e composizione – durante la traduzione, e che i versi del poeta (non propriamente efficaci tranne gli ultimi tre\quattro componimenti) non meritavano una così tanta attenzione traduttiva, ma questa è sempre doverosa.
Mi colpisce subito a prima vista in queste poesie la mancanza quasi totale di un tono declamatorio che aborre la solennità e addirittura una recitazione elevata quasi volessero i versi preferire i bassi toni, quasi da sussurrare, anziché i toni alti da smorzare, e quindi non sono versi teatrali che richiedono un uditorio. Ma gli ultimi tre componimenti lo richiedono.
Ma non sono i versi, sono le circostanze nelle quali l’amore fra i due si sviluppò a richiedere il massimo della discrezione, e questo rispetto a un pubblico anche non necessariamente teatrale. Invece prima della espulsione del poeta nel 1972 dall’Unione Sovietica vi furono molti testimoni oculari che erano un pubblico “amicale” o di facciata: chiacchiericcio, pettegolezzo! Sapevano nell’ambiente dei poeti e degli artisti pietroburghesi tutti delle loro vicende amorose e in effetti non era poi un amore così “discreto” come volevano il poeta e la sua musa far apparire.
Vi è una poesia, forse l’unica, fra queste scritta nel 1989 che segna il definitivo distacco affettivo – morale, spirituale ecc. – tra il poeta e la Marina Basmanova, ed è quella che comincia col verso:
Cara, oggi sono uscito di casa di sera tardi
E quel “cara” suona non solo beffardo e crudele, ma richiede davvero dell’esser letta davanti a un pubblico teatrale; i versi paiono gridati di modo che tutti possano conoscere il sentire e la rabbia del poeta, e qui fanno capolino i ricordi dei versi amorosi urlati di Majakovskij; e questo ben 17 anni dopo! Prima non potevano esser gridati nel mondo socialista: in Occidente invece si.
Ma questo non voler essere declamatorio-recitativo, ma discreto, quasi colmo di domesticità asfissiante:
Dalla tifica angoscia dei materassi
fuori all’aria esemplare delle ampiezze!
(Pasternak, 1931)
origina un verso, per me, troppo contrito a causa di una intimità (che poi è non è affatto come si crede una chiusura al mondo esterno e pettegolo della grande metropoli) davvero a tutti i costi cercata e voluta. Da qui nascono dal quotidiano esistere o vivere una esperienza chiusa le banalità sconcertanti di certe visioni poetiche (che meritavano di più) fra le quattro pareti di una camera, specie nella prima poesia Indovinello per l’angelo.
(Erano tipiche di questo mondo domestico le parole che si scambiarono Brodskij e l’amico-poeta Boris Sluckij : leggi l’intervista concessa da Evgenij Rejn a Tatiana Bek – che fece incontrare i due poeti nel 1960 a Moca- nel 1992 e di Salomon Volkov a Brodskij). Un mondo domestico fittizio perché i due poeti nei loro rispettivi versi e i loro amici intimi durante gli incontri “domestici” parlavano sarcasticamente dello stato della poesia nella Russsia sovietica, insomma se conveniva restare o andarsene via al più presto in qualsiasi maniera).
E allora:
“Se ti è capitato di nascere nell’impero, è meglio vivere in una provincia remota vicino al mare”
E il verso che più banale non si può esce fuori quasi patetico, da declamare in falsetto:
Per quanto tempo affogare questo dolore,
Recita la nota che “su questa poesia compare per la prima volta la dedica a Marina Basmanova”… chissà cosa pensò di questi primi versi dedicati (1962) e chissà cosa pensò del verso del 1989:
sei diventata straordinariamente stupida
Brodskij, come tanti poeti ama le classifiche dei poeti: questo è il maggiore o questo il minore, come nel caso della Cvetaeva di cui dichiara nell’intervista a S. Volkov che:
Beh, se davvero dobbiamo lasciarci andare a questo tipo di discorsi, allora no, non sono d’accordo. Credo che Cvetaeva sia il più grande poeta del XX secolo. Certamente, Cvetaeva.
Oppure quando sentenzia esagerando che Sluckij :
“Proprio Sluckij, quasi da solo, ha cambiato il suono della poesia russa del dopoguerra
Ma questo fatto del migliore o del primo o dell’ultimo poeta della Russia già era appannaggio nel mondo del futurismo russo!
