Costantino Kavafis (1863-1933) DIECI POESIE “Itaca”, “Il sole del pomeriggio”,”Il tavolo vicino”, “Aspettando i barbari” “Una notte”, “Sulle scale”, “Dal cassetto”, “Per quanto sta in te”, “Candele” – con un Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

grecia Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

Konstantinos (Costantinos) Kavafis (gr. Κωνσταντῖνος Καβάϕης), nacque a Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863 e morì nell’ospedale greco San Saba di Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1933. Trascorse ad Alessandria la maggior parte della sua vita, visitando la Grecia solo tre volte (nel 1901, 1903 e 1932). Il greco, la sua lingua poetica, lo dovette reimparare durante l’adolescenza.
Kavafis vivendo in una città di mare, meta di viaggiatori ed emigranti in cerca di fortuna, si trovò in un felice crogiuolo di incontro tra persone di diverse culture. In Europa, in campo poetico, dominavano i simbolisti francesi, in Egitto vi era la grandissima e mirabile tradizione della poesia araba e per ragioni familiari Kavafis era vicino anche alla poesia ellenica di Omero, Saffo, Alceo, Anacreonte.
Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia.
In un primo tempo, compose i suoi versi in una lingua epurata ma dopo il 1903 si rivolse al parlato, arricchito di forme dialettali di Costantinopoli e di parole tratte dalla tradizione classica.
Le sue liriche pubblicate postume nel 1936, si possono suddividere in due gruppi: quelle scritte prima del 1910, che risentono dell’influenza dei parnassiani e dei simbolisti, e quelle che, composte dopo il 1910, rappresentano la parte migliore della sua produzione. Formatasi al di fuori della tradizione, la sua opera segna una reazione agli ideali cantati da Palamas.

grecia scena di un banchetto

scena di un banchetto

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Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Per Kavafis sono false le utopie delle grandi ideologie, sono falsi gli idoli della civiltà, è falsa la morale sessuale borghese; la verità non localizzata e temporalizzata nel corpo di un individuo non è verità ma menzogna. Vero è solo ciò che si può osservare da nessun luogo. Vero è il luogo del corpo. Kavafis guarda con sfiducia e sospetto alla cultura del suo tempo che si stava avviando alla più grande carneficina della storia. Per Kavafis l’uomo non è veramente umano se non è fedele ad un punto di vista che ha sede nel corpo. Allo stesso tempo, l’uomo non può disertare il suo posto, che però è sempre relativo, in tutte le epoche e in tutte le civiltà. Kavafis resta fedele all’unica certezza: alla dimensione individuale vitale, relativistica e prospettivistica; nella sua visione poetica il gesto definitivo non occupa alcun posto, c’è solo la prospettiva vitale che può dare un senso alla storia individuale e sociale. Per il poeta alessandrino la verità può essere soltanto una verità vitale e parziale, legata ai nostri sensi e ai nostri umori e alla nostra esistenza. Di conseguenza, sfiducia totale nella storia e sfiducia totale nelle ideologie della sua epoca e predilezione per una utopia rovesciata, la pittografia di una Alessandria astorica, irreale, pagana, nutrita dei fasti di un lontanissimo passato. È una Alessandria immaginaria, che non esiste, quella di Kavafis, frutto di una potente carica visionaria e fantastica. La fama di Kavafis comincia a diffondersi ad opera di Edward Morgan Forster, autore di romanzi piuttosto come Camera con Vista, Casa Howard, e Maurice, dai quali sono stati tratti film di successo.  Forster lo incontrò ad Alessandria, e fece pubblicare alcune sue poesie tradotte in inglese sulle riviste londinesi. Seguirono altri ammiratori illustri, come W.H.Auden, T.S.Eliot, Marguerite Yourcenar, e diversi italiani, tra cui Ungaretti, nativo di Alessandria d’Egitto.
Trovo limitativa la definizione della lingua poetica di Kavafis come «caotico universo linguistico» di Pier Paolo Pasolini, grande ammiratore di Kavafis, soprattutto per quella parte della sua opera poetica dedicata all’eros efebico. Il poeta alessandrino disegna invece una utopia all’incontrario, una Alessandria d’Egitto che non esiste.
Nella poesia di Kavafis sorge per la prima volta nella poesia europea il mito dell’Efebo. Una sorta di Antinoo dei suburbi della città, poiché tutte le vicende delle sue poesie si svolgono in una Alessandria levantina, ricca di luci soffuse e di ombre. Il corpo oggetto d’amore è sempre quello di un giovane, del quale Kavafis quasi sempre fa scivolare nella poesia, come per caso, l’età efebica. Si avverte nettamente una nostalgia, un rimorso, un ricordo di un amore del lontano passato ormai irraggiungibile.

