Archivi tag: Pasquale Balestriere

Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

16 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, filosofia, poesia italiana, Senza categoria

Edith Dzieduszycka Brani dal romanzo INTRECCI   – Genesi Editrice, 2016 con uno stralcio della Prefazione di Eleonora Facco e una Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

citta-opera-di-edith-dzieduszycka

opera-di-edith-dzieduszycka

Intrecci

Dalla prefazione di Eleonora Facco

 Olga, la donna da Oblomov amata ma perduta per la sua rovinosa apatia, ha sposato il suo più caro amico, Andrej Stolz, e vive felicemente con lui. Ed è talmente felice che, ad un certo punto del loro matrimonio, si intristisce ed è sopraffatta dall’angoscia. Andrej (figura maschile che non sembra uscita dall’immaginazione dell’autore, tanto è vicina all’ideale di uomo che ognuna segretamente costruisce dentro di sé) si preoccupa per lo stato in cui si trova l’adorata moglie e cerca di indagare parlando con lei. Olga è giovane, sana, innamorata e dalla vita sembra aver avuto tutto: non può nemmeno lamentarsi dell’uomo che ha accanto, “simply the best” come cantava Tina Turner. E allora? “Forse tu sei arrivata a quel momento, in cui la vita si ferma… non ci sono più enigmi, essa s’è rivelata tutta…” ipotizza Stolz. “La felicità trabocca, si ha tanta voglia di vivere… e ad un tratto vi si mescola questa tristezza ed amarezza”  ammette lei.  Suo marito, per confortarla, aggiunge poco dopo: E’ la tristezza dell’anima che domanda alla vita il suo segreto. Semplicemente il migliore, appunto. Anche perché Stolz/Goncharov può voler significare che la sensibilità delle donne è tale da far loro sentire il brivido dell’infinito, del mistero che va oltre l’esistenza. Allora tutto ciò che è terreno, e quindi finito, perde di importanza: persino la gioia non riesce a riempire quel senso di vuoto chiuso da sempre e per sempre in fondo al cuore.

Chiarito questo, possiamo affrontare serenamente le vicende di Valeria e Clara,  che vivono l’una con un compagno, Giuseppe, e l’altra con il marito Riccardo e tre figli. L’inizio della narrazione ci fa sentire subito vicino ai protagonisti in questo piccolo mondo quotidiano dove ritroviamo accadimenti, ragionamenti e conclusioni che conosciamo bene e che viviamo ogni giorno in prima persona. Soprattutto nei pensieri, perché la storia si sviluppa nei lunghi monologhi interiori di cui le donne sono tanto esperte; quelli cioè rimuginati nelle lunghe ore di solitudine, mentre gli uomini sono al lavoro e i bambini a scuola, mentre cucinano o stirano o caricano gli elettrodomestici. Gesti talmente di routine da favorire tormentose elucubrazioni mentali; e non importa se si ha la fortuna di avere un lavoro: le incombenze raddoppiano ma l’isolamento resta.  Nonostante ciò, quelle ore solitarie sono confortate dall’attesa del ritorno dei propri cari e dalla convinzione che ci si stia sì sacrificando, ma per loro e per il loro benessere, sentendosi pure in colpa se si trovano dei momenti da dedicare a se stesse.

All’aprirsi del sipario – mi sia concessa quest’espressione teatrale che focalizza così bene il punto della situazione – troviamo Valeria che si tormenta macerandosi in un flusso continuo di pensieri, per niente inconscio, quando è sola in casa davanti alla sua solitudine. E’ allora che  comincia a interrogarsi sui fatti del suo stare insieme con Giuseppe: troppi segnali, troppi sintomi stanno ad indicare che il loro rapporto è cambiato e non certo in maniera positiva. Ma la cosa che di più brucia a Valeria, peggio di uno schiaffo in faccia, è di venire aggredita dalla più subdola delle violenze: il silenzio. Perché cercare di avere un dialogo con il proprio uomo, fare proposte di viaggi nel tentativo di migliorare il rapporto, essere triste o allegra e ricevere in cambio un silenzio pesante più del piombo è, a tutti gli effetti, una violenza che fa sentire la donna che la subisce umiliata e disorientata. Peggio, impotente di fronte a qualcuno che volutamente  fa finta di non aver sentito i suoi richiami e nega in questo modo il suo stesso diritto ad essere considerata una persona,  dandole la sensazione non di chiedere, ma di mendicare un gesto di affetto, una parola amichevole.

Per fortuna, almeno per lei, c’è il lavoro fuori casa, la scuola – dove potersi sentire ancora utile a qualcuno – e le amiche, anch’esse alle prese con i propri fallimenti e con i tradimenti maschili, con le quali scambiarsi opinioni e confrontarsi sulla propria infelicità.

In ben altra circostanza si trova Clara, inchiodata a letto con una gamba ingessata: nel tentativo di riporre indumenti e oggetti in cantina, è scivolata per le scale ed è rimasta a lamentarsi nel buio finché il portiere non l’ha sentita. Il più stupido degli incidenti e lei la più stupida delle donne, si ripete con rabbia. L’inattività forzata le fa male più della frattura riportata, acuita dall’atteggiamento generale della sua famiglia – situazione che tutte conosciamo bene – dove l’eccessiva gentilezza e i continui “devi riposare, non preoccuparti” non riescono a mascherare il disagio e il disappunto per il fatto che la colonna portante della struttura domestica è fuori gioco, incapace di eseguire quell’enormità di cose che fa ogni giorno. Difficile ignorare che i suoi cari siano ansiosi che lei guarisca al più presto.

edith-intrecci-coverInvece, non c’è nulla da fare, solo aspettare che il tempo passi. Clara lo sa e si rammarica, perché guarire in un batter d’occhio non dipende, purtroppo, da lei. Così, all’improvviso, da lavoratrice moglie e madre superimpegnata, si ritrova a non fare  niente, se non ascoltare musica, guardare vecchie fotografie e inventarsi una fiaba da raccontare ai due bambini, Nico e Filippo. Ed è proprio la favola che la fa cadere nella trappola delle variazioni sul tema, dei pensieri vaganti in libertà, dei ricordi dimenticati tanto tempo prima. Dell’interrogare a fondo se stessa. Affiorano allora in superficie le domande che nessuna ha mai voglia di porsi e a cui ci si affretta a trovare risposte confortanti. E’ soddisfatta della sua vita, di suo marito in particolare?  Certo, sicuro. Ma intanto si affaccia alla sua mente il nome di un altro uomo, un affascinante divorziato, conosciuto a cena in casa di amici, e di cui ha taciuto l’esistenza al marito.

Con il procedere della fiaba nella sua fantasia, complice l’oppressione dell’ozio, i pensieri di Clara si fanno sempre più profondi e tormentati, fino a quando arriva a chiedersi se le frasi gentili del marito, dei figli e persino delle amiche che vengono a trovarla, non siano altro che maschere per nascondere noia, fastidio, disinteresse. Anzi, giunge a pensare che forse tutto non sia altro che finzione e che nessuno di noi, in realtà, sappia veramente che cosa passa nella testa di chi ha accanto, ma stia solo recitando una parte. Proprio come Erving Goffman, sociologo canadese, scrisse nel suo celebre libro del 1956 “La vita  quotidiana come rappresentazione”, in cui paragona la vita sociale ad un teatro quotidiano dove noi, gli attori, agiamo in uno spazio scenico che si divide tra la ribalta e il dietro le quinte e dove il risultato da raggiungere è il riuscire a presentarsi davanti agli altri nel migliore dei modi.

edith-dzieduszycka-immagine

edith-dzieduszycka-opera

Nota di lettura di Giorgio Linguaglossa. È un romanzo psicologico

L’autrice ha iniziato a scrivere il romanzo trenta anni fa. Poi è rimasto in un cassetto. Durante questi trenta anni ogni tanto lo riprendeva e ci lavorava. È un romanzo psicologico, ognuno dei quattro personaggi (due coppie) viene indagato nei minimi recessi dei propri risvolti psicologici; tutto il romanzo è una indagine sui minimi, impercettibili movimenti della psiche, un progressivo lentissimo allontanamento dei protagonisti all’interno delle due coppie, e un improvviso repentino loro avvicinamento incrociato. È il tema trattato dal Goethe ne Le affinità elettive (1809). La formula delle due coppie non smette di produrre altra narrativa. Il romanzo psicologico è una forma-narrativa integrale che risponde a precise leggi di composizione, è un genere oggi poco frequentato in quanto i narratori preferiscono accomodarsi in generi, diciamo, d’azione, dai movimenti interni veloci, convulsi, per attirare l’attenzione sempre più debole del distratto lettore di oggi.

