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Kikuo Takano (1927-2006) POESIE da Il senso del cielo (Passigli, 2017) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore,  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Il Giappone degenerato in “piccola America”, con una intervista di Renato Minore a Kikuo Takano, traduzione di Yasuko Matsumoto

 

Gif Incrocio colored

Quando ti ho abbracciato/ la prima volta/ non mi ero ancora chiesto/ il senso di quell’abbraccio.

Kikuo Takano nato a Sado nel 1927, laureato all’università di Utsunomiya. L’anno dopo la fine della guerra cominciò a scrivere poesia. Su invito di Nobuo Ayukawa aderì al gruppo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Arechi” sostenuto da Ryuichi Tamura e da altrì e pubblicò in quella antologia. Concentrato sul senso dell’essere, e sulla metafisica della vita, Takano si interroga instancabilmente, in una poesia commossa e molto particolare, le cui basi filosofiche possono definirsi ontologiche piuttosto che esistenzialiste. Ha pubblicato La trottola, L’esistenza, Le tenebre come tenebre, Per incontrare ed altre raccolte. Ha scritto anche testi per musiche corali, inni e canti liturgici. In Italia, per Empirìa, ha pubblicato nel 1996 L’anima dell’acqua (a cura di Yasuko Matsumoto e Massimo Giannotta) e per la Fondazione Piazzolla nel 1999 Secchio senza fondo, e adesso esce per Passigli questo Il senso del cielo, 2017.

Foto femme vivant

Guarda questa scatola vuota/ che io chiudo con un piccolo coperchio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».

Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.

La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia e come la pittografia è silenziosa. Tutto intorno al tratto si rivela il vuoto, ma è il tratto l’elemento fondamentale, senza il tratto non ci sarebbe il vuoto. Nella poesia di Takano un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io, dalla distanza insormontabile tra le cose e dalla scoperta che questa distanza altro non è che il vuoto. La poesia di Takano ha una velocità costante, non ci sono accelerazioni o rallentamenti, le parole si diramano in pensieri con la naturale consequenzialità dell’acqua che scorre in un laghetto producendo acciottolio di sillabe e di fonemi. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva infastidito e reso muto.

Ed ecco la scoperta più stupefacente, la scoperta del vuoto:

Guarda questa scatola vuota
che io chiudo con un piccolo coperchio.
Se provo ad agitarla
tutto è silenzio.
Se vado ad aprirla,
non trovo nulla.
Meno male,
è proprio così? Torno
a chiuderla con il piccolo coperchio,
e la scuoto,
ancora silenzio,
torno a aprirla.
Meno male
è proprio così. È così
si svela
il niente che contiene,
né l’anima né Budda.
Meno male.
È proprio così? Finisco qui.
È proprio così? Finisco qui.

Esauritasi la moda dello sperimentalismo, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il tempo, i gesti, le cose dentro di noi, le cose fuori di noi, un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene nel mondo, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore e dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.

Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma sono il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.

La poesia di Takano è una grande poesia perché in ogni momento egli si chiede: “perché scrivo?”, “che cosa voglio dire che non può essere detto se non in poesia?”; e si interroga in ogni istante non su che cos’è questo o quello (per questo compito ci sono i sociologi e i tuttologi, i bravi giornalisti, i talk show, gli opinionisti), ma sulla domanda fondamentale. Ora, può sembrare un atto di arbitrio e di arroganza da parte mia, nella città del minimalismo disossato, porre la questione della domanda fondamentale.

Una volta su un blog un interlocutore mi chiese: «E allora dicci tu qual è la domanda fondamentale».
I lettori capiranno come davanti a questa rozza domanda io sia rimasto senza parole, ammutolito. Come potevo far capire al mio rozzo interlocutore che se fosse stato possibile parlare della domanda fondamentale come si fa con 2 + 2 = 4, l’avrei fatto?

Bene, la poesia che va di moda oggi in Italia è questo 2 + 2 = 4, né più né meno, è una “poesia dell’impronta digitale”, dizione di Magrelli, una tautologia del senso comune; quella di Takano è una poesia della domanda fondamentale, quella domanda che tu lettore non ti saresti mai posto prima di leggere una poesia di Takano. È per questo che si leggono i libri di poesia, per sapere qualcosa di più su questa misteriosa entità che è la domanda fondamentale. È per questo che esistono i poeti.

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore

  Takano, nella sua poesia ri­suona quella schiettezza luci­da e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo mae­stro?

«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ul­timi mi hanno dato una profon­da emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplo­rare/ e alla fine dell’intera esplo­razione/ arriveremo dove sia­mo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».

 Quanto ha influito la tradizio­ne Zen nel suo lavoro?

«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stes­si. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sem­pre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».

 E le letture di Heidegger e Montale?

 «Per quanto riguarda Heideg­ger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Cri­salide. Il poe­ta parla del tempo doloro­so della crisa­lide avvizzi­ta. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in que­sti versi come un’eco: conti­nuiamo a por­ci la doman­da sul nostro “dove anche se ci trovia­mo immersi nel dolore più profondo”».

