DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

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Stonehenge

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa 

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Cito dal retro di copertina del libro di Mario Gabriele L’erba di Stonehenge appena pubblicato nella collana da me diretta delle Edizioni Progetto Cultura:

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«L’elemento di distinguibilità della poesia di Mario Gabriele, sta nella rottura con i canoni dello sperimentalismo e con l’eredità della poesia post-montaliana del dopo Satura (1971), vista come la poesia da circumnavigare, magari riprendendo da essa la scialuppa di salvataggio dell’elegia per introdurvi delle dissonanze, delle rotture e tentare di prendere il largo in direzione di una poesia completamente narrativizzata, oggettiva, anestetizzata, cloroformizzata. Di qui le numerose citazioni illustri o meno (Mister Prufrock, Ken Follet, Katiuscia, Rotary Club, Goethe, busterbook, kelloggs al ketchup, etc.), involucri vuoti, parole prive di risonanza semantica o simbolica, figure segnaletiche raffreddate che stanno lì a indicare il «vuoto». Il tragitto, iniziato da Arsura del 1972, e compiuto con quest’ultimo lavoro, è stato lungo e periglioso, ma Gabriele lo ha iniziato per tempo e con piena consapevolezza già all’indomani della pubblicazione del libro di Montale [Satura, 1971 n.d.r.] che, in Italia, ha dato la stura ad una poesia in diminuendo».

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È evidente che nella poesia di Gabriele l’elemento sonoro, fonetico svolga una funzione accessoria: è la continuità ininterrotta delle immagini, dei luoghi nominati, dei toponimi, della nomenclatura ciò che fa una sequenza poetica, non la continuità dei suoni. La tridimensionalità acustica della poesia di Gabriele si comporta come una sorta di megafono della tridimensionalità delle immagini, con raffinati effetti, diciamo, di stereofonia; ma la loro funzione rimane quella servente, quella di accompagnare la tridimensionalità delle immagini in rapida successione. Il loro compito è quello di accompagnare l’immagine, non di suscitarla nella mente del lettore, come accade invece in una semplice poesia performativa orale di tipo narrativo o lirico o anche mimico-teatrale.
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mario gabriele
da  Mario Gabriele da L’erba di Stonehenge 2016 Edizioni Progetto Cultura

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(2)

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Una fila di caravan al centro della piazza
con gente venuta da Trescore e da Milano
ad ascoltare Licinio.-Questa è Yasmina da Madhia
che nella vita ha tradito e amato,
per questo la lasceremo ai lupi e ai cani,
getteremo le ceneri nel Paranà
dove abbondano i piranha,
risaliremo la collina delle croci
a lenire i giorni penduli come melograni,
perché sia fatta la nostra volontà.-
Un gobbo si chinò davanti al centurione
dicendo:- Questo è l’uomo che ha macchiato
le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,
non ha avuto pietà per Kamadeva,
rubato gioielli e incenso dagli altari di Nuova Delhi.
-Allora lasciatelo alla frusta di Clara e di Francesca,
alla Miseria e alla Misericordia.
Domani le vigne saranno rosse
anche se non è ancora autunno
e spunta il ruscus in mezzo ai rovi.
Un profumo di rauwolfia veniva dal fondo dei sepolcri.
Carlino guardava le donne di Cracovia,
da dietro i vetri Palmira ci salutava
per chissà quale esilio o viaggio.
Nonna Eliodora da giugno era scomparsa.
Stranamente oggi non ho visto Randall.
Mia amata, qui scorrono i giorni
come fossero fiumi e la speranza è così lontana.

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Dimmi solo se a Boston ci sarai,
se si accendono le luci a Newbury Street.
Era triste Bobby quando lesse il Day By Day.
Oh il tuo cadeau, Patsy, nel giorno di Natale!

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(3)

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La notte celò i morsi delle murene.
Tornarono le metafore e gli epistemi
e una folla “che mai avremmo creduto
che morte tanta ne avesse disfatta”:
Wolfgang, borgomastro di Dusseldorf,
Erich, falegname in Hamburg,
Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael,
Lothar e Hans, liutai.
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Questa è la casa: -Guten Morgen, Mein Herr,
Guten Morgen-, disse Albert.
Qui curiamo le piante e le orchidee,
offriamo sandali e narghilè ai pellegrini
in cammino verso Santiago di Compostela.
Sui gradini dell’Iperfamila,
tra stampe di Kandinskij e barattoli di Warhol,
Moko Kainda sognava l’Africa di Mandela.
-“Doveva essere migliore degli altri
il nostro XX secolo”- scriveva Szymborska,
tanto che neppure Mss. Dorothy,
chiromante e astrologa,
riuscì a svelare le carte del futuro,
né Daisy si dolse del sole africano,
ma dei muri che chiudevano
le terre di Samuele e di Giuseppe.
E non era passato molto tempo
da quando Margaret e Jennifer
(che pure in vita dovevano essere
due anime perfette e pie),
volarono in cielo.
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L’alba illuminava gli angoli bui, gli slums.
Era ottobre di canti e heineken
con la foto della Dietrich sul Der Spiegel.
Riapparve la luce,
ed era tuo il lampo sulle colline
bruciate dall’autunno.
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Ma è malinconia, mammy,
quella che ha preso posto nella casa
dove neanche le preghiere ci danno più speranza.
Fuori ci sono il drugstore e il giardino degli anziani,
l’eucaliptus e il parco delle rimembranze,
la guardia medica per il tuo tremore Alzheimer.
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Fra poco la neve coprirà il poggetto.
Ci sarà poco da raccontare
a chi rimane nella veglia,
dove c’è sempre qualcuno
che parla della lunga barba di Dio
come una cometa
nella notte più silente dell’anno,
quando il gufo da sopra il ramo
sbircia il futuro e vola via.
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Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Salman Rushdie and Actress Olivia Wilde

Ho un libro sotto mano di Salman RushdieImaginary homeland‘ (1999), una raccolta di saggi sulla letteratura dello scrittore indiano. C’è anche un saggio su Italo Calvino. Il libro comincia così:

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“Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza dove io lavoro. E’ la foto del 1946 di una casa nella quale, al tempo in cui fu scattata, io non ero ancora nato. La casa è piuttosto particolare – una casa a tre piani con un tetto tegolato e agli angoli due torri ciascuna con un cappello di tegole. ‘Il passato è un paese straniero‘ dice la famosa frase che apre il romanzo di L.P. HartleyThe God-Between?, ‘essi fanno altre cose là’. Ma la foto mi dice di capovolgere questa idea; essa mi ricorda che è il mio presente che è straniero, e che il passato è la casa, una casa perduta nella nebbia di un tempo perduto”.