Non è da oggi che nella forma-poesia e nella forma-narrativa (che sono spazi espressivi integrali), le istanze saggistiche abbiano preso campo ed abbiano dis-locato le istanze “liriche”; così anche le istanze narrative, quelle proprie della narrazione romanzesca, hanno fatto storicamente ingresso nella forma-poesia producendone una implosione dall’interno. Fino al punto che oggi non si può più scrivere una poesia che sia soltanto afflato lirico, tanti sono gli elementi spuri che sono penetrati dentro la forma-poesia. Nel caso della Dzieduszycka dal nome impronunciabile, è chiaro che qui siamo in un genere romanzesco che narra e delimita un evento, narra un evento e, mentre che lo narra, ce lo mostra, ci gira intorno in modo vorticoso e ossessivo. In un certo senso, è vero che la Zdieduszycka si muove nell’orbita della forma narrativa, e spesso quest’ultima è applicata anche alla poesia; come dire, la poetessa romana si muove tra i due risvolti della narratività (quella propria della poesia e quella propria del romanzo), si muove sull’orlo di un bilico, oscilla tra le due forme senza mai perdere l’equilibrio e precipitare in una o nell’altra. E qui, credo, sta la vitalità della sua poesia.

Ho scritto in altra occasione: «Dissento sull’assunto di Salvatore Martino e Pasquale Balestriere, in particolare sulla loro tesi secondo cui la poesia della Dzieduszycka sarebbe una forma narrativa spezzettata con degli a-capo. È proprio qui il punto, la Dzieduszycka utilizza i rottami del parlato e non solo ma anche delle parafrasi del linguaggio pubblicitario (come ha notato acutamente Martino) con quel verso:

Faticoso è stato l’atterraggio ma ce l’abbiamo fatta

per operare delle tensioni interne alla forma-poesia resettandola sul piano della sequenza narrativa ma poi, con un colpo di direttore d’orchestra, paludarla nella forma-poesia come di ritorno dalla forma narrativa. Si tratta di uno spaesamento semantico tutto interno alla poesia che ha l’effetto di sensibilizzare il lettore acuto con delle reviviscenze di provenienza narrativa…

Certo che la poesia della Dzieduszycka può essere messa anche in linea, senza gli a-capo, e siccome è una versificazione di provenienza narrativa non ne avrebbe ripercussioni negative ma potrebbe esistere anche in quella condizione. Ma qui quello che è importante a mio avviso è che la Dzieduszycka opera come un minatore nel sottosuolo dei linguaggi narrativi per ribaltarne il valore semantico traducendo il dettato narrativo in una forma-poetica. Si tratta di una pratica post-moderna utilizzata non solo dalla Dzieduszycka, ma anche da un poeta molto diverso che ho postato stamane come Mario Gabriele.

Si consideri che il momento espressivo-metaforico del genere del romanzo psicologico è uno spazio espressivo integrale dove il momento espressivo coincide con il linguaggio pregresso proprio del genere di appartenenza, e anche con il linguaggio poetico della Dzieduszycka che ha questa caratteristica eminentemente narrativa.

Il problema di fondo (filosofico, e quindi estetico) della narrativa di oggidì è il non pensare che il problema di una «forma» non può essere disgiunto dal problema di uno «spazio» e quest’ultimo non può essere disgiunto dal problema del «tempo» (tempus regit actum, dicevano i giuristi romani). Ora, il digiuno di consapevolezza critica circa le differenze tra i generi narrativi ha determinato, in Italia, una narrativa scontatamente lineare, giornalistica… ne è derivata una narrativa superficiaria e unidimensionale.

In questa sede posso solo tracciare il punto di arrivo di questo lungo processo: il minimalismo e il post-minimalismo delle scritture romanzesche di tipo giornalistico.

edith-dzieduszycka-immagine-di-copertina

edith-dzieduszycka, opera

Brani tratti dal romanzo Intrecci

             Ora tocca a me dirigere il traffico…

            Valeria definiva in quel modo autoironico il breve soprassalto decisionista che la scuoteva ogni tanto. Le accadeva infatti di prendere con se stessa delle risoluzioni stile parabola, credendole o facendo finta di crederle aderenti alla realtà. Ad essere però appena un po’ obbiettiva, e riflettendoci sopra con un minimo di onestà, capiva benissimo di recitare in certe occasioni una parte piuttosto patetica. Ciò non impediva che a intervalli più o meno regolari, e senza molte illusioni, le refluisse dal profondo qualche rigurgito velleitario. Quasi sempre senza risultato apprezzabile, d’iniziativa o ribellione. Ma non demordeva. Perché senza quello non si muove foglia. E la vita diventa d’una noia mortale. Perfino per una piuttosto tranquilla come me.

            Capitolo 1, pagina 15    (Valeria)

             L’appartamento era polveroso, grigio, per niente accogliente, anzi piuttosto lugubre. Abbandonato senza cura né pulizie da tre o quattro mesi, e si vedeva. Quando era stata l’ultima volta che ci aveva passato una settimana in solitudine e con grande sollievo dopo la loro ultima lite, particolarmente sgradevole? Forse in giugno, luglio, comunque prima delle vacanze. Il motivo era stato semplice e banale: si trattava di decidere la data per una breve vacanza agostana, – il mese peggiore dell’anno, anche se bisogna pur viverlo in qualche modo! – Ma era stata soprattutto la destinazione a provocare frizioni tra di loro: mare? montagna? lago? campagna? con amici? senza? Valeria preferiva la campagna, eventualmente la montagna, da soli, in qualche alberghetto tipo pensione di famiglia che a Giuseppe faceva orrore.

            Capitolo 4, pagina 30    (Giuseppe)

            Almeno si trattasse d’impegni rilevanti o gratificanti – escludeva la scuola da quella lista –, del genere che un po’ cambiano il corso degli eventi. Macché! Non sarebbero stati mai di quel tipo. Ormai ne era sicura. Bisognava rassegnarsi. Ma più tentava di convincersene e più sentiva crescere in sé una frustrazione e una rabbia impotenti. Cercava di controllarle ma sicuramente un giorno o l’altro sarebbero per forza esplose, non essendo lei più capace di trattenerle. Colpa di Giuseppe se sono diventata quella frana abulica? Se così fosse mi avrebbe fatto un danno non da poco. Ma forse sono soltanto scuse che mi cerco per consolarmi. La realtà credo sia diversa. Purtroppo. E la verità è che sono io, probabilmente, io sola, colpa del mio male.

            Capitolo 8, pagina 58   (Valeria)

             Rievocando il passato e ripescando nella sua memoria alcuni episodi in cui Giuseppe somigliava di nuovo al Giuseppe originale, Valeria si sentiva dentro come un’ondata di calore che la percorreva tutta, e percepiva una piccola voce interiore che le sussurrava: Forse vale ancora la pena insistere. In fondo, qualcosa è rimasto. Qualcosa di prezioso, ricoperto dalla patina dei giorni. Forse se riuscissimo a parlarci. Una volta. In un momento propizio. In un luogo giusto.

            Capitolo 12, pagina 80    (Valeria)

            

edith-diario-di-un-addio-sangue

edith-dzieduszycka-diario-di-un-addio-sangue

Invece appena si ritrovava completamente sola, e soltanto allora, le cose mutavano. La casa cambiava anima. Diventava raccolta, avvinghiata intorno a lei, ancora più silenziosa; e la sua camera simile a una tana protettrice e calda, un po’ buia in quelle giornate sporche d’autunno avanzato; ma per niente triste; soltanto complice, confidente.

            In quei momenti non esistevano più i rumori della vita fuori, né gli accordi della musica, né l’armonia blu della sua stanza, e neanche il tanfo dei fiori ormai quasi marci. Non importava più l’arnese di gesso che l’impalava come un insetto ferito, come un grosso ragno in agguato nel cuore della sua tela.

            Capitolo 15, pagina 93   (Clara)

Malgrado tutti i suoi sforzi Riccardo si sentiva sempre più impaziente e nervoso per quella situazione che minacciava di durare ancora parecchio tempo. Nell’immediato non c’era niente da fare se non aspettare. Aspettare che l’osso si consolidasse, che la ferita dell’intervento guarisse, che si possa presto ritirare il gesso e far venire in casa un fisioterapista. Che tutti i pezzi del mosaico si rimettessero al loro posto, nel posto in cui stavano prima. E aspettare non era mai stata la sua caratteristica principale.

            Sempre da un cantiere all’altro, sempre affannato e stanco, si rendeva conto che si vedevano poco, che le loro vite correvano su binari paralleli, con pochi punti di contatto agli scambi automatici.

Ora poi, i contatti, almeno quelli ai quali penso, non ci sono proprio più. E dire che sono una bella valvola di sfogo, che finora ha sempre funzionato tra di noi. Spero finisca presto quel periodo maledetto.

            Capitolo 19, pagina 117    (Riccardo)

            Ma che posso fare? Ormai sono legato al carro. Non mi ci vedo abbandonare tutto e andare a vivere in campagna per piantare cavoli e allevare pecore. Questo si può fare a venti anni, a trenta, se non si vede alternativa, quando ci sono le forze e le illusioni per poterlo tentare. Io sono troppo vecchio ormai per ricominciare una nuova vita. Non ho l’animo bucolico.