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grecia scena erotica 1

scena erotica

Il tavolo vicino

Avrà ventidue anni appena.
Ma – altrettanti anni fa – son certo
d’averlo goduto quello stesso corpo.

Non è affatto eccitamento d’amore.
Ero entrato da poco nel Casino;
per bere molto non avevo tempo.
Lo stesso corpo io l’ho goduto.

E anche se non rammento dove – un’amnesia che conta?
Ecco, ora che siede al tavolo vicino
riconosco ogni gesto – e sotto i suoi vestiti
rivedo nude quelle membra amate.

Il sole del pomeriggio

Questa camera, come la conosco!
Questa e l’altra, contigua, sono affittate, adesso,
a uffici commerciali. Tutta la casa, uffici
di sensali e mercanti, e Società.
Oh, quanto è familiare, questa camera!

Qui, vicino alla porta,
c’era il divano: un tappeto turco davanti,
e accanto lo scaffale con due vasi gialli.
A destra… no, di fronte… un grande armadio a specchio.
In mezzo il tavolo dove scriveva;
e le tre grandi seggiole di paglia.
Di fianco alla finestra c’era il letto,
dove ci siamo tante volte amati.

Poveri oggetti, ci saranno ancora, chissà dove!

Di fianco alla finestra c’era il letto.
E lo lambiva il sole del pomeriggio fino alla metà.

…Pomeriggio, le quattro: c’eravamo separati
per una settimana… Ahimè,
la settimana è divenuta eterna.

grecia scena erotica con efebo

scena erotica con efebo

Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

(1911)

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Una notte

Era volgare e squallida la stanza,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si scorgeva il vicolo,
angusto e lercio. Di là sotto voci
salivano, frastuono d’operai
che giocavano a carte: erano allegri.
E là, sul vile, miserabile giaciglio,
ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca
voluttuosa, la rosata bocca
ditale ebbrezza, ch’io mi sento ancora,
mentre che scrivo (dopo sì gran tempo!),
nella casa solinga inebriare.

Ogni tanto lui giura

Ogni tanto lui giura
di cominciare una vita migliore.
Ma quando viene la notte a tentarlo
con le promesse e con le sue lusinghe,
ma quando viene la notte che domina
la carne, a quei piaceri consueti
del corpo che desidera, che vuole,
perdutamente ancora s’abbandona.

 

Sulle scale

Mentre scendevo l’ignobile scala,
tu entrasti dalla porta e per un istante
vidi il tuo volto sconosciuto e tu vedesti me.
Subito mi nascosi per non farmi vedere di nuovo e tu
passasti rapido nascondendo il volto
e ti infilasti nell’ignobile casa
dove non avresti trovato il piacere,
così come non l’avevo trovato io.
Eppure l’amore che volevi io l’avevo da darti,
l’amore che volevo – me l’hanno detto i tuoi occhi
stanchi e ambigui – tu l’avevi da darmi.
I nostri corpi si avvertirono e si cercarono,
il sangue e la pelle intuirono.
Ma noi, turbati, ci eclissammo.

 

grecia AENAOI NEFELAI - Efebo di Maratona

Efebo di Maratona

Aspettando I Barbari

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Che aspettiamo, raccolti nella piazza?

Oggi arrivano i barbari.

Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?

Oggi arrivano i barbari
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.

Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?

Oggi arrivano i barbari.
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.

Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei caselli tutti d’oro e argento?

Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.

Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?

Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.

Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?

S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.

E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.
(1908)
(traduzione di Filippo Maria Pontani)

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Dal cassetto

Volevo appenderla a un muro della stanza.
Ma l’umidità del cassetto l’ha guastata.
Non la metto in un quadro questa foto.
Dovevo conservarla con più cura.
Queste le labbra, questo il viso…
ah, per un giorno solo, per un’ora
solo tornasse quel passato.
Non la metto in un quadro questa foto.
Mi fa soffrire vederla così guasta.
Del resto, se anche non fosse guasta,
che fastidio badare a non tradirmi…
una parola, o il tono della voce…
se mai qualcuno mi chiedesse chi era.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

efebo di Maratona part del braccio

Per quanto sta in te

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo
degli incontri e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea

Candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese
dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

26 commenti

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26 risposte a “Costantino Kavafis (1863-1933) DIECI POESIE “Itaca”, “Il sole del pomeriggio”,”Il tavolo vicino”, “Aspettando i barbari” “Una notte”, “Sulle scale”, “Dal cassetto”, “Per quanto sta in te”, “Candele” – con un Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

  1. Come avete potuto vedere, abbiamo cambiato l’immagine della testata della Rivista. Abbiamo inserito un collage di immagini dei ritratti di donne romane di Fayum (120-140 d.c.). L’immagine che ne è uscita mi sembra più consona allo spirito del nostro cammino. Come ha scritto Francesca Diano, dove guardano quelle donne con i loro occhi spalancati? Guardano a noi di qua dell’abisso. E noi, mi chiedo, dove guardiamo? […]

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    • Grazie Giorgio carissimo per aver ricordato quella mia riflessione, eccola qui, te la riporto:
      – Quegli sguardi dall’abisso… noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d’ossidiana, e vediamo l’abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l’abisso –

      Mi hanno sempre colpito moltissimo i ritratti funebri di El Fayum, nati dalla fusione di mondo greco-egizio e romano e all’arte romana devono il loro realismo impressionante. Quegli sguardi sono un ponte, come lo è l’arte, come lo è la poesia, attraverso il tempo e lo spazio e dunque splendida la scelta per l’immagine della testata.
      Di Kavafis che dire? Tocca corde profondissime.

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  2. Indiscutibilmente belle queste poesie che racchiudono nel loro cuore profondo il senso più vero delle cose, la loro verità. Straordinaria la naturalezza con cui il poeta, per limpida continuità, si collega al mondo alessandrino, tessendo in unità la sua vicenda umana e il suo canto tenero e appassionato nell’aura di un passato vivo e sempre presente in lui. Una sensualità che, al di là dell’ebbrezza carnale, diviene immateriale, elaborazione più dello spirito che della materia. Trascrivo di seguito alcuni altri versi intensamente belli e significativi:

    PERCHE’ VENGANO
    Basta un cero. Meglio s’addice
    quella luce incerta: ci sarà maggior piacere
    quando verranno dell’Amore, quando verranno le Ombre.

    Basta un cero. La stanza non abbia
    stasera molta luce. Completamente abbandonato
    nell’indefinita suggestione d’un sogno, e poca luce –
    così nell’incanto mi illuderò
    perché vengano dell’Amore, perché vengano le Ombre.

    DESIDERI
    Come splendidi corpi di morti non colti da vecchiaia
    racchiusi, tra lacrime, in fulgidi mausolei,
    adorni di rose il capo, di gelsomini i piedi –
    così appaiono i desideri ormai svaniti
    che nessuno esaudì: neppure uno che avesse
    una notte di voluttà o un’alba luminosa.

    HO PORTATO ALL’ARTE
    Seduto sto fantasticando. Desideri e sensazioni
    ho portato all’Arte – volti appena intravisti,
    tratti accennati; e incerte memorie
    d’amori incompiuti. Mi affido ad Essa.
    Sa raffigurare la Forma della Bellezza:
    e riempie quasi inavvertitamente la vita intera,
    unisce le sensazioni, accumula i giorni.