 La musica è stata una componente im­portante del suo lavoro. Quan­to e in che misura ha influito sulla sua poesia?

«Per Valéry “la poesia dovreb­be aspirare allo stato della musi­ca”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica voca­le e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisi­bili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dol­cezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

Foto femme brillant

Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce

 Lei ha adottato il verso libe­ro, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, anti­tradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale que­sta sua scelta?

«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetra le rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consapevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massi­ma naturalezza a scrivere poe­sie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così doloro­sa da affrontare dopo la secon­da guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantu­mi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poe­sie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furo­no tradotte in Giappone le poe­sie occidentali di ventinove po­eti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia euro­pea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».

 Takano ha lasciato il Giappo­ne di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.

 «La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Ita­lia, venendo in Italia. Sentia­mo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Ri­nascimento e continuano a far­lo vivere tuttora magnifica­mente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vatti­mo, il teorico del pensiero debo­le. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli consi­dera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa di­nanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppa­re il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».

 Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familia­re una realtà così lontana e così diversa dalla nostra co­me quella giapponese. Ma è davvero così distante?

«Quando il mio traduttore Pao­lo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nel­la superficialità. La bomba ato­mica non ha distrutto solo Hi­roshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappo­ne. Qui l’uomo comincia a di­struggere se stesso, addirittura rischia di sparire».

 Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vo­stro mondo nei confronti del­lo strapotere americano. Co­me considera questa tenden­za?

«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa po­tenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera cau­sa di rappacificazione. Per sve­gliare la nostra coesistenza vor­rei che questo secolo fosse chia­mato “il nuovo secolo rinasci­mentale”.»

 C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?

«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dob­biamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scri­vo poesia?”.

 E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comu­nicazione di massa?

«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la conse­gna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire co­scienzioso, dei mezzi di comu­nicazione di massa, quando però questi superano la barrie­ra dell’affarismo e dell’opportu­nismo».

Gif la Ruota della giostra

Ma alla fine quest’anima/ è proprio una girandola

Poesie di Kikuo Takano da Il senso del cielo (Passigli, 2017)

Girandola

Ma alla fine quest’anima
è proprio una girandola,
spinge la propria pala
l’invisibile energia
che muove il suo asse
con la forza che cigola
e stride e gira, gira
a vuoto, con il suo vertiginoso
movimento, e senza mai
alcun inizio?

 

Soliloquio

«Siediti», ho detto proprio così
ma tu non c’eri.
In realtà parlavo tra me e me
e lo ripeto senza tentennamenti:
«Siediti».
«Siediti, siediti».
A dire il vero il soliloquio è dialogo
per il mio io inaccettabile
che non sopporta gli altri,
ma è ferito dalla solitudine.
È un forno che arde, il mio soliloquio!

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UNA POESIA INEDITA di Steven Grieco Rathgeb “Felice notte O Bon” con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “«Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto”; “La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato”

Steven Grieco Epang-Palast

la Montagna degli Immortali

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Nel 2016 pubblica Entrò in una perla Mimesis Hebenon editore. Dieci sue poesie sono rinvenibili nella Antologia di poesia contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) indirizzo email: protokavi@gmail.com

 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Che cosa ci dice Steven Grieco Rathgeb in questa poesia? Tutto e nulla. Ci parla di «sconosciuti» «giunti da così lontano», di «ospiti» che hanno abitato il «tuo pensiero: fluido, inafferrabile»; subito dopo parla del «volto delle principesse»; infine una notazione, un ricordo, una negazione della notazione: «No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri, / lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.»; accenna a una «distanza» che gli «occhi» sono «capaci di raggiungere». Ecco, siamo arrivati ad un punto chiave: si tratta di una poesia dello sguardo che tenta di raggiungere una «distanza», un «luogo». E poi, subito, una tranche di ricordo biografico: «Anni prima uno di loro era venuto a Firenze / nell’appartamento sui tetti». Quindi, «uno di loro», qui si parla di fantasmi, dei fantasmi della memoria, che ritornano. Poi ci sono dei soprammobili, delle masserizie, i libri di Li Baj, e poi si parla di un «serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale», una mostruosità che si insinua nell’interno dell’anima e del ricordo; e poi, di nuovo, l’intermezzo di un ricordo, che diventa immagine: «A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV»; e poi un’altra immagine ricordo, un misterioso «ospite»: «lui era l’anonimo sassofonista». La poesia continua così, con ricordi che diventano immagini e immagini che si presentano nella veste di ricordi. Tutto e nulla, misteriosamente, convergono. Ma dove? Forse, la fame di spazio e di luoghi di cui vive questa poesia è la stessa fame di luoghi e di spazio che ha abitato la persona di Steven Grieco, la stoltezza di ospitare degli «ospiti» privi di «spina dorsale», quindi anch’essi come disincarnati, alati aliti, immagini, eidola che diventano immagini di una fantasmagoria, di un caleidoscopio. E la poesia ha l’andamento pianissimo e il passo di visioni successive che si presentano una dopo l’altra proprio come in un caleidoscopio onirico. La poesia abita gli stessi luoghi della fantasmagoria del poeta. È viva in Grieco Rathgeb l’esigenza di liberarsi dalle convenzioni relative ai metri, agli spazi e ai tempi della poesia tonale lineare per rivolgersi alla poesia atonale, circolare. Le parole diventano suoni atonali, sono morceaux per pianoforte: parole enigmi che si susseguono ad altre parole o che sfuggono ad altre parole, come per restare in uno sfondo, un secondo piano mnestico, quasi fossero tappezzeria, arredamento della memoria che evanesce.