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Ecco, nella poesia di Rafael Alberti, come anche nella poesia dei poeti modernisti di inizio secolo (poeti s’intende di valore), c’è questa concezione del tempo passato che la poesia può, magicamente, riaccendere come una scintilla accende un fuoco quasi spento; c’è l’idea di una continuità che la memoria può annodare tra il presente e il passato e la mente può riprendere a cantare, cantare spensieratamente. Ma, il canto spensierato è molto pericoloso, lo abbiamo esperito nel corso della seconda guerra mondiale quando sono emerse le incongruenze e gli irrazionalismi di una intera cultura: l’olocausto, gli eccidi di massa, le deportazioni, la terza guerra mondiale, quella fredda, e la quarta, appena cominciata. ecco, io penso che non c’è più spazio per la poesia che canta, come non c’è più spazio per la poesia della sproblematizzazione, per cui non c’è più metafisica, non ci resta altro che consumare il quotidiano tra un tic e una nevrosi come fa la poesia e la narrativa del minimalismo.

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Io non ho nulla incontrario verso la poesia della «nuova» «non-poesia», e qui penso alla «contro-poesia» di un Aldo Nove; eccepisco un a-priori: l’autore milanese fa, consapevolmente, una pseudo poesia, opera una verificazione del messaggio poetico attraverso la falsificazione. Così quando scrive le «anti poesie» di Maria (Einaudi 2012), la sua «anti poesia» scollima con la «pseudo poesia»; voglio dire che fa poesia laterale, da banda larga, dirige i propri strali contro la vituperata «poesia-poesia», opino avverso la poesia lirica. Ma non coglie il bersaglio. E lo manca perché il bersaglio non c’è, e non c’è perché la poesia lirica ormai la fanno le decine di migliaia di aspiranti al podio della poesia; di fatto, essa è scomparsa dopo La camera da letto (1984 e 1988) e La capanna indiana (1973) di Bertolucci. Semplicemente, non è più possibile fare poesia lirica oggi neanche se un redivivo Attilio Bertolucci scrivesse una nuova Camera da letto. In realtà, Aldo Nove e Valerio Magrelli fanno una poesia della sproblematizzazione, interrogano derisoriamente le tematiche e le icone pubblicitarie della civiltà mediatica e della civiltà umanistica; il primo con gli strumenti culturali del capovolgimento antifrastico, strumento retorico tipicamente novecentesco; il secondo con il gioco ironico che oscilla tra accettazione, manipolazione e intellettualizzazione dei temi e degli idoli della civiltà mediatica. Ma siamo ancora all’interno di una cultura della sproblematizzazione.

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salman 10

salman rushdie

Torniamo alla stanza dove pende una vecchia fotografia. Nel romanzo di Rushdie ‘Midnight’s Children‘(1981), c’è la vecchia casa dei genitori. In una mia poesia (Tre fotogrammi dentro la cornice), riprendo il tema da una foto scattata anch’essa nel 1946: ci sono i miei genitori giovani, appena sposati, che camminano in una strada di Roma nel dopo guerra. Mio padre, calzolaio, tornato dalla guerra come soldato semplice, ha perduto il negozio di scarpe che aveva in viale Libia a Roma, ed è disoccupato, e mia madre è in cinta di mio fratello, io non sono ancora nato.

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Giorgio Linguaglossa Three Stills In the Frame 2015
Neanche Rushdie era ancora nato nel 1946. Entrambi (lui nel romanzo, io nella mia poesia) manifestiamo la nostra contentezza per non essere ancora tra i viventi, ed entrambe le foto sono in bianco e nero. E il mondo che sta attorno alla foto, sia io che Rushdie lo immaginiamo in bianco e nero, monocromatico. Ma la realtà non è mai stata monocromatica, è un difetto delle foto che la rappresentano in bianco e nero.
E qui sorge il problema sollevato da Rushdie citando la sentenza di Hartley: ‘Il passato è un paese straniero‘. Ma è un falso ci dice il narratore indiano, è il presente il vero paese straniero, noi non conosciamo il presente, e il passato possiamo conoscerlo solo attraverso la discontinuità e la disorganizzazione dei ricordi. Il rammemorare non è una azione di continuità tra il passato e il presente, ma è una azione di collegamento tra due frammentazioni, e la poesia e il romanzo di oggi non possono che ripresentare in essi queste duplici frammentazioni. Il poeta moderno cerca di dare al passato una rappresentazione immaginativamente vera mediante una iniezione di memoria; ma è un falso, la memoria non è una linea rettilinea ma un insieme di frammenti disorganizzati e casuali dove si può prendere di tutto e si può perdere di tutto.

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Noi, dico noi per indicare noi gli esiliati del mondo moderno, non possiamo prendere dal serbatoio della memoria nient’altro che frammenti e lacerti irregolari, frantumi di quell’antico specchio che è stata la vita. E saranno proprio questi frantumi che ci possono condurre più da vicino al mondo delle simbolizzazioni. I frantumi sono già dei simboli, afferma Rushdie. Ecco perché oggi non c’è più alcun bisogno di alcun simbolismo. Il simbolo è morto ed è stato sostituito dai frantumi. Oggi, un narratore o un poeta non può più porre mano ad un romanzo alla maniera di Proust per ritrovare il tempo perduto; oggi il mondo si è frantumato e non ci sarà nessun Proust che ci potrà restituire quel mondo nella sua compiutezza. Restano i frantumi, ed è da essi che dobbiamo riprendere a tessere le nostre poesie e i nostri romanzi.
Rafael Alberti appartiene a quel genere di poeti e romanzieri alla Proust che cantano per restituire il mondo del passato nella sua interezza. Ma è un falso, come poi ci ha mostrato Eliot ne ‘La terra desolata‘ (1925).

