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Poesia scritta a sei mani – Una poesia di Giuseppe Talia, Mauro Pierno, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago, Commenti di Giorgio Mannacio, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero e altri – Uno stralcio sul frammento di Alessandro Alfieri

Aldo_Moro,_Pier_Paolo_Pasolini_-_Venezia_1964

Aldo Moro e P.P. Pasolini, Venezia, 1964

Giuseppe Talia
6 settembre 2018 alle 18:07

Presumo un apriscatole usato fino all’alba
che gira nelle mani

e non affonda. Le macchie
hanno un calibro distinto.

Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.

[Potessi farei un pingback di questi versi di Mauro Pierno]

 

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 8:38

Ripubblico qui uno stralcio di un articolo già pubblicato nell’ottobre del 2017 che inquadra il «frammento» dal punto di vista filosofico. 

Scrive Alessandro Alfieri sul n. 28 della rivista Aperture del 2012:

«Il frammento può venire compreso come la cifra caratteristica della modernità; il mondo moderno, infatti, si pone sotto il segno della dispersione, della deflagrazione del senso, della moltiplicazione delle prospettive… differenti modi per riferirsi alla secolarizzazione e alla laicizzazione della vita sociale avvenuta nella cultura occidentale compiutasi nel XIX secolo, e che ha trovato nella filosofia di Friedrich Nietzsche la più piena espressione. La morte di Dio, e la fine della visione platonico cristiana, è difatti la scomparsa del centro, la decadenza della verità assoluta, l’impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad un’unità di senso.
Il prospettivismo nietzschiano può venire interpretato come una promozione della frammentarietà di contro alle tesi di ordine metafisico, che rivendicano di venire recepite in una loro presunta verità indiscutibile e dogmatica. Infatti, è a partire proprio dalla filosofia di Nietzsche che, tra la fine dell’Ottocento e l’avvento del Novecento, alcuni autori svilupparono determinate e peculiari “filosofie del frammento” in grado di restituire dignità alle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno.
[…]
(Per Walter Benjamin) il filosofo, o come era solito dire lui, lo “storico materialista”, il critico o anche l’artista, deve puntare il suo sguardo su oggetti apparentemente non degni di attenzione, deve farsi “pescatore di perle” per concentrarsi però sugli stracci, sugli elementi trascurati dagli accademismi ufficiali, sui frammenti dispersi e abbandonati ai margini delle strade e cacciati dalle teorie rigorose. Benjamin interpreta perciò frammenti, e il luogo privilegiato dove a dominare sono frammenti è proprio la metropoli moderna, con le vetrine dei suoi passages e le sue luci a gas, capaci di investire il passante con choc percettivi continui.
Le nostre metropoli, che proprio negli anni in cui scrive Benjamin stavano assumendo la fisionomia e l’assetto di quelle che sono diventate oggi, si caratterizzano per la velocizzazione inaudita dei ritmi di vita, dove a venire sacrificata è l’esperienza effettiva di ognuno di noi può fare del mondo, della realtà e dell’altro. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti, che alla “contemplazione” ha sostituito la “fruizione distratta” (…) Tale dimensione è in Benjamin sinonimo di rivoluzione: possibilità di riscatto da parte delle masse
[…]
In Benjamin distrazione e attività non sono in contraddizione: i fenomeni che sembrano costringere ciascuno, per volontà del capitalismo, all’omogeneizzazione e alla passività generalizzata, sono gli stessi che possono condurre l’uomo alla sua tanto sospirata rivincita e affermazione. I frammenti sono perciò da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto ovvero il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la struttura saggistica su determinati argomenti e autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, riferimenti, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico.
Qui assume un ruolo essenziale il concetto di “immagine dialettica” dominante proprio nei Passages; l’immagine dialettica, che si oppone all’epochè fenomenologica, vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione, anzi, è la stessa immagine che, affinché possa sopravvivere, pretende di essere messa in rapporto ad altro. È nell’immagine dialettica che temporalità ed eternità si fondono insieme, passato e presente si amalgamano:

“Non è che il presente getti la sua luce sul passato, ma l’immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo in cui le si incontra è il linguaggio”.1]

Cogliere nel turbinio incessante e frenetico della modernità dei momenti di stasi improvvisi, delle “epifanie di senso”, capaci di illuminare di una luce differente ciò che invece ci sfugge repentinamente nella vita quotidiana dominata dalle regole del consumo: questo è il compito del filosofo dialettico e del critico della cultura; fissare lo sguardo sui frammenti per farne delle immagini dialettiche che rivelino i processi che li hanno determinati, le loro intenzionalità profonde, i loro valori allegorici e le opportunità che da esse si sprigionano.
[…]
Ontologicamente, ed anche da un punto di vista logico-semantico, l’immagine può dire qualcosa, ha un senso e può comunicare con noi solo perché è da subito a contatto con altre immagini, in rapporto di identità o differenza con esse. D’altronde, è la conoscenza stessa che opera in questa maniera, affidandosi alla “relazione” e non alla “cosa in sé”. Per comprendere questo punto, torniamo a Nietzsche: “Le proprietà di una cosa sono effetti su altre ‘cose’; se si immagina di eliminare le altre ‘cose’, una cosa non ha più proprietà; ossia: non c’è una cosa senza altre cose, ossia: non c’è alcuna ‘cosa in sé’”.2]
L’immagine rinvia continuamente a ciò che è altro da sé, slitta il suo senso ad un’altra immagine che rimanda a sua volta ad altre innumerevoli immagini. In questo terreno multiforme e frammentato, in assenza di un punto centrale e statico, la riflessione è demandata continuamente al suo passo successivo; questo processo consente al pensiero di vivere, di non esaurirsi in una risposta conclusiva, e di tenersi aperto all’indeterminato.

1] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino, 2007, p. 516
2] F. Nietzsche, La volontà di potenza Bompiani, Milano, 2005, p. 308

Giorgio Linguaglossa
4 settembre 2018 alle 9:34

A proposito di una poesia scritta a 6 mani

Qualche tempo fa, sulle pagine dei Commenti di questa rivista è stato fatto un esperimento molto interessante, è stata creata una poesia a sei mani a partire da un verso lasciato lì per caso da un commentatore. Ecco, io vorrei sottolineare questo evento perché ne è uscita fuori una poesia non riconoscibile. Imprevista e imprevedibile. Finalmente, è stato creato un qualcosa che nessuno di noi si aspettava.
Ecco la poesia composta da frammenti a 6 mani, da Ubaldo De Robertis, Antonella Zagaroli, Flavio Almerighi, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppina Di Leo. Beh, che ve ne pare? Non sarà una «bella poesia» nel senso tradizionale del termine, ma almeno c’è della elettricità dentro. Qualcosa che vibra.
.
Come la luce passerà su quel vetro o si rifletterà.
M’è dolce leggere ascoltando e vedendo.
Mi raccomando: acqua in bocca!
glu glu glu
In principio non sembrò un problema.
Betta cavalcava la pinna dello squalo
sembrando compiaciuta.
Tre squali bianchi nuotano nella vasca.
Brillano i bambini sul vetro dei bicchieri.
Manca sempre l’oliva, disse lo squalo.
Ignari
suonano con tutte le acque

.