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  3. gino rago

    La scelta della nuova immagine della testata de L’Ombra delle Parole è esteticamente pregnante, coinvolgente sul piano emotivo, coerente con lo spirito della Rivista internazionale di Letteratura.
    Si domanda Francesca Diano: – Dove guardano quelle donne, con quegli occhi spalancati?
    Quelle donne romane intercettano lo sguardo nostro e sembra che ci ricordino,ma senza travolgerci, la più elementare e terribile delle verità: “Fummo ciò che siete. Sarete ciò che siamo”.
    Costantino Kavafis, poi, presentato, con ampiezza di respiro critico e originalità di meditazioni personalissime, da Giorgio Linguaglossa, ogni volta ci sorprende per l’immediatezza di lettura con la quale si leggerebbe un poeta contemporaneo, pur avendo scritto versi fra la fine del XIX Secolo e i primi anni del XX. Questo tipo di lettura tocca soltanto i Classici. E i classici universali, vista la fama internazionale di cui gode, al punto che si parla
    di “poesie kavafogenite” per il fascino che l’autore di “Itaca” è riuscito a esercitare su poesie di autorevoli poeti stranieri, non greci, formando così una categoria poetica a sé stante.
    Sterminata è la sua fortuna critica. Da qui, spicco una riflessione di Brodskij: “La poesia perde nelle traduzioni e quella di Kavafis non fa eccezione. Fa eccezione però in quanto ci guadagna….”
    Ci guadagna nel senso che rispetto ad altri poeti tradotti in altre lingue la poesia di Kavafis perde meno. E se Auden sceglie una risposta a tale fenomeno, Brodskij ne adotta un’altra legata, in parte, al carattere fino a un certo punto “didascalico” della poesia kavafiana, e soprattutto legata al fatto che a partire dal 1900-1910 Kavafis iniziò, in un lavorio oscuro e tenace, a privare le sue liriche di qualsiasi “ornamento poetico- immagini, fraseggi metrici, rime…”.
    Così come natura e paesaggio nell’opera poetica kavafiana sono quasi assenti poiché, come suggerisce anche Giorgio Linguaglossa nella sua meditazione, per Kavafis è il corpo stesso che è storia, paesaggio e natura…

    Gino Rago

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  4. Ubaldo de Robertis

    Molto utile per me il commento di Gino Rago! mi ha aiutato a capire perché la poesia di Kavafis “resiste” meglio alle traduzioni. Non conoscevo infatti l’interpretazione di Brodskij.
    Interessante, come sempre, il commento di Rossella Cerniglia.

    Ubaldo de Robertis

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    • gino rago

      Grazie, Ubaldo. Perdonami per il ritardo con il quale rispondo al tuo commento.
      Mi segnalano un volume di liriche dedicate a Kavafis. 135 poeti con 150 poesie kavafogenite (tra gli italiani, Sandro Penna, Carlo Betocchi, Eugenio Montale, Mario Luzi, Alfonso Gatto, ecc.).
      Le poesie (lo ribadisco a nome della Redazione dell’Ombra… anche per Salvatore Martino, sciogliendone il dubbio) di Kavafis proposte sono state
      tradotte – magnificamente – da Filippo Maria Pontani.
      Gino Rago

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  5. Cara Francesca Diano, ho riportato le tue parole nel motto dell’Ombra. Quelle parole valgono per noi tutti, e noi tutti avremmo voluto dire quelle parole. Grazie.