Da quando Cage ha stabilito che tutto è musica, i rumori sono diventati significativi, e con essi le immagini, i frammenti. I rumori sono frammenti di suoni un tempo forse nobili, e i frammenti sono nient’altro che rumori ricchi di un senso perduto, di echi, di tracce smarrite.

Dunque, ad un poeta del nostro tempo resta il compito di ascoltare e far «suonare» il «rumore» delle parole con le parole. In fin dei conti. «La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire», «La poesia è sempre la stessa». Il mondo, diventato un «acquitrinoso labirinto di lingue», non richiede più da tempo alcuna rappresentazione lineare o prospettica, l’unica struttura formale consentita è la raffigurazione a-prospettica e multiprospettica, la sovversione delle strutture temporali, un tempo ritenute stabili, la elusione di qualsiasi convenzione dei movimenti frastici impressi sul pentagramma convenzionale; il pentagramma della nuova poesia bisogna scoprirlo da soli, immaginarselo; possono sopravvivere soltanto la durata e l’intensità di ogni singola parola; come nella musica per pianoforte e archi di Morton Feldman; sopravvivono le immagini che si presentano alla memoria trascendentale come tessere di un mosaico che non sta al poeta disporre ma soltanto comporre.

Steven Grieco YuanJiang-Penglai_Island

YuanJiang-Penglai_Island

In tal senso la «Felice notte O Bon», è un augurio di buonanotte, l’augurio di entrare nel regno delle ombre, un mondo architettonico e spirituale della nudità e assolutezza del senso perduto, scevro di qualsivoglia notazione simbolica, iconica, politica o religiosa. Quest’opera è tra le più singolari della poesia di Steven Grieco, e una delle più alte del contemporaneo; nel lungo movimento frastico a guisa di «serpente» privo di «spina dorsale», si svolge ed involge il moto elicoidale come la catena del DNA, si trovano varie voci e vari personaggi, al pari di una composizione musicale dove interagiscono il soprano, il contralto, il coro, una voce fuori campo, una viola, un Glockenspiel e percussioni sospese nel vuoto. È una poesia che ha per tema il «vuoto». È viva la sensazione di un tempo sospeso e della quiete monocroma alla Rothko Chapel di Morton Feldman. La poesia inizia con l’arcana impenetrabile sacralità di un pianissimo per svolgersi in una serie di movimenti musicali a contralto e a contrasto, come seguendo il respiro di una fantasmagoria che lievita verso l’alto.

C’è un moto che lievita, insieme al suono lento e sussiegoso delle parole. Ed ecco che appaiono i fantasmi: «gli sconosciuti giunti da così lontano»:

Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile […]

Affiorano come dall’ombra delle ombre i nomi immagini, le località note al poeta e a lui solo: Rappongi, Waseda, il Giappone, Tokyo, Aoyama, e poi Roma nominata per sineddoche per il tramite delle sue strade. D’improvviso, il monocolore del sogno della «felice notte» si apre alla polifonia delle voci e dei colori:

Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.

Dal carattere «statico» e «oggettivo» di questo stile, insomma, filtra con delicatezza orientale l’anima più in ombra di Steven Grieco Rathgeb, il lato in ombra, monocolore, e il lato al sole, multicolore. Gli studi appassionati del poeta sull’armonia vocale e sui principi della polifonia, sui waka, sugli haiku, sui tanka, sui poeti prediletti (Li Bai, Meng Hao Jan, il russo Aigi), sulla musica di Giacinto Scelsi e di Morton Feldman hanno reso il suo metro particolarmente adatto ad ospitare le grazie e la fuggevolezza della poesia cinese in una cornice occidentale in un particolarissimo stile che fonde insieme un che di «frivolo» (tutti i sogni appaiono frivoli dinanzi alla realtà) e di drammatico, di surreale e di allucinatorio. L’autore ricorre esplicitamente alla nominazione dei luoghi (Firenze, nell’appartamento sui tetti, Roma per sineddoche tramite le sue vie abitate da una varia multietnicità: via Buonarroti, piazza Vittorio, via Merulana dove la poesia è nata ed è stata composta) e di personaggi misteriosi che insistono in spazi circoscritti e diluiti insieme, inviolabili reperti della memoria nei quali le voci risuonano limpidamente e senza soluzione di continuità, rispondendosi e richiamandosi l’un l’altra nell’alternanza di toni complementari e sfuggendo ognuna per proprio conto in direzioni molteplici. E, d’improvviso, appare

E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste

Si verifica così una grande indirezione di tracce, di echi, di frammenti di sogni e di ricordi; e accade che il quadro d’insieme più viene arricchito di particolari più ne risulta sfumato, complicato, incerto, ibrido, insostanziale:

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo
ti cade sul selciato volta dopo volta, fracassandosi,
ricostituendosi.