            Mi rendo conto d’esser stato contaminato, ricoperto da una patina di cinismo, scetticismo, liberismo, consumismo, tutte quelle belle parole in “ismo”, di cui per fortuna ci siamo in piccola parte sbarazzati. Somiglia alla polvere sul mobile di mia madre. Si depone, piano piano. Uno non se ne accorge nemmeno. E se non ne prende coscienza in tempo, si ritrova completamente sommerso. Quello strato si solidifica e si trasforma in una specie di lenzuolo che ti avvolge prima del tempo. Sei già pronto per la bara, anche se ti sembra di aver indossato un bellissimo abito di gala, presto rosicchiato dai topi o mangiato dai vermi.

            Capitolo 23, pagina 152    (Giuseppe)

            Ora lo guardo, seduto a tavola di fronte a me, con i suoi dieci anni di più la faccia solcata da precoci rughe, la fronte più alta, un abbozzo di barba già sale e pepe, un inizio di pancetta. E mi chiedo: cos’è rimasto del nostro sogno anzi della nostra ferrea volontà di diventare una coppia speciale, che niente potrà mai scalfire; che resisterà agli assalti del tempo, gran

divoratore di entusiasmi, risoluzioni, promesse, in una parola, amore. Parola, quella, logora, consumata, senza più senso.

            Non saprei veramente dire, ora come ora, se qualcosa si risveglierà ancora in me nei suoi confronti. Per essere più precisa, ho ancora voglia di scopare con lui? Mi fa ancora sentire in fondo a me quelle  sensazioni difficili da descrivere con delle parole che mi trasformavano in una lupa affamata?

            Capitolo 26, pagina 162     (Valeria)

         

edith-diario-di-un-addio-vedove

edith-dzieduszycka-diario-di-un-addio-vedove

   Per la prima volta da molto tempo ho sentito che un uomo mi guardava, intensamente, non in quanto femmina da scopare, né insegnante dei figli, né persona incrociata per caso. No. Mi guardava. Non saprei dire esattamente in quale modo. Ma dentro quel suo sguardo mi sentivo cambiare, piano piano. Diventare qualcun altro. Sentivo che ero di nuovo qualcuno per un uomo. Una donna. Apprezzata, forse ammirata? Posso dire desiderata? Non lo so, perché la cosa era talmente impalpabile, leggera, discreta, che non avrei potuto qualificarla;però non si poteva ignorarla o negarla. Non un’idea inventata, chi sa perché No. Era un fatto reale e concreto. Lui mi vedeva. Ma soprattutto mi guardava:  gli occhi, la bocca, un breve sguardo poi alle gambe incrociate e alla mano sinistra senza fede. Neanche lui l’aveva. Ma ormai sono pochi gli uomini che la portano. E questa piccola assenza procura loro un grande senso di libertà di cui sono sempre affamati.

            Capitolo 28, pagina 170    (Valeria)

            Si sentiva come una gestante colpevole, gravida per le premure di qualche mostro non identificabile, qualche idra piena di teste: orgoglio sempre presente anche se negato, noia, narcisismo, desideri inconfessabili, traumi lontani non completamente seppelliti, che la luce del giorno e il minimo soffio d’aria riducono a poltiglia, vecchi scheletri scoperti per caso dentro grotte profonde.

            Richiedevano invece una lente decompressione, una prudente opera di maturazione e riesumazione che esigeva le cure le più sapienti e premurose. E questa necessità contrastava col suo carattere impaziente, di solito attirato da scoperte immediate e positive, da vicende concrete, con uno sviluppo e un esito ben visibili.

            In fondo a lei tremavano mille piccole luci, deboli, saltellanti, lampi appena percettibili, leggeri fuochi fatui che temeva di vedere spengersi. Diventava morbosamente gelosa dei propri pensieri.

            Li rimuginava, li analizzava, li scaldava con la tenerezza e le precauzioni di una chiocciola. Ci si aggrappava con tutte le sue forze, tremando sempre di dimenticarli o di perderli come la chiave arrugginita di qualche cassetta dal contenuto sconosciuto ma prezioso. Si accorgeva di percepire con un’attenzione e un’acutezza mai provate finora, le più deboli sfumature, le reazioni e gli atteggiamenti delle persone intorno a lei, i minimi eventi della sua piccola vita quotidiana e risicata.

            Capitolo 31, pagina 184    (Clara)

Adesso lo so.

Forse l’ho sempre saputo. Bisognerà imparare piano piano a coabitare con quel bruco che mi mangia la testa. A condividere con quell’insetto ributtante le mie gioie e dolori, vedendoli rovinare e saccheggiare le cose belle, assistendo impotente allo scempio.

A farlo ingrassare, trionfante e sghignazzante, con le mie rabbie derisorie e inutili.

Bisognerà rassegnarmi a sentirlo strisciare dentro di me, sempre più immondo e prepotente col tempo che passa e la sua certezza di vincere, bestia schifosa che lecca le ferite e si nutre dei nostri umori sotterranei e ripugnanti, tutti quegli umori che battono e premono alle porte del nostro corpo. Aspettando che si rompano le dighe della compostezza imparata, dell’equilibrio finto, delle abitudini distillate o solamente della vita che scorre. Di tutte quelle cose che ci fanno reggere o recitare, per fluire e defluire con una violenza sorniona e inarrestabile, spazzando via qualunque ostacolo, orgoglio, amore, disprezzo, interesse, vergogna, paura, soprattutto paura.

Adesso so quale è la fine della favola crudele. Non diventerò farfalla. La metamorfosi non avrà luogo. Ma anche se avvenisse sarei sparita prima di averlo saputo. Il verme sta in fondo a me, calmo e beato. Perché dovrebbe abbandonarmi? Ormai facciamo una carne sola. Si ramificherà sempre di più nel mio corpo squartato, penetrerà come una piovra viscida e molle dai mille tentacoli lungo le mie membra inerte, scaverà gallerie nel mio sguardo assente, e nessuno mi vedrà più. Mi trafiggerà in un letto scuro e accogliente, silenzioso e deserto dove potrò finalmente dormire.

Forse non subito. Di me galleggerà ancora per un po’ una piccolissima crosta bianca, dura, fredda come la superficie di un iceberg solitario. Essa rifletterà le luci che mi girandolano intorno, come un caleidoscopio impazzito ingoia e ritrasmette una realtà trasfigurata, difforme e illusoria, l’illuminazione psichedelica di un night di quarta categoria.

Invece nel fondo, succederà di tutto. Nel fondo e nel buio, un po’ prima del buio, si grida, si chiama aiuto, si rantola, si affoga, e nessuno se ne accorge. Nessuno sospetta nulla, e la bocca si riempie di sabbia, perché bisogna tacere, e non dar fastidio a quelli che ballano, a quelli che fanno l’amore, a quelli che fanno la guerra, a quelli che accanto a me, ormai nel silenzio anche loro, affogano e non possono più gridare.

Solo una strana musica, lontana, dolce, un po’ irreale, spanderà la sua armonia triste sopra la voragine rinchiusa.

Capitolo 34, pagina 197    (Clara)

edith dzieduszycka 1D’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli, André Verdet e Federico Zeri), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero.                       Comincia a scrivere direttamente in italiano.

Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, prefazione di Giampiero Mughini, Editori Riuniti, 2004.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed., 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni di Paola Mazzetti.  A pennello, poesia, La Vita Felice, 2013, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Stefano Gallo e François Sauteron, 2014.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius.  Trivella, Genesi, 2015, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Come se niente fosse, Fermenti Ed., 2016, prefazione di Paolo Brogi.  La parola alle parole, poesia e prosa, Progetto Cultura Ed., 2016, prefazione di Giorgio Linguaglossa.  Intrecci, romanzo, prefazione di Eleonora Facco, Genesi Ed., 2016.   Dieci sue poesie sono presenti nella antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura Ed., 2016.

Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, de Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, préface de François-Georges Dreyfus. Le sol dérobé, souvenirs d’un Lorrain, 1885-1965, Ed. des Paraiges, préface de Jean-Noël Grandhomme, 2016.