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Quanto all’Ombra delle Parole, caro Steven Grieco, io penso molto semplicemente che una poesia fatta per la luce dei riflettori mediatici, come la «pseudo poesia» di Magrelli sulle gambe di Nicol Minetti (tratta da Sangue amaro, Einaudi, 2015) che abbiamo ripubblicato su questo Rivista, sia di una estrema banalità, punta tutto sulla luce dei riflettori mediatici, è una pseudo poesia di superfici riflettenti che riflettono tanta luce quanta ne ricevono. In questo genere di poesia non c’è ombra, c’è solo luce. Tutto è stato detto. E tutto può essere dimenticato.

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Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!). Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….
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valerio magrelli 4

valerio magrelli

Valerio Magrelli

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L’igienista mentale:
divertimento alla maniera di Orlan
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La Minetti platonica avanza sulla scena
composto di carbonio, rossetto, silicone.
Ne guardo il passo attonito, la sua foia, la lena,
io sublunare, arreso alla dominazione
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di un astro irresistibile, centro di gravità
che mi attira, me vittima, come vittima arresa
alla straziante presa della cattività,
perché il tuo passo oscilla come l’ascia che pesa
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fra le mani del boia prima della caduta,
ed io vorrei morirti, creatura artificiale,
tra le zanne, gli artigli, la tua pelle-valuta,
irreale invenzione di chirurgia, ideale
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sogno di forma pura, angelico complesso
di sesso sesso sesso sesso sesso.
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Dobbiamo fare un passo indietro.
Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia(Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).
Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell’«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».
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Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nelle punte di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
E qui il cerchio si chiude.
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Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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Mario Gabriele volto 1.
Mario M. Gabriele è nato a Campobasso nel 1940. Poeta e saggista, ha fondato nel 1980 la rivista di critica e di poetica Nuova Letteratura. In poesia ha pubblicato Arsura (1972); La liana (1975); Il cerchio di fuoco (1976); Astuccio da cherubino (1978); Carte della città segreta (1982), con prefazione di Domenico Rea; Il giro del lazzaretto (1985), Moviola d’inverno (1992); la tetralogia: Le finestre di Magritte (2000); Bouquet (2002), con versione in inglese di Donatella Margiotta; Conversazione Galante (2004); Un burberry azzurro (2008); Ritratto di Signora (2014). Ha pubblicato monografie e antologie di autori italiani del Secondo Novecento. Si è interessata alla sua opera la critica più qualificata: Giorgio Barberi Squarotti, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Linguaglossa, Luigi Fontanella, Ugo Piscopo, Giorgio Agnisola, Mariella Bettarini, Stefano Lanuzza, Sebastiano Martelli, Pasquale Alberto De Lisio, Carlo Felice Colucci,  Ciro Vitiello, G.B.Nazzaro, Carlo di Lieto. Cura il Blog di poesia italiana e straniera Isoladeipoeti.blogspot.it.

 

30 commenti

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30 risposte a “DUE POESIE di Mario M. Gabriele (da L’erba di Stonehenge, Progetto Cultura, 2016) con un Commento Giorgio Linguaglossa – Ho un libro sotto mano di Salman Rushdie Imaginary homeland (1999) – Una vecchia fotografia in una cornice a buon mercato pende dal muro di una stanza – Digressioni sulla poesia di Mario M. Gabriele, Aldo Nove, Valerio Magrelli – La pseudo-poesia, la non-poesia, la contro-poesia e la finta-poesia – La poesia dei riflettori mediatici

  1. ubaldo de robertis

    Avevo già letto la prima poesia e annotato i versi:
    “Domani le vigne saranno rosse
    anche se non è ancora autunno”
    prima che le parole piranha di Mario Gabriele
    venissero a divorare qualcosa, a prendere le distanze dalla poesia. Eppure
    i versi fluiscono chiaramente, immagini e nomi si avvicendano lasciando ipotizzare nuovi scenari e nuove metafore.

    “Questo è l’uomo che ha macchiato 
    le tavole di Krsna, distrutto il carro di Rukmi,”
    cosa può fare il lettore se non lasciar correre le parole poste ad arte dal poeta, semmai fermarsi dove le cose sembrano avere un contorno un poco più fermo prima di riconsegnarsi, con un senso di esitazione e forse di incertezza, al disinvolto sviluppo poetico, quasi un esercizio ginnico mentale proposto dall’autore.
    Ubaldo de Robertis

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  2. Mario Gabriele non circumnaviga la poesia, la sperona, la sfonda, la porta dentro un’isola deserta e coi pezzi lasciati sulla battigia la ricostruisce a immagine e somiglianza di un progetto, secondo me, scandito e riconoscibile. Sia ben chiaro che non è un poeta “facile” tutt’altro, ma di lui sicuramente rimarrà il tono della sua poesia e soprattutto la forte capacità di autentici colpi di carrello, cinematograficamente parlando. Bella verde l’erba di Stonehenge e le mie congratulazioni, ben lungi dalla semplice e formale pacca sulla spalla.

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  3. Salvatore Martino

    “La «pseudo-poesia», la «non-poesia», la «contro-poesia» e la «finta-poesia» – La poesia dei riflettori mediatici” mi perdo in codesto labirinto e invano cerco la sola cosa che mi interesserebbe la Poesia, che certamente non trovo in questi autori.Ho letto altre volte testi di Mario Gabriele che mi avevano persino entusiasmato per originalità, pensiero e stratificazioni di immagini evocate come in un fiume in piena. Le due poesie qui inserite mi lasciano un po’ perplesso, non mi arrivano a staccare un lembo del corpo o dell’anima, della mente…forse dovrò rileggere. Tutta la demolizione della poetica liricizzante evocata da Linguaglossa, da sostituire con questi nuovi dettami mi “sconvolge.Comunque se i risultati sono Magrelli, Nove, Marcoaldi etc. Dio ce ne liberi. Salvatore Martino
    Sono davvero confuso, e mi ritiro nella mia torre d’avorio, nel mio giardino dei sentieri che si biforcano, a difesa di quanto ho cercato di scrivere con assoluta onestà.

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    • Ma caro Salvatore, la poesia di Mario Gabriele non è niente di tutto questo non è pseudo/non/contro/finta poesia, secondo me.