Sarebbe inutile e stucchevole chiedersi se la poesia abbia un senso e quale, o molti sensi o alcun senso. La poesia è lì, posata su un tiretto, in un appartamento al terzo piano di un anonimo palazzo romano, come un oggetto di oreficeria, una moneta fuori corso. Ci parla come può parlarci un ricordo dimenticato.

Breve nota introduttiva

In Giappone l’O Bon è il giorno in cui gli spiriti ancestrali tornano a trovare i loro discendenti. La festa viene celebrata il 15 agosto, dopo il crepuscolo, quando la gente scende per le vie delle città e va in processione con lanterne in mano.

 

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Poesia di Steven Grieco Rathgeb

FELICE NOTTE – O BON

Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.

Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
inafferrabile. Con mano tremante hai sfiorato il volto
delle principesse. Ne hai vissuto le parole, esterrefatto.

No, non eravate solo seduti in riva a fiumi oscuri,
lo Yamuna soffocato dal pattume, con le rondini in alto.
Non eravate senza diritti, aspettando la fine.
Ci furono doni: come la vita non è.
I tuoi occhi, capaci di raggiungere ogni distanza.

Anni prima uno di loro, studioso di poesia giapponese,
era venuto da Tokyō a Firenze
a trovarti nell’appartamento sui tetti.
I tuoi volumi di Li Po, Meng Hao Jan, Chang Jien,
fra le sue mani diventarono frammenti di luce.
I volti chiarissimi, trasfigurati.
nel paesaggio toscano altri paesaggi dormivano larvati.

Così entrò in te la virtualità del waka:
serpente miracoloso, sinuoso, senza spina dorsale.
Un sentire: un impalpabile pensiero creatore.

A Roppongi, quando giacesti a lungo malato sul divano Luigi XIV,
lui diventò l’anonimo sassofonista che dopo il tramonto
saliva in cima al palazzo per suonare fra i
cassoni dell’acqua e le antenne della televisione
un solitario canto d’amore alla metropoli illuminata.

L’anno dopo, nella trattoria sotterranea a Waseda,
dopo aver ripreso in pugno la realtà, averla domata, parlasti
per ore con quell’intellettuale occhialuto, grande e grosso.
Del Giappone anni Trenta, della Guerra, cose di cui,
senza sapere come, eri perfettamente a conoscenza.
Fino nell’intimo erano tue le macerie di Tokyō.

 

Con difficoltà respingesti il disagio, quasi un’allucinazione
fra le birre vuote sul tavolo, i piattini dei sottaceti.
Forse era soltanto il suo inglese malfermo,
o il tuo acquitrinoso labirinto di lingue,
la ricerca angosciosa di qualche aggancio con il tedesco.

Di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
E nel tempio vuoto, la presenza fremente del dio che inesiste.

Le immagini nacquero una dall’altra: strani nascituri,
ciascuna balzava fuori dalla precedente,
ingenerata dal senso di se stessa che non può sapere,
ma fortemente esprimere.

L’arco teso all’inverosimile, quando è scoccata la freccia
non era una freccia: sonorità armoniche, sovra-toni,
echi sparsi per tutta l’aria, dure schegge lucenti.

Poi, Roma. All’inizio, nemmeno lo riconoscesti,
eppure abitava qui, nel tuo stesso palazzo in via dello Statuto,
lo vedevi sempre uscire da una delle chiostrine interne.
Un moto di stupore: perché di loro pensavi non
avere più elementi, tutto passato, concluso.
Ma ecco il sorriso familiare, i baffi radi e spioventi,
l’I-pad, il gatto nero con gli occhi gialli elettrizzati
sempre appollaiato sulle sue spalle.

Un mattino il carro funebre lo aspetta giù nella via.
Nella notte un infarto l’ha trasformato in un riquadro
azzurro sopra i grattacieli di Aoyama.
Salutandolo attraverso il cielo, hai pensato, chissà
perché, a Aygi: lo stesso sentire traslato, l’anima
che trasumanando vola fuori dal corpo in diecimila forme.

Non transitare davanti alle loro stelle, non oscurarle.