Ora dunque Brodskij (almeno al principio) deve quasi tutto della sua poesia alla poesia e agli atteggiamenti esistenziali di Sluckij, e da qui il suo rapporto col mondo esterno e interno; e la caratteristica della sua poesia non declamatoria e non oratoria proprio dallo stato della società russa sovietica e non solo:
l’aspetto più sostanziale che Brodskij ereditò da Sluckij o, almeno, da quello che Brodskij vide in Sluckij, è la comune tonalità del verso, quel dominante stilistico, che documenta la posizione assunta dall’autore come atteggiamento nei confronti del mondo”.
l’arte oratoria negli anni del potere sovietico sono stati distrutti dalla censura totalitaria e sembrerebbero diventati un tutt’uno, la poesia onesta ha iniziato inconsapevolmente ad assorbire in se stessa funzioni non liriche…
(così nell’intervista concessa da Evgenij Rejn a Tatiana Bek nel 1992.)
Nel secondo componimento invece di dire di due corpi fisicamente innamorati (se non i primi due versi):
Ho abbracciato queste spalle e sbirciato
quello che accadeva dietro la schiena
Il poeta si smarrisce (è una strategia, forse) nella visione cameratesca del mobilio della (sua?) camera, della lampadina, del tavolo vuoto, della credenza, poi ha uno sprazzo vitale:
Ma una falena girava per la stanza
e deviò il mio sguardo dalla immobilità
La falena è la donna che gira e gira per questa camera e infine riesce a smuoverlo dall’osservare questo arredamento nudo e povero, perché è lei che vuole essere mirata!
Ha 22 anni il poeta, ma ancora non riesce a dominare la materia dei versi con cui deve esprimere, dare l’esatto contorno di una atmosfera che sta vivendo.
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Il terzo componimento è la cronaca di un approccio sessuale fallito, reso definitivo e senza ritorno poiché nemmeno mentalmente si sono incontrati: i pretesti sono stati la confusione e la speranza, che poi sono anche tratti distintivi di un amore che comincia. Ma il poeta è giovane e forse non sa questo.
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Nel quarto componimento la dimensione spaziale si allarga e dilaga: Giordania! Egitto! E sono reminiscenze di letture che sono in atto. È per l’influenza della presenza femminile che il poeta ringrazia e che anzi è per lei che sono qui i soggetti i versi coi loro suoni e le strofe, e che si sente libero come una volta succedevano i miracoli, come la disfatta dei cavalieri egiziani, ma nei sogni.
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Nel quinto componimento ancora il mare, la camera e il circondario, compresa una macchia sono i protagonisti di atmosfere e di atti che si svolgono… e in quel piccolo spazio di una stanza che le percosse (la risacca fa follie) dell’amore, quell’andare e venire fra un gioco di carte (la giostra fisica) e le sferzate del vento che coprono i respiri e i sussurri. Il tempo è tutto volto al futuro: ascolteremo, sarò vecchio, succederà ecc.
Ma in Olanda (?) sarà altra cosa… il dislocamento geografico è caratteristica cechoviana, di Chlebnikov, e poi majakovskiana… ma già in Puškin e Gogol’ e per tutto l’800!
Poi giungerà l’inverno e di nuovo ci si richiuderà nella camera… nascerà un bambino, lo chiameremo con nomi russi perché saranno il futuro…
Dirà il poeta dodici anni dopo il 1972:
Dopo dodici anni, certe frasi, certe espressioni, mi vengono naturalmente in inglese. E tuttavia, sento una vocina che mi dice: no, Joseph, non tradire la tua cultura, i tuoi ricordi, la tua lingua. Ma più mi dico di no, più so che devo cedere alla tentazione: perché le tentazioni, se non le ascolti, possono trasformarsi in nevrosi.
Questi poeti russi (e altri) del secolo scorso non ebbero questo problema, ma il loro amore per la propria lingua e la terra nativa superava gli altri amori:
e Majakovskij:
Io voglio essere compreso dalla mia terra,
se non sarò compreso che importa,
per la terra natìa passerò di fianco,
come passa l’obliqua pioggia.
e Pasternak:
Ma la gloria è – tendenza della terra,
oh, se fossi nato più diritto!
Ma sia pure così, – non come nomade,
da intimo entrerò nella lingua natia.
e Mandel’štam:
Più dolce del canto della favella italiana
è per me la lingua natìa,
perché in essa balbetta misteriosamente
la sorgente di arpe straniere.
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In Sei anni dopo (intende il poeta dal 1962 al 1968) il poeta durante lo svolgimento dei versi specifica un po’ troppo, tipica influenza del burocraticismo sovietico, che come dirò dopo distrugge l’arte declamatoria e oratoria dei suoi versi, ma già in Sluckij…
che la neve
se cadeva, avremmo pensato
non credendo che provavo a salvarle
che le labbra, che sfioravano la spalla,
con le mie, che soffiavano sulla candela,
senza vedere nient’altro, si univano.
ma i battenti non si aprivano separatamente
e noi, evidentemente, ci passammo attraverso
Qui a me non interessano le vicende biografiche.