Giuseppe Talia
4 settembre 2018 alle 18:30

.       . A Petr Král

Non c’è alcun dubbio, me lo ha detto lui.
E lui chi è? E’ l’albero. Ma non so con quale
parte dell’albero ho parlato: radici, tronco,
rami, foglie, fiori, frutto o con le cime?
Chi o cosa mi ha parlato? E chi o cosa
dell’albero mi ha risposto che non vi è dubbio?
Buon compleanno.

Gino Rago
4 settembre 2018 alle 18:42 Continua a leggere

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Giorgio Mannacio DIECI POESIE SCELTE da “Gli anni, i luoghi, i pensieri” (Libri di Resine, 2015) con uno stralcio della prefazione di Silvio Riolfo Marengo, una Riflessione dell’Autore e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

città vecchio tram

tram anni Quaranta

Giorgio Mannacio
Sono nato nel 1932 in Calabria ma – salvo una parentesi, peraltro significativa, durante la guerra trascorsa nel paese natale – ho vissuto sempre a Milano. Sono stato per oltre 40 anni magistrato. La mia seconda vita- se così si può definire – è quella trasfusa nelle mie poesie e in qualche meditazione semifilosofica. Tale è dunque la mia bibliografia. Recensioni? Quasi nulla e non mette conto parlarne. Ho pubblicato su qualche rivista, molto saltuariamente (Almanacco dello Specchio, Lunarionuovo, Marka, Alfabeta, Il Caffè….). Ho incontrato nomi famosi della poesia, ma non ci siamo fermati a parlare neppure un attimo. Qualche contributo teorico sulla poesia è uscito su Molloy , Monte Analogo e sul blog Poliscritture. In poesia ha pubblicato: Comete e altri animali – Resine – Quaderni liguri di cultura – Sabatelli editore – Savona 1987;  Preparativi contro tempi migliori – Aleph Editore srl – Torino-Enna 1993; Storia di William Pera – Campanotto editore – Pasian di Prato ( Udine ) 1995;  Fragmenta mundi– Edizioni del leone – Spinea -Venezia 1998; Visita agli antenati – philobiblon edizioni – Ventimiglia 2006; Dalla periferia dell’impero – Edizioni del leone – Spinea – Venezia 2010.
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città la Seicento taxi anni Sessanta