E’ pomeriggio. Ti svegli: nel tuo cerchio dell’apparire
si aprono abissi trasparenti. Sai bene cosa vuol dire.
Ti sfiora qualcosa, ali di falene.
Sei così sfinito, non riesci nemmeno a disperarti.

Tutta via Merulana ingoiata: i palazzi, i negozi, i grandi platani,
tutto è l’interno vuoto di un vetro d’un qualche trasparire.

Scendi nella via, nel traffico assordante lo sguardo ti cade
volta dopo volta sul selciato, fracassandosi,
ricostituendosi.

No! è una premonizione! Un utamakura. O Bon!
Con queste due parole può illuminarsi una città intera.

Nei loro mascheramenti, proprio qui l’hai rivisti,
quasi senza accorgertene. Per qual motivo così affranto?
Il sorriso, che stringe gli occhi fin quasi a chiuderli.

Perché loro indicano sempre l’altro di se stessi.
Quando l’espressione è troppo sofferta, genera fra mille
doglie il suo opposto. Come dire, il significato identico
ammicca, sorride. Non è mai lui.

Cos’è allora “l’originalità”? Dire quello che altri non
han detto? A lungo hai cercato negli angoli non frugati
gli incroci nascosti, da cui loro già ti venivano incontro.

Poi di colpo, scomparsi. L’hai ritrovati, un gregge,
mimetizzati sul fondo della sempre stessa via,
ramificata ormai in miriadi e miriadi di vie.
Così, l’udito ha visto; e la vista ha saputo cogliere
l’indecifrabile musica. Eri del tutto incredulo:
l’oceanico, diversificato intrico di waka
somigliava solo a se stesso.

Stai tornando la sera a casa. Non hai più niente.
Hai rischiato tutto per amore. La paura di ignote sciagure
ora ti fascia come un velo invisibile.

E’ proprio questo: l’uomo ha soltanto nostalgia di se stesso.

Ma questa è la sera di O Bon:
le ombre di mezzo agosto calano presto, dopo che il sole
ha disfatto tutte le pietre e i visi dei passanti.
Una folla di spettri bizzarri e lanterne risale via Buonarroti
solo per te. E il giorno d’un tratto è notte – una notte
festosa, spettrale, piena di luce e di promesse.

Sono qui dall’Estremo Oriente per riprendersi i tuoi tempi passati:
la preziosità dell’enunciato, veloce come un fulmine, capace di
nascondere-rivelare strati di paesaggio ben più profondi.
E come usciste da voi stessi, involandovi nel cielo
per meglio contemplare le terre predilette nel gran chiarore.
Sospesi fra lo sciamano dell’aria e il poeta visionario,
quando in sogno raggiungesti le remote colline d’Epiro
dove i fiori d’acacia cadevano come neve.

Del verso la fessura segreta ha significato entrare
al suo interno, vertiginosamente.
Là dentro hai capito cos’è la plasticità della parola,
come crea le tre dimensioni del mondo visibile.
Là dentro, non sai come, stai al largo di Suma e Akashi
splendenti nella notte,
là rivedi la barca dello studioso giapponese:
senza remi o rematore,
indica l’orizzonte della poesia.

Aveva un senso, questo? O non lo aveva per niente.
Eran tutte cose che volevi fare. Poi sono finite,
perché vita e scrittura sono diventate terrificanti,
perché in te è nato il cigno di Eros-Thanatos,
finito il tempo dei sogni.

Un antico pianto sale, l’acqua sorgiva sale oscura dal profondo.
Quel verso coreano, come diceva? Ah, sì…
Gets ei sen kou –
“la luna si specchia nei mille fiumi”.

La poesia, dunque, è sempre la stessa. Non puoi volerla.
La mente ti ha guidato così bene solo per farti smarrire.

Ma quel loro fare, i vestiti un po’ logori, ti sono del tutto familiari.
Sono quasi giunti all’angolo con Piazza Vittorio, magrissimi,
involucri vuoti, senza età. Li ami per questo: per i folti capelli
bianchi, le gonne e le giacche strampalate,
la cravatta sgualcita che vola via nel colpo di brezza.

E il non-divino. Lo sguardo ispirato.
Uno sguardo che in realtà non esprime nulla.
ROMA, Piazza Vittorio, marzo 2013 – agosto 2014

 

Note: 1. Roppongi, Waseda, Aoyama, tutti quartieri della gigantesca metropoli di Tokyō.
2. Il waka è una forma poetica giapponese (5-7-5-7-7 sillabe).
3. Aygi: il russo-ciuvascio Gennady Aygi (1934-2006) forse il massimo poeta in lingua russa della seconda metà del XX sec.
4. Utamakura: il “cuscino della poesia”: in un waka o haiku, parola o frase, spesso riferita ad un luogo geografico, che serve per evocare, dare l’avvio alla composizione. Matsuo Bashō: “perfino a Kyōto sento nostalgia di Kyōto – il canto del cucù.”