3 commenti

Archiviato in narrativa, narratori

DIALOGO tra STEVEN GRIECO RATHGEB e GIORGIO LINGUAGLOSSA sullo STATUTO del FRAMMENTO in POESIA con una composizione esemplificativa di Steven Grieco e Mario M. Gabriele La realtà frammentata; La forma aperta; Il frammento interrompe il flusso di ricezione; Velocità-rallentamento; La scrittura per “frammenti” e la Dis-locazione del Presente; Lo pseudo concetto imperiale di identità poetica e Alcune Poesie di René Char

  1. Gif FelliniSteven Grieco-Rathgeb

9 aprile 2016 alle 17:13 Modifica

Caro Giorgio, l’uso di frammenti per narrare una realtà frammentata come la nostra, sincopata nei ritmi, è interessante, è un tuo contributo ad una rinnovata riflessione sulla poesia. Che spero continuerai a sviluppare. Niente si ferma, tutto è in un continuo stato di flusso.
In diversi modi, i tuoi frammenti stanno vicino alla mia urgenza di rallentare il ritmo di arrivo della poesia alla fruizione del lettore.
Del tempo fa, nel contesto di un post di poesia di Edith Dzieduscycka su L’Ombra delle Parole, c’è stato un interessante dialogo con il Signor Pasquale Balestriere, il quale giustamente non capiva, in un primo momento, come la poesia possa avere un moto veloce e lento allo stesso tempo. Io ho cercato di spiegare che questo dipende secondo me tanto dalla mente che recepisce la poesia, quanto dalla poesia stessa.
Il frammento interrompe il flusso di ricezione, lo rende zackig, frastagliato, come dire, ma allo stesso tempo quel rallentamento libera il pensiero retrostante, libera l’ombra significante che segue le parole e le illumina. Ecco perché rallentamento in poesia si traduce spesso in un percepito aumento della velocità.
Ho studiato a lungo la poesia recente e meno recente per capire questa dinamica. Le prime volte era con i poeti moderni quando avevo 16-17 anni: mentre leggevo, d’un tratto si liberava una risonanza da una parola, o da un gruppo di parole, facendomi trasalire, come un uccello spiccava il volo e andava a posarsi in qualche altro punto della poesia, dove non avrei mai pensato: indicandomi con un sorriso segreto che la poesia stavo leggendo non veicolava soltanto pensiero e concetto, ma anche risonanze di pensiero e di concetto: e che dunque sopra la poesia, con il suo generico e pur ricco significato letterale, si estendeva una trama lucente di un altro significato, impossibile da cogliere se non per un attimo. Mi sembrava che questa trama fosse, in qualche modo, riflesso della psiche del poeta, la quale porta in sé il millenario abisso di civiltà, di cui il poeta è solo vagamente conscio – a lui, tuttavia, il merito di aver saputo veicolare quell’indicibile. Allora la poesia che leggevo mi diventava luminosissima, la riconoscevo come “grande”: un miracolo: essa esprimeva anche me: e mi dava licenza di ispirarmi ad essa perché io facessi un ulteriore passo nella ricerca del senso indecifrabile delle cose. Forse questo è il vero significato della parola “tramandare”, “tradizione”.
foto ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

ipermoderno Louis Vuitton on the bridge

A scuola avevamo letto tantissimo Shakespeare, il nostro professore amava anche i poeti del Sei e del Settecento. Giustamente additava Alexander Pope come un gigante e maestro della forma classica, mai più, io penso, raggiunto. Ma quello strano sistema di risonanze che ho detto sopra lo sentivo più nei poeti dal Romanticismo in poi, e in particolar modo nei moderni, da Eliot in poi. Penso adesso che ciò fosse dovuto alla mia sensibilità di moderno. In questo senso, anche i Romantici inglesi erano moderni, grazie alla Rivoluzione Industriale. (Impossibile idealizzare l’operaio in fabbrica, come si era fatto con il contadino, nel suo idillico contesto campestre.)
Qualche anno più tardi, una volta che fui in grado di leggere l’italiano, sentii questo stesso fuggire di risonanze anche in un poeta come Montale.
Torno al concetto di rallentamento-velocità, che è un fenomeno, mi pare, nato in genere con il modernismo, e sorto forse anche involontariamente per rispecchiare l’ansia, l’incertezza esistenziale, che noi moderni abbiamo iniziato a vivere come quotidianità dopo che sono caduti gli idoli dell’Occidente, dopo che si è in genere stabilita la relatività delle cose di questo mondo.
I poeti scandinavi del secondo ‘900 sono maestri di questo procedimento. Tranströmer è solo uno di loro.
Velocità-rallentamento, in una forma molto simile, è un fenomeno fortemente presente nella modalità “dhrupad” della musica classica indiana. La quale lavora anche sui microtoni per tirare fuori la suggestione che vibra sopra al dettato musicale di base, sopra al succedersi sequenziale, lineare, delle note. Simile, come ho già detto, al poeta che scrive una poesia le cui parole suggeriscono qualcosa oltre il significato letterale. Certo, questo già lo si fa, ma si tratta, io dico, di notevolmente accrescere questa potenzialità che pure la musica, e la lingua hanno. Le parole che noi usiamo, e che siamo quotidianamente costretti ad usare quasi fossero gli spiccioli del nostro pensiero, sono antichissime, arcaiche, radicano in lingue e pensieri precedenti, in gran parte obliati, hanno una ricchezza immisurabile. E’ qui forse che sta il mistero della poesia (e della lingua) che diceva Salvatore Martino: semplicemente vaga percezione della “immensità di culture millennarie”, che appare nelle nostre parole, che però hanno anche una leggerezza assolutamente indispensabile perché gli esseri umani possano comunicare liberi fra di loro.
Poeta forse è anche colui che sa fare questo: intuire in ogni attimo quel vasto orizzonte, ma saperlo rendere leggero, fruibile all’uomo del suo tempo. Reintegrare l’uomo. Ecco perché una significativa comunicazione poetica con l’uomo di oggi non sarebbe possibile, secondo me e genericamente parlando, tramite la forma del sonetto. La comunicazione poetica già sembra impresa ardua con le forme “aperte”! Ciascun poeta dovrà attraverso i suoi tormenti trovare da sé la forma che va bene oggi, se è vero che il suo compito è prima di tutto raggiungere il lettore-ascoltatore esterno, il quale vive nella realtà di oggi, non nel passato. Le scelte a sua disposizione, e proprio grazie a questa caotica libertà che ci ritroviamo, sono molte. (Una, per esempio, è quella di Stefanie Golisch.) Non c’è niente di facile in tutto questo.
Il mistero, dunque, è ben più fitto di un verso di poesia luminoso e ben tornito.
Torno alla musica dhrupad: tutto il senso di quella musica sta nel suo continuo dispiegarsi adesso, nel suo apparente muoversi erratico, non-lineare, ciò che abbatte ogni sequenzalità stretta, aprendo molteplici spazi temporali. Perché essa tiene sempre in bilico il momento presente, affinché noi possiamo meglio afferrarne l’evanescenza. La concentrazione sul momento apre scorci impensati sugli altri tempi che pure noi conosciamo ma troppo velocemente abbiamo normalizzato e pensato di catalogare.
In poche parole: sia musica che scrittura seguono quello che appare come linearità nel tempo obbligata. Come allora suggerire quello che tutti che sappiamo, ossia che il nostro vivere, i nostri pensieri, tutto fanno fuorché seguire una traccia sequenziale obbligata?
Ecco cosa significa fruizione estetica di un’opera! Questo!
La musica classica occidentale fino a Bruckner e Wagner si basava sulla formula 1) presentazione di una problematica, 2) trattazione della stessa, 3) risoluzione della stessa – con tutte le sue complessità, chiaramente. Mahler ha sovraccaricato questa formula, l’ha inturgidita al massimo, fino a distruggerla. E infatti, dopo Mahler, alla musica occidentale liberata da quelle pastoie si è aperto un orizzonte allargato, immenso e spesso sublime. Che ha reso possibili grandissimi musicisti come Scelsi, Stockhausen, Cage, e quanti altri.
Io penso che la scelta oggi da parte di quasi tutti i poeti occidentali di ascoltare prevalentemente rock, jazz o musica classica tradizionale – e non Scelsi, Stockhausen, Ligeti, Jani Christou – spieghi in parte perché ci sono così grandi difficoltà a pervenire ad un linguaggio della poesia più in simbiosi con il presente; perché invece così spesso si finisce per praticare il minimalismo epigonico di forme già viste e variate all’infinito. La musica classica contemporanea è uno dei prodotti artistici più alti della cultura occidentale del ‘900: ha aperto una strada incredibile, ma sembra che il 90% delle persone non sanno nemmeno che esiste. Già nell’Europa orientale la cultura da questo punto di vista è molto avanzata – grazie, paradossalmente, a decenni di censura. Prendete Bela Tarr, per esempio, che nei suoi film usa musiche di Mihaly Vig, molto vicine alla avanguardia musicale del ‘900.
Sono tutte riflessioni, solo riflessioni queste, per aprire un dibattito.
  1. foto Louis Vuitton L'ultima fermata della campagna Chic

    Louis Vuitton L’ultima fermata della campagna Chic

    giorgio linguaglossa

9 aprile 2016 alle 19:39 Modifica

caro Steven Grieco,
PROBABILMENTE OGGI CHE ALLA POESIA NON è RICHIESTO PIU’ NULLA, forse proprio oggi alla poesia è posta la Interrogazione Fondamentale. Finalmente la poesia è libera, libera di non dire nulla o di dire ciò che è essenziale e inevitabile. Questo è molto semplice, è un pensiero intuitivo che tutti possono far proprio. Nel momento della sua chiusura clausura, la poesia si trova sorprendentemente libera, libera di porsi la Domanda Fondamentale, quella Domanda che per lunghi decenni nel corso del Novecento non si aveva l’urgenza e la necessità di porsi. La poesia, dunque, si trova davanti alla inevitabilità di dire ciò che è. E questa io credo che sia la più grande possibilità che il mondo moderno concede alla Poesia.
Esprimere nel modo più determinato e concreto l’inconscio che sta alle spalle del Pensiero pensato e non pensato dell’Occidente, il sottosuolo del sottosuolo che giace ancora più a fondo del sottosuolo costituito dal pensiero ordinario in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà dell’Occidente.
Una poesia che si ponga l’ambizioso obiettivo di pensare l’impensato, le cose del sottosuolo more geometrico di un precedente more geometrico sotterraneo. Pensare la costruzione stilistica disabitata come la più consona ad essere abitata. Trarre dunque la forza dalla propria debolezza, mobilitare tutta la forza della visionarietà geometrica della poesia, questo è il compito che i poeti autentici oggi si trovano di fronte. E non è poco. Dobbiamo, per far questo, giungere a guardare alla poesia da un luogo ad essa esterno. E proprio questa paradossalità ci permette di seguire in ogni suo meandro il lungo percorso di un pensiero poetante che faccia di questo «tramonto» il luogo più abitabile.
foto ipermoderno Luois Vuitton Dress them up or dress them down

ipermoderno Luois Vuitton Dress them up or dress them down

Steven Grieco Rathgeb

IL BUON AUGURIO
La vita era reale, splendida; e profondamente nascosti
in noi gli alberi, i primi iris mirabili nella luce nera.
Il paesaggio diurno senza sogni, senza nascondigli.