la Seicento taxi anni Sessanta

Note di Giorgio Mannacio
 .
Il punto di partenza ( il fiat lux ) è costituito da una emozione che precede il pensiero ed è altro da quest’ultimo. Ma già in tale avvio è contenuta una approssimazione , comunque inevitabile. Non si discuterà mai abbastanza se esista un nudo fatto  scindibile da una elaborazione emozionale. Ci sentiamo più rassicurati dall’idea che esista una divisione soggetto-oggetto e che vi sia , in un dato momento e a date condizioni, un incontro  tra i due termini. Alla nostra esperienza la fusione appare già avvenuta e che il piccolo fatto quotidiano ( così diceva Sanguineti, ma il piccolo fatto può essere anche un grande fatto ) e già dotato, per sé stesso, di una carica emozionale. Anche qui va chiarito un equivoco. Non è dato distinguere , oggettivamente, tra fatti dotati di tale carica e fatti non dotati di essa. Può essere messo in discussione , rigorosamente, lo stesso termine emozione , carico di ambiguità. Volendo distanziarsi da esso, può essere più utile parlare di un nucleo di sensazioni provenienti da campi di esperienza diversi . Con una certa carica provocatoria possiamo dire che essi spaziano dal primordiale riflesso di difesa  all’ultimo amore o libro letto.
Chiamiamolo fatto significativo.
[…]
E’ certo che esso si colloca nel tempo che è una delle condizioni del nostro conoscere. Ma il rapporto tra tale fatto significativo e il tempo successivo assume modalità diverse. A volte esso viene messo da parte ( immagazzinato, per così dire, nella memoria a lungo termine ) o del tutto dimenticato. Altre volte produce subito la catena delle associazioni e dei richiami che verranno a costituire la trama del testo.
Questa distinzione ha un valore meramente descrittivo. Non vi è una differenza teoricamente significativa tra fatto memorizzato e fatto immediatamente suscitatore di catene associative. Nell’uno come nell’altro caso il fatto originario si arricchisce di associazioni e richiami. Queste associazioni non sono necessariamente programmate , cioè sempre e totalmente coscienti. Esse spesso si verificano in virtù di altri fatti significativi che funzionano come catalizzatori nell’esperienza poetica del fare.
Ma anche in questo passaggio bisogna essere cauti. Anche se non programmate, le associazioni non sono incontrollate, come vorrebbe un certo surrealismo di maniera ( il disordine programmato resta un’opzione della ragione ). Esse subiscono interventi di organizzazione .
 Il termine del testo è anche un termine cronologico, ma solo nel senso banalissimo
che una poesia si completa all’ora x del giorno y. La pratica di segnare data e luogo ( il Belli , ad esempio, annotava pignolescamente persino la  stesura in carrozza di alcuni suoi sonetti ) può interessare solo un biografo, ma è insignificante per chi scrive.
Ma la parola fine riferita ad un testo poetico ha un significato diverso  che prescinde dal calendario, dall’orologio e dalla geografia anche se si colloca in tutti e tre questi punti di riferimento.
La fine è individuata dalla parola che conclude  il processo di gestazione e la vittoria del testo perfetto. Rispetto all’assimilabile ( per metafora ) processo fisiologico  il poeta non ha il riscontro della normalità della propria creatura rispetto ad un modello naturale e non ha neppure la perentorietà di un termine cronologico che l’avverta che il processo è compiuto. In tale momento il poeta è giudice di sé stesso  nel senso tutt’affatto particolare  dell’individuazione che la conclusione di fatto ( il testo ) non tollera prosecuzioni. Mutuando dal gioco degli scacchi si può dire che tale momento è quello dello scacco matto , punto in cui ogni mossa ulteriore  è impossibile.
[…]
Se è corretto vedere nella stesura di getto una sorta di inganno dei sensi, il discorso ritorna a quell’altra modalità che richiama l’esperienza ( psicologica e fisiologica ) della memoria a lungo termine. Rilke , ad esempio, nei Quaderni di M.L.Brigge  raccomanda di rimuovere il ricordo  perché neppure i ricordi sono esperienze. Questa testimonianza sottolinea, in modo radicale, la necessità che l’emozione ( che è istantaneamente ricordo e solo come tale diventa oggetto di meditazione ) si sviluppi, nel tempo, in una catena di associazioni e di connessioni di un vissuto ed acquisti così la propria significatività.  Essa chiarisce che non basta sentire qualcosa e ridere e piangere per qualche cosa trascrivendo il nesso causale tra il sentire e il reagire ad esso in qualche modo.
L’emozione che torna, va iscritta nel codice del presente che implica una esperienza matura.
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foto donna di stradaStralcio dalla prefazione di Silvio Riolfo Marengo
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“È un felice ritorno questo di Giorgio Mannacio che, dopo aver esordito con due epigrammi satirici sui numeri 4 e 5 del Verri ( 1959 ), nel 1987 aveva affidato alle edizioni di “ Resine “ la sua prima raccolta di versi, Comete e altri animali. Ad accoglierlo, con attenta e cordiale premessa al volume, era stato Vico Faggi,validissimo autore teatrale e poeta di vaglia, chiamato alla guida della rivista dopo la scomparsa di Adriano Guerrini che l’aveva fondata….
Vico Faggi aveva ravvisato la nota più singolare della poesia di Mannacio nel procedere “ per sintesi fulminee in grado di accostare luoghi e tempi lontani, presenze ed assenze, sensazioni e ricordi di sensazioni “. E’ un modus operandi che governa anche questa sua nuova raccolta…
Ed è il tempo, l’antico Cronos dai pensieri tortuosi a dettare i cambiamenti di tono che in questa raccolta si avvertono rispetto alle prove precedenti di Mannacio, anche se resiste incolume la chiarezza di un impianto meditativo continuamente vivificato da dubbi, interrogativi, passioni e soprassalti gnomici. Un riepilogo dell’esistenza, dunque, stretto ad unità anche dalla misura controllatissima dei versi – endecasillabi e settenari, il naturale respiro della poesia italiana – giocati …sull’uso calcolato di rime, rime interne, assonanze, allitterazioni. E tuttavia, questa sapienza metrica non turba mai il premere della vita che le sta a monte come radicamento familiare, legame affettivo con i luoghi e le persone vive e scomparse. Sentimento, si badi, e mai sentimentalismo perché Mannacio ha dalla sua la… capacità di oggettivare le situazioni più diverse… Poesia forte e discreta per scavi e sottrazioni, potremo dire, aggancio di esperienze individuali  al destino comune ma sempre per accostamenti imprevedibili, lampi ed evocazioni istantanee… È dunque il fluire del tempo, che cambia continuamente la visione delle cose e ci impedisce di raggiungere la loro essenza senza mai smettere di ricercarla, il leitmotiv di questo libro che trova la sua chiave di lettura nel concatenarsi di amore e di pietà, di ragione ed enigmi irrisolti…. Il dio di Mannacio, sempre in minuscolo, si identifica col destino, con l’inesausta speranza di eternità legata all’agire poetico e la consapevolezza dell’inevitabile disperdersi delle foglie ( dei fogli ) nel vento agitato dalla Sibilla cumana. A chiudere il cerchio è ancora una volta il rimando alle fonti classiche della poesia nella loro manifestazione più alta, Omero e Dante citati in exergo.
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foto casa in disordineCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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È noto che il modello della prosa scientifica ha avuto un ruolo determinante per la poesia che è stata scritta a Milano fin dal 1952, data di esordio di quei “Lirici nuovi”, antologia curata da Anceschi, dai quali iniziò l’inversione di tendenza dell’egemonia poetica in Italia, che si spostò dal centro sud al nord. Quella prosa poesia di carattere didascalico e di derivazione scientifica che ha avuto la prima evidenza con il libro di Giampiero Neri L’aspetto occidentale del vestito del 1976. Si impose così all’attenzione generale un tipo di scrittura neutra, volutamente spoglia di effetti stilistici, tendente ad uno stile dichiarativo, quasi scientifico. Si veniva scoprendo che la struttura della poesia permetteva questi esperimenti, anzi, che quei tratti segmentali la poesia non li detiene in proprietà privata ma li condivide con altri generi letterari e, in primo luogo, con la prosa scientifica. Di qui venne quel sospetto con cui si guardava ad ogni tentativo che volesse perseguire un linguaggio «emozionale» o «emotivo» nell’ambito della poesia. Cohen ha chiamato «connotazione» questa caratteristica del linguaggio poetico che, secondo la sua visione, viveva dell’antagonismo con la «denotazione». Due sistemi di significazione in rotta di collisione reciproca. Questa concezione della poesia vedeva nella connotazione un sistema di significazione che si collegava ad un sistema di significazione primario, quello della denotazione. Fatto sta che una linea di ricerca poetica che si è fatta a nord, e precisamente a Milano, ha preferito premere sul tasto di una poesia denotativa, subordinandole la funzione poetica basata sull’espressività dello stile affettivo (o emozionale), quella connotativa.
In questo libro di Giorgio Mannacio si avverte con chiarezza il nodo problematico di un certo pensiero poetico: sostanzialmente una struttura elegiaca basata su un fondamento denotativo. I suoi momenti più alti la scrittura di Mannacio li attinge quando introduce il traslato, un metalinguaggio nel linguaggio, quando parla d’altro per non dire qualcosa che non può essere altrimenti detto. Insomma, quando introduce la funzione invariabile del «tempo» (gli anni) che interagisce sulle funzioni variabili (i luoghi, i pensieri). Degno di nota è il lessico desublimato e prosaico con il quale Mannacio ci consegna la meta poesia di apertura del libro. Non si tratta certo di «arredamento», come spiega ironicamente il titolo, ma, in un senso, sì, si tratta di un vero e proprio «arredamento»: c’è una «Regina» e un «lui»;  è un tema esistenziale, dunque, e il percorso a ostacoli intrapreso dai due soggetti dell’arredamento dell’essere è la felicità. Ma è un tema che non si può affrontare se non per via indiretta e per traslato, quello che fa, appunto Giorgio Mannacio in tutto il libro, mette in scena una procedura euristico-ironica:

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Consigli di arredamento

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Sul tavolo immenso e fermo,
non argenti, soltanto una penna, fogli innocenti
e in un angolo lei, la Regina,
del tempo imperturbata pedina.
È facile disporre
nel limitato spazio altri oggetti usuali
secondo i capricci o le convenienze dell’ora.
Di là, prossimo, un letto accogliente
quello di ormai perduta
vita comune
seme delle speranze a somiglianza.
Lui vuole ancora, nonostante tutto,
segnare col proprio corpo
i luoghi della memoria;
seguire col proprio corpo
altri moti apparenti e ineludibili
compresi nell’assorta geometria
d’un pensiero, d’una finestra.
Stanotte, almeno, non la vedrà sparire.