 

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SULLA POESIA “WAKA” GIAPPONESE – POESIE HAIKU di Bashō Matsuo (1644-1694) traduzione e nota di Giuseppe Rigacci

Toshinobu Yamazaki ( 1866 - 1903 ) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki ( 1866 – 1903 ) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Il primo esempio di poesia giapponese è il Choka (poesia lunga). La metrica del Choka è un succedersi di 5-7, 5-7, 5-7, sillabe con finale 7-7.

Nel Man’yoshu, La più antica collezione poetica in giapponese giunta sino a noi , vi sono circa 260 choka; il più lungo consta di 149 versi. Successivamente troviamo il Waka il cui schema poetico è composto di 31 sillabe divise in 5-7-5-7-7. Tale schema si sostituì al Choka . Fu successivamente identificato con il termine Tanka (Poesia breve)
Struttura del Tanka è composto da due ku [strofe] rispettivamente di 5+7+5 sillabe (kami no ku) Emistichio superiore di un tanka (5-7-5 sillabe). Che nel renga è chiamato hokku e di 7+7 sillabe (shimo no ku). Emistichio inferiore di un tanka (7-7 sillabe)

Il Sedoka e’ un tipo di waka con metrica 5-7-7, 5-7-7. Si trova principalmente nel Man’yoshù, “Raccolta di diecimila foglie” oppure “Raccolta di diecimila generazioni”, la più antica collezione poetica in giapponese conosciuta, composta da 20 parti con 265 choka, 4.207 tanka, 62 Sedoka.

Il Renga è invece una composizione “a catena”. Il termine “Renga” in giapponese significa infatti “verso collegato”. E’ una forma poetica che si sviluppò in Giappone a partire dal XII secolo, in un primo tempo come passatempo e diventando successivamente arte seria: è generalmente una forma a più mani. Alcuni poeti (in genere tre, ma esistono casi di un unico autore) iniziavano il kami no ku (emistichio superiore, 5-7-5 sillabe), e lo shimo no ku (emistichio inferiore 7-7 sillabe), fino a formare un renga di cento ku. (si indica con ku la parte che ogni poeta compone in successione. Dato un primo verso come tema, aggiungevano versi da 14 o 21 sillabe; tali versi erano poi associati “a catena”, il primo verso con la composizione precedente e l’ultimo con quello successivo. Successivamente il renga si trasformò in “haikai renga“, ossia in composizioni a catena di poesie contenenti 17 sillabe. La catena poteva arrivare a comprendere anche decine di strofe. Non si trattava comunque di una concorrenza poetica ma di un dialogo fra autori.

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Bashō Matsuo (松尾 芭蕉?(Ueno 1644 – Ōsaka, 28 novembre 1694) poeta giapponese del periodo Edo.

Nome originale Matsuo Munefusa, probabilmente il massimo maestro giapponese della poesia haiku. Nato nella classe militare ed in seguito ordinato monaco in un monastero zen, divenne poeta famoso con una propria scuola ed allievi, col passare del tempo, sempre più numerosi. Viaggiatore instancabile, descrive spesso nella sua opera l’esperienza del viaggio. La sua estetica fa coincidere i dettami dello zen con una sensibilità nuova che caratterizza la società in evoluzione: dalla ricerca del vuoto, la semplicità scarna, la rappresentazione della natura, fino ad essenziali ma vividi ritratti della vita quotidiana e popolare.

Shizuka sa ya
iwa ni shimi iru
semi no koe

*

Il silenzio
penetra nella roccia
un canto di cicale

Il nome di famiglia del poeta era “Matsuo” ma usualmente lo si chiamava semplicemente “Basho”, senza il cognome. Era conosciuto come Kinsaku da bambino e, crescendo,Munefusa. Durante la vita assunse diversi nomi d’arte. Uno dei primi, Tosei, significa pesca acerba (o pesca in blu) un omaggio al poeta cinese Li Bai (李白), il cui nome significa pruno in bianco. Assunse il nome bashō, che significa banano, da un albero ricevuto da un allievo. Si dice che il clima fosse stato troppo rigido perché questo albero potesse portare frutto, e intendeva che lo pseudonimo evocasse l’idea di un poeta inutile, o almeno affezione per le cose inutili.

Romanizzazioni alternative di “Basho” sono rare, ma possono includere Matuo Basyou, utilizzando il Nihon-shiki, o Matuwo Baseu utilizzando una romanizzazione più corrispondente all’ortografia utilizzata durante il periodo in cui egli viveva.

La prima neve!
appena da piegare
le foglie dell’asfodelo

Bairei Kouno  (1844 - 1895)

Bairei Kouno (1844 – 1895)

Nacque a Ueno , nella Provincia di Iga , vicino Kyoto . Era il figlio di un samurai  di basso livello e inizialmente lavorò al servizio del signore locale, Todo Yoshitada , che era solamente due anni più vecchio di lui. Entrambi si divertivano a scrivere haiku , e la prima opera conosciuta di Basho risale al 1662. A partire dal 1664  le sue prime poesie furono pubblicate a Kyoto, e fu all’incirca in questo periodo che adottò il nome samurai di Munefusa. Il suo padrone morì nel 1666  e Basho preferì andarsene di casa che servirne uno nuovo. Suo padre era morto nel 1656.