“FERMI!”
– esclamò d’un tratto il Regista –
“Avete studiato le vostre parti troppo a fondo!
Non siete più voi stessi! Tutto da rifare!”

Ci fermammo di colpo, profondamente scossi.

Poiché nelle sue parole, in effetti, nulla si era fermato:
e più chiari che mai il palco su cui stavamo, le
scenografie spente, il cerone che ci imbrattava il viso.

Non c’era dubbio: era stato commesso un furto ignobile.
E noi, del tutto ignari.

Poi ancora un urlo dietro le quinte: “Il mondo non va più da sé!
Fate qualcosa!”
e tonfi sull’assito, e le grida di stupore
visibili nell’aria che veniva lacerandosi di traverso.

«Mmmm…» mormorò rapito il Regista, sprofondato
nella sua poltrona, gli occhi rivolti in su: quasi gioisse
di queste fronde d’albero che stormivano solo immaginandosi:
quasi prendesse il largo un re dalla mantella azzurra
in una barca sull’oceano.

Allora cercai il tuo viso nell’estrema durezza del riflesso:
ma da noi sorgevano mille profondità:
non semplice amalgama di ombre e sabbia,
luce respinta: una forma umana dal corridoio, giù in fondo,
superando seppur di sbieco uno dopo l’altro i rovelli,
non più derubata, fermo lo sguardo,
avanzava oltre i molti presenti in ogni dove,
la folla di nichilisti che spingeva,
tormentandosi nel buio.
Ancora guardai nello specchio. Era una finestra,
e il paesaggio là fuori, un inaspettato presagio:
i campi di grano, morbida onda prossima alla mietitura
mentre un fiume verde-bruno muoveva tra le sponde
rallegrandosi dei suoi riflessi azzurri;
e più avanti, dove i salici d’argento disperdono nivei fiori
solo per celare, come all’inizio di un verso,
l’usignolo di Chông.

Ancora gridò la voce assordante fuori campo:
“NON VEDETE come tutti ve la danno a bere?”

In effetti, il buio era più fitto che mai.
Ma proprio là dentro, nel cuore dello sguardo cieco
sorgeva questo tasso d’intensità sconosciuto,
come se noi irradiassimo una visione.

Come se non fossimo altro che noi stessi.

Aveva ragione da vendere, il Regista.
La partita l’avevamo stravinta.

(1987-2012) 

Gif Fellini Anita Eckberg

Leggiamo una poesia di Mario M. Gabriele

Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio:-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si fermò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.-
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi-, così parlò Licinio.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

*

foto ipermoderno 2

ipermoderno

Giorgio Linguaglossa

Vorrei scagliare una freccia in favore della scrittura per «frammenti». Che cosa significa? E perché?
Innanzitutto, un presente assolutamente presente non esiste se non nella immaginazione dei filosofi assolutistici. Nel presente c’è sempre il non-presente. Ci sono dei varchi, dei vuoti, delle zone d’ombra che noi nella vita quotidiana non percepiamo, ma ci sono, sono identificabili. Così, una scrittura totalmente fonetica non esiste, poiché anche nella scrittura fonetica si danno elementi significanti non fonetizzabili: la punteggiatura, le spaziature, le virgolettature, i corsivi ecc.
La scrittura per «frammenti» implica l’impiego di una decostruzione riflessiva, la quale nella sua propria essenza, segue il tempo del «Presente» che sfugge di continuo, che si dis-loca. Il dislocante è dunque il «Presente» che si presenta sotto forma del «soggetto» significante (ricordiamoci che per Lacan il soggetto si instaura come rapporto con un significante e l’altro). Ma, appunto, proprio per l’essere una macchinazione significante, il «soggetto» non può mai raggiungere il pieno possesso del «significato».
In base a queste premesse, una scrittura logologica o logocentrica, non è niente altro che un miraggio, il miraggio dell’Oasi del Presente come cosa identificabile e circoscritta, con il versus che segue il precedente credendo ingenuamente che qui si instauri una «continuità» nel tempo. Questa è una nobile utopia che però non corrisponde al vero.
Io dico una cosa molto semplice: che l’utilizzazione intensiva ad esempio della punteggiatura produce l’effetto non secondario di interrompere il «flusso continuo» che dà l’illusione del Presente; produce lo spezzettamento del presente, la sua dis-locazione, la sua locomozione nel tempo. Introduce la differenza nel «presente».
Il non dicibile abita dunque la struttura del «presente», fa sì che vengano in piena visibilità le differenze di senso, gli scarti, le zone d’ombra di cui il «presente» è costituito.
Alla luce di quanto sopra, se seguiamo l’andatura strofica della poesia di Mario Gabriele, ci accorgeremo di quante interruzioni introdotte dalla punteggiatura ci siano, quante differenze introdotte dalla dis-locazione del discorso poetico, interpretato non più come flusso unitario ma come un immagazzinamento di differenze, di salti, di zone d’ombra, di varchi:

.

Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.
Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

.

Nella nuova poesia, come in questa di Mario Gabriele, non c’è un senso compiuto, totale e totalizzante. Il senso si decostruisce nel mentre si costruisce. Non si dà il senso ma i sensi. Una molteplicità di sensi e di punti di vista. Come in un cristallo, si ha una molteplicità di superfici riflettenti. Non si dà nessuna gerarchia tra le superfici riflettenti e i punti di vista. Si ha disseminazione e moltiplicazione del senso. Scopo della lettura è quello di mettere in evidenza gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali piuttosto che l’unità posticciamente intenzionata da un concetto totalizzante dell’opera d’arte che ha in mente un concetto imperiale di identità. La nuova poesia e il nuovo romanzo sono alieni dal concetto di sistema che tutto unifica, che tutto «identifica» (e tutto nientifica) e riduce ad identità, che tutto inghiotte in un progetto di identità, che tutto plasma a propria immagine, in vista di una rivendicazione dell’Altro e della differenza come grande impensato della tradizione filosofica occidentale. In questa accezione, la decostruzione è una conseguenza della riflessione filosofica di Martin Heidegger. Infatti il disegno della seconda sezione di Sein und Zeit – rimasta alla fase di mera progettazione, per la caratteristica inadeguatezza del linguaggio della metafisica – risuonava come una “distruzione della storia dell’ontologia”, in nome di una ontologia fenomenologica capace di assumere di «lasciar/far vedere il fenomeno per come esso si mostra» (Derrida) – a far luogo da un linguaggio rinnovato alla radice (ripensato), filosoficamente (nell’accezione ordinaria del termine) scandaloso.

da lombradelleparole.wordpress.com

Rita 1- Copertina

Rita 2 - poesie

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

Onto mario Gabriele_1

Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista ha fondato la Rivista di critica e di poetica “Nuova Letteratura” e pubblicato diversi volumi di poesia tra cui il recente Ritratto di Signora 2014. Ha curato monografie e saggi di poeti del Secondo Novecento. Ha ottenuto il Premio Chiaravalle 1982 con il volume Carte della città segreta, con prefazione di Domenico Rea. E’ presente inFebbre, furore e fiele di Giuseppe Zagarrio, Mursia Editore 1983, Progetto di curva e di volo di Domenico Cara, Laboratorio delle Arti 1994, Le città dei poetidi Carlo Felice Colucci, Guida Editore 2005, Poeti in Campania di G. B. Nazzario, Marcus Edizioni 2005, e in Psicoestetica, il piacere dell’analisi di Carlo Di Lieto, Genesi Editrice, 2012. Si sono interessati alla sua opera: G.B.Vicari, Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Luigi Fontanella, Giose Rimanelli, Francesco d’Episcopo, Giuliano Ladolfi,e Sebastiano Martelli. Altri Interventi critici sono apparsi su quotidiani e riviste: Tuttolibri, Quinta Generazione, La Repubblica, Misure Critiche, Gradiva, America Oggi, Atelier. Cura il blog di poesia italiana e straniera L’isola dei poeti.