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    • Caro Salvatore Martino, desidero contattarti per chiarire alcune cose:
      1) non sono intervenuto sul tuo lavoro poetico avendo già espresso un parere sulla tua Autoantologia, rimasto senza riscontro.
      2) mi è sembrato logico non intervenire ultimamente.
      3) Quando dici che le mie due poesie, riportate su questo post,ti lasciano un po’ perplesso, perché non arrivano “a staccarti un lembo del corpo e dell’anima”, allora devo farti presente che non sei entrato con la mente a fissare il contenuto della poesia n. 2, in quanto trattasi di poesia civile, in particolare nella prima parte, quando rievoco la tragedia di Auschwitz (ma tu allora avevi soltanto 4 anni!) come ricordare i nomi di Ruth, vedova e madre di Ehud e di Sael, di Lothar e Hans) E poi la segregazione razziale contro i giovani dell’Apartheid e contro Mandela, fino al genocidio a Soweto? Queste cose le ha dette con profonda amarezza la Szymborska, quando scrive:”Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo; frasi che ho fatte mie per l’enorme carica di delusione umana. E che dire quando rievoco i muri che separano Israele dalla Palestina e che Daisy, da me qui nominata si duole per questi blocchi che chiudono le terre di Samuele e di Giuseppe? E poi,la situazione di disagio in cui vivono le persone anziane con patologie varie negli asili di accoglienza? Con la chiusa finale del testo,dove il gufo da sopra il ramo sbircia il futuro e vola via e che ha una valenza metaforica di fronte a ciò che ci aspetta? Allora se queste devianze sociali, umane, storiche, culturali, politiche ecc.non muovono in te nessun fremito emozionale, ti invito a non leggere le mie poesie che hanno contrapposizioni partecipative molto differenti. Un saluto.

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      • Salvatore Martino

        Mi fa molto piacere che tu carissimo Mario abbia puntualizzato alcuni concetti, che evidentemente erano sfuggiti alla mia lettura. Peraltro avevo già premesso: forse devo rileggere. Altre volte la tua poesia mi era giunta con più evidente immediatezza, ma non sempre le mie antenne ricettive suonano alla stessa maniera. In ogni caso la tua poesia esige una attenzione profonda e talvolta io non riesco a scendere a codeste profondità. Il rammarico di una tua assenza al commento del mio “La fondazione di Ninive” era dato soltanto dal fatto che Linguaglosa proponeva i miei testi quasi nell’ambito della discussione sul frammento, e il mio rammarico era comunque dettato dalla stima che nutro nei tuoi confronti e dall’amore che entrambi nutriamo per il Reverendo Eliot.

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        • Caro Martino,
          mi giunge molto gradita la tua replica e ti ringrazio. A volte la quotidianità che ci assorbe in ogni momento, allontana da noi le cose che crediamo essere tra le più care. Il colloquio a cui ci siamo esposti, chiarisce molto bene il concetto del libero pensiero da me trasposto nell’intervento di chiusura nel quale ringrazio tutti anche te. Bene, dunque la rivitalizzazione della nostra amicizia e dell’ apprezzamento dei nostri testi poetici che devono avere sempre libero spazio e condivisione quando sono necessari. Un caro saluto. Mario Gabriele.

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  4. Non credo che Salvatore Martino si riferisca a Mario Gabriele quando ripete le mie formule: «pseudo-poesia», la «non-poesia», la «contro-poesia» e la «finta-poesia» – La poesia dei riflettori mediatici” – Io penso che in un sistema letterario (e qui mi vesto da sociologo della letteratura) ci possa anche essere la «contro-poesia», l’«anti-poesia» e via cantando di questo passo, sappiamo che nel Novecento, e in questi anni epigonici, si è continuato a pensare alla poesia come ad un manufatto che aveva fatto già la sua epoca e che fosse venuto il momento di riporla nel cassetto dei numismatici a fare tarme. Capisco tutto ciò, capisco le ragioni della contro cultura, e quindi capisco anche le ragioni della «anti-poesia», ma un conto è capire e un altro è condividere. Io penso molto semplicemente che accanto alla anti-poesia ci debba essere spazio anche per la poesia-poesia. tutto qui. E credo che la poesia di Mario Gabriele sia uno dei più raffinati esempi di poesia moderna, moderna nel senso che può essere compresa anche da un impiegato del catasto che abbia fatto la terza media. Può essere compresa e ammirata da un pubblico del futuro, oggi non credo che ci siano le condizioni per una lettura attenta di questa poesia. Il pubblico del futuro lo deve fare la Nuova poesia, quello del presente lo fa la belletristica di cui stavamo dicendo…

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    • Salvatore Martino

      Come giustamente ha rilevato Linguaglosssa non mi riferivo alla poesia di Mario Gabriele, mi spiace che Almerighi sia caduto in un equivoco da me non voluto. Quello che non capisco: a cosa serve la poesia? Io pensavo che fosse un tramite di conoscenza tra l’artista e il lettore, che fosse destinata a suscitare una commozione, un coagulo emotivo, delle riflessioni, dei convincimenti nel fruitore. Poi un giorno qualcuno mi spiegherà come mai entro in comunione con Cavalcanti o Mimnermo, con Catullo o con Auden, con Kavafis o con Goethe, leggendo infinite volte i loro versi che mi trascinano nel loro universo, al quale mi piacerebbe appartenere..poi leggo poeti o presunti tale del mio tempo e non vedo l’ora di chiudere la pagina. Per fortuna anche in questo nostro tempo balordo ci sono individui che continuano a scrivere poesia senza chiedersi troppe fantasiose elucubrazioni. Guai a disubbidire al proprio dàimon. So che il mio dire non è abbastanza chiaro, non ho capacità di esegesi critica, sciorino convinzioni dettate dal mio più profondo convincimento. Salvatore Martino

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  5. Ubaldo de Robertis

    Beh, é difficile non concordare con Martino anche per il privilegio che accorda agli autori classici. A lui un piccolo appunto per le volte, anche se rare, che l’ho sentito lodare i poeti del suo tempo. La precisazione mi preme perché in quel ristretto novero piú di una volta ci ha messo anche me. Quindi c’é qualche autore di oggi a cui non chiude la pagina in faccia.
    Ubaldo de Robertis

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  6. antonio sagredo

    La poesia di Gabriele è un antidoto contro la poesia provinciale che ancora impera, poi che costringe il provincialotto – se ne ha boglia e curiosità – a cono0scere i riferimenti culturali che abbondano… ma sono sempre pochissimi… per cui mi piacerebbe che ogni parola sia un riferimento così che il cerebro provinciale crolli definitivamente.