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Giorgio Mannacio.

Testi da Giorgio Mannacio “Gli anni, i luoghi, i pensieri (Poesie 2010-2013)”, 2015

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Appunti di astronomia
.
Diversa, nei propri nomi,
un’identica stella oggi si mostra
in due diversi punti. In questo è il senso
dell’unico, solitario suo splendore.
Si sdoppia nell’annuncio
d’una resurrezione e di un declino
svelando prima del suo breve giro
la luce millenaria del mattino.
.
Vita e destino
.
Se alambicchi segreti distillando
veleni provvidenziali sono complici
di amorose carezze o di mortali
ferite là dove batte il cuore,
non è soltanto questa la ragione
del pianto e del sorriso.
Altri percorsi impongono
la gioia ed il dolore
contorti, inesplicabili e, alla fine,
arrivano alla meta, una finestra
aperta all’avventura.
Un grido o una canzone l’attraversano
perdendosi nell’aria
dove scheggiata dall’azzurro brilla
la stella del mattino, solitaria.
.
L’ultimo dei giusti.
.
1.
L’ultimo trono vuoto in paradiso
è destinato a lui, l’ultimo giusto.
Poi finisce la storia risucchiata
nell’abisso che allora
chiamavano eternità.
Lui completò la strage, nessuno fu risparmiato
e nessuno ricorderà.
2.
Vestivano di lino
i prìncipi innocenti
nei lunghi, quasi infiniti, giorni d’estate.
E le correnti pigre, impaludate
stagnavano colori di malattia,
sfibravano il fiore azzurro
quelle donne cantando quasi con allegria.
3.
Sembrava, ma non era
la luna a galleggiare tra gli alberi del giardino.
Fermarono così la breve attesa
di quella luminosa mongolfiera
nello stupore di una mano tesa.
Ci fu un comando, non una preghiera
e nessuna pietà dopo la resa.
4.
Dove andrete, bambini, quando
si torceranno ardendo
i rami cui appendeste l’altalena ?
Niente deve restare ed anche voi nel fuoco
sarete ridotti a cenere.
Se l’anima è una fiamma
anch’essa si spegnerà tra qualche istante.
5.
E’ legge che sia distrutto
anche il seme e così sepolta
la radice della memoria.
Se nessuno ricorda, niente è la storia
oltre la mongolfiera e sotto la luna piena.
Più in alto ancora nell’indifferenza
l’ultimo dei giusti ostenta la sua innocenza.
.
giorgio mannacio Gli anni,i luoghi, i pensieri.
Tra tombe ed eroi
.
In questo slavato sole trova consolazione
il suo circospetto vagabondare.
Non si cura del resto. Non ha mai letto
I grandi cimiteri sotto la luna,
non ha lasciato impronta alcuna
sulle spiagge di Normandia,
non è interessato ad indagare
identità e differenze
tra corsie bianche di croci e qualche stella di Davide.
Le vuole accostate insieme un giardiniere asettico
che cura alla perfezione
una verde, ordinata, equanime dissoluzione.
Con la luce che sembra eterna e poi muore
si dilata il potere magico
dei suoi occhi di giada: lo spazio si fa destino.
In esso appariranno altre vittime,
nuove consolazioni
al suo orientato cammino
.
Gli incanti della notte
.
Gli piaceva aggirarsi
nelle stanze svuotate dal sonno,
fermarsi
presso l’ago sottile
che promette o minaccia un tempo sereno.
Sono lontani, velati, i dolori del mondo;
anche dio sogna
per sé stesso e per gli altri diversa fortuna.
I concetti si fanno immagini,
figure di un teatro tra domande e risposte
senza pretesa di verità.
Soltanto i libri allineati tentano
l’inganno di mille e una notte.
Nell’aspettare l’ultima
ad occhi aperti non c’è miracolo
come si favoleggia.
Si spera soltanto, invece,
che nell’intricata trama essa sia presa
e benevola sosti ( quanto? )
a donarti la grazia dell’attesa.
.
Il viaggio rinviato
.
Quasi fosse vangelo
mi leggeva “ La Pipa “ accanto al fuoco,
l’amore sfarina in giuoco
tra i sacchi di granturco giù in cantina.
Mi chiedi perché sono
così restio a tornare,
tu che vuoi dare senso all’equazione
tra lo spazio che ci separa e la perduta
nostra stagione.
Io ho smesso di contare
il numero dei giorni e di quei sassi
in bilico sul torrente
al peso dei nostri passi.
.
Altro equinozio di primavera
.
La coda dell’inverno oggi colpisce ancora
tra forsizie già in fiore.
E’ l’astuto serpente che non vuole
alcuna resurrezione
a stendersi sul confine. Sono eguali,
sulla traccia che lascia, buio e luce.
Con un colpo di vento arriva
l’inizio della fine
perché sono ormai dischiusi
sugli alberi i germogli, sciolte in alto
le nevi da cartolina. Cosa resta
alla felicità delle radici?
.
Solstizio d’inverno
.
Il mare è grigio, fermo.
Immobili sulla spiaggia deserta
freddi uccelli di varia specie.
L’armonia delle sfere regala
l’illusione di cosa sia
o possa essere l’eternità.
Non memoria né progetto,
solo estatica confusione
di un punto inesteso in cui si rivela
il suo indefinibile aspetto.

.

La stanza degli dei
.
Stanno
marmorei ed immobili
in perpetua dissoluzione e in perpetua fissità
loro,
i custodi del nostro destino arroccati
in una innocente malvagità.
Non degnano d’uno sguardo
la foglia che, prima, ondeggia e, poi,
trascolora,
il sorriso mutato
nel silenzioso naufragio di un’ora.
Ma in quel dipinto di antica scuola
qualcuno ha socchiuso la porta: uno di loro
si è voltato al debole scricchiolio;
il disegno arresta l’istante che è un cenno.
D’attesa, d’addio?