E l’unico verso da salvare :
e dalla porta di servizio uscimmo nel futuro.
E questo uscir fuori è tipico di Mahakovskij; qui invece Pasternak :
Dalla tifica angoscia dei materassi
fuori all’aria esemplare delle ampiezze!
I versi seguenti di Anno Domini hanno un vago ricordo mandel’stamiano, ma sono assenti o ridotti al minimo quegli strati storici fra epoche dove ognuno di essi ha una sua caratteristica fondante che la determina, e mancante è pure il collante che li compatta e che alla fine del componimento puoi affermare: non c’è da scrivere altro, e il cerchio è compiuto.
Il paesaggio non è più l’angusta camera dove si svolgono i rituali della chiacchiera e della ripetizione banale se pure degli affetti. Qui gli spazi sono ampliati e si respira quasi liberamente (non è assolutamente necessaria la libertà!): è tutto uno spazio provinciale che si dilata a dismisura, quasi deformando gli angoli (di cui si dice nell’intervista al poeta); dunque uno spazio di cui non si conoscono i limiti, o si fa finta, e dove è situato un palazzo governatoriale, poi i vicoli intorno credo dei sobborghi tipici russi e ovunque un popolo che si muove nel fracasso generale. La malattia del governatore non gli impedisce di essere mentalmente anarchico (può far quel che vuole!) o al massimo tollerante (una finzione) con tutto ciò che lo circonda compresi i suoi stessi “pensieri spaventosi” e la moglie infedele.
Non vi è qui l’ombra della poesia se pure qui definiamo questi versi parte di un componimento poetico: qui è soltanto descrizione, spiegazione di eventi… è un occhio oggettivo che si muove come l’occhio di bue cinematografico che poi si cala tra il popolo e dice di capitribù e di mercanti… il Governatore – Prometeo (o lo zar-dittatore) a cui l’aquila imperiale (ancora il Mandel’štam di una poesia!) becca il fegato (il potere che si attorce con se stesso)… fa pensare al castello impenetrabile kafkiano entro cui si cerca di vivere con tutti i suoi labirinti mentali: la fuga, il giudizio della e sulla patria, la morte inconsueta, e poi si è lontani dall’immagine del Creatore, e la propria discendenza già marchiata dalla vergogna, compreso il nuovo venuto che non salverà il mondo… la menzogna regnerà sulla Vergine cristiana e la chiacchiera e il pettegolezzo di nuovo uccideranno i poeti (da Puškin a Majakovskij compresi quelli che resteranno viventi e morituri!)… tutto accade Nel nero velluto della notte sovietica\ nel velluto del vuoto universale, (Mandel’štam).
Si spengono le luci ovunque e i piani… qui la spiegazione\descrizione, credo nemmeno poetica:
Uno. Un altro. E, infine, l’ultimo.
E solo due finestre in tutto il palazzo
sono accese: la mia, dove di spalle alla torcia,
guardo come scivola il disco della luna
Soli a vegliare nella notte sono i due eterni nemici nelle loro stanze!: il Governatore in preda alle sue ossessioni per il potere e il poeta: la luna, l’amata (ma di Properzio!), e la neve che come coltre bianca è rovinato dal sonno, ma qui il poeta è insonne!
Ma la luce antelucana comincia a rovistare (sbirciare) e inizia il suo cammino diurno. Fin qui questo è il migliore componimento: tutto ciò che si è scritto prima sulle faccende e conflitti amorosi non ha più senso.
Adesso c’è un salto di 13 anni: dal 1968 al 1981.
Anche io ho scritto tanto, ma ancora non voglio pubblicare e nessuno tranne me stesso mi conosce. Qualcuno sa già però che scrivo buoni versi ed è un eminente studioso, ma ancora non pubblico: è presto! Nel frattempo è dal 1967 che seguo questo poeta russo, che non è più in Russia sovietica; ma è in America dal 1972 e qui comincia a pianificare la sua strategia “poetica”.
Bene, nella seguente del 1981, Io ero soltanto ciò, c’è davvero un cambio di passo, così davvero si comincia a parlare d’amore (gli ha già inciso il cerebro di Albione-John Donne la passione!)… perché
Io ero soltanto ciò
che tu sfioravi col palmo della mano
La quarta strofa è davvero strofa d’amore
Proprio tu, tirando
la tenda, nella umida cavità
della mia bocca mettesti la voce
che ti chiamava.