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  7. Per ricollegarmi alla questione dianzi sorta se cioè la poesia contemporanea (la migliore intendo, cioè, per essere chiari, quella di Mario Gabriele) debba o no suscitare emozioni, debba emozionare, bene, io penso che con la categoria del «pensiero emotivo» desunto da Hilman non si vada da nessuna parte. La poesia di Mario Gabriele, come quella di Antonio Sagredo, (penso a Roberto Bertoldo e a Luigi Manzi e altri), non va letta con quella categoria (che io ritengo fuorviante e irrazionalistica). Non c’è nulla nella poesia di Gabriele che abbia un contenuto emotivo, e quindi, da questo punto di vista non può destare emozioni, anzi, penso che non deve suscitare alcuna emozione. Teniamoci alla larga, quindi, da questa categoria spuria, a metà tra psicologia del profondo e estetica della buon’ora. La migliore poesia contemporanea è, di fatto, un manufatto “raffreddato”. Che cosa significa? Voglio dire che il poeta contemporaneo reduce da tre guerre mondiali e spettatore impotente della quarta in corso, non ha più intenzione di iniettare nel proprio DNA poetico alcun pensiero estetico emotivo. Il linguaggio di tutti i giorni si è raffreddato, si è surgelato, è diventato una gelatina, e il poeta dei nostri tempi non può che prenderne atto, deve astenersi dall’intervenire sul piano di una psico linguistica (come si diceva una volta con una terminologia abnorme). Non c’è alcuna psicolinguistica da fare, la Lingua maggiore si è de-psicologizzata (e io direi, per fortuna!) Ecco una ragione in più per considerare superata la poesia lirica, superata in quanto è stata circumnavigata dalla Storia. Il poeta contemporaneo ha a che fare con una cosa nuova: il raffreddamento delle parole; le parole non hanno risonanza, le parole del linguaggio poetico tradizionale hanno perso risonanza, e allora al poeta dei nostri giorni non resta altro da fare che costruire dei manufatti a partire dai luoghi, dai toponimi, dai nomi, diventa nominalistica, diventa assemblaggio di icone, assemblaggio di frammenti (Salman Rushdie afferma che i frammenti sono già in sé dei simboli!). La fragmentation è diventata la norma nel nostro mondo contemporaneo; ovunque ci volgiamo vediamo frammenti, noi stessi siamo frammenti, le particelle subatomiche sono frammenti infinitesimali di altri frammenti di nuclei andati in frantumi in quel GRANDE CIRCUITO che è il CERN di Ginevra, là dove si fanno collidere i protoni tra di loro in attesa di studiare i residui, i frammenti di quelle collisioni. Tutto il mondo è diventato una miriade di frammenti, e chi non se ne è accorto, resta ancorato all’utopia del bel tempo che fu quando c’erano gli aedi che cantavano e scrivevano in quartine di endecasillabi e via cantando….

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    • Salvatore Martino

      Caro Linguaglossa non mi importa che la poesia abbia un contenuto emotivo che tu detesti ma che susciti emozioni a me che leggo, di qualsiasi genere irrazionale o cerebrale, che mi provochi una reazione profonda, altrimenti…chi se ne frega.
      E forse Hilman da me conosciuto personalmente( grandissimo carisma) aveva ragione. A cosa serve l’arte se non da emozioni? E poi questa cancellazione dell’irrazionale!!! del mistero, di una logica che trascende ogni logica, l’ispirazione messa totalmente da parte come appartenenza ai lebbrosi. La poesia si dibatte tra queste logore catene, chiede aria…sono sempre più confuso da questo affermare intorno alla poesia di concetti verbosi che si allontanano da quel semplice complicatissimo delirio che sfugge a regole restrittive …per non parlare dell’espulsione dell’io come se fosse cosa realizzabile. Per fortuna ho un’età e una storia che mi permettono di fregarmene di questi cavilli burocratici. Salvatore Martino
      Che poi si ha un bel discutere alla fine il foglio bianco reclama dei versi che vorrebbero essere poesia. Sono un tantino irritato e mi rendo conto di non essere all’altezza del discorso critico di Lingualossa o degli altri, ma spero che nella confusione qualcosa di recepisca.

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  8. Dobbiamo fare un passo indietro.
    Per quanto riguarda un poeta che esemplifica bene la mutazione della forma-poesia dagli anni Ottanta ai giorni nostri, devo fare riferimento a Valerio Magrelli. La sua opera d’esordio, Ora serrata retinae, è del 1980, seguita da Nature e venature (1990) a cui fanno seguito Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992) e Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), fino al libro del 2014 Sangue amaro (Einaudi).

    Bene, è sufficiente leggere i primi due libri per accorgersi che in essi c’era ancora, ed era visibile, una ricerca esistenziale e stilistica. In sostanza, era visibile la crisi dell«io» nella lettura e decifrazione del mondo. A questo sipario della Crisi avrebbe dovuto fare seguito un ulteriore approfondimento della indagine sulla fenomenologia della Crisi, ma sarebbe occorsa una nuova fenomenologia di indagine e un rinnovamento dello stile. Magrelli, invece, già alla fine degli anni Ottanta intuisce l’esaurirsi di quella miniera stilistica, che il filone aurifero si è disseccato, e invece di proseguire il lavoro di indagine e di scandaglio, pensa bene di ricorrere ad uno stratagemma: d’ora in avanti prende atto dell’esaurimento di un certo punto di vista, diciamo diagnostico e di ricerca della forma-poesia, e abbandona il primo stile di una poesia breve e compatta che rivela un singolo aspetto del reale, per dedicarsi a quella che io ho definito più volte «poesia commento». Il terzo e quarto libro sono infatti eloquenti finanche nel titolo, si tratta di operazioni di «tiptologia», di «didascalie» alla lettura, di «glosse» in margine al «giornale».

    Insomma, si tratta di «finta-poesia». Magrelli con un abilissimo trucco da prestidigitatore, trasforma la «poesia» in «finta-poesia», va incontro alla richiesta del pubblico colto che vuole una poesia poco impegnativa e poco impegnata, una poesia leggera, da intrattenimento ludico-ironico. È tutta la società italiana che dagli anni Ottanta si muove in questa direzione con il debito pubblico che avanza progressivamente a livelli astronomici. È insomma una poesia da debito pubblico alle stelle.
    Si intenda, io non esprimo qui una diagnosi di carattere morale, esprimo una diagnosi di carattere estetico: la forma-poesia che si imporrà negli anni Ottanta e Novanta sarà quella del disimpegno (nella punta più intellettualmente arrendevole ci sono Vivian Lamarque e Jolanda Insana, nella punta di vertice si trova, senza dubbio, Valerio Magrelli).
    E qui il cerchio si chiude.