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  6. Salvatore Martino

    Che dire’ Cosa raccontare leggendo i versi meravigliosi di Kostantino Kavafis? La commozione più profonda e nessun discorso critico. Che Egli s’inoltri nel mito o nella storia Itaca o Bisanzio, Iasis o Marco Antonio , o Manuele Comneno, la corte di Bisanzio, o che si abbandoni all’eros più carnale o spirituale, che ci parli della bellezza dei giovani di Alessandria, o ci fotografi le squallide camere dove si consuma l’amore, o ci racconti della Jeunesse Blanche ancora disperatamente presente, che non debba mai abbandonarci, sempre la sua poesia ci trascina in un vortice di emozioni, quali raramente riesce a comunicarci un poeta. Quelle irripetibili atmosfere della città che fu dei Tolomei col suo fascino tra il decadente e l’antico splendore, gli incontri consumati in una squallida stanza, mentre il sole dalla finestra illumina letti e corpi abbandonati in un amplesso appena consumato , il ricordo di quanto è stato ed è ora soltanto struggente nostalgia, il culto della bellezza virile, le mani che si sfiorano appena, come in un rituale d’amore dentro il negozio di un guantaio, il ragazzo bellissimo che si consuma per l’abuso di sesso, ma viene ricordato sulla tomba da quanti presuibilmente lo amarono e godettero del suo corpo (Tomba di Iasis).Certo i Barbari non arrivano stanotte ad Alessandria, tutto l’apparato politico, tutta la folla era in trepidante attesa di questi uomini che avrebbero certamente cambiato la storia della città, uomini che sono fermi ai confini, ma non verranno mai, e non saranno la soluzione attesa. D’altra parte non è importante l’approdo ad Itaca, l’importante è mettersi in viaggio. Quale straordinaria profondità, nel suo arco poetico, che abbraccia l’Io e il cosmo, la politica e il sociale, nel culto dell’armonia e della bellezza, in una scrittura cristallina e potente, dove il mistero è raggiunto , non con le volute oscurità intellettualistiche, con i frammenti che alla fine non compongono un tracciato unitario, come in tanta poesia che si legge oggi, ma appunto con un disegno armonico, un linguaggio depurato e scarnificato con ossessività, una commozione (kommos) profonda del poeta, che vive gli abissi del corpo e della mente, dell’anima, del sesso, del rimpianto, dell’illusione del cambiamento, della ripetitività della storia e del suo tradimento cognitivo. Ricordo una frase crudelissima che Enrico Falqui disse a Sandro Penna : o Pennino e adesso come fai? Parlando dell’arrivo in Italia di Kavafis tradotto. In effetti c’è un guado tra i due poeti. Io penso che i giovani di oggi, quelli che aspirano a diventare poeti, farebbero bene a studiare questo meraviglioso poeta, apparentemente facile e accattivante , anche per il coté erotico, perché racchiude nei suoi versi una scala di suggerimenti salendo i quali ci si arrampica verso regioni di grande poesia, che possono costituire una vera scuola, una bottega dove imparare “il mestiere”, forse anche quello “di vivere” Salvatore Martino

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  7. Salvatore Martino

    Ho visto male io oppure non è indicato il traduttore di Kavafis?

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    • gino rago

      Non hai visto male tu, caro Salvatore. Proprio, più semplicemente, non hai visto…Il traduttore delle poesie di Kavafis proposte è Filippo Maria Pontani. E Giorgio L. lo ha indicato chiaramente.
      Altra lirica, non postata, però per, come si dice, l’imbarazzo delle scelte che la eccellente produzione poetica kavafiana determina sempre, è per i miei gusti estetici “Primo scalino…”
      Son certo che questa lirica intercetta anche i tuoi gusti.
      Gino Rago

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      • Salvatore Martino

        Il suo elogio, non so quanto meritato, anche perché la parola esegesi mi appare troppo grande per un modesto commento,dettato solo dall’amore per la poesia di Kavafis,il suo elogio dicevo gentilissima signora Cerniglia ovviamente mi colpisce al profondo e mi genera una malcelata soddisfazione. Rifuggo dagli interventi critici e cerco di penetrare con umiltà ma con fermezza passionale e a volte persino con “crudeltà” nel mondo poetico di un individuo che sfida le regole e si espone all’abisso della poesia. Già quelle del poeta di Alessandria sono davvero, come lei asserisce, atmosfere irripetibili e raffinatissime sfumature. Salvatore Martino