Tradizionalmente si crede che abbia vissuto a Kyoto per almeno parte dei sei anni seguenti; durante questo periodo pubblicò le proprie poesie in numerose antologie. Nel 1672  si spostò a Edo  (ora Tokyo). Continuò a scrivere, e dal 1676  era riconosciuto come un maestro dell’haikai, pubblicando un suo “libretto” e giudicando in gare di poesia. Acquisì un seguito di studenti, che costruirono per lui il primo rifugio “Basho” nell’inverno del 1680.

Basho non trovò soddisfazione nel suo successo, e si rivolse alla meditazione Zen. Nell’inverno del 1682  il rifugio venne distrutto da un incendio, e sua madre morì prematuramente nel 1683 . Nell’inverno 1683 i suoi discepoli lo omaggiarono di un secondo rifugio, ma rimase insoddisfatto. Nell’autunno del 1684 iniziò un viaggio che in seguito chiamò i ricordi di uno scheletro scosso dalle intemperie (Nozarashi Kiko) – il titolo di un giornale di viaggio con prose e poesie che compose al termine dello stesso. Il percorso lo condusse da Edo almonte Fuji, ad Ise, Ueno e Kyoto, prima di tornare a Edo  nell’estate del 1685.

Il suo rapido incedere faceva pensare alcuni che Basho potesse essere stato un ninja . I suoi lunghi viaggi gli permisero di osservare le condizioni nelle varie province e ascoltare le ultime notizie, informazioni di interesse al regnante shogunato Tokugawa , che impiegava dei ninja per queste attività. Il luogo di nascita di Basho nell’area di Ueno della provincia Iga  possedeva una ricca tradizione ninja e Basho poteva essere stato una guardia del corpo per Todo Yoshitada anni prima. Comunque, pochi letterati considerano seriamente la possibilita che potesse essere stato una spia per lo shogunato Tokugawa.

Il viaggio sembrò giovargli, nell’allontanare alcuni dei suoi fantasmi, e i suoi scritti dei pochi anni seguenti raccontano del suo piacevole … Compì un breve viaggio a Kashima  nell’autunno del 1687, per osservare di là la luna piena in prossimità dell’equinozio. Di nuovo compose un resoconto dell’escursione: Una visita al Tempio Kashima (Kashima Kiko).

Jakuchu Ito ( 1716-1800)

Jakuchu Ito ( 1716-1800)

Nell’inverno di quell’anno cominciò il suo seguente lungo viaggio, dopo essergli stato reso un arrivederci che “sembrava quello per un dignitario”. Attraversò Ueno, Osaka, Suma, Akashi, Kyoto, Nagoya , le alpi giapponesi  e Sarashina , dove vide il plenilunio equinoziale. Il viaggio da Edo a Akashi è raccontato nei Ricordi di un bagaglio consumato (Oi no Kobuni), nel quale espone il suo credo nell’haikai come una fondamentale forma artistica. Il viaggio di Sarashina è descritto in Una visita al villaggio di Sarashina (Sarashina Kiko).

Verso la fine della primavera, nel 1689 , cominciò delle escursioni più difficoltose verso le selve dell’Honshu del nord. Fermate in questo viaggio inclusero Nikko Toshogu, Matsushima, Kisagata  e Kanazawa , attraversando nell’ultima parte di questo percorso l’isola di Sado . Di nuovo compose un diario di viaggio, Lo stretto sentiero verso il profondo Nord (Oku noHosomichi ), che è dominato dal concetto di sabi : l’identificazione dell’uomo con la natura. Due ulteriori volumi svilupparono l’idea: Ricordi dei sette giorni (Kikihaki Nanukagusa) e Conversazioni a Yamanaka (Yamanaka Mondo).

Dall’autunno 1689 in poi, Basho trascorse due anni visitando amici e compiendo brevi viaggi attorno all’area di Kyoto e de lago Biwal . Durante questo periodo lavorò su una antologia che stava per essere compilata da alcuni dei suoi allievi, tra i quali Nozawa Boncho, – L’impermeabile della scimmia (Sarumino) – che espresse e seguì i principi estetici ai quali era arrivato durante il viaggio settentrionale.

Nell’inverno del 1691  tornò a Edo per abitare nel suo terzo rifugio Basho, di nuovo omaggiatogli dal suo seguito. Comunque non rimase solo, accolse un nipote e un’amica, Jutei, entrambi di salute cagionevole, ed ebbe una grande quantità di visitatori. Si lamentò in una lettera che questo lo aveva lasciato senza “pace della mente”. Nell’autunno del 1693  rifiutò di vedere chiunque per un mese, adottando quindi il principio di karumi  o leggerezza: una regola di non attaccamento che gli permetteva di vivere nel mondo ma di sollevarsi dalle frustrazioni.