    Quello che molti autori di poesia scrivono e pubblicano dagli anni Ottanta ai giorni nostri sono opere di «finta-poesia», «quasi poesia», «pseudo poesia», «ultra poesia», insomma, sono operazioni che hanno a che fare con la sociologia della poesia e niente con la «poesia». In questo mi sento di dare ragione a Salvatore Martino, ma solo per questo aspetto. Se si va ad indagare che cosa avviene fuori della poesia pubblicata dagli editori maggiori ci sono stati e ci sono poeti che hanno continuato ad esplorare la forma-poesia, ed uno di questi è senz’altro, Mario Gabriele.
    Che poi dei critici come Romano Luperini abbiano salutato l’ultimo libro di Magrelli Sangue amaro (2014) come un’opera «rivoluzionaria», è una tesi che illumina piuttosto l’assenza di pensiero critico del critico che non il libro.

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  9. antonio sagredo

    quanto riguarda la FRAG…MMENTAZIONE una citazione:
    “Non soltanto questo epistolario (o diario), ma anche la raccolta degli scritti – insisterei sugli inediti – di Ennio Flaiano costituiscono una opera certo spezzettata (e non per questo minore), ma si tratta di una forma nobile e illustre, poi che non esistono soltanto i soliti Lichtenberg o Nietzsche o Karl Kraus. L’0pera fondamentale del pensiero italiano degli ultimi due secoli è dopo tutto lo “Zibaldone” di Leopardi, una opera frammentaria e postuma. ….” [Alberto Arbasino – Ritratti italiani”.

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  10. gino rago

    J. L. Borges una volta ha scritto queste parole:

    “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone.
    Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto. ”

    In questi versi letti su L’Ombra delle Parole – ma anche in quelli proposti da poco su L’isola dei poeti, Mario Gabriele, attingendo sé stesso da una mitologia personale, traccia le linee del “suo volto”. Cioè, della sua Weltanshauung.
    Ove si riscontra la sapienza poetica di Mario Gabriele?
    Nell’avere dal suo fine tessuto poetico espulso l’Io. Il quale si avverte
    pur sempre nei componimenti, ma come non sgradevole “rumore
    di fondo”.
    Tutte l’altre questioni sebbene con cultura e competenza gettate sul tavolo penso che non intacchino per nulla l’alta qualità estetica e morale della recente ricerca poetica di Mario Gabriele, rivolta com’è a ri-fondare
    la forma-poesia verso quell’idea già intrapresa, in primis, dal Linguaglossa
    della “Chiatta sullo Stige”.
    Gino Rago

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  11. Portiere di notte di Alessandro Ansuini

    la mattina si scaglia da destra a sinistra come un montante
    la tua testa barcollante fra altre teste e mani –
    un’arietta affatto nuova si modula per l’aria tutto
    così distante
    *
    cielo e antenna capta lo sguardo che si leva
    verso l’alto, poi come un capogiro, la luce
    del sole, ancora scremata ma pungente
    così fiera di una caparbietà da spillo e ago
    che spinge le pupille dentro mentre le palpebre
    si tirano dietro
    la quinta del mattino.
    *
    infine il sequestro del sonno.
    nessun contatto esterno.

    il sonno ti spiega ogni giorno
    cosa vuol dire essere solo
    senza usare nemmeno una parola.
    *
    nessuno di noi. quando dico nessuno
    di noi, intendo di me.
    nessuno di noi si è mai del tutto
    appassionato alla vicenda.

    eppure
    vigilano e sostano le mie scarpe
    sul confine di un mondo tutto crepato.
    *
    giorni bruciacchiati alla fine
    facce chiazzate di nero
    che sfumano

    ricordi

    tu affondi e a me
    pare di conoscerti
    *
    vogliamo tutti essere bambini.
    tornare a prima che quelli intorno a noi
    d’un tratto smettessero di ridere
    e cominciassero a prenderci
    ferocemente sul serio.
    *
    elastico fra calendari e orologi
    i fili che il burattinaio usa
    le tue coordinate immaginarie
    architettura scheletrica del riepilogarsi d’ognuno.
    *
    calvino.
    aiuto.

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  12. Alessandro Ansuini in questa composizione sembra aver fatto tesoro di quanto andiamo dicendo e facendo sull’Ombra delle Parole circa la fragmentation, la frammentazione del discorso poetico. Ciò vuol dire che certe cose sono nell’aria, basta saperle vedere e riconoscere…

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  13. Steven Grieco-Rathgeb

    “Avere espulso l’Io”. L’ottimo commento di Gino Rago esemplifica alla perfezione l’operazione di Gabriele. Sono poesie che già conosco, e hanno una grande suggestione, in quanto ci portano fuori dall’ovvio, in territori incerti, di grande creatività.
    L’ “Io” che Gabriele ha fatto benissimo a espellere, è proprio quell’Io narcisistico che depreda la poesia, ne fa una piattaforma per esibirsi in uno spettacolo stucchevole, avvilente, noiosissimo, e totalmente obsoleto.
    Dovrebbero essere cose ovvie, ma infatti la poesia-sirena tenderà sempre questo tranello al poeta, dicendogli: “usami per parlare di te stesso, sempre e solo di te stesso, mio eroe.”
    Cose a quante pare scontate, ma non poi così tanto. I poeti ci cadranno e ci ricadranno. Rischi del mestiere.
    Girando la frittata, concludo dicendo che la poesia, così facile da comprare e conquistare, in realtà è una puttana pericolosissima.
    Bravo Gabriele che per difendersi indossa camicie con il filo doppio ritorto.

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  14. Steven Grieco-Rathgeb

    Fra poco la neve coprirà il poggetto.
    Ci sarà poco da raccontare
    a chi rimane nella veglia,
    dove c’è sempre qualcuno
    che parla della lunga barba di Dio
    come una cometa
    nella notte più silente dell’anno,
    quando il gufo da sopra il ramo
    sbircia il futuro e vola via.