 

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Giorgio Mannacio AUTOANTOLOGIA DI POESIA “Tracce del mio percorso”, da “Comete e altri animali”, “Materiali da costruzione”, “Preparativi contro tempi migliori”, “Dalla periferia dell’impero”, “Fragmenta mundi”, “Visita agli antenati” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

foto vuoto in altoSono nato nel 1932 in Calabria ma – salvo una parentesi, peraltro significativa, durante la guerra trascorsa nel paese natale – ho vissuto sempre a Milano. Sono stato per oltre 40 anni magistrato. La mia seconda vita – se così si può definire – è quella trasfusa nelle mie poesie e in qualche meditazione semifilosofica. Tale è dunque la mia bibliografia. Recensioni? Quasi nulla e non mette conto parlarne. Ho pubblicato su qualche rivista, molto saltuariamente (Almanacco dello Specchio, Lunarionuovo, Marka, Alfabeta, Il Caffè….). Ho incontrato nomi famosi della poesia, ma non ci siamo fermati a parlare neppure un attimo. Qualche contributo teorico sulla poesia è uscito su Molloy , Monte Analogo e sul blog Poliscritture. In poesia ha pubblicato: Comete e altri animali – Resine – Quaderni liguri di cultura – Sabatelli editore – Savona 1987; Preparativi contro tempi migliori – Aleph Editore srl – Torino-Enna 1993; Storia di William Pera – Campanotto editore – Pasian di Prato ( Udine ) 1995; Fragmenta mundi– Edizioni del leone – Spinea -Venezia 1998; Visita agli antenati – philobiblon edizioni – Ventimiglia 2006; Dalla periferia dell’impero – Edizioni del leone – Spinea – Venezia 2010.

Caro Linguaglossa, busso alla tua porta chiedendo ospitalità. Lo faccio con qualche comprensibile titubanza sapendo che nella “ tua casa “ si parla una lingua un po’ diversa dalla mia. Fuori metafora ti troverai di fronte poesie che messe sul piatto della bilancia la fanno pendere verso la “tra dizione“. Questa è la mia sostanziale di ricerca alla quale mi dedico da una vita. Se non altro sono stato un amante fedele. Non so fino a che punto possa interessarti questa mia tendenza a collegare le immagini al senso delle immagini. So però che sei lettore attento a tale attenzione mi affido. Un cordialissimo saluto.

Giorgio Mannacio

Commento di Giorgio Linguaglossa

L’esordio di Giorgio Mannacio nel 1959 su “Il Verri” è stato fulminante e promettente. Quel giovane avrebbe potuto fare una carriera poetica di tutto rispetto se solo lo avesse voluto e vi si fosse prodigato con tutte le proprie forze. E invece, Giorgio Mannacio ha fatto di tutto per nascondersi. Quarant’anni di magistratura però sono stati utili alla sua musa perché lo hanno costretto ad un esercizio di ascetico rigore lessicale e stilistico: quel rigore metrico tipicamente milanese e quello scandaglio delle profondità geografiche dell’anima tipicamente mediterranea saranno i punti fermi della sua futura evoluzione stilistica, un marchio di fabbrica della ditta Giorgio Mannacio. Una poesia come «messaggio cifrato», che fin dagli esordi si muove in sordina, in sotto tono, in minore, che viene «Dopo la luce al neon», con accenti di un ironisme introiettato e introverso, tipico di chi osserva la poesia dal di fuori, con un occhio interrogativo e ipercritico, come una attività da nascondere, quasi fosse una cosa innominabile, poco raccomandabile, da ascrivere ai «preparativi contro tempi migliori», avverso le ideologie delle sorti progressive e progredibili, «contro i tempi migliori che verranno». Insomma, Mannacio ha preferito l’ombra della domesticità alle luci al neon e ai riflettori della poesia istituzionale ufficiale, ritagliandosi così una invisibilità ricca di sagacia e tenacia, oltre che di artati nascondimenti. E però, a rileggere oggi in questo pur breve percorso ad ostacoli che è questa Autoantologia quel che è stata la sua poesia, viene voglia di approfondire il discorso critico su un poeta così schivo, la cui opera merita senz’altro una pubblicazione riassuntiva che faccia il punto critico di un percorso poetico davvero interessante, che si è mosso a latere e a ridosso delle diramazioni della milanese poesia degli oggetti pur accettandone gli spunti utili alla propria ricerca e adattando l’abbassamento dei registri lessicali e semantici alla propria musa in desabbiglié.

Magritte 4Tracce del mio percorso

Da Il Verri ottobre 1959.

Ad majora

Dopo la luce al neon
hanno inventato un cilindro
di sego o cera vergine che avvolge uno stoppino.
Acceso getta luce: lo chiamano candela.
Dice la gente in dubbio:
dove andremo a finire ?

Da L’Almanacco dello specchio 1977 n. 6

Il testamento di Amleto

Le prove della paternità non mancano;
sui flutti di Elsinore una bottiglia ha mandato
al figlio lontano un messaggio cifrato.
Conosceva il latino, immaginifica mente
sciolta la parola come una lama,
la notte è un imbuto e Ofelia una cometa
che si condensa e figlia nel cielo gelato.
Ogni regno – ricordati – è edificato
sopra lo sterco, oro fino sol che lo tocchi
Creso et sodales.

Da Comete e altri animali ( 1987 )

Materiali da costruzione

E dove l’acqua non scorre più che c’era
il cortile dei vecchi, il lucernario e in sogno
il pensiero del gatto sulla tastiera

là fu trovato un chiodo ed appeso un destino

e il frammento del fulmine, l’ossidiana,
di noi che più non tocca l’ordito dei suoni
poi un mascherone asciutto, la bocca d’una fontana.

Giorgio Mannacio

Giorgio Mannacio

Da Preparativi contro tempi migliori ( 1993 )

Preparativi contro tempi migliori

1.
Era un giorno di meraviglia che incantava
il reticente visitatore,
la residua pietà che lo portava
nel silenzio d’estate a commentare
malattie immaginarie.
Ride bene chi ride l’ultimo e poi
bisogna prepararsi alla guerra
contro i tempi migliori che verranno.

2.
Frugando col bastone in mezzo all’erba
cercava quella radice, forse un fiore
o soltanto il suo nome ( la memoria
ha stremato la forma ed i colori,
non ho tempo per ricordare perché devo
prepararmi alla guerra
contro i tempi migliori che verranno.

3.
Spandeva il suo chiarore galleggiando
nel bicchiere riempito d’olio fino
secondo la misura della notte
e il numero dei morti: erano tanti
che avevano combattuto
contro i tempi migliori che verranno.

4.
Impercettibili movimenti,
un soffio interno a quello stesso ardore
lo portavano a volte sul confine
di quel mondo gentile che poi fu sterminato:
non c’è olio né vino a sufficienza
contro i tempi migliori che verranno.

5.
Una leggiadra dea sotto le stelle
di un altro cielo, un giorno,
mi porse la radice, forse un fiore.
Ma il tempo è già passato; suona in fondo
al corridoio la mia campana. Siete pronti
contro i tempi migliori che verranno ?