Basho lasciò Tokyo per l’ultima volta nell’estate del 1694, e passò del tempo a Ueno e Kyoto prima di andare ad Osaka. Lì morì per una malattia allo stomaco, dopo aver scritto il suo ultimo haiku:

viaggiando  malato
la strada dei sogni miei
su una palude prosciugata

l'opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 - 1858 )

l’opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 – 1858 )

Fu Basho a sollevare l’haiku da un verso volgare, spesso scritto come semplice sollievo, ad una forma seria, imbevuta con lo spirito del buddismo Zen. Molti dei suoi haiku erano in effetti le prime tre linee di renga più lunghi (che alcuni critici considerano le sue migliori opere), piuttosto che opere isolate, ma erano stati collezionati e pubblicati da soli molte volte e il suo lavoro fu di grande ispirazione per scrittori successivi come Kobayashi Issa e Masaoka Shiki . Uno dei più famosi haiku attribuitogli (Matsushimaya Aa Matsushimaya Matsushimaya), che trae dalla bellezza indescrivibile della baia di Matsushima, fu in realtà scritto da un poeta successivo del periodo Edo, Tawarabo . Basho preferiva scrivere nel dodicesimo giorno del decimo mese del calendario lunare e utilizzare Shigure (時雨), una fredda pioggia autunnale, come kigo.

Il vecchio stagno!
La rana si tuffa –
Il suono dell’acqua

Basho viaggiò molto estensivamente durante la sua vita, e molti dei suoi scritti riflettono le esperienze dei suoi viaggi. Il suo libro Oku no Hosomichi  (奥の細道, Lo stretto sentiero per il profondo Nord), scritto nel 1694 e largamente ritenuto il migliore, ne è un esempio. In esso, descrizioni in prosa del paesaggio che attraversa sono intervallate con gli haiku per i quali è ora maggiormente conosciuto.

Ecco qui un buon numero di haiku di Matsuo Basho (1644-1694), considerato il più grande autore di haiku.
 

Yamanaka Hot Springs

Yamanaka Hot Springs

Basho, Poesie, Sansoni, Firenze 1992, trad. e note di Giuseppe Rigacci

 

Della frescura
faccio la mia casa,
e qui riposo.

*
Il canto delle cicale
non da’ segno
del loro vicino morire.

*
La separazione:
l’ape sguscia
dagli stami della peonia.

*
A un peperone
aggiungete le ali:
una libellula rossa.

*
Il cavallo ha brucato
l’ibisco della siepe
sul ciglio della via.

*
Quando guardo attentamente
vedo il nazuna che fiorisce
sull’orlo della siepe.

*
Verrà quest’anno la neve
che insieme a te
contemplai?

*
Anche i cinghiali travolge
l’uragano
d’autunno!

Japanese Priest

Japanese Priest

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*
Mare burrascoso:
attraverso l’isola di Sado
si stende il Fiume del Cielo.

*
Raccogliendo tutte le piogge di maggio
corre rapido
il Mogami.

*
Su un ramo spoglio
si posa un corvo
nel crepuscolo d’autunno.

*
Nella brezza primaverile
colla pipa in bocca
il mastro barcaiolo.

*
Vieni a sentire
la voce dei tarli
nel romitaggio di paglia.

*
Un cuculo.
La grande notte di luna
penetra il bosco di bambù.

*
Gli occhi del falco
ora si irrigidiscono
mentre la quaglia garrisce.

*
Ammalato nel mio viaggio,
il sogno percorre
pianure aride.

giapponese 2

 

 

 

 

 

 

*
La prima neve
piega appena
le foglie dell’asfodelo.

*
Nobiltà di colui
che non deduce dai lampi
la vanità delle cose.

*
È il riso mescolato d’orzo,
o è l’amore che fa gemere
la femmina del gatto?

*
Il fiume Mogami ha tuffato
le fiamme del sole
nel mare.

*
Prima festosa,
poi subito triste,
la barca dei cormorani!

*
Affaticato
alla ricerca di un tetto…
I fiori di glicine!

*
Nel profumo dei fiori del pruno selvatico
improvviso sorge il sole
sul sentiero di montagna.

giapponese 5

 

 

 

 

 

 

*
Sono un uomo
intento a mangiare il suo riso
in mezzo ai convolvoli.

*
Il mio cavallo cammina
per la pianura d’estate.
Io: in una pittura.

*
Quieta dimora:
un picchio becca
sui pali.

*
Il verme del ravizzone
tremola al vento d’autunno
senza mutarsi in farfalla.

*

Passero amico
non beccare il tafano
che succhia i fiori.

*

La notte di primavera e’ finita.
Sui ciliegi
sorge l’alba.

*

Sapendo che mangia la serpe
orrenda la voce
del fagiano verde.

*

Sul valico montano
stanco riposo
al canto dell’allodola.

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