    Mi sembra questa la cosa che si chiama creatività poetica. Alto livello suggestivo. O sbaglio?
    Si avverte una volontà di dire senza dire, di significare senza significare. Già solo questo fa dei versi appena citati un oggetto degno di studio, e riflessione.
    Una voce vera, autentica, capace di far fremere il lettore.
    Leggendo, ti rendi conto di quanto la poesia ombelicale, così apparentemente attenta alla reale vita quotidiana, è un travestimento del reale e dell’ “autentico”.

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  15. Prima o poi mi scaccerete dal blog, per la mia celeritas impertinente.Di tutto quanto ho letto ,oggi, mi restano due versi meravigliosi:”Quando il gufo da sopra al ramo/sbircia il futuro e vola via”

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  16. Quando la poesia contiene riferimenti storici o ambientali il lettore deve adeguarsi al contesto e se i riferimenti mancano ci si deve con riserva affidarsi al cronolessico. Si arriva quindi al presente in cui il divario di stile fra gli autori tende a diminuire.

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  17. Errata corrige: ci si deve con riserva affidare

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  18. Il libero pensiero espletato in tutte le sue forme, è uno dei momenti più importanti della vita di un uomo, che si trovi ad esaminare una realtà aperta a più significati. Platone, pur accettando il principio socratico, separa il pensiero in due funzioni: la prima, dando valenza alla verità dell’Essere, la seconda, riconoscendo la libertà razionale su ogni dialettica. E’ ciò che ravviso negli interventi in questa sede, di Linguaglossa, De Robertis, Almerighi, Martino, Sagredo, Rago, Steven Grieco Rathgeb, Ventura e Nanni, ai quali va tutta la mia riconoscenza per essersi soffermati ad esaminare i miei testi che restano sempre a disposizione come materiale edito. Ringraziandovi, porgo i miei più cordiali saluti.

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  19. letizia leone

    Una lettura sempre feconda la poesia di Mario Gabriele così come le osservazioni che suscita.Poesia oggettiva, fenomenologica dove l’espulsione dell’io, la disarticolazione della narrazione, la modalità di “visione” che sopprime i collegamenti interni contribuiscono a rendere questa scrittura poetica sovversiva. Soprattutto in Linguaglossa e Gabriele viene azzerato il portato evocativo, allusivo, ambiguo, simbolico tradizionale della parola della poesia, e non solo lo spessore e la verticalità, ma tutta la pluralità aggiunta dei significati… questo mi pare essere il grande rivolgimento sovversivo e assolutamente moderno. Le innumerevoli schegge di un umanesimo imploso galleggiano ormai, quasi utensili di plastica, in superficie per essere catturate “otticamente” dal poeta. Questo terreno dissodato da ogni metaforismo destabilizza il lettore, è uno “spaesare il mondo alla superficie”, per usare una formula di Barthes, e qui potrei anche sostituire il termine lettore con spettatore. Spettatore di lucide abbaglianti nature morte iperrealiste…

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  20. caro Salvatore Martino,
    narro un aneddoto. Un giorno un amico poeta molto colto, giovane, mi ha chiesto se mi piaceva il melodramma italiano. Io gli risposi di no, che mi annoiava, anzi, dopo breve riflessione, gli dissi che mi irritava. Lui rimase trasecolato. A lui il melodramma dava emozioni, a me affatto, anzi, mi irritava e mi irrita tuttora. Con ciò io non nego che il melodramma possa piacere. COSì, SE A TE UNA POESIA Dà EMOZIONI, VA BENE, MA QUELLO CHE VALE PER TE PUò NON VALERE PER ME, E VICEVERSA; CIò CHE A TE DA EMOZIONE PUò IRRITARE UN’ALTRA PERSONA. IL PROBLEMA è COMPLICATO e di difficile soluzione QUANDO LO SI PONE SUL PIANO DELL’EMOZIONE.
    Un altro poeta un giorno mi chiese se mi piaceva la poesia di Sandro Penna, io gli risposi che quando ero studente mi piacevano le poesie di Penna. Lui insistette: e adesso?, e io gli risposi: mi piacciono come possono piacere ad un adulto i giocattoli di quando era un bambino.

    Anni fa Matte Blanco espose una sua teoria circa il pensiero simmetrico e il pensiero asimmetrico dell’inconscio elaborando una categoria, quella del “pensiero emotivo” che sarebbe proprio dell’arte in contrapposizione al pensiero non emotivo tipico dell’attività scientifica. Bene, io penso che porre su questo piano psichico una categoria filosofica implica una psicologizzazione di una categoria filosofica il che porta a risultati molto controversi. Io invece penso che non si debba pensare all’arte con la categoria del “pensiero emotivo”, perché si va fuori strada e si finisce in un burrone. Io penso al pensiero poetante di Heidegger e mi sento su un terreno filosofico più sicuro, posso toccare con mano non una entità effimera e sfuggente come l’inconscio emotivo (e poi chi mi assicura che l’inconscio sia veramente emotivo?). Insomma, su questo terreno scivoloso non si costruisce altro che una psico estetica, una filosofia dell’arte dell’inconscio che non porta ad alcun risultato teoretico.
    Ribalto la questione così: se a te ti conforta pensare una poesia emotiva, nulla quaestio, io penso invece ad una poesia non emotiva, nel senso che non si affidi alla facile fuggevolezza delle emozioni per raggiungere risultati estetici ma che si affidi alla ragione narrante. Ma è una questione di punti di vista.
    E qui la questione dei “frammenti” non c’entra nulla, credo in questa problematica.