Da Fragmenta mundi ( 1998 )

bello città nel traffico

città nel traffico urbano

Tre aforismi per l’Apocalisse

Al tempo, tuo carnefice e tuo dio,
devi offrire ogni cosa:
l’amico che ritorna e il dirsi addio
e la spina e la rosa.

Nell’infinto che nessuno misura
– l’attimo, l’eternità –
quello che appare adesso
non ha tempo di perdersi e così resterà.

La vita è una scintilla
dalle orecchie del gatto;
un cristallo di neve
che nelle mani subito si scioglie.
dunque ad essa la morte
nulla toglie.
Da Visita agli antenati ( 2006 )

Figure fuori campo

A volte i pazzi scorgono
nell’angolo della stanza o dove
un corridoio finisce
– luoghi chiusi, stremati –
ombre che si dileguano o qualcosa di simile.
Non c’è neppure il tempo per richiamarle
Anche se conosciute
Tanto veloce è il moto che le torce e le incalza
( e poi fuga, abbandono,
disperazione, sangue e morte infine
sono da pronunciare a cuor leggero ? )
Per questo, forse, nel medesimo istante
dolcissimo e feroce il loro sguardo brilla.
Patire sorridendo tutto quanto è invincibile
può essere segno di grande saggezza
o invece
fingere anima indomita senza pietà
( lei che sa amare ed uccidere con la stessa
struggente serenità )
Da Dalla periferia dell’impero ( 2010 )

Il compleanno impossibile

Oggi avresti cent’anni: che astrazione
dal mormorio del fiume
in mezzo ai sassi,
dal tintinnante calice
veleno
distillato in attesa dei tuoi passi.
Oggi un’ape tardiva esplora
sopra un fiore reciso
una possibilità
miele sulla ferita.
Ma una foglia di platano può dare
in quell’oscurità ombra gradita ?

Il compleanno possibile

Intorno a noi, sommesse,
le pietà quotidiane ridono.
Guardandosi si scambiano scommesse
sul numero delle candele.
Fuori gli eventi stridono
aggredendo una gioia arrugginita.
Chi di noi – si domandano –
sarà la favorita ?

Da Quadernario 2013

La casa delle vita comune

Hanno sorpreso insieme
il cielo cambiare colore;
le stelle, a grappoli, in alto fiorire,
diviso il letto, il pane, le piccole malattie
illusione di eternità.
Inganni, errori, deboli verità
Si sono presentati al crocevia
scelto per caso con incerta fede
così come gira il vento.
Mai voltandosi indietro a ricordare
Il primo sguardo, il primo giuramento.

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Antonio Sagredo POESIE MOSTRUOSE (Inediti) con Commenti di Giorgio Mannacio e di Laura Canciani

 

Laboratorio gezim e altri

Laboratorio lillaAntonio Sagredo (pseudonimo di Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza.

La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile. Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È in uscita, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems di Antonio Sagredo.

Testata politticoCommento di Giorgio Mannacio  

 Caro Sagredo,

parliamo – dunque – secondo promessa, dei versi che mi ha gentilmente inviato. Non si tratta di assolvere un dovere ma di contemplare il dono e di coglierne l’essenza. Esso si arricchisce ,poi, dell’invio dei “materiali“. Questi ultimi, oltre ad essere molto interessante in sé,  confermano alcune mie intuizioni  sulle caratteristiche della sua opera poetica. La definisco singolare in senso stretto sia nella forma che nei contenuti (pongo questa distinzione solo euristicamente ). L’aggettivo è assunto proprio letteralmente come denotativo di una originalità assoluta. Essa investe, come le anticipavo, sia le scansioni formali che la materia investita da esse. Il testo è davvero suo e solo suo.

1.

Mi ha colpito – quanto alle prime – la costruzione secondo un ordine che è contrappuntistico:

ad ogni quartina corrisponde altra quartina secondo un ritmo quasi responsoriale e salmodico, inusitato nell’esperienza contemporanea. E’ questa periodizzazione- che fa di ciascuna quartina un “tempo“ e che è pensata e costruita con cura e dotata di una interna coerenza – a scandire poeticamente la sua scrittura . Non si assiste ad una rappresentazione di fatti ordinati secondo una cronologia del prima e del dopo degli eventi ma ad una oscillazione tra essenze mentali (esperienze interiori ) che debbono essere colte nella loro unicità “attraverso la contemporaneità“ del dettato. Ciascun frammento è consonante.

Ho immaginato, di fronte a tali evidenze  un teatro (ecco l’importanza anche ermeneutica dei suoi materiali) in cui si muovono ( nella declamazione ) personaggi e vite e istanze diverse. Ed ho “visto “una rappresentazione“ drammatica in cui la parola., altrimenti fuggitiva, deve essere necessariamente gridata, scagliata e dunque impressionante perché se non è così non si coinvolge alcuno. Nel teatro bisogna colpire forte anche se in modo “ ingiusto “.

Si, penso ai suoi versi come a un “coro“ nel quale si debbono individuare sia i singoli protagonisti sia le singole esperienze  a costoro proprie e – alla fine – trarne un senso comune

(il senso del testo nel suo complesso). Non mancano riferimenti oggettivi ad un spazio per così dire teatrale. Colonne, padiglioni, ponti, teatri in lacrime. Credo che alla sua poesia si debba – prima di tutto – assistere e abbandonarsi.

2.

Quando ho manifestato una certa insofferenza per l’ideologia, ho inteso – propriamente – rifiutare, almeno preliminarmente, ogni classificazione che si legittimi attraverso di essa

( ateo devoto, astorico etc. ). Da tempo penso che ogni individuo finisca per essere una individualità universale e, dunque, ogni esperienza del singolo riflette l’intero. Perché non assumere di fronte a ciascuno un atteggiamento di “ rispetto “ che è – nella sostanza – l’accoglienza sia del simile che del dissimile ? Come le anticipavo la sua è una poetica ardua, difficile. E’  da scandagliare in tempi lunghi e frazionati che ne scompongano il tessuto (nodi su nodi, fili su fili, un tessuto composito di figure enigmatiche) e lo ricompongano secondo ciò che ciascuno porta con sé . Ogni figura umana è – alla fine – un piccolo o grande enigma che – come in un rebus – si esprime nei volti, nei gesti, negli accostamenti bizzarri ma, alla fine, carichi di senso. In questa direzione la sua è una poesia essenzialmente visionaria.

Alcune connessioni – imposte con la necessaria “ violenza del testo “ – sono palesi. Vi sono figure reali che solo la “ lontananza“ rende leggendarie (penso a Helle Busacca richiamata da qualche suo verso); vi sono metafore che, all’opposto, vanno ridefinite in figure o situazioni reali (streghe, vergini: gli eretici sono coloro che bruciano o i bruciati ?). E alla fine la conclusione- amara ma inevitabile -si esprime nell’ultimo verso

( l’in-emendabilità della Storia ?)