E si che adesso può scrivere diversamente proprio quando si è lontani nel tempo e nello spazio ma seguirà ben presto la denigrazione e la crudeltà del poeta – altro aspetto dell’amore che non muore! Nell’ultima di queste composizioni d’amore, specie e unicamente in Cara, oggi sono uscito di casa di sera tardi.
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Nella Elegia il poeta può dare sfogo all’ossessione che lo tallona da tantissimi anni e solo con questa consapevolezza della distanza, e non so se pure della mancanza che può scrivere:
Noi siamo solo parti
di un grande insieme
Prima erano l’insieme e credevano d’essere l’universale e tutto il resto nulla e macerie, insomma solo loro esistenti e tutto fermo e inutile come un fossile: la camera come una bara… ma si è prodotti dell’evoluzione che procede vitale e senza sosta ed è
come uscire dall’acqua sull’asciutto…
e il prodigio è compiuto, e si è in altra e superiore dimensione.
Brodskij ha 43 anni
Cara, oggi sono uscito di casa di sera tardi
È una sorta di resa dei conti e si collega con la precedente per quell’uscire e anche
dall’acqua sull’asciutto
è come
respirare l’aria fresca che spirava dall’oceano
con questa poesia che comprendo perfettamente per l’unico motivo che non io, ma lui mi si avvicinò in quegli anni…
Una maturità raggiunta anche perché s’era emancipato dalle influenze specie dei poeti russi, in primis Mandel’štam, Pasternak e la Cvetaeva (non dico ora dei poeti non russi).
La poesia è evidente qui perché si è formata compiutamente superando i conflitti affettivi del passato, ed è anche il distacco consapevole, è anche il ricordo che era un incompiuto e non so se è stato soltanto il rancore verso la Basmanova… certo è una confessione che scorre senza freni, il poeta è chiaro con se stesso e dunque una liberazione dai suoi lacci, i suoi polmoni sono slacciati, egli qui canta come nelle migliori canzoni d’amore russi:
Non fraintendermi: alla tua voce, al corpo, al nome
non mi lega più nulla.
E le parole che usa sono semplici e chiare e comuni e non ha bisogno di metafore, di parole teatrali e di immagini sopra ogni riga… di giri di parole viziate ecc. raggiunge egualmente un grande effetto:
Poiché il tempo, scontratosi col ricordo, riconoscerà la sua impotenza.
Che dire? Per me va bene così, egli si è riscattato grandemente dallo stile ingenuo dei giovanissimi versi, chiarisce in L’altro ego: erano versi prodotti in una camera-bara dove solo l’ amplesso d’amore lo accecava, vive con la sua donna una unica vita, poi riconosce tanti anni dopo che:
per dimenticare una vita ad un uomo è necessaria, come minimo,
ancora un’altra vita.
Non commento la elegia scritta a Roma. Basta così per me.
——
Sottolineo che i suoi grandi saggi hanno una bellezza rara, e talvolta superano la bellezza dei suoi grandi predecessori del secolo trascorso. Con ciò voglio dire li preferisco ai componimenti poetici.
Vorrei ricordare qui gli amici suoi poeti degli anni pietroburghesi, dei poeti russi moscoviti e tant’altri che non gli erano inferiori affatto, ma hanno avuto un destino diverso, e il poeta si sa col destino ci gioca ed è a sua volta giocato.
E finisco con una mia strofa
E non sopporto più di abbandonare l’inferno al suo destino,
Il nostro sguardo è differente nella somiglianza,
Le figure e gli stupori mirabilmente non protetti
E nel pensiero che m’oscura…
Immortalità – ti aspettiamo!
Antonio Sagredo
(Campomarino 15\16 settembre 2021)
caro Antonio Sagredo,
il tuo commento, denso e informato, rende onore allo studioso quale sei della poesia russa.
Comunque sia Brodskij fa parlare.
Il problema dell’intelletto è il presente. Il problema della pratica è il futuro.
SENZA PACE
A Teresa Ferri
Su di un cielo che muto si stringe
A imbuto disegni in filigrana dei rami nudi
Trucchi di rugiada il fiordaliso
Ucciso dall’alito di gelo che all’alba lo baciò
Sogni di astri lontani
T’imbuchi di un ricordo sempre più smilzo
Tocchi di immani lapislazzuli i resti di un sorriso
Varchi senza affanno
Labradoriti
Raccogli nell’aria
Se nel vuoto
La lanci a strofinar le stelle
Anni rotolati nuotano tra le dune
Affamato d’un morso cogli il cielo
E rimani lì a sognar sfamato
In cerca di mani e sguardi di piacere