 

45 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica dell'estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

PASQUALE BALESTRIERE, GINO RAGO e GIORGIO LINGUAGLOSSA – COLLOQUIO A TRE su “la cartografia della poesia italiana del Novecento”, La vexata quaestio Dino Campana”, “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini”

Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo

umberto eco edoardo sanguineti e furio colombo

 Riprendiamo uno stralcio dell’ampia discussione che ha avuto luogo in questo blog tra il 21 e il 29 dicembre scorso sulla vexata quaestio de “La componente innica e quella elegiaca del Novecento secondo Gianfranco Contini” e “la cartografia della poesia italiana del Novecento”  sempre secondo Gianfranco Contini, perché a nostro avviso è qui che si concentrano, come in nuce, tutte le questioni e tutte le questioni come linguaggio, stile, canoni, modelli rappresentativi che avranno una ricaduta sulla poesia italiana del secondo Novecento determinandone gli esiti, fino ai giorni nostri.
(n.d.r.)

giorgio linguaglossa

21 dicembre 2015 alle 11:42 Modifica

«Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (…) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (…)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (…) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »

Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114). Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto, già da Dietro il paesaggio (1951) fino a Fosfeni (1983). Di conseguenza, far ruotare la poesia del secondo Novecento attorno al «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definire Zanzotto, dal punto di vista di fine secolo può considerarsi un errore di prospettiva. Ma se rovesciamo il punto di vista del secondo Novecento con cui si guarda alla geografia del primo, Campana appare come il poeta nella cui opera vengono a confluire i due momenti: quello innico e quello elegiaco…*

* Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

montale e il picchio

eugenio montale e il picchio

Gino Rago

21 dicembre 2015 alle 16:31 Modifica

L’invito alla lettura di Campana fa onore a Pasquale Balestriere e a L’ombra che lo ospita e lo propone. Dalla ricerca incentrata sui Canti Orfici (1914), si avverte in tutto il suo tragico incanto il senso di una sostanziale fusione fra l’artista e l’uomo, fra una vocazione d’arte e la parabola di una esistenza. Così come rumoreggia fra le parole di Pasquale Balestriere la storia d’un singolare “déraciné”, fratello spirituale dei poeti maledetti francesi, amante ed esperto di Wagner, di Masaccio, di Giotto, della grande tradizione plastica toscana, ma con l’occhio, ben educato all’arte, rivolto anche a De Chirico, ai futuristi, ai cubisti.
La precisazione di Giorgio Linguaglossa, estratta dal suo Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, è quanto mai opportuna nel suo carico di verità… Neanche Gianfranco Contini, fra gli altri, comprese la grandiosa scommessa campaniana di sporgersi oltre la musica e la plastica, per giungere in quel luogo misterioso dove suono e visione si fondono per farsi una cosa sola. Sibilla Aleramo, amandolo fino alle soglie della follia, aveva chiara in sé, nel teppismo, nel nomadismo di Dino Campana, la forza d’un uomo disposto a varcare monti e a solcare oceani nel coraggio supremo della fedeltà alla poesia, senza preoccuparsi né del pane né dell’avvenire, ma guardando al fanciullo di Whitman come mito segreto a chiudere i Canti Orfici “…erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo.”
Una pagina indimenticabile. Grazie Pasquale, grazie Giorgio.
Gino Rago

giorgio_caproni

giorgio caproni, foto di Dino Ignani

Pasquale Balestriere

29 dicembre 2015 alle 0:56 Modifica

E pensare, gentile Gino Rago, che Gianfranco Contini, peraltro finissimo lettore e notevolissimo rappresentante in Italia della critica stilistica, ha addirittura etichettato Campana come un poeta “visivo, che è quasi la cosa inversa” rispetto a “veggente” e a “visionario”!
Stupisce constatare come l’acuto Contini non veda con chiarezza (come pur dovrebbe) una cosa elementare, lapalissiana, e cioè che il dato visivo (quando c’è, la qual cosa accade -a dire il vero- piuttosto spesso) non è mai fine a se stesso ma è solo iniziale, propedeutico e funzionale allo sviluppo torrenziale dell’impeto creativo di Campana che si concretizza e trova la sua maturazione nella fase del poeta veggente e/o visionario. Contini, insomma, si ostina a negare l’evidenza di un atto poetico di rara potenza, che trova la sua più evidente realizzazione e conclusione in un deragliamento sensoriale nel quale, quasi miracolosamente, si compongono in meraviglioso concento le percezioni più diverse della vita (spazio, tempo, suoni, colori, forme, rumori, voci…).
E spiace anche che Contini, nella sua visione riduttiva della poesia campaniana, non abbia tenuto conto dei pareri positivi di altri illustri critici, come Boine, De Robertis, Cecchi, Solmi e dello stesso Montale, per non dire di altri, contemporanei e successivi.
Pasquale Balestriere

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

giorgio linguaglossa

29 dicembre 2015 alle 8:27 Modifica

Caro Pasquale Balestriere,
il problema della forbice tra la componente «innica» rappresentata da Dino Campana e quella «elegiaca» impersonata da Montale, è una visione tattica e strategica di Contini, il quale era interessato, per motivi “politici” a privilegiare la seconda componente e a dimidiare la prima. Ma il problema è che questa visione dualistica è stata architettata da Contini proprio per obbligare a schierarsi o di qua o di là, ma non corrisponde al vero, o, almeno, non esaurisce il problema della conflittualità che afferisce alle linee portanti della poesia italiana del Novecento.

Il punto di vista di Contini, non è da privilegiare, ma da ribaltare. Ed è quello che io ho tentato di fare con il mio libro titolato”La poesia italiana 1945-2010. Dalla lirica al discorso poetico” (EdiLet. 2011), di cui sto preparando la seconda edizione che conterrà molte novità e approfondimenti. A mio parere la poesia del secondo Novecento (e, di conseguenza anche del primo) va vista da questa prospettiva: la progressiva trasformazione della “lirica” in “Discorso poetico”, ergo l’abbassamento del linguaggio poetico al piano del parlato e lo spostamento delle tradizionali tematiche paesaggistiche in direzione delle tematiche urbane, psicologiche ed esistenziali.

Applicando questa prospettiva alla poesia italiana del secondo Novecento, vedremo dissolversi la linea cosiddetta «elegiaca» di continiana memoria. Ecco come Agamben riassume la questione: «L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini».

L’identificazione di una Linea dominante è un atto critico che si può, anzi, si deve ribaltare nell’altra Linea da me proposta: dalla lirica al discorso poetico. In questa prospettiva, vedremo che i valori assodati da Contini vengono ad essere modificati, come quel giudizio di Contini di Zanzotto considerato come il più grande poeta dopo Montale. Dal mio punto di vista, invece, Zanzotto è valutato come il più grande rappresentante dello sperimentalismo del secondo Novecento e nulla più, che trova il suo apice ne “La beltà” del 1968. Dopo quella data lo sperimentalismo italiano entra in crisi irreversibile e si produce un fenomeno di dislocazione delle «isoglosse» di continiana memoria, avviene che non sarà più possibile identificare una Linea dominante perché si assiste alla polverizzazione dei «modelli», ad una disseminazione dei linguaggi poetici e dei «canoni». Fenomeno questo postmodernistico che sarà bene tenere a mente quando si affronta il problema della valutazione della poesia del tardo Novecento.

Al momento, ritengo che siamo ancora dentro questo grande rivolgimento dei linguaggi poetici, all’interno del più grande rivolgimento costituito dal villaggio globale. Insomma, per farla breve, credo che non sia un caso la disseminazione dei linguaggi poetici e che essa sia avvenuta in contemporanea con l’emergere di una economia planetaria interdipendente tra tutti i paesi del globo. Il Logos poetico non può non avvertire al suo interno questo gigantesco processo extralinguistico.

campana_dino1

Dino Campana

Pasquale Balestriere

29 dicembre 2015 alle 13:55 Modifica

Sono sostanzialmente d’accordo con quanto sostieni, caro Giorgio Linguaglossa, soprattutto nella parte finale del tuo intervento. Quello invece che da tutti i critici, ma in particolare da uno del livello di Contini, mi sento di pretendere è la totale onestà intellettuale, messo da parte ogni motivo “politico” o anche qualsiasi teoria precostituita o presunta, finalizzata a raggiungere uno scopo predeterminato. L’atto critico deve essere operazione aperta, senza altro limite che non sia richiesto dalla competenza e dalla serietà dell’indagine.
Pasquale Balestriere.

 

 

11 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Dopo il Novecento, Poesia contemporanea, Senza categoria

 PASQUALE BALESTRIERE: LE RADICI DELLA POESIA DI DINO CAMPANA (1885-1932). Nel centenario della stampa dei “Canti Orfici” con una scelta delle poesie dell’autore.

Bello The_Scream___Eugeal_version_by_eugeal

The_Scream___Eugeal_version_by_Eugeal

Commento di Pasquale Balestriere

Piero Bigongiari nel 1959 includeva i Canti Orfici di Dino Campana tra i venti libri del Novecento da salvare . Dopo poco più mezzo secolo il poeta toscano trova solo breve spazio in diverse antologie scolastiche ed è generalmente sconosciuto ai giovani che hanno compiuto un regolare ciclo di studi medio-superiore. Recentemente (soprattutto dagli anni Novanta in poi) si è manifestato  un risveglio d’interesse nei confronti di questo artista che è, anche per vicende biografiche, l’unico vero esempio di “maledettismo”  -autentico, dico-  (e non, come accade oggi in qualche discutibile poeta, esibito, se non addirittura ostentato) della poesia italiana.