I vari punti di domanda che pongo e che le pongo sono segnali delle difficoltà che incontra il lettore (lo spettatore) e che in alcune critiche che le sono state fatte vengono catalogate quasi come “colpe morali. “Perché Sagredo non sta assieme a noi, perché è così sdegnoso ?

Certo, anch’io gradirei – ma nel senso di una maggior comprensione – l’aiuto per superare certi passaggi, a volte angusti e a volte librati nel vuoto, che i suoi versi costantemente propongono. Ma si è sdegnosi in diversi “modi“. Si riconduce tutto, allora, ad una analisi di coerenza e adeguatezza del pensiero alla parola,  o sbaglio ?

Se c’è un pericolo in questo che a me sembra un “teatro di maschere” –  e se è legittimo segnalarlo- è quello della “fissità“. La maschera cela volti diversi e li rende eguali sfociando, alla fine, nel manierismo.

3.

Debbo, in chiusura, confermarle che l’avventura o la sfida (la partita a scacchi de Il settimo sigillo) che lei affronta mi coinvolge più di quanto desidererei. Ma ciò non è forse segno di una ulteriore misura di novità e ricchezza ?  Credo che lei abbia attraversato e continui ad attraversare esperienze invidiabili e che queste – inevitabilmente – influiscono sulla sua scrittura complessa. Spero di non fare un proposta “ oscena “. Perché non arricchisce i suoi testi di un commento nel senso strettamente oggettivo di note di richiamo e di esplicazione di tempi, luoghi, situazioni anche mentali ? Che c’è di male in questo?

La sua intervista mi ha riportato alle mie letture di Ripellino, un autore che mi affascina. E dunque grazie anche di questo.

Un cordialissimo saluto.

Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.

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Commento di Laura Canciani (Poliscritture, 8 settembre 2015)

Gentili locutori del blog,
vorrei eccepire qualcosa circa la “comprensibilità” della poesia di Antonio Sagredo. Innanzitutto, non esiste una comprensibilità assoluta, come non esiste una incomprensibilità assoluta. Per intendere la poesia sagrediana dobbiamo necessariamente uscire dalla tradizione recente del Novecento italiano e dai mini canoni che hanno imperversato in questi ultimi decenni. E’ lo stesso Sagredo che ci mette sulla retta via quando ci parla di una poesia che deve ripartire dallo stadio zero; il poeta ci vuole dire che ha tagliato tutti i ponti di collegamento con la tradizione italiana. E’ questo il distinguo che fa da fondamento alla sua poesia. Indicarlo come uno “stolto” o come un “superbo” significa non aver compreso il lavoro di raschiatura compiuto da Sagredo. Dirò di più, Sagredo è più che “stolto” e “superbo”, è anche autoritario e dittatoriale, la sua poesia si pone come un assoluto di estraneità, come un anacronismo vivente, tende alla assoluta alterità. Ma questo dato di fatto è, di fatto, un punto di enorme vantaggio della poesia sagrediana rispetto a quella dei poeti che scrivono alla maniera della poesia maggioritaria di oggi, quello sì un gergo insignificante e, in quanto tale, comprensibile a tutti. Ma in questo caso si tratta di una comprensibilità che non buca che il presente, la comprensibilità del banale e del quotidiano. La poesia di Sagredo ha il suo centro di gravità, la sua base, il suo fondamento nella “immagine”, è questa la chiave per entrare dentro i suoi meccanismi segnaletici molto complessi e sfuggenti. E’ come se si volesse capire Tranströmer senza fare riferimento alle sue fittissime reti di immagini. La poesia di Sagredo non può essere compresa se non si entra all’interno del suo sistema segnaletico e del suo sistema semaforico, entrambi sistemi basati sulla polimorficità della “immagine”. Ergo, l’io del poeta passa in secondo piano, ridotto com’è ad un sistema di specchi che rimandano l’un l’altro, un caledoscopio di immagini che impongono all’io poetante di ritrarsi sullo sfondo, di sottrarsi. Insomma, ritengo la poesia sagrediana come una delle cose più interessanti che si scrivono oggi in poesia in Italia proprio per la sua capacità assumere un vestito linguistico assolutamente singolare e irriconoscibile…

 

Antonio sagredo teatro politecnico-1974

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

Prove mostruose

(6)

Si svegliò sui gradini di un sacrario, le ossa forzavano il midollo ad un zigzagare
e a precipizio nei labirinti scorrevano i gridi angolari dei corvi e delle cornacchie.
Io sapevo che gli specchi anche nelle profondità ossute di Psiche erano pelosi,
come gli sguardi di Narciso che invano una selce barbarica radeva perché la

parola fosse circoncisa dalla Storia nel suo originario decantare. Il dubbio acheronteo
era uno stillicidio per le onde e per le anime migranti che la Morte per acqua temevano
più delle loro lacrime – per questo sghignazzava un verdastro Vodník su uno scoglio simile
al dente del giudizio – e beffava di Orfeo la maschera cartapestata e lacrimosa,

e il suo rifiuto alla proposta scellerata del voltarsi indietro: il miserabile era un portoghese,
non poteva traghettare il proprio corpo evanescente che si sbriciolava davanti ai furori delle
braci… negli occhi-uncini di Diomede! – il panico si sciolse in sogni speranzosi: tornare, forse?! –
ma il battello andava, errante… sulla riva le orme erranti degli sguardi sbigottiti!

e la marina… ondosa di sessi vaganti… di risacche – di gemiti!, e sfinimenti… arenosi.

Campomarino-Maruggio
26 giugno 2015
(un notturno sul molo dall’ora terza alla quarta)

Prove mostruose
(7)
a Antonio Dattis

Questa sera ho stretto la mano di Antonio e ho fatto una salto dal medioevo al settecento!
Mi sono arroventato le mani al contatto e i legni smaniosi hanno sragionato per tallonare
il suo ingegno! Non avevo che da rimproverarmi la precisione del mio cerebro e il calibrato
furore delle mie mani, e delle dita che lo guidavano… non possedevo che quest’arte, io!

E alla malora il Tempo e il Labor che non volevano finire: chiedevano un’assemblea plenaria
ai gesti, agli strumenti, ai disegni, ai pizzicati suoni… a che le corde fossero stonate perché
mai la fine accadesse tanto presto, e supplicare così la durata della passione divorante nel laboratorio…
la testimonianza ricordava quello del Padre mio fra trucioli e colla cervone…

Io, bambino, l’ammiravo…

ma qui, al savese, dobbiamo un inchino immortale, e non lo sconforto dell’anonimato!