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  21. Salvatore Martino

    Ribadisco caro Giorgio non di poesia emotiva parlo ma di poesia che possa suscitare emozioni e coinvolgimenti, anche cerebrali e fisici. Quanto all’episodio che narri sul melodramma mi suscita un grande disappunto se non addirittura un sentimento negativo,scusami quasi di commiserazione. Perché non apprezzare il melodramma appunto mi appare una bestemmia, per un uomo di cultura quale tu sei. Forma d’arte sublime e completa, che affascina da secoli milioni di persone. Il tuo mi sembra uno snobismo inqualificabile. Che strana cosa!!, davvero sconvolgente. La musica e il teatro e il canto insieme…non posso crederci.Per me si tratta di una delle affermazioni più balorde che un uomo colto e intelligente possa esprimere.Da uomo di teatro posso dirti che nessuna commedia o dramma o tragedia di qualsiasi grande autore mi abbia più sconvolto di una Traviata o Turandot o Norma o decine di altre opere…la lunghezza chilometrica degli applausi a cui ho assistito alla Scala per esempio non ha riscontro nemmeno nei concerti rock. Ma anche questo è opinabile. Salvatore Martino

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  22. Purtroppo è un mio limite, caro Salvatore, anzi, un mio grave difetto. Non sopporto in toto il melodramma, mi dà ai nervi. È una mia questione elettrica, elettromagnetica, cellulare, ma fa parte anche della mia concezione del mondo, dalla quale è escluso ogni elemento melodrammatico. Anche dalla mia poesia dopo decenni di lavoro, ho estirpato il melos. E così, amo la poesia che esclude a priori il melos (so che questo ti fa inorridire). È un mio difetto? Un mio limite? Ebbene, li accetto. Spero solo che questi difetti possano risultare delle qualità nella mia poesia. Quanto ai milioni che hanno battuto le mani ai melodrammi nazionali, la cosa non mi commuove. Amo la musica di Gyorgy Ligeti, amo la musica di Giacinto Scelsi. Amo la musica che non concede nulla alla facile emozione e ai sentimenti.

    Per quanto riguarda la Nuova poesia degli oggetti, o meglio, dei frammenti, richiamo quanto scrisse Pound a proposito dell’imagismo un secolo fa:

    Nel gennaio 1913 il Pound, presentando ai lettori di “Poetry” l’imagismo, riteneva opportuno precisare che “appartenere a una scuola non significa affatto scrivere versi conformi a una teoria. Uno scrive versi quando, dove, perché e come si sente in vena di scriverli. Una scuola sorge quando due o tre giovani convengono in linea di massima nel definire buone certe cose; quando, delle loro poesie, preferiscono quelle che hanno determinate qualità a quelle invece che ne sono prive”.

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  23. Salvatore Martino

    Che strano Giorgio la tua poesia mi affascina e mi commuove, e malgrado quello che hai tentato di fare, come asserisci, il melos sopravvive nei tuoi versi, persino in quelli più dichiaratamente epici…ma quando mai l’epicità vuol dire cancellazione del commos.!!! Rileggerò i tuoi versi e cercherò di capire meglio l’operazione che tenti di fare. Ma già “Belligeranza del tramonto” è un titolo denso di emozione: “Ti scongiuriamo Nostra Signora dei morti/ di umiliarci sotto il tuo mantello di neve/ il fratello col fratello, l’assassino col sicario./Una falange macedone di morti” sono versi che mi generano profonda commozione ed emozione, lontani dalla freddezza tanto desiderata. Quanto a Ligeti è forse l’unico grande compositore moderno…ricordo una sua composizione “Lontano” mi colpì profondamente nei primi anni ottanta. Purtroppo la musica nonostante il tentativo dodecafonico e quello atonale non è riuscita a costruire capolavori e nelle sale di concerto in tutto il mondo si continua ad eseguire musica dei secoli passati, con grandissima partecipazione.Certamente relegare il melodramma nel dimenticatoio carissimo Giorgio ti preclude un grande “godimento”. Fossi in te cercherei di riaccostarmi a codesta forma d’arte, così consona alla nostra tradizione, al nostro modo di essere. Un abbraccio affettuoso Salvatore.

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  24. Riporto un Appunto di Mario Gabriele e di Flavio Almerighi da La scialuppa di Pegaso:

    Mario M. Gabriele 21 maggio 8:45:28

    Ci sono poeti che ritengono le emozioni essenziali nella struttura del testo, altri invece, che trasferiscono nei versi il senso di una realtà nella quale ci si può “illuminare d’immenso” e che lascia il lettore non nell’emozione, ma nella partecipazione di una verità,che coglie il frutto di una esperienza soggettiva, culturale, o più semplicemente quotidiana, nella quale la condivisione è il rapporto più interattivo fra il poeta e il lettore.Viviamo nel terzo millennio tra parole e cose sempre in continua fibrillazione e attecchimento nell’ordinario linguaggio. Ci si abitua quasi ad una terminologia consumistica, informatica, mediatica, i cui termini sono corrispondenti all’azione del nostro volere e della nostra capacità di adattarsi al clima culturale, in cui si vive. La poesia ricorre a questi strumenti di gemellaggio trasferendoli in un’unica lingua interfacciale, organicamente trapiantata in un solo corpo. Di tutto questo si nutre la mia poesia, che si connette a molteplici strumenti in(organici) che danno l’esatto valore all’espressionismo linguistico, che rinnega i relitti arcaici di un lirismo poeticamente travestito di emozioni. Cosicché, ciò che dice ed evidenzia Giorgio Linguaglossa è in effetti, una realtà che si interconnette tra me e il lettore, non abituato quest’ultimo, a connessioni plurali, chiamate a riempire la pagina con oggetti, relitti del tempo, personaggi vivi e morti, toponomastiche varie, e frammentazioni oggettive che costituiscono le particelle anatomiche elementari, ma che alla fine, si assemblano formando, la struttura di un’unica forma linguistica .Ciò lo rileva anche Flavio Almerighi, che ringrazio per la sua attenta analisi, così pure anche Giorgio Linguaglossa, che da tempo, e con acuta dissertazione critica, va esaminando e illustrando i miei versi.

    Cronologia commenti

    Flavio Almerighi

    Flavio Almerighi 20 maggio 21:06:20

    una peculiarità importante della poesia di Mario Gabriele, è l’eleganza, una capacità che sottolineo di mettere insieme una summa di riferimenti, citazioni e sensazioni che inizialmente possono disorientare al lettore, ma alla fine creano un importante valore aggiunto che si somma rendendo la lettura oserei dire formativa. Sto leggendo “l’erba” e francamente mi sta sorprendendo, forse non si è ancora detto tutto in poesia.

    Giorgio Linguaglossa 21 maggio 10,10

    Eppure, c’è una forza dominante che tiene insieme questi relitti eterogenei che la tua poesia congloba in sé, e secondo mé è il «tempo» non localizzato, il «tempo plurale» che contiene in sé tutto il tuo universo di personaggi, di toponomastiche, di onomastici, di nominazioni di eventi, di illuminazioni… E questo aspetto lo considero di una grande novità nella poesia italiana contemporanea.

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