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        • ubaldoderobertis

          Nel complimentarmi con Martino per il suo sentito commento
          rendo omaggio alla grandezza di Kavafis con le parole di Alfonso Gatto.
          Ubaldo de Robertis

          UN FIORE PER KAVAFIS

          Un uomo come lui che gli somigli,
          stanco e voglioso d’essere più solo 
          di quel che fu con i pensieri suoi, 
          con le sue mani attente a trovar posto 
          alla tazza al bicchiere al quadernetto 
          di versi, luccicante per gli occhiali 
          l’intensa tenerezza di cui visse: 
          questo, nel freddo dell’ottobre schivo, 
          il fiore che ti porto. 
          È nell’emporio dolce della noia 
          il confetto pensoso che rimugini 
          con l’amara lentezza dello sguardo, 
          il notare il notare e mai concludere, 
          come dicevi, 
          e la saggezza pigra dell’amore. 

          (Alfonso Gatto)

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          • Salvatore Martino

            Grazie carissimo Ubaldo per questo toccante ricordo di Gatto su Kavafis. Conoscevo bene Gatto e insieme a Ruggero Jacobbi si parlava spesso dei poeti ellenici,e tutti e tre eravamo concordi nell’amore per il poeta di Alessandria, oltre che per Elitis, Seferis e Ritsos, quest’ultimo da noi tre considerato , come diceva Aragon, il più grande poeta di questo tempo che è il nostro. Ebbi modo in diverse occasione di visitare Ritsos nella sua casa ateniese di Michail Koraca 39, e l’impressione fu sempre quella di parlare con un uomo venuto di lontano, un testimone dell’antichità, immerso totalmente nella realtà politica e sociale del suo paese. Aveva, come saprai, conosciuto anni di confino sotto i colonnelli. In uno dei nostri incontri a casa di Jacobbi, c’erano anche Pratolini e Macrì, Alfonso mi regalò una sua borsa di pelle con le iniziali A.G. incise. la conservo ancora come una reliquia. A parte il premio a lui dedicato anch’egli fa parte della schiera dei poeti italiani dimenticati e che a mio sentire non sono poi tanto inferiori ai poeti stranieri tanto celebrati anche in questo blog.Ancora grazie per questo tuo richiamo che mi ha concesso di ritornare indietro in un tempo che ricordo migliore. Salvatore Martino

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            • ubaldoderobertis

              Carissimo amico,

              bene Kavafis e bene Gatto. Hai messo anche l’accento sulla grandezza poetica di Ritsos, un grosso esempio di coerenza per me e per la sinistra (che poi in Italia si è disintegrata). Mi aspettavo il Nobel per lui! Ma non ti dice niente il fatto che Ritsos fu un grande conoscitore estimatore traduttore dei maggiori poeti rumeni e cecoslovacchi oltre che, naturalmente, di Blok e Majakovskij? Non è la conferma che giusta è la scelta de L’Ombra di dare spazio ai poeti dell’est europeo?
              In quanto ai tuoi personali ricordi, così belli e suggestivi, penso che la tua vita sia già un libro! Ad ogni modo ti consiglio di sfuggire all’opprimente austerità della vecchiaia, disponendoti al loro piacevole recupero, a scrivere dei vari personaggi che hai avuto l’avventura di conoscere e che hanno caratterizzato culturalmente in lungo e in largo il nostro tempo.
              Un caro saluto,

              Ubaldo de Robertis

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  8. Francesco

    La traduzione delke poesie di Kavafis è di Pontani o Linguaglossa? Ahahah

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    • c’è stato un dilettante che ha tradotto poesie di Kavafis senza sapere il greco e le ha tradotte in rima. Il somaro non sapeva che Kavafis non ha mai scritto poesie in rima.
      Cmq le traduzioni pubblicate sono di Pontani.