Dino Campana (Marradi 1885 – Castelpulci 1932) ebbe un’esistenza vagabonda e travagliatissima. Una grave forma di psicopatia, manifestatasi vero i 15 anni, gli fu compagna assillante e tremenda. Nel 1913 aveva già scritto i Canti Orfici, unica sua opera (se si eccettuano alcune pubblicazioni postume di “carte” campaniane curate da vari studiosi), della quale lo stesso Ardengo Soffici non comprese appieno il valore se è vero che, avendone addirittura smarrito il manoscritto, purtroppo in unico esemplare, costrinse il Campana a ricostruire mnemonicamente la raccolta. E pensare che lo sventurato Dino sperava nell’aiuto di Soffici e della redazione di Lacerba (innanzitutto di Papini, che per primo aveva avuto tra le mani l’opera) per la pubblicazione dei suoi versi! Così i Canti Orfici vennero stampati nel 1914, a spese dell’autore, presso il modesto editore (o tipografo) Ravagli di Marradi. I primi studiosi ad interessarsi di quest’opera furono, manco a dirlo, i critici militanti di quel periodo: Giuseppe De Robertis, Emilio Cecchi, Giovanni Boine. Poi, nel corso del tempo, hanno scritto di Campana biografi, esegeti, poeti, narratori, critici: da Mario Luzi a Giorgio Bàrberi Squarotti, da Carlo Bo a Franco Fortini, da Antonio Tabucchi a Sebastiano Vassalli, da Gianfranco Contini a Eugenio Montale, da Gianni  Turchetta a Luciano  Anceschi, giusto per citarne alcuni.

Ardengo Soffici Chimismi

Ardengo Soffici Chimismi

Ma perché Canti Orfici?

Va innanzitutto precisato che il titolo originario della raccolta manoscritta, quella affidata a Papini, che l’aveva passata a Soffici,  era “Il più lungo giorno“. Il caso ha voluto che la raccolta venisse ritrovata nel 1971 nel mare magnum delle carte di  Soffici (morto nel 1964) nella sua casa di Poggio a Caiano.

Per ritornare alla domanda, occorre dire che nel 1910 Domenico Comparetti pubblicava a Firenze un’opera fondamentale per la conoscenza dell’Orfismo: la silloge delle Laminette orfiche, sottili làmine d’oro rinvenute in tombe di alcune località della Magna Grecia e della Grecia stessa, che sembrano essere le uniche testimonianze dell’ escatologia di tale dottrina. È noto, infatti, che l’Orfismo fu un culto misterico (“il più misterioso dei misteri greci”, lo definisce Vincenzo Cilento) che si collegava in qualche modo al mitico Orfeo, poeta, vate, e citaredo, del quale il Böhme sostiene addirittura la storicità, collocandolo, cronologicamente, in piena età micenea (XV/XIV sec. a. C.). E quindi Orfeo sarebbe vissuto prima di Museo, Omero ed Esiodo.  Dell’esistenza di un credo orfico offrono testimonianze degne di fede Pindaro, Empedocle e Platone ma soprattutto le cosiddette “lamelle auree”, le già citate laminette d’oro sulle quali sono incisi ammaestramenti ai defunti e formule sacre: esse sono state ritrovate, quasi sempre in tombe, a Thurii, Petelia, Farsalo, Eleutherna (Creta) e Hipponion. Il culto orfico, praticato da una setta di iniziati, non ebbe mai larga diffusione per la sua dogmaticità e per l’eccessiva imposizione di divieti (molti   accoliti in più  ebbero i misteri eleusini); si affermò quando vennero meno le “poleis” e con esse la religione omerica, promettendo all’uomo greco, in ambasce religiose, una eroizzazione (più che divinizzazione) del miste.

È lecito chiedersi a questo punto in quale misura l’Orfismo abbia influito sulla produzione poetica di Campana. Ho già detto che la silloge comparettiana vide la luce nel 1910 ed è noto che nel 1913 i Canti Orfici  erano praticamente composti; nel 1914 infatti vennero dati alle stampe.  Mi pare dunque difficile che la pubblicazione del Comparetti abbia potuto incidere a fondo sulla poetica di Campana; verosimile è invece che essa, come afferma il Galimberti, abbia avvicinato il poeta alle fonti più pure dell’Orfismo, già del resto conosciuto, forse attraverso Nietzsche e Rohde.

Bello Starry_Night by Eugeal

Starry_Night by Eugeal

Uno degli aspetti orfici più eclatanti in Campana è il titanismo, venato di colpa, di scelleraggine, di perfidia; il quadro però si slarga in una visione amplissima, variamente colorata e infine analogica: titano è Adamo, è Lucifero, è Faust, è l’uomo, è chiunque si ribelli all’autorità costituita; ma, orficamente, è impuro, è colpevole (e Campana non sentiva colpevole la sua stessa follia?); pertanto, chiuso nel ciclo delle nascite, trova in questo il suo limite e la sua speranza di salvezza.

Più che all’escatologia orfica la spiritualità di Campana sembra protesa allo svelamento del mistero che circonda l’uomo e la sua vita: l’orfismo misterico e misterioso gli offre allora l’espressione –Canti Orfici– adatta ad indicare il sordo lavorio di scavo e di ricerca, l’affannoso impegno poetico che gli consente di strappare alla fitta ragnatela del mistero l’immagine poetica, incerta e torbida, e di cristallizzarla in religione e mito, motivo e scopo dell’esistenza; sicché lo sguardo allucinato del poeta si fissa a scrutare una realtà profonda e oscura che reclama di essere condotta alla luce; e forse Campana sente di dover indossare i panni del poeta-vate, ierofante e profeta, titano e uomo.

Come che sia, un fatto appare indiscutibile: Campana ha fatto tutt’uno della sua vicenda biografica e della rappresentazione poetica: vita e poesia, quotidianità ed estasi, serenità e pazzia si fondono senza soluzione di continuità.

Non è da credere però che Campana non abbia avuto ascendenti culturali, del resto ben individuati: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Poe, i preromantici e i romantici, Nietzsche, Rimbaud; così l’io titanico che si esprime nei Canti non sarebbe comprensibile né spiegabile senza tener conto della Geburt der Tragödie (Nascita della tragedia) nicciana  o de Le bateau ivre (Il battello ebbro) rimbaudiano; e l’intero mondo lirico non sarebbe rettamente interpretato senza certe mediazioni dannunziane e romantiche o senza la lezione poetica e morale carducciana.

de chirico l'eterno ritornoDino Campana, “poeta maledetto” della letteratura italiana non ha trovato finora, come ho già detto, veri continuatori, anche se ha determinato influenze letterarie, come nel caso degli ermetici e di certa recente poesia: il fatto è che sul suo sostrato culturale e sulle sue esperienze biografiche s’innesta una tendenza odissiaca e avventurosa unita a una predisposizione, non solo  visiva, come pur sostiene qualcuno, ma  visionaria, che attentano all’integrità del mistero e quindi richiedono lo svelamento o, almeno, l’intuizione della vera realtà, dell’inconoscibile, con tutta l’acutezza morbosa e le innumerevoli possibilità di “lettura”, di interpretazione e di discorso poetico che solo l’autentica genialità,  magari -come nel nostro caso-   venata di follia, può consentire. Per questo la strada percorsa da Campana è rimasta impraticata; per questo i Canti Orfici non sempre trovano piena realizzazione artistica; ma per questo, anche, esistono.

A questo punto si può tranquillamente affermare  che Campana ci ha lasciato un guizzo d’umanità inquieta, che cerca di superare e spiegare una foresta di simboli, tipicamente baudelairiana, attraverso l’onirismo evocativo e medianico, le folgorazioni improvvise, le sciabolate di luce torbida, creando immagini spesso solo accennate, ricche di colore, di suggestioni e rapporti analogici; si spiega così il dettato poetico a volte estremamente dovizioso, a volte fratturato e sconnesso, disseminato di passaggi arditi, logicamente inspiegabili; e l’aggettivazione, quasi abbacinata in illusoria fissità, non riesce a nascondere l’ansimo del verbum strappato al mistero.

Pertanto, non è assolutamente pensabile di legare Campana a una scuola poetica; del resto i suoi legami con il futurismo furono brevi ed epidermici.

È invece legittimo pensare a lui come a un titano folle e irriverente, che, per aver partecipato allo sparagmòs (dilaniamento) di Dioniso-Zagrèo (a proposito, si noti l’analogia con la morte dell’apollineo Orfeo fatto a pezzi dalle Mènadi tracie), è condannato a scontare la propria colpa e a vivere dolorosamente la propria umana condizione.

(da “I fiori del male”, Anno X, n. 60, gennaio-aprile 2015)

campana_dino1

Dino Campana

Poesie di Dino Campana

LA CHIMERA

Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfi rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

GIARDINO AUTUNNALE (FIRENZE)

Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto.
Ella m’appar, presente.