Sava/Campomarino, 5 luglio 2015

 città di Fondi, ritratti muliebri

città di Fondi, ritratti muliebri

Prove mostruose
(8)

La gorgiera di un delirio mi mostrò la Via del Calvario Antico
e a un crocicchio la calura atterò i miei pensieri che dall’Oriente
devastato in cenere il faro d’Alessandria fu accecato…
Kavafis, hanno decapitato dei tuoi sogni le notti egiziane!
Hanno ceduto il passo ai barbari i fedeli inquinando l’Occidente
e il grecoro s’è stonato sui gradini degli anfiteatri…

Miris è davvero morto!

E quella rosa d’inverno come mi ricorda le mie Rose conquistate!
Rose di Praga fra la neve imminente… rose di Keplero e di pietra!
Annamaria è un Vesuvio di rose! Rose di lava vesuviana!
Lingue di lava di rose! Rose che vincono tutte le battaglie!
Dialetto rossolavico di rose rosse invernali e… non so che dire… altro…
Rose dei crocicchi, dei trivi, rose sfogliate e invogliate, rose – su tutto!

Così cantavano i miei passi, le orbite volate via!… e su tutti i ponti gli occhi e le visioni
di un’altra creatura che mi tallonava… accanto – e mi assillavano le sue letanie
di voler esistere come un refrain la mia vita su un arazzo sfilacciato:
come è artificiale questo sole che infine si riposerà e modellerà i nostri volti
con una maschera gelata!

E dopo il gelo, che saremo? Chi di noi sarà come prima, mostruosa Poesia !

Campomarino, 13 luglio 2015
(notte, marina, all’ora terza)

 Fayyum, ritratto

Fayyum, ritratto maschile

Prove mostruose
(10)

Ti ho sentito
piangere dalla camera dove non ci sei
Helle Busacca

Erano una vigilia pagana le sei colonne corinzie, e come un santo sui padiglioni
miravo il volto tumefatto della Supplica e fra movenze cardinali s’inceppava il mio
passo, ma nel suono dei sandali gli accesi ceri invocavano la cadenza di un ordine…
la povertà su uno stendardo disegnava ecumeniche e sordide denunce.

Attraversavo la soglia dei miei passi che mi chiedeva udienza sul banco dei pegni
scellerati, l’assise era smaniosa perché fosse plenaria la condanna della Sapienza,
e ti sentivo piangere dalla cella dove non c’eri… l’istanza vagava fra le navate come
un alato magistrale cerebro sulle cattedre, l’assise era plenaria sui cartoni e disegnava

il Perdono della Misericordia… mi chiese udienza presso le sei colonne corinzie…
passavo e cinguettavo un motivetto come il poeta sul Ponte delle Legioni e le mie
lagrime erano sospese come quelle degli Impiccati, degli Arsi Vivi, delle Streghe-
Vergini, ché Amore fu un rosario d’elissi in fiamme indulgenti… teatri in lagrime

di legno! Una vigilia pagana le sei colonne corinzie, la soglia dei miei passi
declinava sonore udienze… non sapevo le istanze o le condanne sottratte ad una
colpa recidiva! Il tribunale mi chiese se le mie lagrime come quelle delle sante
fossero vergini come le navate mai percosse dai voli di candide colombe e se con

gli occhi ecumenici nell’indulto mostravano ai tribuni le loro dita grasse come vermi…
e che ogni esecuzione per loro era una cuccagna… per questo i roghi erano una gioia
incontrollata, un carnevale approntato perché la santità degli atti fosse un sigillo o un
sacrificio cretienne, e mi chiedevo se lo stile pagano fosse stato meno – crudele!

Maruggio/Campomarino, 12 sett. 2015
(all’ora sesta)

Prove mostruose
(11)

Se ne tornava coronato di nastri funebri da un banchetto nuziale, l’idea fissa
di scalare le immagini perlacee dietro le quinte lo tallonava come un segugio,
si staccava dal moccolo con lo schiocco della sua lingua mercuriale… lordogravido
di ex-voto infine salpò con la gorgiera gonfia al vento verso Citera, l’irraggiungibile!

C’era una fittizia tempesta, cartonata! Ahimè, l’ancora fu scordata sul palco,
il suggeritore era in pianto più o meno dirotto, il molo sussultava come una prateria
in fiamme, il battello convulso come la bellezza secondo Tommaso-Riccardo indifferente
agli stermini… io raccoglievo le parti, confondevo le trame e le scene:

il raccapriccio non era previsto!. La polena-drago se la rideva attorcendo la prua
come un viticcio! Era di cartapesta la barocca ira di uno spiritato elfo che con una
celeste madonna danzava il foxtrot.. si leggenda che in un’alcova sotto le travi i complici amanti giocavano agli astragali i propri destini erogeni, violacee le ugole… e

chissà dove le aiuole rosse della platea erano le poltrone rivestite di polpa di donne…
Il pianto aizzava le lagrime a deglutire gli affanni e i tormenti, qualcuno indicava
sulla carta moschicida i puttini in volo… io sul molo, irreale, come in un patio miravo
Platero che ragliava davvero, e Ramon e Federico con le orbite in panne – delle vele!

Maruggio-Campomarino, 14 sett. 2015
(dall’ora 16esima alla 17esima)

Prove mostruose

(12)

La Troia-Santa dagli occhi turriti mi vietò il tributo della veglia,
la sua assoluzione disattesa aveva i capelli corvini,
reclamava la mia barbarie, ma la sua risposta non era la
condanna della innocenza.. le maschere si somigliano

sentenziò il poeta nel prologo immortale. Questo presente
è sconnesso davanti alle aurore degli stermini, gli albori
io vedo che sono nelle nostre ossa, la carne scarnificata
dalla tolleranza occidentale… le esequie inseguono i feretri!

Ero sul lastrico per la fama di un dio in divenire, il ritorno
non più eterno, le rotazioni una finzione delle stelle, la lettura
dei testi primordiali un fallimento delle umane storie…
interdetto dai secoli avevo per rifugio un umido sottoscala

pietroburghese… e capivo le tue grida antelucane e le nerastre
ombre, la tua passione dantesca e i latini amori, i ceppi ora sono
qui a vegliare l’immortalità, la pedantesca oscillazione degli orologi
marini, le sesse oleose che mi ammalano il cerebro d’accidia!

Sui merletti della torre se ne veniva danzando, come un ectoplasma
gelatinoso, la Santa Troia dagli occhi turriti che il tributo di una veglia
mi donava, a me, l’insonne eccelso, l’artigiano di versi sublimi,
sollevando l’ostensorio, come uno sfilacciato, monotono stendardo – di cartapesta!

Maruggio-Campomarino, 16-17 sett. 2015
(all’ora 23-esima e ottava)

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