      Sono d’accordo con Salvatore Martino, e aggiungo che vivere da poeti significa anche prendere posizioni nella vita. Dico posizioni non di comodo o di potere. I poeti che si sono affiancati al potere e al palazzo a me non sono mai piaciuti. Questioni di gusti.

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  9. Salvatore Martino

    Carissimo Gino di solito il traduttore viene inserito da Linguaglossa a cappello dell’articolo in caratteri grandi e persino in grassetto, come sempre avviene per gli amati poeti in lingua slava. Qui il nome di F.M.Pontani è messo in calce e in caratteri microscopici,chissà perché. Certo che amo “Primo scalino” e tante altre. Vedi ci sono poeti che leggi una o due volte e altri che continui a leggere tutta la vita, scoprendo sempre nuovi orizzonti. Kavafis è uno di questi. Ma nel mio casellario di memoria ne annovero molti altri. Ha ragione Borges quando dice leggo sempre gli stessi libri. Tutti come il giovanissimo E’umene dovrebbero essere fieri di accettare il suggerimento di Teocrito quando ha scritto un solo verso, tutti intendo i giovani che si affacciano alla poesia. Essere giunti al primo gradino della scala è già qualcosa che ti distingue dal volgo, e dovrebbe essere l’incentivo per arrampicarsi lungo questi ardui pioli, così difficili da scalare.Il lavoro ossessivo è l’unica cosa che paga davvero nella costruzione di un progetto poetico, ovviamente se la partenza- talento è insita nell’anima e nella mente di colui che s’incammina . Aggiungo come sempre e mi ripeto : non basta scrivere versi bisogna anche vivere da poeta, un individuo con le antenne sempre in agitazione, ipersensibile al mondo che lo circonda, alla natura, alla musica, al sesso, all’abisso, alla consuetudine con la morte e l’elenco potrebbe continuare ma poi sarei accusato di “rompere”. Salvatore Martino

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  10. gino rago

    E’ la risposta, caro Salvatore, che da un fine interprete e da un competente frequentatore della grande poesia, come sento che sei, mi aspettavo.
    “…Ma quando fabbricavano come fui così assente!/ Non ho sentito mai
    né voci né rumori./ M’hanno escluso dal mondo inavvertitamente.” Le Mura intorno a Kavafis sono le mura intorno ai poeti, d’ogni dove, d’ogni tempo?
    Gino Rago

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  11. Giuseppe Panetta

    Carissimo Martino, sono pienamente d’accordo con te e con una boutade dico, mamma gli slavi (mamma li turchi, si esclamava una volta). Soprattutto quando i sacerdoti del culto non vedono altro che “un litro d’olio a testa al mese”, “un kg di farina a testa al mese.” E tutto il rispetto per i grandi poeti slavi, ma quelli grandi, grandi per davvero.
    Kavafis lo leggo da quando ero ragazzino e non mi stanca mai, un colosso.

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  12. Salvatore Martino

    Che bello riscontrare sintonie con persone che stimo anche se le conosco soloattraverso il gioco telematico. Grazie comunque Rago e Panetta. Sarebbe molto bello potersi incontrare in un Simposio, un Convito platonico magari nella Capitale e conoscere le nostre facce, le nostre voci, oltre le parole scritte, che sempre attraversano la censura razionale.

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    • Giuseppe Panetta

      Caro Salvatore, volentieri farei la tua conoscenza, un pezzo di storia della letteratura italiana, come pure quella di molti altri cari intellettuali che qui rendono lustro alla poesia. Anche Sagredo (pater) che stimo, ma che non perdono quando esagera.

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  13. antonio sagredo

    l’unico canto

    La barbarie, non i barbari, Kavafis!
    Io ti dono una merce più salata:
    una fede eretica dalle spine carboniose,
    un’incisione che non separi i corpi.

    Odessa m’inseguiva con tutti i suoi viali,
    contavo i gradini come lancette le epoche.
    Il tanfo estivo fondeva i metalli degli affetti:
    non avevo che un inverno – per tutore!

    antonio sagredo
    Vermicino, 13 luglio 2001

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