LA SERA DI FIERA

Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni: colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
………………………………………………………………………..
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.

IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA

…poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori…
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
…………………………………………………………………………………….
E si distingue il loro verde canto.
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
…………………………………………………………………………………….
…………………………………………………………………………………….
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!…
…………………………………………………………………………………….
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito…

VIAGGIO A MONTEVIDEO

Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte tenebre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo della portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune …………………………………………….

FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI

Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.

Pasquale Balestriere 1

Pasquale Balestriere

Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Viene infatti eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore. Nel 2000 viene chiamato a ricoprire la carica di Difensore Civico del suo Comune.
Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).

39 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana del novecento, Senza categoria

TREDICI POESIE SCELTE di Pasquale Balestriere da “Il sogno della luce” e “Ultimo canto per il padre”

labirinto aleph

labirinto aleph

 Pasquale Balestriere è nato a Barano d’Ischia il 4/8/1945. Laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Ha svolto attività didattica nelle scuole secondarie superiori. Per un certo periodo di tempo si  anche impegnato in politica ed è stato eletto consigliere comunale di Barano nel 1975 e poi anche assessore.  Nel  2000 viene chiamato a ricoprire la carica di  Difensore Civico del suo Comune.

Opere di poesia: E il dolore con noi (Menna, Avellino, 1979), Effemeridi pitecusane (La Rassegna d’Ischia – Rivista Letteraria Editrici, Ischia,1994), Prove d’amore e di poesia (Gabrieli Editore – Roma, 2007), Del padre, del vino (ETS- Pisa, 2009), Quando passaggi di comete (Carta e Penna Editore, Torino, 2010), Il sogno della luce ( Edizioni del Calatino, Castel di Judica -CT-2011). Ha scritto saggi o articoli su argomenti letterari di vario genere, tutti pubblicati in rivista. Tra questi: Quinto Orazio Flacco (L’uomo, lo scrittore, il motivo simposiaco, il tema della femminilità); Uno strano amore (Note in margine al romanzo “Per amore, solo per amore” di P. Festa Campanile); L’orfismo di Dino Campana: nota interpretativa; Nell’Odissea la più antica testimonianza letteraria dei muri a secco “parracine”; Nitrodi, storia di un toponimo; La scrittura poetica di Giorgio Barberi Squarotti, Aspetti e motivi della poesia di Nazario Pardini; Arte e vita nella genialità rappresentativa di Michelangelo Petroni, detto Peperone; Lettura de  L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli; Ricordo di Giuseppe Berto; Ricordo di Vittorio Sereni; Ricordo di Marino Moretti; Il trionfo della metafora nella poesia di Giuliano Avidano; Note in margine a venti storie d’amore (di Un’altra vita   di Paolo Ruffilli); Nota di lettura su Affari di cuore e Natura morta di Paolo Ruffilli; La poesia secondo la mia intenzione (scritto ancora inedito).
 

labirinto

labirinto

 

da Il sogno della luce

Divisione oculistica Ospedale Cardarelli di Napoli, un ottobre di pochi anni fa.

 

 

 

 

 

I

Già t’eri preparato a questa prova,
ad esser muto d’occhi,
quasi spento,
com’albero che vive per le foglie.

II
Qui senti solo lagni d’ambulanze
e muggiti-ruggiti d’aereo
ma alberi sfogliati hanno speranza
e presagio di gemme.

III
Nella rete caduto della rètina
chiedi luce ai sapienti
che invadono i tuoi occhi di colliri
e di fulgore artificiale e dicono
diagnosi severe.

Ora, antenna percossa dai marosi,
cerchi qualunque cala sottovento.

IV
Tu vedi come il grigio
prevalga sull’azzurro
nel rombo di città,
dove ai ritmi quotidiani presenze
presunte umane sempre s’affaticano.
Alto è l’albero grande della vita
buono solo per ali
e alti schiamazzi d’uccelli e di sole.
Giù ronza l’alveare,
formiche sbandano impazzite a mete
diverse, azzurre scolopendre vanno
con brusio fitto di zampe in oscuri
cunicoli. Angoli ciechi a gran voce
chiedono il sole.
Ma questa città
che dicono felice
sotterra i suoi dolori
con vacua frenesia d’impegni.
E ostende il suo sorriso, innaturale.

V
Sei nella rete anche tu, soddisfatto
d’avere in pugno una volta la vita
d’altri viventi -pesci e uccelli- ( tese
trappole e abilità fiocinatoria).
Sei certo nella rete,
t’ha catturato il grande cacciatore
o, se può consolarti, pescatore.
Tieni ferrea-mente,
aggrappati al miracolo/miraggio
di uno strappo, una rete
lacerata, la strada di salvezza.

Pasquale Balestiere 2014

Pasquale Balestiere 2014

 

 

 

 

 

 

 

 

VI
E ti ricordo, padre, in questo suono
d’ampie campane, poco
prima che chirurgici ferri offendano
i miei occhi; e saresti – credo – qui
se vivo fossi (e forse
invisibile qui sei)
a confortarmi in questa dura prova.
Per me tu così parco di parole
tu temeresti. Padre,
in questo suono di campane, in questo
grigio mattino
mi sei vicino.
La tua memoria m’avvince con braccia
forti
e cuore gentile.

VII
I tuoi affetti siedono in un grumo
di telefonici contatti, mentre
attendi l’intervento della vita:
un po’ di fremiti più o meno intensi
strappati al vortice dei quotidiani
impegni. Poi si stendono le corde
del cuore, anche le tue, e tu sei solo.

VIII
Scandito secco passo che alla porta
appari e al rischio e al dolore mi chiami
– numero uno, in sala operatoria –
hai del destino il tempo inderogabile,
il ritmo necessario, ineluttabile.
Ma non mi trema il cuore, ormai persuaso
all’evento e volto al riacquisto della
l u c e .

Escher Maurits Cornelis Drago

Escher Maurits Cornelis Drago

IX
Non sa nulla di rètine e distacchi
il cacciatore ch’è fermo nell’alba
e con saldezza d’occhi buca il buio
e attende la beccaccia. Egli al più sa
di reti e di retìne
dove la libertà dell’ali affonda.
Per lui distacco significa il tempo
dall’alzata del cane
alla capsula percossa,
tra il colpo e la caduta della preda,
ed anche quello occorrente al riporto.
Distacco, certo, è riporre il fucile,
quando si chiude la stagione della
caccia e della vita, l’addio ai campi
di verdi aromi e loquaci silenzi.
(Oculos in lucem vertit venator;
mihi oculorum lux satis esset !)
Per ora, cieco cigno,
mi guido con le mani.

X
Ecco l’età dei sogni rinverditi
a fatica, degli impulsi sfocati,
della voce dell’anima arrochita.
Questo è anche il momento del raccolto,
dei frutti d’oro, dell’opimo sunto
di anni costretti in bisaccia, ma risi
o pianti, dunque vissuti (sebbene
m’informi il libro mastro della vita
che la colonna delle uscite vince
su quella delle entrate).
Anche per questo io non so più scrivere
d’amore, più non avvampa e dilaga
questo sgorbio di cuore
che però offre agli occhi spenti trionfi
di petunie e di spighe ancora verdi.
Forse è toscano questo vivo suono
della memoria che invade indicibile
ogni fibra e un po’ stinge
l’amaritudine incombente. Voli
rapaci chiudono cerchi, s’aggancia
l’alfa all’omega, a scorno dell’effuso
profumo di viole.

luna 3
XI
Sorga l’etrusco e confligga col greco
ch’è in me, sì ch’io meglio possa legare
di questa vita
i tralci.

 

 

XII
Il sole era soltanto un pane ardente
dell’orizzonte sul desco poggiato.
Radunava Giuseppe contadino
i suoi strumenti, ordigni della terra
e s’avviava a parlare con le viti.

Poi degli uccelli
caddero le note,
un soffio spense
ogni lume di sole
e tacque infine
il giorno della vita.

.
XIII
Quelli dei nonni sono volti avviati
al tramonto, son voci che si spengono
in un soffio,
figure
pronte a svanire
con pelle di cera.

Pasquale Balestriere

Pasquale Balestriere

 

 

 

 

 

 

 

 

Ultimo canto per il padre

Vorrei parlarti, padre, in questa notte
da questa nave che batte a fatica
le tenebre e ricerca un porto vero
dopo prove d’approdi, di conati
falliti sempre d’una piuma. Intanto
scorre il vento sull’èquore increspato,
grida un sottile silenzio, uccellino
di cristallo: perciò trabocca ancora
fiume di canto dagli argini della
memoria, note tristi che ravviva
l’arpa del cuore. Rivedono gli occhi
( o credono ) il mare verde del grano
e viti appese a sinuose colline
sotto cieli d’infanzia -azzurri, dunque-,
solerti al ruzzo passeri e fringuelli,
il tuo volto giocondo alla fatica.
Ed ora, d’oltre il cielo, sappi, padre,
che questo tumido lacerto detto
cuore serba anche il pianto del distacco
celato per pudore dai tuoi occhi,
quando partii, nel vento della vigna:
perenne graffio, padre, acre dolore.

16 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea