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I meccanismi  ludolinguistici di Stefano Taccone come demistificazione del reale. Poesie da “Sciogliete le rime”, campanotto editore, 2023, Lettura di Letizia Leone, video di Gianni Godi, Per favore chiamatemi Higgs

“per favore chiamatemi Higgs”
video di Gianni Godi.

Stefano-Taccone-1

Ho avuto modo in passato di soffermarmi sulla scrittura di Stefano Taccone, (storico dell’arte, critico d’arte, poeta e scrittore) approfondendo il senso di una poetica posta sotto il segno dell’onirismo, del surrealismo giocoso e della dis-automatizzazione delle convenzioni narrative. È utile ricordare qui solo alcuni libri di racconti come Sogniloqui, Morfeologie, oppure il romanzo Sertuccio, o le raccolte poetiche Alienità e Terrestri d’adozione, dato che leggendo quest’ultima prova poetica Sciogliete le rime (Campanotto, 2023) è stato inevitabile riscontrarne la continuità di ricerca ed ispirazione.

L’allusività dell’imperativo militaresco del titolo, Sciogliete le rime, affonda nell’intento parodistico di voler mettere l’atto creativo sotto il segno di una libertà ricreativa, ludica ma anche polemica. Taccone si prende gioco della comunicazione stereotipata dell’informazione mediatica ma anche di certa poeticità legando sempre i suoi versi al reale e al contingente.

Dopo la presa d’atto definitiva del tramonto di qualsiasi aura poetica, Stefano Taccone con un linguaggio leggero, parodistico, burlesco ci restituisce tutta la confusa mediocrità del modus vivendi contemporaneo. I testi mostrano un’aderenza alle problematiche più urgenti dell’attualità, siano i temi ecologici, le pandemie o i fallimenti interattivi con la nuova alfabetizzazione digitale: Ottieni una username / e scegli una password / per il tuo profilo spam / «io sono Sam»

Sappiamo che storicamente la formazione di una coscienza critica del sociale è passata anche attraverso la sfida ironica e il discorso comico, sebbene si tratti di un filone poco frequentato dalla poesia italiana. Una linea che parte da Cecco Angiolieri, transita per il toscano Francesco Berni o il Ruzante, e annovera nel moderno figure di rilievo come Vito Riviello o Leopoldo Attolico, recentemente scomparso, per non dimenticare la satira di costume di Ennio Flaiano.

Non a caso, Freud nel suo saggio Il motto di spirito del 1905 constatò che certi tratti formali come tecniche di spostamento o condensazione sono comuni sia al motto, alla facezia che alla dimensione onirica.  Il sogno opera una traslazione dal linguaggio alle immagini, e parallelamente, il motto di spirito passa dal linguaggio logico a quello del gioco.

L’autore stesso in una intervista chiarisce i termini ludici del suo fare poietico: «ma si dà il caso che il mio non sia affatto un gioco. O meglio: è la poesia stessa ad essere per me un gioco, per quanto serissimo, come tutti i giochi cui valga la pena di giocare. E forse al fondo della mia inquietudine vi è proprio questo: il fastidio per il fatto che la poesia, in quanto gioco, non possa che risiedere su di un piano parallelo alla realtà in senso stretto. In altre parole ricorro alla poesia come “risarcimento” per la durezza della vita “seria”, ma, in quanto tale, la poesia diviene, appunto, altrettanto seria, benché solo nella misura in cui mi permette di sopportare la realtà, mentre sembra ulteriormente divaricarsi la frattura tra quest’ultima e la poesia.»

Un gioco serissimo dunque che volge alla manipolazione della parola, non da intendere come puro divertissement ma come efficace dinamica di distorsione ottica e confronto critico. In un certo senso si vorrebbe arrivare all’infanzia delle parole, ultimo approdo formale intuito anche dal poeta Manoel De Barros: «la parola poetica deve arrivare al grado di giocattolo per essere seria».

Basterebbe fare un elenco dei titoli delle varie sezioni o dei testi, ad illustrare l’elaborazione alla quale l’autore sottopone la lingua, la modificazione morfologica e semantica di una parola attraverso il cambio e la sostituzione di una o più lettere, la realizzazione di neologismi, parodie, evocazioni e allusività.

Bisticci e meccanismi ludolinguistici: Malarie e malacque; Parlo peso; Canti di accanimento; Affetti collaterali; Scuolamento; Ineffafferrabile; Bestiumanari vari; Polveri felici…ecc.

Mallarmé ha definito il poeta un incantatore di lettere, e bisogna anche ricordare quanto il manierismo secentesco abbia giocato in acutezza e artifici con le parole  tanto che Emanuele Tesauro nel suo Cannocchiale aristotelico stilò delle regole per una estetica delle lettere, un manuale fonetico di virtuosismi. Ciò che è più notevole qui sottolineare con G.R. Hocke è che «Il mezzo di comunicazione, la lingua, la lettera, la parola, la metafora, la frase, il periodo, il concetto, diventano autonomi. Si rinuncia alla loro funzione originaria…. Addirittura per Novalis «vengono momenti che gli abbecedari…ci sembrano poetici.»

Una corrente dell’irregolare attraversa la cultura poetica e artistica europea e tocca i suoi apici con il dadaismo. In Stefano Taccone gli artifici combinatori non sconfinano mai nel puro significante, ma l’intenzione è opposta: quella di voler potenziare la lingua nei suoi significati e scrostarla dalla routine della prassi comunicativa.

Il verso si concentra sulle combinazioni linguistiche con la riabilitazione delle figure retoriche. Ad esempio, l’uso massiccio della paronomasia nell’accostamento di parole foneticamente simili. Ma anche rime, assonanze, iterazioni e anafore… Un procedimento che rientra pienamente nella funzione poetica del linguaggio elaborata da Jakobson: «l’inclinazione a desumere, dalla somiglianza dei suoni, una connessione dei sensi, è un tratto caratteristico della funzione poetica del linguaggio».

Parallelismi ed equivalenze.

Molti sono i meccanismi messi in atto, bastino alcuni esempi: la modificazione, Parlo peso (derivato da perdo peso), il Bravo decente (derivato da il bravo docente); la formazione di parole miste: ineffaferrabile, sintesi di ineffabile e inafferrabile, e dunque neologismi: Scuolamento, Lotti asintopatici, Covislessico, …; allusioni e nuove invenzioni concettuali, mutazioni e associazioni, distorsioni che vogliono cambiare il punto di vista. Scherzi combinatori dove si fa mostra di una fantasia inesauribile, che pare costituzionale della personalità poetica di Taccone, il quale pare attingere direttamente dalla propria sterminata riserva onirica tutto questo materiale diurno di pura creatività e invenzione.

Stefano Taccone cover

Stefano Taccone è nato a Napoli nel 1981. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica all’Università di Salerno. Attualmente è docente di Storia dell’arte nella Scuola secondaria di secondo grado. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, 2010), La contestazione dell’arte (Phoebus Edizioni, 2013), La radicalità dell’avanguardia (Ombre Corte, 2017), La cooperazione dell’arte (Iod Edizioni, 2020), La critica istituzionale. Il nome e la cosa (Ombre Corte, 2022); le raccolte di racconti Sogniloqui (Iod Edizioni, 2018) e Morfeologie (Iod Edizioni, 2019), il romanzo Sertuccio (Iod Edizioni, 2020) e raccolte di poesie Alienità (Edizioni Divinafollia, 2019), Terrestri d’adozione (Edizioni Progetto Cultura, 2021) e Sciogliete le rime (Campanotto Editore, 2023). Ha curato le raccolte di saggi Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, 2014) e Religione/arte/rivoluzione, anche (Massari Editore, 2020). Collabora stabilmente con le riviste “Frequenze Poetiche”, “Segno” ed “OperaViva Magazine”.

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TESTI

STORIA DI UN TASTINERO

Tastiera
tasti
che testano
attraverso test
le teste bianche
e le teste nere
i tasti veri
e i tasti virtuali
le testine oscillanti
e le testate nucleari
che radono al suolo
dalla testa in giù

tasti di un bankomat
tasti di un pos

tasti di numeri
e tasti di lettere
tasti che preparano
fasti a caratteri speciali
testi laterali
allineamenti orizzontali
tasti di un pianoforte
cui spuntano le ali
e non hai più pretesti
per testoni molesti Continua a leggere

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Poesie di Stefano Torre, Il cercatore d’infinito, TRRSFN VENTIVENTITRE, opere a-figurative di Lucio Mayoor Tosi: frammento con rosso, composizione in acrilico 2020, e Marie Laure Colasson, la macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023, Osserviamo attentamente il quadro. Ecco che emerge una “macchia”, sul pavimento, all’angolo tra due pareti. Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona macchiata corrisponde allo spazio del non dicibile, che non può essere detto o che non può più essere detto perché caduto sotto il giogo della rimozione

La macchia gialla su verde, 20x20, acrilico 2023

Marie Laure Colasson, la macchia gialla, acrilico, 50×50, 2023

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Osserviamo attentamente il quadro. Ecco che emerge una “macchia”, sul pavimento, all’angolo tra due pareti. Soltanto distorcendo la prospettiva di osservazione, ovvero, guardando il quadro obliquamente fino a non poter distinguere la partitura dei colori, l’osservatore potrà realizzare che quella zona macchiata corrisponde allo spazio del non dicibile, ad un irriducibile che non può essere detto, che non può più essere detto perché caduto sotto il giogo della rimozione o perché è sfumato via sotto guisa di abreazione. Il punto/centro geometrale cartesiano è perduto perché abbiamo scoperto il valore del punto cieco grazie al quale vediamo. Vediamo grazie al punto cieco. Quello che emerge è iluogo dell’indicibile, di una angoscia dis-topica o di una felicità dis-topica che non può essere raffigurata se non da una macchia gialla dis-topica anch’essa, appunto il colore del pericolo. Quello è il luogo dove la «nuova poesia» e la «nuova figuralità» possono pescare-incontrare il linguaggio più appropriato, o forse sarebbe più esatto dire il linguaggio meno appropriato, quello che è stato dis-propriato dalla «nuova poesia» e dalla «nuova figuralità» che operano con una metodologia espropriante ed espropriativa. Ma cosa sia «appropriato» lo può decidere soltanto l’Altro, l’interlocutore, il pubblico, il lettore che sta all’esterno del quadro, colui che osserva la macchia gialla, non certo l’autore in quanto l’autore è diventato la presenza assente che si è dileguata, che non può più pesare e pensare le parole e le forme ma le «incontra», non può più pesare e pensare i colori e le loro macchie perché li «incontra», perché sia i colori che le parole e le macchie sono dinventati invisibili, ovvero, sono usciti fuori dal circolo della visibilità.

La definizione lacaniana dell’arte come «organizzazione del vuoto» è particolarmente idonea ad intendere questi nuovissimi “lavori” di Marie Laure Colasson e ci sollecita a riconsiderare la poiesis in modo diverso da come in anni anche recenti la si intendeva come retorica dell’inconscio. Il vuoto, che è la puntualizzazione dei “lavori” della Colasson, non è deducibile esclusivamente dalla dimensione semantica del linguaggio, il «vuoto» tende a debordare in «macchia». Ovvero, l’opera di poiesis è una organizzazione testuale, dotata di una propria densità semantica, che non dipende da un’organizzazione di significanti, ma da una organizzazione preposta ad un’alterità radicale, extrasignificante. La rappresentazione figurativa e poietica non è riducibile al funzionamento dell’inconscio, non è riducibile esclusivamente alla struttura del Significante/significato, e proprio questa irriducibilità la costituisce come luogo (vuoto) di scaturigine di ogni possibile rappresentazione.
Nella tesi lacaniana dell’arte come «organizzazione del vuoto», l’opera di poiesis definisce i bordi di una nuova percettibilità della coscienza, una percettibilità che esibisce una estraneità, una chiusura e ad una saldatura del «vuoto». Così, L’opera di poiesis, per la Colasson indica una esperienza che non evita né ottura, ma costeggia e borda il vuoto centrale della «Cosa», non significante né significantizzabile.

(giorgio linguaglossa)

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Stefano Torre

Il cercatore d’infinito

TRRSFN VENTIVENTITRE

Ed egli disse loro:

«Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

(Matteo 13, 52)

IL DODICESIMO

il dodicesimo era un traditore
della peggiore fatta del demonio
senza pudore e senza tema alcuna
baciò il Cristo per darlo in pasto ai cani

finì per impiccarsi ad un albero
dal quale penzola ancora a primavera
come un pupazzo di paglia malvestito
con la testa troppo grande e senza i piedi

e pare il pendolo di un orologio
che misura un tempo fuori scala
ed è oltre la montagna ed il mare
ove abita lo spirito di Dio

E BON!

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LA BATTAGLIA

vedo levarsi oltre il colle la guerra
stendardi e bagliori e tuoni scarlatti
ed ali spennate di angelo in volo
cadere giù per fracassarsi a terra

come galline di coccio in mille pezzi
e i pipistrelli a fare giravolte
nel fuoco di torbido cielo al napalm
cavar dalla gola urla non umane

ho visto il cuore gonfiarsi e dolere
fino a spaccarsi in due per sputare
la luce che ha dentro in faccia al nemico
come acido per sfigurarne il volto

E BON!

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LA VENDETTA

gridai con quanto avevo nei polmoni
la sete rabbiosa di vendetta
ma avevo acqua putrida nella gola
che uscì fuori fetida come vomito

e così rovinai il vestito buono
e la cravatta di seta regalo
degli amici per i miei cinquant’anni
e mille occhi mi stavano guardando

riparai poi in un bagno alla stazione
a togliermi di dosso quell’odore
che ti entra nel cuore come un veleno
per farlo nero come questa notte

E BON!

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LA RANA DI VELLUTO

sul davanzale d’arenaria gialla
la rana verde di velluto a coste
fatta con gli stracci dei pantaloni
buoni che portava mio padre

bruciava dal di dentro e si innalzava
come una palla piena di aria calda
ed era gonfia con la faccia stolta
di chi spende tempo a pedinar morte

esplose senza far rumore in aria
nel mezzo del cortile sparpagliando
ricordi bruciacchiati in pezzettini
come ritagli di giornale e fumo

E Bon!

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IL CERCATORE D’INFINITO

c’era una volta un cercatore d’oro
che muoveva montagne e setacciava
tutti i fiumi che scendono dalle alpi
e ne trovava tanto che era ricco

finché un dì gli parve di vedere
l’infinito riflettersi nell’acqua
e si mise a cercar soltanto quello
ché niente di più prezioso esisteva

vendette tutto quello che aveva
e s’immerse nel profondo della notte
per dare un nome ad ogni stella in cielo
e cercar quel che mai può possedere

E Bon!

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L’ASSUNTA

dentro al foro nel terreno nel quale
scompare la cascata che viene giù
dalle cime innevate anche d’estate
gorgoglia il mistero come una stufa

che può contenere tutte le stelle
rubandole al cielo per farlo nero
e ingoia la speranza come un gatto
che lascia i segni delle unghiate sulla

schiena di una strega ch’è legata alla
catasta di legna secca e che piange
turbata dalle miserie del mondo
e dal suo ventre colmo di Dio

E Bon!

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L’OMBRA

e l’ombra proiettata sull’asfalto
si staccò da terra e si alzò in piedi
era nera e vacua come il rimorso
d’aver ucciso i topi nel solaio

ma eran bestie vestite di stracci
razziatori di frumento affamati
con mogli e figli denutriti a casa
e il gelo che sfondava le finestre

poi l’ombra svanì come una brezza
lasciando l’aria amara da respirare
perché non c’è via verso il perdono
se non passare per un cuore affranto

E Bon!

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L’APOCALISSE

molto tempo fa incontrai un vecchio calvo
che stava mangiando bistecche di rana
pane di farina di cavallette
e nel bicchiere aveva sangue di bue

tutti comperati con la mastercard
al supermarket di via Calciati
in fronte ad ove si fanno scommesse
sopra il giorno della propria morte

si chiamava Giovanni e diceva
l’apocalisse è vicina come
la cassa per pagare la spesa
inesorabile destino d’ogni uomo

E Bon!

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LA CHIAVE

era vestito come maggiordomo
di nero col panciotto e la cravatta
ed aveva le chiavi del palazzo
pesanti come un masso nella tasca

il padrone di casa era severo
lento all’ira e facile al perdono
come chi sa cosa vuol dire amare
e lo fa senza fronzoli perversi

al servo suo regalò il martirio
ed il sentirsi davvero innamorato
mentre percorreva la stessa via
già calpestata dal Figlio dell’uomo

E Bon!

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LA PIENA

ho visto l’onda d’acqua della piena
quando ancora era molto lontana
e la ho aspettata senza fare nulla
stando in piedi sulla riva del fiume

come il manichino d’un vecchio postino
col berretto schiacciato sulla testa
e lo sguardo stupito del veggente
ben consapevole della mia sorte

e poi è arrivata e mi ha travolto
mi ha trascinato giù nei gorghi così
come le Moire avean stabilito
per scoprire che m’ero fatto pesce

E Bon!

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L’EPILOGO

non è scontata la vittoria dei buoni
all’epilogo di questa storia
in un tripudio di osanna dei santi
con fuochi d’artificio e bandiere al vento

il molosso è infine caduto
nelle fiamme del forno di Babele
senza togliere robustezza al Maligno
nell’orrido della sua malvagità

ma il nulla che avanza inesorabile
come un mantello sopra il Santo di Dio
par fermarsi davanti alla sua croce
mentre il cuore è prossimo all’infarto

e Bon!

Lucio Mayoor Tosi frammento con rosso 2021
Lucio Mayoor Tosi, frammento con rosso, acrilico, 2021

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Stefano Torre è nato a Piacenza l’8 febbraio del 1965, poeta Realista Terminale, Astrofilo, Ex candidato Sindaco surreale, Soggetto clinicamente Distonico, in gioventù è stato campione di Subbuteo. Negli anni ’90 del secolo scorso ha introdotto in Italia l’argomento dell’inquinamento luminoso sulle pagine della rivista COELUM per la quale era redattore di una rubrica fissa. È docente di Web Design e comunicazione alla Accademia di belle arti Santa Giulia di Brescia e conduce una piccola azienda di web marketing della quale è amministratore. È membro del direttivo del Piccolo Museo della poesia di Piacenza. Nel 2023 un suo poema dal titolo: “L’ultima Preghiera” è stato insignito del premio speciale della giuria al concorso SAENAGALACTICA riservato alla letteratura fantascientifica.
Ha pubblicato le raccolte: Marinai e Poeti Sono Tutti Morti (1994), l’uovo di Lusurasco (1995) e Il Cristallino di Piombo (2020). Ha partecipato a numerose antologie e sue poesie sono state pubblicate da riviste italiane e straniere. Nel ’17 si è candidato Sindaco di Piacenza, con un programma elettorale basato sulla presa in giro della politica. Tra le sue stravaganti promesse, citiamo, fra tutte, quella del vulcano, ma anche il vinodotto per portare il vino nelle case, l’abolizione della morte con decreto sindacale e la dichiarazione di guerra alla vicina Parma, colpevole di aver rubato il formaggio piacentino ed avergli cambiato nome in parmigiano.

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Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York.  Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022, Poetry kitchen 2023 nonché nella Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.Nel dicembre del 2023 pubblica il libro di poesia Mi sorrido Gratis. E altre anomalie.

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Marie Laure Colasson nasce a Parigi nel 1955 e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Nel 2022 per Progetto Cultura di Roma esce la sua prima raccolta poetica in edizione bilingue, Les choses de la vie. È uno degli autori presenti nella Antologie Poetry kitchen 2022 e Poetry kitchen 2023, nonché nella  Agenda 2023 Poesie kitchen edite e inedite (2022) e nel volume di contemporaneistica e ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, L’Elefante sta bene in salotto, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2022.

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Annachiara Marangoni, da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti), con una Lettera ad Antonio Sagredo di Giorgio Linguaglossa

Gif Polanski

Annachiara Marangoni, veronese, di formazione sanitaria e umanistico – pedagogica, dirige a Trento una struttura riabilitativa per giovani affetti da disturbo dello spettro autistico. Fa parte del movimento poetico Realismo Terminale (RT), fondato dal maestro Guido Oldani.  Già autrice nel 2013 delle raccolte poetiche Nerooro e nel 2019 Il corpo folle, collana I Gigli, editi da Montedit (Mi), ha pubblicato nel 2021 per l’editore Aletti una plaquette realistico terminale raccolta nel volume Enciclopedia dei Poeti Contemporanei. Presente nell’antologia RT Il gommone forato curata da T. Di Malta, editore Puntoacapo, 2022. Ha pubblicato per la rivista Atelier, diretta da Giuliano Ladolfi, per la rivista Amicando Semper, diretta da Enzo Santese. Per il direttore della rivista La Terrazza, ha curato l’introduzione di un gruppo di poesie di Guido Oldani. Ha pubblicato per la rivista internazionale Noria, diretta dal prof. Giovanni Dotoli, sul numero 5, 2023, un articolo dal titolo Autismo e realismo terminale. Per la rivista polacca Bezkres ha pubblicato numerosi testi poetici ed articoli, traduzioni e cura di Izabella Teresa Kostka. Presente nell’antologia italo – polacca “Inter Amicos (Dobrota, Polonia 2023), curata dalla poetessa Izabella Tereza Kostka, con una plaquette di poesie realistico terminali. Suoi testi poetici sono presenti in alcune pubblicazioni, volumi e riviste culturali.

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da 24 carati nel Realismo Terminale (inediti)

Tempo nostrum

Smunto come un ombrellone chiuso
il nostro tempo di promesse spente
piantuma intorno al pianeta tutto
alberi di cuccagna consistenti.
Seduta all’ombra aspetto il pacco dono
scaffai Amazon già continentale
poi ho l’INPS che mi scrive sempre
vedo il dopo da un occhiale opaco.

Il gomitolo

L’odio è un gomitolo di lana
stringe come l’acqua fredda in un inverno.
E allora lo lavori a maglia
con gli aghi piantati sotto pelle
addosso è un’armatura arroventata
ti scioglie come dado dentro all’olio.
Ma ci si abitua a diventare ferro
anche la voce è come una ciabatta,
e l’anima nel barattolo di latta
è un fagiolo dimenticato dentro al fondo.

Il direttore

È un termometro il traffico dirige
che i ghiacciai senza la corrente
sono appesi come gocce al vento.
E la terra con le sue cornicette
è una colata credo, di mercurio
in mezzo ai denti, arsa con gli insetti.
Dio su in alto è il condizionatore
fa cascare frescura nei container
dove la calca è priva di pudore.

Disumale

Le facce sono treni al finestrino
sfrecciano fino a farne un volto uno.
Poi stesi in corridoio all’ospedale
la banda la fa un vecchio quando russa.
Gli arrivano coperte come burka
per scaldare il nessuno che sta sotto.
Ed ora il tempo si misura adesso
mentre di sete muore il giorno stesso.

Annachiara Marangoni

Annachiara Marangoni

Il bisturi

La croce è una sala operatoria
dai camici simili a un sudario,
l’anestesia, imballaggio del dolore
spala ore fuori dal quadrante.
Steso con il sesso fuori,
è uno spiedo con le penne sparse
e la fiducia la cardiamo a mano,
mezzo vivo, prossimo e lontano.

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Il barbone

Il sole è il lampione della strada
che gli fa da materasso, pressappoco.
E i quadri sono le facce dei passanti,
che ogni giorno scambia tra di loro
le pareti di vento pari a ferro,
fanno da perimetro alla gente
che gira alla larga, ma fa niente.

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Tempi storti

Seduti davanti a un telo bianco
scorrono i secondi accartocciati
delle vite di quelli come noi.
Come spilli scordati nel vestito
le manovre dei potenti sono guai
tutti cristi, tempi storti, siamo noi.

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Niente

C’è gente in questo arso continente
il cui ventre è un piatto vuoto,
la faccia da palloncino sgonfio
e sono in tanti a non avere niente
sulla bilancia pesano una piuma
impastati con la trasparenza
sono spiriti senza ricorrenza.

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Legale ora

Spazzolata l’ora
come fa il tergicristallo con la pioggia
furto di buio, sottrazione d’oscurità
la sera è un mazzo di lampadine accese
palpebre schiuse come saracinesche
sono sorrisi in mezzo alla faccia.

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La fronte sullo specchio

Lo specchio stamattina
mi rimbalza un volto uguale a un’officina,
in cui le macchine sostano sdraiate
in attesa di essere aggiustate.
Una carezza asporta l’olio dalle dita
a ricordare le malattie subite,
un po’ tutti ci hanno messo mano
a rendermi gli occhi come lenti sopra il naso
che mirano al tutto da un puntino,
il mondo è meno grande del sogno di un bambino.

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Dash

Dopo il temporale litigammo
al deposito dei carrelli del super.
Ai ¾ di bianco della casa
apparivano i titoli di coda
di un’apologia atomica
ad oriente i riscatti
ad occidente i ricatti.
Offrimi un drink babysapiens.

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Carceri accaventiquattro

È agosto e si ribolle,
tra le sbarre incandescenti,
umani pressati aspettano gli sconti.
A decine le lenzuola stese sugli uscenti.
La bilancia li destina nella turca
lo stato dice non c’è spazio
e così la dignità è una Simmenthal
abbonata all’obitorio aperto accaventiquattro
ma fra tutti c’è chi se ne frega.

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caro Antonio Sagredo,

è vero, tu hai per certi aspetti anticipato gli esiti della «nuova poesia», ti sei costruito un «linguaggio-soglia» che non abita in nessun-luogo. Voglio dire che il concetto di «soglia» è la negazione di quell’altro concetto di «viaggio» inteso come «ritorno» (nostos). La «soglia» è una intuizione più antica di quella di «ritorno», il «ritorno» per ecellenza è il viaggio di Ulisse nell’Odissea, mentre nella «soglia» ogni nostro movimento, ogni nostro peregrinare che avviene per mezzo di avatar, di sosia, di doppi… è soltanto irreale, virtuale, onirico. La poetry kitchen è fatta di «linguaggi soglia» che non comunicano niente di essente, ma comunicano ombre, ombre di ombre. Certo, mette disagio nei letterati abituati e costruiti nelle certezze (dell’io, del noi, del voi, di questo e di quello etc.) scoprire che ci possono essere linguaggi-soglia, linguaggi-di-ombre… che là, nei «linguaggi-soglia» c’è una ricchezza inusitata che loro non potrebbero mai neanche immaginare.
Detto con le parole di Lucio Tosi: “La poetry kitchen ha il merito di aver individuato la durata di ogni pensiero, il suo passare (nel vuoto, spazio e tempo), e nelle parole il loro morire”.
Detto con le parole di Marie Laure Colasson: “Sostare sulla soglia, fare una poesia della soglia significa accettare l’instabilità e la precarietà dello stare sulla soglia (né dentro né fuori)”.

L’idea dell’io come semplice modalità deriva dalla Faktizität di Heidegger, e quindi dalla sua ontologia, che individua nella modalità dell’esser-ci la sua matrice più profonda, unitamente alla dialettica proprio-improprio da cui emerge la centralità della modalità quale caratteristica del Dasein.
Da qui all’«ontologia modale» di Agamben e alla «ontologia modale» della «nuova poesia» c’è solo un passo.
La poesia del «realismo terminale» ruota pur sempre attorno all’epicentro dell’io, anch’essa è costruita in parte su un «linguaggio della soglia». È l’io che costruisce la geografia e la topografia di questa poesia «terminale», dunque, si tratta di una poesia che mantiene ancora un legame, seppur tenue e in via di decostruzione, con quella della tradizione. Fatto a meno dell’io, messo tra parentesi l’io, ecco che si entra in un nuovo «condominio linguistico»: se viene meno lo shifter (io) viene meno anche l’istanza di discorso che lo shifter apre e legittima. E si aprono le possibilità del «linguaggio della soglia»

(Giorgio Linguaglossa)

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Antonio Sagredo, La Gorgiera e il Delirio, Schena, 2019, pp. 170 € 18, Ermeneutica di Marie Laure Colasson e Giorgio Linguaglossa, Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari, un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e affidabilità. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto

Promenade notturna Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson, Promenade notturna, collage 30×40, 2023 –
La poesia è fare il giro del giorno in ottanta mondi  (Anonimo romano)

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L’eternità è una perdita di tempo

(Antonio Sagredo)

La perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione

Questo volume è una antologia della poesia di Antonio Sagredo (poeta salentino trapiantato a Roma) che raccoglie le sue poesie dal 1989 al 2018. Il titolo rimanda alla «gorgiera» dei ritratti di Velazquez e al «delirio» di cui quei ritratti sono stati attinti dopo che Freud ha scoperchiato che sotto la «maschera» c’era il vuoto dell’inconscio, un abisso che avrebbe dato la stura alle peggiori nequizie della storia del novecento. La foto in copertina ritrae il giovane poeta sul palcoscenico truccato  in modo vistoso con della biacca sul volto e un cappello a cilindro. Per rappresentare il «vuoto» era necessario un locutore che ne parlasse in un suo esclusivo e personalissimo idioletto che facesse scoccare diapason acustici e mixage di registri linguistici dal plebeo al sublime, con il lessico chiesastico che fa scintille con quello da ebreo errante dell’impero asburgico, un linguaggio poetico quello di Sagredo che non sembra avere parentele o filiazioni rispetto alla tradizione poetica italiana. Un libro, dunque, sortito fuori dal nulla del «valore» (da cui l’abisso dell’inconscio) e dal nulla della tradizione poetica (numerosissime sono le recriminazioni di Sagredo contro la triade Ungaretti-Quasimodo-Montale e avverso i riformismi moderati del tardo novecento). Sagredo è davvero un caso di incompatibilità con tutto ciò che gli è attiguo, non è ragguagliabile a nessun altro poeta del novecento italiano, nel bene e nel male, se così si può dire. Il poeta salentino (ma anche romano di adozione) riprende la «linea innica» dei Canti orfici di  Dino Campana opportunamente restaurata in un linguaggio inventato di sana pianta salmodiando insieme l’osceno e lo sguaiato con il rococò, sceneggiando il ribrezzo per gli scheletri, i tabernacoli, esaltando la Morte barocca e la putredine degli Angeli in crescendi che sconfinano in una miriade di punti esclamativi. Sagredo balla il suo «fox-trot coi tacchi appuntiti» mentre «gocciano detriti gli obitori», mette in scena una sua ipotiposi maligna, titilla le meningi del malcapitato lettore per spremerne ircocervi, acquasantiere e ippocampi lunari. Il «folle» flusso di parole di Sagredo elaborato senza alcuna geometria euclidea buca lo spazio curvo e la pluralità dei tempi, la costruzione si muta continuamente in de-costruzione, l’autore conduce l’orchestra in un «sapiente» delirio abitato da «Santa Clitoride», «Dulcinea», «Don Chisciotte», il «Minotauro» etc. governato e sorvegliato da un io dispotico e psicotico che, in un certo senso, anticipa la nuova fenomenologia del poetico o poetry kitchen e le si avvicina tangenzialmente; ma Sagredo è Sagredo, il suo linguaggio è un abito tagliato su misura su di lui e su nessun altro. In tal senso, il suo modo di operare linguisticamente è il tipico modus di un linguaggio poetico in perdita, una perdita di valore all’interno della catena del valore rappresentata dalla tradizione, a cui però viene negata ogni rappresentatività e autorevolezza. La stessa ipertrofia dell’io che attraversa il suo linguaggio poetico è più il sintomo di un malore, di una malsania del linguaggio stesso, che non una mera presa d’atto.

Ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico

Se è lecito affermare che ci troviamo in un orizzonte antiedipico e antimetafisico e quindi post-storico, ne deriva che la forma-narrativa e la forma-poesia di base sono quelle «anti-edipica» e «antimetafisica» come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari; vale a dire che la forma dello storytelling è diventata una narrazione priva di un limite esterno, di un confine, e priva anche di un confine interno; così la forma-racconto e la forma-poesia si presentano come un intreccio virtuosisticamente alimentabile all’infinito, al pari della marxiana «catena del valore» che non può mai arrestarsi e che alimenta nel capitalismo cognitivo la produzione di beni e servizi  pena il crollo simultaneo del sistema tutto. Il sistema lavora come una catena di eventi nella quale sarà sempre possibile aggiungere nuovi anelli, nuove tessere al mosaico, nuove varianti al «valore» e al «disvalore». Sarà sempre possibile aggiungere una piccola tessera alla catastrofe e al disastro.

La catena del valore perde valore

La simmetria stilistica tracima e trasborda in virtuosismo e in anti simmetria. La catena del valore perde valore, diciamo così, ma anche la anti-simmetria perde valore, accumula perdite su perdite. Ne sono tipici esempi nel postmoderno classico i romanzi di Italo Svevo, La coscienza di Zeno (1923), Musil L’uomo senza qualità (1930,1933, 1943) e Il maestro e Margherita (scritto tra il 1928 e il 1940) di Bulgakov, e, nei tempi recenti, I figli della mezzanotte (1981) di Salman Rushdie e Museo dell’innocenza (2008) di Orhan Pamuk. Quello che è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale si può riassumere così: nel secondo postmoderno cioè all’avvento dell’età anti edipica e anti metafisica è avvenuto che la forma-narrativa liberatasi dalle pastoie del senso e del consenso ha contaminato la forma-poesia sgretolandola al suo interno: distruggendo l’Autore-locutore, ha determinato il decesso della autorialità, con la conseguenza che sono saltate in aria tutta una serie di retoriche che contraddistinguevano il romanzo e la poesia dell’ottocento e del primo novecento. La jouissance ha sostituito il desiderio, un desiderio lacanianamente forcluso che è strasbordato dagli argini in seguito alla forclusione del Nome-del-Padre e di Thanatos riducendosi a mero symptôme, mera ridondanza, mero mot-valise, mero refrain; così la trama (romanzesca e poetica una volta liberata dalla obeissance al plot e alla ratio del racconto), se ne è andata per i fatti suoi, è stata defenestrata piuttosto che liberata, e così la funzione-autore ha assunto i connotati tipici dello storytelling con ipertrofia e disseminazione dell’Io «smargiasso», «cafonesco» e «derisorio», ovvero, diventando mero elemento accessorio dello storytelling, intreccio senza conclusione, scherzo ludico, patema derisorio e auto derisorio.

Si impone così una nuova concezione della trama: essa, in tempi di miseria simbolica, non viene più intesa come condizione strutturale del desiderio, non chiede più di essere considerata come un elemento determinato dal Finale, tant’è che un critico, Calabrese, parodiando il titolo del celebre lavoro di Kermode, parla di un «sense of a nonending» che dilaga nel romanzo postmodernista e nelle recenti «poesie privatistiche» postate dalle anime sensibili di moda oggi che si cibano di camembert e di vitel tonnè, e magari con tanto di targa pacifista che fa sempre bon ton; quindi: nessun epilogo, nessun archetipo «clausulare» hanno sorretto nel postmodernismo il sogno infranto di un Fine che coincidesse con la Fine. Senza una conclusione (ma con l’intervenuta forclusione), e quindi senza una finalità né un momento di determinazione del senso, il plot deve ricercare la propria ragione testuale nelle variazioni, nelle biforcazioni, nelle deviazioni. A parte ciò, una testualità dovrebbe a questo punto ipotizzare la possibilità di un nuovo tipo di testualità conseguente alla fine della condizione postmoderna, se è vero, come scrive Karl Marx, che «Alles was fest ist, schmilzt in der Luft» (Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria);1 è lecito quindi definire questa forma-narrativa o forma-poesia come «evaporata», «dissolta» «in der Luft» (in aria), con tanto di benedizione marxiana per tutto ciò che appare nella poststoria in quanto volatile, diffusa ovunque negli spazi aperti, priva di una forma specifica, poiché mancante di una figura che la articoli come faceva un tempo lontano l’autore che garantiva l’autorialità del testo. Tutto ciò è evaporato e con essa evaporazione sono evaporate le «forme» e le «parole». Tutto ciò richiama alla mente la «evaporazione del Padre» cara a Lacan.

Miseria del Simbolico

Eliminato il Padre, eliminato il Figlio, eliminato Edipo, eliminato l’Autore, eliminato il Lettore, eliminato Creonte, eliminato il Plot, eliminata la Forma-poesia, eliminata la Parola significante, pontificante, eliminata la Legge del Finale e dell’Inizio sono rimaste le parole nude, quelle gratuite, smargiasse, ipoveritative, idiolettiche, quelle con la blefarite negli occhi e con gli aculei, quelle professionali della catena del valore; resta la Miseria del Simbolico del privatismo riduzionista dei fatti gli affari tuoi, resta la jouissance (rimossa, indecente, onanista: le parole baldracche) la quale, in nome dell’Io (l’Autore) e dell’Anima bella ha iniziato a proliferare in modo incontrollabile e dissennato sotto gli archi della post-storia. La storialità si nutre della Miseria del Simbolico.

Per quanto concerne lo scadimento della dimensione del plot (filmico, narrativo, poetico e narrazionale), si legga il famoso romanzo a puntate che Salman Rushdie sta facendo al computer chiedendo la collaborazione dei lettori della rete per quanto concerne verianti e colpi di scena da inserire nella trama. Tutto ciò è un fatto di enorme importanza, il fatto che un computer sia in grado di scrivere un romanzo anche senza l’apporto guida di un Autore in quanto l’Autore non c’è più, è scomparso. Occorre pensare una teoria plausibile per questa inedita modalità del récit e delle sue ripercussioni sul sociale che sono già in atto da tempo. Nella poesia kitchen ad esempio è già possibile fare una mappatura dei caratteri e delle maschere in nacchere  che la forma-narrativa e la forma-poesia hanno ereditato dall’avvento dello storytelling privatistico oggi divenuto quintessenza della poiesis comunicazionale. Il fatto è che la narrazione si è dissolta «in der Luft» (nell’aria) «evaporata» e «dissolta»; la spia di ciò sta in un’ossessiva attenzione alle «parole» gratuite, opportunamente privatizzate e sterilizzate (eufoniche o cacofoniche fa lo stesso) anche a discapito del significato, infatti, nella forma-poesia di Antonio Sagredo e, in modo ancor più vistoso nelle poesie in modalità kitchen, il senso è estroiettato dalla logica narrazionale della forma-poesia del novecento. Il senso del testo è un fuori-senso, un non-senso ultroneo che non dipende più dalla trama in sé (come nella forma-romanzo del novecento), né dalla successione e dalla combinazione degli eventi linguistici (come nella forma-poesia del novecento). Nella poesia che promana dalla Miseria del Simbolico non si può pensare se non in termini di locutore e di locuzione, di grammatizzazioni, di idioletti e non più di successione dei significati e/o di ragionamenti dell’Io empirico (come nella poesia dell’ottocento e del novecento, si pensi alla poesia-ragionamento di Leopardi); in Sagredo e nella poesia in modalità kitchen è la mancanza stessa del Finale e dell’Inizio, la mancanza del Padre e del Figlio, di Edipo e di Creonte che agisce retroattivamente inficiando la grammatizzazione, il logos narrazionale, la forma-poesia che conoscevamo. Forse Sagredo e il Kitchen hanno preso in parola le parole di Heidegger: «Das Nicht nichtet» (Il Nulla nientifica), e operano di conseguenza.

(Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa)

1 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei [1848], Severus, Berlino, 2017, trad it. Manifesto del Partito comunista, p. 18.

Antonio Sagredo La gorgiera e il delirio

III

Là, rantoli di muffa, delizie, torce
e broccati, ciarle di accesi candelabri,
come sulla via dei misteri fittizie sfingi, Tamerlano
con tamburi e denti le stanze acquetasse
e fosse il tempo solo rostri d’ossa non scarniti.
Lascia che i vermi aspettino!
Perché possano infiniti digitali annullare
i miti con domande e corde, fustigare visioni
e abbracci di Orfei.
E’ solo, è solo il gallo sui crateri!
Le Madri su stampi di fauno, sbiadite, Tommaso!
La tela dei neurini manipoliamo come banderuole:
sono visite cortesi, maschere corazzate
di colomba, surrogati di corone o gemiti imperiali.
Quando la pietra più che al volo
all’indugio spezza l’asta della luce, il tuo cranio
possa lacrimare in barba ai veri morti tra giostre
rinascimenti lutti e spine, renderti giustizia
tra tumuli e tumulti. Caccerò il roditore d’ossa,
non spezzerò il pane,
né il vino offrirò, né il sale,
né il cantico dal passo di lumaca, ma il morso
di un’àncora… col sonno tra le mani, alle analisi
di neve sui divani, la lira e il libro opporrò,
urla fossili, grumi di nere frecce,
il sangue strizzato da una perla al dio compatto. Continua a leggere

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I tre periodi della poesia di Cesare Viviani da  “Poesie 1967 – 2002”  (2003) a “Dimenticato sul prato” (2023), Viviani con le opere degli anni successivi all’esordio del 1973 prende cognizione che ormai la spinta propulsiva del neosperimentalismo si è affievolita e che occorre perlustrare nuovi linguaggi, nuove dinamiche endogene ai linguaggi, nuovi lessici. Il percorso durerà più di un ventennio ma alla fine il poeta dovrà accettare il verdetto che la «poesia» non ha più nulla da dire di nuovo o di importante o di significativo, e arriva ad un testo fuori-poesia, se così possiamo dire – Sostanzialmente, l’ultimo periodo della poesia di Cesare Viviani è un linguaggio del «se così possiamo dire», un linguaggio camuffato e artefatto oltre che costruito tutto in diminuzione, in diminuendo, in dimagrimento. Ma di che cosa? È ovvio: del senso e del significato (a cura di Giorgio Linguaglossa)

Promenade notturna Collage 30x40 2023

Marie Laure Colasson Collage 30×40, Passeggiata notturna, 2023

Come con dovizia di ragioni asserisce l’autore della vasta e argomentata introduzione al volume antologico di Cesare Viviani, Enrico Testa, l’opera poetica del poeta di adozione milanese ma senese di nascita (anno 1947) si può suddividere in due periodi: il primo che va dai primi tentativi risalenti agli ultimi anni sessanta e poi pubblicati in plaquette a Parma, in parte riproposta nel 1983, da Scheiwiller, in Simmulae; Viviani esordisce con L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), seguono Piumana (Guanda, 1977), L’amore delle parti (Mondadori, 1983) e Merisi (Mondadori, 1987); il secondo periodo ha inizio nel 1990, con Preghiera del nome (Mondadori) e prosegue con L’opera lasciata sola (Mondadori), Una comunità degli animi (Mondadori, 1997), Silenzio dell’universo (Einaudi, 2000), Passanti (Mondadori, 2002), La forma della vita (2005), Credere nell’invisibile (2009). A questi due periodi aggiungerei un terzo periodo che inizia con Infinita fine (2012), passando per Osare dire (2016), Ora tocca all’imperfetto (2020), e Dimenticato sul prato (2023), opere tutte edite da Einaudi.

La poesia di Viviani trova subito, fin dai suoi esordi, l’attenzione della critica militante, ma le ragioni che hanno condotto ad una rapida accettazione della sua poesia sono tutte ascrivibili al quadro di riferimento culturale della società letteraria del tempo. Il lavoro di Viviani incontra e interpreta in modo encomiabile l’orizzonte di attesa di cui quella cultura critica forniva lo zoccolo e la chiave interpretativa. La poesia del «primo periodo» di Cesare Viviani cresce e si consolida sulla cresta d’onda di quella cultura, interpreta, nel senso migliore del termine, la cultura da cui proviene. Certo, il tema dell’incomunicabilità, dopo l’esistenzialismo francese, certo teatro del surrealismo e della  nostrana neoavanguardia diventa quasi un topos banalizzato e alla moda; ma quella cultura critica che si era fatta carico di rappresentare in Italia la tematica dell’incomunicabilità, con la poesia di Cesare Viviani attinge gli esiti tra i più complessi e maturi. Nella letteratura poetica del tardo novecento non si era ancora visto un fenomeno letterario così evidente: nasce una poesia dell’irriconoscibilità e della incomunicabilità: i personaggi sono stati soppiantati da parvenze, da voci intermittenti, da reclute implicite e criticamente cifrate che intervengono nel testo come lessemi terremotati che disgregano e disorganizzano la logicità della sintassi fin dentro le fibre semantiche del discorso poetico. Il risultato è che i testi vengono composti mediante una stratigrafia lessematica dove il «lapsus morfematico» agisce da «morfema migratorio», agisce come un virus linguistico che attacca altre cellule linguistiche che finiscono per disarticolare il testo. Non soltanto la tradizione lirica di stampo fonosimbolico viene esautorata e destabilizzata, ma anche i risultati conseguiti dalla neoavanguardia vengono stravolti e sorpassati, proprio in curva, e doppiati da Viviani che scrive sul crinale degli anni settanta e ottanta. Operazione lucidamente orientata sul sorpasso. Vengono così abilmente dribblate le istanze fonologiche e plurologiche dei coevi tentativi di quegli anni mediante un’operazione «eversiva» ancor più radicale. La versificazione diventa una sommatoria di istanze enunciativo-assertive che non intende condurre ad alcun senso ma neanche al non-senso. Nella misura in cui la prima poesia di Viviani non ricerca il non-senso, essa vi approda partendo da un altro versante: cadono sotto questo diserbamento molecolare anche le istanze della poesia gnomica, che presuppone, ancora acriticamente, che possa sopravvivere, in qualche modo, sotto la coltre di relitti e di detriti linguistici della nuova civiltà una noumenicità del senso o un fondamento purchessia di esso.

Il secondo periodo inizia all’incirca con Preghiera del nome (1990) e segna una poesia che alberga una restituzione di senso al senso. Ora, la poesia diventa «riconoscibile», l’eversione terroristica del primo periodo è ormai alle spalle. Del resto, Viviani prende atto, con acume e tempismo, che la «trasparenza» dello spazio mediatico è contiguo e speculare alla insondabile profondità del capitale finanziario che vi transita nel tempo di un batticiglio: il capitalismo del tardo moderno, o post-moderno che dir si voglia, ha assorbito senza scossoni il bombardamento del linguaggio umanistico della poesia, anzi, nel momento in cui il linguaggio pubblicitario si presenta come la nuova e vera avanguardia della nuova società mediatica, Viviani opera una sterzata di 180 gradi, comprende che nelle nuove condizioni del mercato globale, nel momento in cui le vecchie ideologie sono ormai infungibili e inutilizzabili, l’unica cosa che resta da fare è tentare di ricostituire il legame tra la parola poetica e il suo referente, la «riconoscibilità» della poesia ma come capovolta. Viene reintrodotto il «quotidiano», viene reintrodotta la «scena», i personaggi vengono ricostruiti e diventeranno inseguiti ed inseguitori, assassini, nemici e padroni; viene ricostruita la filigrana della sintassi, il lapsus morfematico scompare per sempre dalla scrittura dei testi. Il testo letterario ospita ora una fenomenologia sempre più «ostile» alla scrittura poetica: il linguaggio dei gesti e delle conseguenze dei gesti si sostituisce al linguaggio delle parole, ovvero, fa ingresso il metalinguaggio. È sufficiente esaminare una poesia di Preghiera del nome: Il cittadino mi vede seduto/ sulla panchina che la prima luce/ imbianca, meravigliato/ si ferma e vuole/ che gli risponda. Dice/ che sono bianco in volto”, dove l’atto di portare «bianco in volto» è la conseguenza, il risultato, il precipitato di un qualcosa che non si ha più ragione di attestare; il linguaggio poetico si limita a darne il resoconto repertale, come post mortem. In questo tipo di fenomenologia al linguaggio poetico è riservato un ruolo ben preciso: illuminare, per via indiretta, le conseguenze dei segni che hanno ormai perduto la leggibilità univoca della precedente generazione poetica e della precedente civiltà letteraria. In questo processo di de-territorializzazione del linguaggio poetico, Cesare Viviani si scopre più in avanti, sempre più in avanti rispetto a tutti gli altri poeti della sua generazione. Ma è con L’opera lasciata sola che Viviani fa un passo decisivo verso la rivoluzione copernicana del suo linguaggio poetico, che ora si presenta con una compattezza semantica inusitata: abbandona gli istituti retorici della precedente maniera per recuperare una fraseologia prosastica modulata in vista di un climax solenne, dove le retoriche convergono a rafforzare la im-potenza delle parole lasciate quasi nude e disadorne dinanzi all’ambigua indeterminazione del reale; così si riaffaccia il racconto e la parola si fa carico del vettore del pensiero impoetico. Non è un caso che la critica abbia qui segnalato «forti contiguità con la poesia di Luzi» (dalla introduzione di Enrico Testa), ma è un Luzi laicizzato e de-numinizzato; aspetto questo che sarà preponderante in specie nelle opere seguenti: Silenzio dell’universo (2000), Passanti (2002) e seguenti, dove il discorso poetico viene riconsiderato, problematizzato e investito delle responsabilità che ora incombono in modo sempre più pressante sul testo in vista della possibile imminente minaccia alla sopravvivenza della poiesis nell’epoca odierna.

Cesare Viviani Ora tocca all'imperfettoNel 1973, con il libro di esordio, L’ostrabismo cara (Feltrinelli, 1973), Viviani partecipa in prima linea al moto di decostruzione messo in atto dalla neoavanguardia, quel fenomeno che Alfonso Berardinelli definirà nel 1975 nella Introduzione alla antologia Il pubblico della poesia (1975) «l’equivoco che aveva permesso ai Novissimi di avere tanto successo: credersi ancora avanguardia e fingere di vivere mezzo secolo prima. Proporre se stessi come la soluzione più avanzata del problema dell’arte era un gioco che ancora piaceva molto, prometteva di fare un certo scalpore e ovviamente gratificava parecchio gli autori. Credersi più moderni e più attuali di ogni altro dà senza dubbio qualche soddisfazione e infatuazione».

Viviani con le opere degli anni successivi al 1973 prende cognizione che ormai la spinta propulsiva del neosperimentalismo si è affievolita e che occorre perlustrare nuovi linguaggi, nuove dinamiche endogene ai linguaggi, nuovi lessici. Il percorso durerà più di un ventennio, ma alla fine il poeta dovrà accettare il verdetto che la «poesia» non aveva più nulla da dire di nuovo o di importante o di significativo. Viviani pensa che forse questo è il segno dei tempi, che i tempi non richiedono più una poesia che dica cose importanti o significative o comunque degne di evidenza e che forse ciò che ha da dire si può dire con parole elementari e con una sintassi semplicissima, come nella prosa, per andare, per così dire, direttamente al centro delle cose, ammesso e non concesso che quelle cose fossero lì dirimpetto, o di lato, che comunque fossero presenti in qualche modo, e consenzienti o conniventi con le esigenze della soggettività. Nel frattempo, però, in quegli anni ottanta e novanta, il peso specifico della «poesia» perde sempre più terreno e autorevolezza di fronte alla comunicazione e alla nuova società affluente che non richiede più nulla alla «poesia» e che la «poesia» non è in grado di recepire. E Viviani entra nel secondo periodo della sua produzione, una sorta di ponte di passaggio verso il futuro e i linguaggi del futuro, verso, cioè, i linguaggi che ancora non ci sono, che non hanno fatto ingresso nell’orizzonte di attesa delle poetiche. E adesso facciamo un passo in avanti saltando gli anni novanta e gli anni dieci del nuovo secolo: ci troviamo nel 2010, accade così che alla fine del secondo decennio del nuovo secolo il poeta milanese pubblica quel piccolo trattatello titolato: La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (2018), una sorta di accettazione, con ammonimento condizionato, del fatto incontrovertibile dell’esaurimento della «poesia» così come l’avevamo conosciuta e frequentata e l’inizio di una «cosa» sconosciuta, del tutto differente dalla «poesia» della tradizione. È stato per Viviani un tragitto doloroso e una presa d’atto dolorosa della realtà dei fatti. Viviani non lasciava margine a dubbi, e quella dizione del titolo: «A meno che…» suonava sì un po’ retorica e di prammatica quasi per scacciare, con un gesto apotropaico, il fatto della «fine», ma era una sentenza inappellabile, passata ormai in giudicato.

Ecco come Alfonso Berardinelli descrive la situazione della poesia italiana fotografata al 1975 ma le cui conclusioni sono valide anche oggi, infatti il critico le confermerà nel 2017 quando ripubblicherà con Castelvecchi l’antica antologia Il pubblico della poesia pubblicata nel 1975. Ecco il commento del critico romano ex post:

«Dovendo descrivere questa situazione e questi fenomeni, mi convinsi che la sola cosa possibile era teorizzare non una tendenza, ma la pluralità e la compresenza di scelte e soluzioni. L’idea centrale era questa: non è vero che in ogni situazione storica esista una e una sola tendenza giusta in letteratura, come avevano creduto in fondo sia gli engagées sia gli avanguardisti. Era vero invece che nessuna situazione storica dell’arte è definibile a priori in termini di autocoscienza politico-teorica, ma che questa definizione si può ottenere (in termini comunque non univoci) solo a posteriori, leggendo gli autori che pur vivendo negli stessi anni scrivono ognuno a modo suo. L’ambivalenza che è stata subito notata nel mio saggio introduttivo. Effetti di deriva esprimeva appunto i miei dubbi, anche se nel gergo teoricistico di allora. I poeti della mia generazione erano manifestamente più liberi di andarsene ognuno per la sua strada: ma questa libertà derivava anche da una diminuita coscienza critica, da una pretesa di innocenza che minacciava di rendere troppo disinvoltamente produttivi troppi nuovi autori. La nuova poesia nasceva ormai fuori dall’autocoscienza storica (e da molti suoi eccessi soffocanti e sofistici).

Si poteva fare di tutto in poesia: inventare e ritrovare soluzioni formali moderne, premoderne, manieristiche, neoclassiche, colloquiali, di esibito esoterismo o di smaccato autobiografismo. Questo era indubbiamente (come si disse più tardi) “postmoderno” e faceva sentire più liberi di essere quello che si era senza la costrizione di adeguarsi ad un super-io ideologico o formalistico. Questa inedita libertà creativa, però, avrebbe richiesto una capacità di autocontrollo critico perfino superiore a quella che si era vista in passato. Invece avevo il sospetto che anche quando scrivevano poesie migliori di quelle di Sanguineti, Porta e Balestrini, i poeti de Il pubblico della poesia sapevano meno chiaramente quello che facevano: lo facevano a volte benissimo, ma più a caso. Come autori erano poco strutturati. Per questo proposi di intitolare l’ultima sezione dell’antologia Come credersi autori? L’intenzione era questa: indicare che i poeti più intelligenti conservavano un congruo scetticismo sulla figura pubblica dell’autore, sulla figura mitica del poeta, ma anche sulla figura professionalmente produttiva del poeta “in carriera”».

Cesare Viviani è giunto alla medesima conclusione alle quali siamo giunti noi dell’Ombra in un libretto pubblicato da il melangolo nel 2014: La poesia è finita. La differenza è che noi dell’Ombra abbiamo preso atto della «fine» e ne abbiamo tratto le conseguenze, abbiamo percorso e stiamo percorrendo un sentiero di profondo rinnovamento della forma-poesia e del linguaggio poetico. La poesia di Viviani, questa ultimissima, è la spia segnaletica della fine di un intero linguaggio poetico, l’ultima spiaggia dove c’è rannicchiata e disteso sull’amaca a prendere il sole il ceto poetico che si è autocandidato nei decenni recenti a ceto maggioritario.

Cesare Viviani parte dal principio che il reale si dà nella forma ipoveritativa e non è rappresentabile se non nella forma di frammento, ma in lui il frammento è a monte dell’opera che verrà, non è un risultato ma una petitio principii. Già prima di nascere la poesia del terzo periodo di Viviani viene alla luce nella forma di frammento pieno di fermento. Per questo motivo la causa agente della sua poiesis è il dubbio programmatico, lo scetticismo che tutto aggredisce come una ruggine il metallo, il dubbio che il tutto non sia in quel che appare e che anche la migliore poesia è un epifenomeno del nulla. La sua poiesis afferma perentoriamente: «ingannare il tempo». E di qui prosegue la sua corsa a dirotto tra le stazioni del nulla (parola che inutilmente cercherete nella sua opera), cioè l’indicibile e l’impensabile. Ecco perché la veste formale di questa poiesis è l’aforisma e il pensiero «imperfetto», per amore dell’onestà intellettuale verso quella cosa, la poesia, che, come recita il titolo di uno dei suoi libri di riflessione di poetica: «la poesia è finita», che, esattamente non è un enunciato negativo, perché nel pensiero di Viviani la poesia può anche finire, può assentarsi per anni o per decenni, per poi magari, all’improvviso, ripresentarsi senza alcuna ragione apparente con una nuova veste formale ed espressiva, senza che fosse stata richiesta o cercata.
La poesia per Viviani non è un «falso» né un «vero», né un «positivo» o un «negativo», è semplicemente l’evento di un assentarsi dai luoghi frequentati dalle parole scostumate del nostro tempo. Lo scetticismo ipoveritativo della poiesis di Viviani dà luogo a una poesia che fa della imperfezione e della provvisorietà il proprio punto di forza, capovolgendo in tal modo la propria debolezza in forza. Parrebbe che la logica della disgregazione del mondo amministrato sia giunta a tal punto di profondità da non lasciare alla poiesis alcuna chance di ripresa. Il frammentismo trascendentale di Viviani si nutre proprio di quella disgregazione (Logik des Zerfalls – Adorno) del mondo divenuto globale, ne è ad un tempo, riflesso e prodotto, «mosaico dorato» che è «fuori dalla natura». Quel dubbio e quello scetticismo radicale giunge, alla fin fine, a ristabilire un qualche valore alla poiesis, anche se in modo transitorio e periclitante. Un dispositivo destituente sembra in opera in questo tipo di scrittura, un abbassare il livello comunicazionale per adire un sublivello, una sub-comunicazione. La cultura che si è positivizzata dà luogo all’anti positivo della prassi poietica, sembrerebbe questa la conclusione cui è giunto Cesare Viviani. Quindi, il non-chiudere è per definizione l’ultima possibilità che resta alla prassi dopo l’assunzione che «la poesia è finita». Continuare a scrivere «poesia» anche dopo che «la poesia è finita».

Cesare Viviani Dimenticato sul prato

«Idea della poesia» (Cesare Viviani, da a poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…, il melangolo,2014) 2014)

«L’essenza della poesia, che la fa distinguere da ogni altra scrittura, non risiede ovviamente nei dati caratteristici esteriori, quali metrica, prosodia, rima, lessico e figure retoriche. E nemmeno, passando a realtà interiori, risiede nel modo del rispecchiamento, quando il lettore crede di vedere rispecchiate nella poesia le proprie emozioni, i propri stati d’animo.

L’essenza della poesia, la sua straordinaria energia, è qualcosa che sfugge a ogni definizione e oggettivazione: nessuno ha mai definito l’essenza, la peculiarità della poesia, nessuno è mai riuscito a definirla, a codificarla, così che non si possono misurare o confrontare due testi, per sapere quale è il più dotato di poesia, e nemmeno al limite stabilire se un testo è o non è poesia, se è poesia o un tentativo non riuscito. Non c’è oggettivazione possibile di valori, se non una moltitudine di lettori che concordano ma pur sempre su esperienze di lettura non oggettivabili, su elementi di valore non definibili. L’essenza della poesia è una vertigine, la vertigine che si prova di fronte all’abisso del vuoto…
Allora se l’essenza della poesia è inafferrabile, si può ben dire che l’essenza della poesia è l’esperienza del limite delle capacità umane di afferrare, capire, definire, sistemare: è l’esperienza del limite.

Così è per tutta l’arte. E come non c’è differenza tra linguaggi pittorici (figurativi e astratti), così non c’è differenza tra linguaggi realisti ed ermetici: sia gli uni che gli altri sono strumenti, apparati, modi tangibili, e diventano poesia solo in quanto realizzano l’esperienza del limite, la vertigine del vuoto, lo smacco della separazione e della perdita, la spoliazione degli strumenti umani, la fine del sapere, del controllo e dell’orientamento.

Allora la poesia, la parola della poesia, non deve preoccuparsi di comunicare, di farsi capire, di ottenere effetti, di conquistare lettori, di raggiungere finalità, di collegarsi ai contesti, di dare valore alla società, all’etica, ai contenuti esistenziali, ai valori. La parola della poesia deve avere a cuore l’esperienza del limite, del vuoto, della separazione, della perdita. La parola della poesia ha valore in sé in quanto offre al lettore la possibilità dell’esperienza del limite ed è sempre “poesia pura”, anche quando gronda di contenuti: essa non ha bisogno di niente e con questa autonomia irriducibile costringe il lettore all’esperienza del limite di decifrabilità e di interpretazione, alla perdita di scienza e coscienza, di controllo razionale ed emozionale, al vuoto di concetti e alla scomparsa del senso. Costringe il lettore all’esperienza del limite delle sue capacità di acquisizione e di intervento, di potere e di dominio.

È una vera, profonda vertigine: è l’esperienza vertiginosa della spoliazione e della nudità.»

Fondamentale per l’arte

C’è un elemento a mio avviso fondamentale, un elemento base, essenziale, costituzionale, senza il quale l’arte non esisterebbe: è la discontinuità. Prendiamo ad esempio la poesia (ma questo discorso vale per ogni altra espressione artistica): la scrittura della poesia nasce da una frattura dei significati abituali del sentire e del pensare, nasce da una discontinuità dell’esperienza e del pensiero. C’è un’immersione nell’ascolto, un ascolto assoluto nella scrittura della poesia, nel quale l’organizzazione dell’io scompare, scompaiono il buon senso e il giudizio, così come ogni valutazione normale, quotidiana delle cose, scompare l’ambiente ordinato intorno a noi, e c’è solo quest’ascolto assoluto, vertiginoso della parola che diventa la protagonista nell’esperienza del poeta. Anche il linguaggio può rompere con le tradizionali regole della grammatica e della sintassi, anche il senso si interrompe ed entra in circolazione a pari merito il non senso. Insomma l’inizio di ogni evento artistico è la discontinuità.

E anche nella lettura della poesia, così come nel rapporto con ogni altra arte, è necessaria la discontinuità. L’ammirazione che prende il lettore di poesia, o l’osservatore di un quadro, o l’ascoltatore di una musica, è un sentimento intenso, quasi indefinibile, insensato e disinteressato, gratuito, che distanzia e distacca il lettore, o spettatore o ascoltatore, dall’ambiente circostante, dai pensieri e dalle emozioni che provava fino a un momento prima – i «suoi» pensieri e le «sue» emozioni – e lo immerge in una condizione impersonale di scoperta, di creatività, di vertiginosa apertura e novità.

(L’ammirazione è sbilanciamento, disorientamento, è instabile e discontinua, imprevedibile e incalcolabile: se fosse stabile e prevedibile, continua e abituale, sarebbe un assetto rassicurante, una garanzia di seduzione e di conquista, un disinvolto e sfacciato utilizzo del’esperienza).»

Interpretazione

L’interpretazione è la forma maggiore di perversione. È la più forte e la più frequente espressione di dominio.» 1

*

È accaduto così che Viviani abbia ereditato in pieno tutta la leggerezza, la gassosità, la sproblematizzazione, la inadeguatezza intellettuale e la falsa coscienza delle soggettività nelle  democrazie parlamentari dell’Occidente (nell’epoca del Covid e della guerra in Ucraina), dell’indebolimento definitivo delle poetiche un tempo «forti» (la poesia di Mario Lunetta e Maria Rosaria Madonna). La poesia debole e de-responsabilizzata ha così finito per egemonizzare il panorama della poesia italiana del tardo novecento e di questi ultimi due decenni: e siamo arrivati al  post-sperimentalismo indebolito e impoverito, le poetiche neo-gotiche e privatistiche, le ex poetiche dei quotidianisti dell’area lombarda e i mix di disformismi vari: quotidiano + privato + post-sperimentalismo.

Dimenticato sul prato è opera scritta «tra i primi mesi del 2018 e il settembre del 2019» annota l’autore; il fatto poi che Viviani risieda da sempre a Milano, pur non essendo milanese, si è rivelato, per lui, senz’altro un vantaggio nella misura in cui la presa di distanza dalle ex poetiche «quotidianiste» ha accresciuto il potenziale non-belligerante del «terzo» e ultimo periodo del suo linguaggio poetico. Inoltre, il punto a vantaggio-svantaggio (a seconda dell’opposto punto di vista) di Viviani è che abbia accettato di scrivere nella lingua della tribù nella forma della «nuda lingua», una lingua disertata dal politico con una sintassi elementare  e una prosodia afona, atonica. E questo perché il poeta milanese si esprime nel linguaggio della «ruminazione», che è un linguaggio «interno» non etero-diretto e neanche soggetto-diretto ma che si situa in una via di mezzo tra i linguaggi dell’esterno e il linguaggi dell’interno senza essere niente di tutto ciò, niente che voglia apparire come intenzionale e significazionale, quindi un linguaggio essenziale e funzionale (ma non alla comunicazione), ma nemmeno niente di inessenziale, e neanche di idoneo alla comunicazione; un linguaggio, appunto, non puro ma spurio, di mera modalità, di mera postura, che non ha nulla del sensazionale e del significazionale e nulla della mimesi, un linguaggio che è diventato neutro, afono e atonico per impossibilità di essere oggettivo e/o soggettivo, linguaggio di brevi «ruminazioni» che appaiono e scompaiono negli orli della psiche, che non sono diretti alla comunicazione, ma, sostanzialmente, sono diretti verso la «in comunicazione», un tentativo di circoscrivere il linguaggio poetico dotandolo di una potenzialità non-espressiva, non-comunicazionale. Un linguaggio costruito sugli effetti di deriva dei linguaggi. Eppure, basterebbe un soffio, cambiare appena una vocale o una consonante per mutare questo linguaggio in… poetry kitchen. Alcuni esempi?

Da sempre la necessità
lotta con l’amore,
da un lato la maternità
dall’altro il predatore
(c.v.)

*

Dice di un pensiero antico
«Se desideri avere un amico
e lo vai cercando,
desideri Dio»
(c.v.)

*

L’anima è prostituta,
perché si unisce a ogni genere
di ragioni, energie e armonie,
e unica riesce, distaccandosi da tutto,
a diventare pura,
a innalzarsi fino a una certa
perfezione.
(c.v.)

*

Fare diventare un’asserzione
verità
non è mistificazione,
è necessità
e perché quest’assoluto?
Perché la vita non è altro che vera.
Non è altro Continua a leggere

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Paolo Valesio, Il Testimone e l’Idiota, La nave di Teseo, 2022 pp. 278 € 20  Lettura di Giorgio Linguaglossa, poeta kierkegaardiano che ha attraversato la storia contropelo, che, nell’epoca della fine della metafisica, si è creato una propria metafisica per poter investigare un mondo ormai dissacrato, privo di sacro, che ha relegato il sacro nelle discariche degli oggetti e delle parole a perdere. È di qui che prende inizio il discorso poetico valesiano. La parola diventa testimonianza di una verità che è ogni giorno di più indicibile, impronunciabile, innominabile

Paolo Valesio_Il-Testimone-e-lIdiota

Le democrazie parlamentari dell’Occidente sono affette da una sindrome che definirei della catastrofe permanente, una Todestrieb che ci sovrasta in quanto dentrificata nella psiche degli umani. Ci troviamo in un mondo sul quale incombe uno stato di catastrofe e di auto catastrofe, il mondo della minaccia nucleare sdoganata a fattore tattico di intimidazione dell’avversario è un mondo nel quale è sempre possibile una deflagrazione atomica, un conflitto senza leggi né regole combattuto per la liquidazione fisica e totale del «nemico».

Paolo Valesio è un intellettuale e poeta a cui deve essere riconosciuta una grande dignità e perseveranza nell’indirizzare la propria ricerca poetica in direzione di una poesia «forte», «autentica», «veritativa» dove la veritatività è la segnatura del suo discorso poetico; con le parole di Valesio, l’autore è colui «che Kierkegaard chiama un “apprendista in cristianesimo”»; questo corposo libro è a mio avviso una testimonianza della drammatica situazione di imminente pericolo nel quale l’Occidente è immerso, già nel titolo vengono richiamate le figure de il «Testimone» e dell’«Idiota» che instaurano un dialogo fitto e intenso, dove la colpa lastrica i «corridoi di occasioni perdute»:

Ogni luogo ogni marchio sul paesaggio
è una condanna per il testimone
corridoi di occasioni perdute
lacune di visite e viste che avrebbero potuto
divenire visioni
ma ogni luogo ogni marca di paesaggio
ogni scorcio (sghembo, angusto, tagliente)
di quello che lui osa sotto voce ancora
chiamare “bellezza”,
è una concessione gloriosa al suo tempo di vita.
Il ritmo inevitabile di questo su-e-giù del cuore
lo lascia stordito
più ancora che stupito.

Nella copertina del libro di Paolo Valesio compare, in un riquadro, l’immagine dell’Angelo della storia di Paul Klee. In proposito, vale la pena di rammentare che nella nona tesi Walter Benjamin richiama l’immagine dell’Angelus novus di Klee, che fissa lo sguardo assorto sulle rovine: «i suoi occhi […] spalancati, la bocca […] aperta, e le ali […] dispiegate»; il passato gli restituisce ciò che «davanti a noi  appare una catena di avvenimenti», anche se «egli  vede un’unica catastrofe» (Sul concetto di storia 36 e 37). L’Angelo rappresenta per Benjamin l’«angelo della storia» che è capace di scoprire la «segnatura della rovina nel presente». Trascinato verso il vortice del futuro dal progresso, l’angelo guarda con orrore le catastrofi accumulate dalla modernità, le marche da cui spira il disastro della contemporaneità. Per concettualizzare un tipo di «segnatura della rovina» (dizione di Agamben), può essere utile ripercorrere gli ultimi capitoli de L’Uomo senza contenuto, il primo libro di Agamben (1970), in cui, dopo aver considerato la crisi dell’estetica, il filosofo ritorna ad interrogarsi sul destino poetico dell’umanità e sulla possibilità dell’arte come sfera che si apre all’azione per mezzo della capacità di pro-durre e di auto prodursi. Nel finale del libro Agamben accosta due angeli: l’angelo della Melancholia di Albrecht Dürer e l’Angelus novus di Paul Klee, per il tramite dell’interpretazione di Benjamin. Queste due opere suggeriscono ad Agamben due modi di definire la relazione col passato in quanto funzionano come «segnatura» dell’enunciazione. L’angelo di Klee permette a Benjamin di mettere in azione la dimensione profetica: il suo avvertimento tragico pare annunciare Auschwitz e Hiroshima, le due più grandi catastrofi della storia umana, le due rovine più mostruose, conclusione di un’accumulazione di catastrofi che giunge fino al cielo. Agamben cerca di ri-pensare la proposta estetico-politica di Benjamin e scrive un saggio di traduzione vincolando quest’angelo con la stampa dureriana del 1514, che rappresenta una creatura alata seduta, in atto di meditare con lo sguardo assorto davanti a sé; accanto ad essa, giacciono abbandonati al suolo gli utensili della vita attiva: una mola, una pialla, dei chiodi, un martello, una squadra, una tenaglia e una sega. Il bel volto dell’angelo è immerso nell’ombra: solo riflettono la luce le sue lunghe vesti e una sfera immobile davanti ai suoi piedi. Alle spalle si scorgono una clessidra, la cui sabbia sta correndo, una campana e un quadrato magico, e, sul mare che appare sullo sfondo, una cometa che brilla senza splendore. Su tutta la scena è diffusa un’atmosfera crepuscolare, che sembra togliere ad ogni particolare la sua materialità. (L’uomo senza contenuto p. 164)

Luigi Fontanella, Paolo Valesio Adriano Spatola

Luigi Fontanella, Adriano Spatola e Paolo Valesio anni settanta

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Due personaggi del libro di Paolo Valesio, il «Testimone» e l’«Idiota» che parlano sono in realtà la manifestazione di una unica «Voce», quella della poesia intesa, modernisticamente, come discorso poetico di una individualità erratica ed erranea che si situa in un luogo atopico che si può immaginare come un quadrilatero ai cui vertici dimorano le quattro Entità: il Testimone, l’Idiota, la Fiamminga e la Voce. Davvero, una poesia che marca la propria dissomiglianza, quella di Valesio, rispetto alla poesia di oggi.

Plotino ricorre ad una analogia: come per l’occhio la materia di ogni cosa visibile è l’oscurità, così l’anima, una volta cancellate le qualità delle cose (che sono della stessa sostanza della luce), diventa capace di determinare ciò che rimane. L’anima si fa simile all’occhio quando ci si trova nel buio. L’anima vede veramente soltanto quando c’è l’oscurità.
In un certo senso poetare dell’impensato è qualcosa di analogo al vedere le cose nell’oscurità. Soltanto nell’oscurità si possono vedere le cose in un modo diverso.

Paolo Valesio è un poeta kierkegaardiano che ha attraversato la storia contropelo, che, nell’epoca della fine della metafisica, si è creato una propria metafisica per poter investigare un mondo ormai dissacrato, privo di sacro, che ha relegato il sacro nelle discariche degli oggetti e delle parole a perdere. È di qui che prende inizio il discorso poetico valesiano. La parola diventa testimonianza di una verità che è ogni giorno di più indicibile, impronunciabile, innominabile, ma è proprio questa cesura/censura quello che consente alla poesia valesiana di diventare discorso poetico, voce, parola, dialogo. Un dialogo serrato, metafisico, con un linguaggio posato sui registri alto e medio che prende luogo tra le quattro Entità, sempre sul punto di incalzare la parola «vera», la «verità», che però non può mai essere detta perché essa ha senso soltanto se non viene pronunciata da alcuna parola. In questo paradosso, in questo contrappasso il discorso poetico di Valesio si adempie e consuma le possibilità di costruire un ponte con il lettore, una lingua comune che diventa sempre più problematica e claudicante nella misura in cui l’epoca della scomparsa del sacro celebra i suoi trionfi.

Mentre l’angelo della storia dirige il suo sguardo al passato mentre viene inarrestabilmente trascinato verso il futuro, l’angelo malinconico guarda di fronte e rimane immobile, poiché «La tempesta del progresso che si è impigliata nelle ali dell’angelo della storia si èqui placata» (Benjamin). L’angelo dell’arte appare come se fosse fuori dal tempo, come se qualcosa «avesse fissato la realtà circostante in una sorta di arresto messianico» (Benjamin), al contrario, il passato appare all’angelo di Benjamin in forma di rovina. Anche l’angelo melanconico della poesia valesiana giace estraneo agli elementi della vita attiva che sono divenuti inutili, visto che il passato trova la verità a condizione di negarla e la conoscenza del nuovo è possibile solo nella non-verità del vecchio, ma proprio questo offre al poeta la redenzione citandolo a comparire fuori dal suo contesto reale nell’ultimo giorno del Giudizio estetico, rassegnandosi alla morte o all’impossibilità di morire. La «melanconia» della parola valesiana resta legata all’angelo che è cosciente di essersi rassegnato allo straniamento e di aver così convertito in mondo reale qualcosa che non può possedere. L’arte ha il potere e la missione di recuperare il passato tramite un esercizio negativo, convertendo la non trasmissibilità in una immagine estetica capace di attivare uno spazio fra il passato intrasmissibile ed il futuro impredittibile affinché l’uomo possa fondare la sua azione e la sua conoscenza. Questo spazio poetico si converte nel punto zero dell’azione dell’uomo melanconico moderno, che, annoiato e dissacrato si rende conto che nella verità è presente la negazione della verità. Nell’Angelus novus  benjaminiano l’arte si concentra sulla permanenza del passato nel presente ed obbliga a percepire le sue segnature. L’uomo dell’ipermoderno  minacciato dall’accumulazione senza senso di un passato estraneo e di cui non può dar di conto, trova nell’arte lo spazio in cui passato e presente si incrociano. In questo punto la dimensione poetica mette in gioco la sopravvivenza della cultura, che, peccaminosa ed estraniata, pare impossibilitata ad unire passato e presente se non grazie alla mediazione di un’altra sfera: Per Agamben, e in guisa personalissima per Valesio, solo l’opera d’arte consente una fantasmagorica sopravvivenza alla cultura accumulata e reificata. L’arte diventa il luogo della «segnatura» della redenzione possibile nell’ambito della storia umana. L’opera poetica è l’ambito in cui, fra il passato ed il futuro, l’umano deve situarsi nel presente. Così avviene  che «l’angelo della storia, le cui ali si sono impigliate nella tempesta del progresso, e l’angelo dell’estetica, che fissa in una dimensione atemporale le rovine del passato, sono inseparabili» (Benjamin). Il discorso poetico per Paolo Valesio diventa l’ultimo anello di congiunzione fra l’uomo e il suo passato, fra le rovine del passato e le rovine del presente, la «segnatura» del passaggio dell’uomo sulla terra. Nella misura in cui restano soltanto le rovine del passato, della storia e della tradizione, il luogo dell’opera poetica valesiana diventa lo spazio in cui l’umano può riappropriarsi della veritatività dei suoi enunciati e dei suoi propri presupposti storici in cui l’umano può convertirsi in artefice di azione attraverso cui ritrovare il «fondo», il fondamento di se stesso.

(Giorgio Linguaglossa)

Paolo Valesio

Il sogno del Testimone (Dream Poem)

per Antonio Porta e la sua famiglia

Il Testimone siede su una panchina in Central Park a Manhattan, guardando (vedendo e non vedendo) un piccolo gruppo di ragazzini e ragazzine che hanno improvvisato sul bordo del prato lì davanti una danza molto alla buona, accompagnata da tamburelli. Gli vengono in mente brandelli di una poesia letta chissà dove chissà quando:

A uno dei ragazzi si è slacciato
il nastro rosso, è volato
ai limiti del cerchio
e il ballerino non se n’è avveduto
non lo ha raccolto
perché era tutto raccolto
dentro il giro e il nodo di sé stesso.
Lui si è alzato
[…]
ha colto il fazzoletto lentamente
lo ha tenuto in mano
per tutta la durata della danza.
e quando il ragazzo sudato
si è toccato il polso nudo e, incerto,
si è guardato all’intorno,
gli è andato vicino e glielo ha porto
con la premura calma di una madre1

Quella stessa notte il Testimone ha fatto un sogno.

Improvvido,
il braccio nudo di Gesù improvviso. Punta dove? È un’indicazione
o una bene-male-dizione? Assorto dal bruno della pelle, dall’atletica scarnità
gli sembra vedere una fila di anelli di rame,
semplici cerchi spogli eppure magici – quella piccola
magia selvaggia che era nelle spoglie del Battista: pellli
e denti d’osso in asole di cuoio; e il legno polito,
fino alla traslucenza del suo bastone, e la ciotola
dove il miele è oramai tutto leccato.

Anelli che agganciano sottili in spire
anche i Samaritani, i Siro-Fenici, quelli delle frontiere, gli idolatri
i tantissimi che lasciano negli occhi altrui
la perplessità dello sguardo – anelli che abbracciano
con amore-corrosione
consumatrice di ogni distinzione fino alla non differenza.

Ma il braccio di Gesù rimane nudo, e quegli anelli debbono esser stati
illusione dell’aria: granulata e rutilante
cortina di perline tintinnabulante
in canti “clang” silenziosi
che si travedono come
gioiell8i-essudazioni del calore

(New Haven-New York) Continua a leggere

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Edith Dzieduszycka, 4 poesie da Ingranaggi, Progetto Cultura, Roma, 2021, pp. 100 € 12, Piccola Antologia di poesie, Lettura di Giorgio Linguaglossa, Video poesia di Diego De Nadai

Si hanno «ingranaggi» quando tra due corpi vi sono dei punti di contatto. Sono i contatti che muovono gli «ingranaggi», quelli fisici e quelli psicologici, propriamente umani; ma negli esseri umani la questione è terribilmente più complessa perché i contatti sono per lo più inconsci, è l’inconscio che decide del quoziente di contatti che avvengono, e quindi di ingranaggi che noi mettiamo in essere. Ecco la problematica squisitamente esistenziale che Edith Dzieduszycka sviscera in questo libro. Poesia esistenziale questa della poetessa francese di adozione romana che non smette di interrogarsi e di interrogare la questione della condizione umana. A che punto è la quaestio degli «ingranaggi» oggi?, si chiede la poetessa. Accade che un eccesso o un difetto del numero di contatti può degenerare in uno stop degli «ingranaggi». La macchina umana viene vista come un complicatissimo meccanismo di ingranaggi archimedici e cibernetici fatti con buonissimi propositi ma che alla fine cagionano una implosione, un arresto, uno stop.
Giorgio Agamben pone la questione dei «contatti» in questi termini: «Giorgio Colli ha dato un’acuta definizione affermando che due punti sono a contatto quando sono separati soltanto da un vuoto di rappresentazione. Il contatto non è un punto di contatto, che in sé non può esistere, perché ogni quantità continua può essere divisa. Due enti si dicono a contatto, quando fra essi non si può inserire alcun medio, quando essi sono cioè immediati. Se fra due cose si situa una relazione di rappresentazione (ad esempio: soggetto-oggetto; marito-moglie; padrone-servo; distanza-vicinanza), essi non si diranno a contatto: ma se ogni rappresentazione viene meno, se fra di essi non vi è nulla, allora e solo allora potranno dirsi a contatto. Ciò si può anche esprimere dicendo che il contatto è irrappresentabile, che della relazione che è qui in questione non è possibile farsi una rappresentazione».1
Così, nella poesia”I pescatori” i personaggi scoprono che sono presi in un gorgo, in un medesimo «ingranaggio» che non lascia scampo, almeno fino a quando non si avrà il coraggio di dire: «Non vogliamo», come recita l’ultimo verso della poesia. E così termina la poesia, con l’ultimo verso posto come un semaforo rosso. Il colore del diniego e del rifiuto può essere la chiave di volta che apre i mondi dell’esistenza, dire «No» è molto più importante del dire «Sì», rende inoperoso il «Sì», lo debilita, lo disarma, e ci rende più umani. Il libro dunque ci racconta la storia dell’attraversamento del territorio del «No», un «Non vogliamo» in grado di spezzare gli «ingranaggi» con cui la socialità con le sue leggi implacabili ha irretito le esistenze degli uomini del nostro tempo.

(Giorgio Linguaglossa)

1 https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-filosofia-del-contatto

Quattro poesie da Ingranaggi (2021)

Signor Raggiro

Caro signor Raggiro
tra rosa fra le dita e fetido concime
tra brandelli e stracci

ma con il cuor in mano
la schiena curva dall’artrite sotto l’abito nuovo

a Lei senza timore
perfino con speranza e un grande rispetto
quest’oggi mi rivolgo

convinto di trovare
in Lei
un orecchio attento

mi dica signor Raggiro
quanti siamo scongelati
con tacchi a spille o luride ciabatte

quanti siamo a chiedere – e a chi poi? –
verso quale meccanico di quale Quartiere Generale
possiamo elevare questa preghiera ingenua?

dove quando andremo nel paese del Dopo?
Credo siamo in tanti
a provare sgomento a tale proposito

caro signor Raggiro
per favore mi dica
ha notato per caso questa cosa

un’altra che trovo io ben strana?
me la spieghi La prego
se mai ci ha pensato

si tratta di una domanda
che nessuno mai si pone
salvo pochi ingenui

sul Dopo sì va bene
facciamo ipotesi del tutto strampalate
e ci preoccupiamo

per noi cibo da vermi
inquinati frammenti
rimane però oscuro un punto da chiarire

chi ci racconterà e c’illuminerà
su quel che facevamo
alla bassa marea nel paese del Prima?

 

I pescatori

Sulla riva del fiume un bel giorno d’estate
a distanza normale – che vuol dire normale? –
s’erano sistemati su scomodi sgabelli

due pescatori

a terra il materiale
scatola per le esche mosche vermicellini
ami e mulinelli

canne grande cestino
In tuta verde loro
con capelli a visiera

mollemente distese su pieghevoli sdraie
le mogli in disparte si annoiavano
leggendo poesie forse facendo finta

più passava il tempo
meno mordeva
la preda

malgrado gli ampi gesti
da mulino a vento
per buttare l’arpione

si alzò irritato uno dei pescatori
s’avvicinò all’altro
con fronte corrucciata

mi dica – se lo sa –
da un bel po’ di tempo
mi tormenta un pensiero

forse sono venuti
il momento e il luogo
per chiederci

da dove ci arriva la Coscienza del Sé
con Libero Arbitrio
sedicente a rimorchio?

chi ci ha caricati
sulle spalle quel peso?
mi dica – se lo sa –

di quale utilità per noi
è il capire
che ora qui ci siamo

tra che cosa
e chi sa
qual altra cosa ancora?

ben presto dall’arpione
verremo acciuffati
e non ci sarà modo di dire

non vogliamo.

La crepa

In un angolo perso o distratto o nascosto
– ancora non lo so –
del mio giardino rosa
mi sono rifugiata una sera di spleen

Sarà perché mi piace la parola
-giardino –

mi suona dentro furtivo campanello
parola dondolante incerta
a metà strada fra terra acqua e cielo
festa fragrante

in fondo al mio giardino diventato selvaggio
tra invasivi rovi erbe cattive sassi
si cela una crepa
un passaggio segreto

nella materna terra ove striscianti
cadono man a mano le cose
che non so più chiamare

il mio giardino rosa blu verde o grigio
– come oggi m’appare –
a volte bianco neve che in pianto si scioglie
sulla traccia del giorno si lascia andare stanco

ha sete
il mio giardino

e si sta consumando nell’autunno che vira
e volta sulla ruota
che mi sento girare
in fondo alla pancia sulla panca di muschio

il mio giardino a volte
raramente fiorisce
è poco – voi direte –
ma non è vero niente

fiori preziosi e rari dalla melma bocciati
in me sento fiorire
semi d’ombra e fragranza. Continua a leggere

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Poesie di Alfonso Cataldi, Il disallineamento fraseologico e la contaminazione nella poesia di Alfonso Cataldi, a cura di Giorgio Linguaglossa

Alfonso Cataldi è nato a Roma, nel 1969. Lavora nel campo IT, si occupa di analisi e progettazione software. Scrive poesie dalla fine degli anni 90; nel 2007 pubblica Ci vuole un occhio lucido (Ipazia Books). Le sue prime poesie sono apparse nella raccolta Sensi Inversi (2005) edita da Giulio Perrone. Successivamente, sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste on line tra cui Poliscritture, Patria Letteratura, il blog di poesia contemporanea di Rai news, Rosebud.

Riguardo i versi immaginifici di Marie Colasson, Pietro Montani, in Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica (Cronopio), formula l’ipotesi che «la principale funzione del sogno sia proprio quella di affrancare l’immaginazione dalla tendenza annessionistica del linguaggio verbale». L’immaginazione tende a preservare e manutenere la sua componente intuitivo-percettiva (la irriducibile bizarreness), messa però sempre più a dura prova dalla tecnologia, capace di leggere e interpretare archivi digitali sconfinati e rendendo subalterni gli apparati organici umani. In questo scenario, Montani si augura nelle arti più coinvolte dalle innovazioni tecnologiche, una progressiva “disautomatizzazione” tendente a farle assomigliare sempre più ai sogni. La poesia contemporanea, attraverso il polittico-sogno, può recuperare dagli strati arcaici della psiche tracce remote appartenenti all’in-fans.

(Alfonso Cataldi)

Poesie di Alfonso Cataldi

Mai vista una strategia così spudorata
puntare solo sulla consapevolezza della fortuna.

Le controverse rotondità della regina di picche
vennero eterordinate dalle incredule smerigliature.

L’eterogenesi arriccia uno sbadiglio la sera di Natale
calano le perplessità acquisite dall’alta definizione

– Preferisci una mano a ramino o i tarocchi?
– Che mi smonti la plafoniera dell’androne.

Un quarto di giro antiorario. Una leva eccentrica o tre viti.
Nureyev si dilegua da una scala di servizio

troppo alta per gli agenti del Kgb
e inaccessibile, come da regolamento condominiale da scrivere

approvare, firmare e affrancare.
Il sole soffocante sul consesso non lasciava alternative.

La masnada improvvisò una risata.
Nell’ultimo trasloco è andata persa la filigrana.

La boccia fa una carezza al boccino e si allontana verso la cassiera
Gesù o Barabba libero

al minimarket non fu mai pronunciato.

***

La filantropia dietro ai nodi scorsoi
redige editoriali fluenti sulla dicotomia su Mangiafuoco.

Flussi di singolarità rovistano le prime serate.
Al Bataclan nessuno immaginava matrimoni riparatori.

Gli eventi sono più veloci delle teorie
e il pop e derivati è ancora con la testa sotto la sabbia.

Qualcuno torna a parlare agli scogli.
Ancora pochi. L’àncora filosofale.

La reception dovrà spiegare cosa sono tutti questi generali
a cavallo, appesi alle pareti.

Ferirsi o dileguarsi?
E se fossero due eccezionalità che si rincorrono?

“La Mesopotamia oggi è quasi interamente occupata dall’Iraq
da circa trent’anni assediata dalle guerre…”

«Guerre, guerre e ancora guerre… basta, non studio più.»
Sofia lancia il libro dalla parte opposta della cameretta.

Sogna il primo strato di pelle, di non alzarsi la mattina
rifiutare 80.000 € per una pratica qualunque.

****

Il cartoccio di vino rosso dell’Eurospin
partirà sotto protezione

dopo un anno di catarifrangenza dal marciapiede.
Chi poteva immaginarlo? Nessun albero è fermo

sopra l’uomo che non sa deglutire.
Aritmie alla mano ispirano racconti autobiografici

o divine commedie trascurabili nel cosmo.
«La scimmia antropomorfa ha scritto il libro zero – uno – zero

battendo a caso sulla tastiera.»
Il file dat tiene traccia degli accessi

non delle manipolazioni
mancando talent scout di manipolatori.

La mente degli hacker ricorda un bunker.
Comunque vulnerabile. Più un covo

con il disordine proporzionale alle illusioni
scoperte nelle email. Il conto alla rovescia è cominciato

Mr. Robot è distratto dagli sfondi colorati
che non concedono attenuanti, né speculazioni.

Prometeo ha patteggiato il microchip sottocutaneo
dopo quattro estenuanti ore di chat.

Giorgio Linguaglossa
Il disallineamento fraseologico e la contaminazione nella poesia di Alfonso Cataldi

Possiamo dire che la poesia di Alfonso Cataldi si nutre della différance, agisce tra gli spazi semantici, sui disallineamenti fraseologici e semantici, sulla contaminazione figurale e iconica, sul dislocamento del soggetto empirico il quale non si limita semplicemente a cambiare di «luogo» ma modifica, con la sua stessa dis-locazione, in profondità, il senso del «luogo» medesimo e il suo stesso statuto fenomenologico. Cataldi parte dalla assunzione di Derrida secondo il quale «la traccia è infatti l’origine assoluta del senso in generale. […] La traccia è la dif-ferenza che apre l’apparire e la significazione».1

Il disboscamento del senso perseguito da Cataldi con estremo rigore va a sbattere però contro il muro impermeabile della significazione che tende a ripristinare sempre di nuovo il senso nonostante tutti gli sforzi per abolirlo. Il senso è inestirpabile, in quanto agisce simultaneamente alla disparizione della traccia, è la traccia stessa che lo crea.
È il passaggio argomentativo che Derrida indica esplicitamente a proposito del rapporto traccia-origine, quando, dopo aver scritto che «la traccia è infatti l’origine assoluta del senso in generale», aggiunge subito dopo: «il che equivale a dire, ancora una volta, che non c’è origine assoluta del senso in generale».2 Il senso non avrebbe luogo senza la scrittura che contiene il progetto, la posta, la promessa, la missione, la scommessa, l’invio del secondo senso che è già lì contenuto nella fraseologia prima. Quest’ultima, la prima, si sdoppia anticipatamente. E così via. Nella variazione-ripetizione capita che dato che la seconda fraseologia abita la prima, la ripetizione aumenta e divide, spartisce anticipatamente la fraseologia che precede in un movimento di smottamenti successivi tesi a disabilitare il senso purchessia. Il discorso poetico vive così della e nella disabilitazione del senso.

La contaminazione.

Non si dà trascendentale puro in sé, ma contaminazione differenziale del trascendentale e dell’empirico. La contaminazione è il campo proprio della forma-poesia della nuova ontologia estetica. Trascendentale non è più la soggettività, ma la traccia, l’archi-scrittura, la différance. Il mondo ha bisogno di un supplemento di nulla che è nel mondo, ha bisogno di questo nulla supplementare che è il trascendentale e senza del quale nessun «mondo» potrebbe apparire. La scrittura cataldiana rivela il «nulla» del mondo e lo benedice, perché è soltanto grazie ad esso che un «mondo» può esistere.

Proprio questa rappresenta l’altra operazione fondamentale compiuta da Cataldi: decostruire la versificazione della tradizione soggettocentrica della poesia italiana implica il far emergere la contaminazione dell’empirico e del trascendentale, mostrare che il trascendentale non può essere puro ed epifanico e pienamente presente a sé, in quanto contaminato dall’empirico da cui sorge e da cui viene intaccato; l’empirico a sua volta non è «meramente empirico» nel senso tradizionale, ma è una singolarità, una contingenza che apre un senso.

Il senso è dato da nient’altro che dalla contaminazione fraseologica. È l’assetto fraseologico, l’empirico, che costituisce il soggetto trascendentale, apre ad una temporalizzazione e crea il senso.
Un atto linguistico può fallire o essere trasposto dal suo contesto originario, questa possibilità gli appartiene necessariamente e l’atto linguistico è quindi tale per cui deve poter fallire ed essere reduplicato in un contesto differente. Se una lettera può sempre non arrivare a destinazione, questa possibilità appartiene necessariamente all’essere stesso della lettera e di ogni messaggio.

La scrittura poetica di Cataldi  funziona in automatico: in assenza del mittente, del ricevente, del contesto di produzione, del messaggio, dell’epifania, del contesto storico e stilistico etc., ciò implica che questo potere, questa possibilità è sempre inscritta in essa come possibilità del funzionamento stesso della scrittura. La possibilità dell’assenza e della morte costituisce la scrittura come tale, fin dall’inizio, marcandola. Potremmo dire che la scrittura poetica di Cataldi è a-eventuale, non considera l’evento come indispensabile elemento del discorso poetico.

Perché un evento sia veramente tale, deve essere assolutamente singolare, altro, imprevedibile, inanticipabile e incondizionato. In questo senso, l’evento è l’accadere dell’impossibile, perché se fosse solo l’accadere di un possibile già pre-ordinato, pre-visto e garantito non sarebbe un evento. Ma è che l’evento nella poesia cataldiana altro non è che la variazione-ripetizione di un evento pregresso, ergo il discorso poetico si può configurare solo come il luogo di un evento sempre-uguale, non più singolare, ma generico, empiricamente caduco in quanto informazionale.

1 J. Derrida, De la grammatologie, tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi,G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, p. 94
2 Ibidem, p. 97

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Franco Di Carlo, Il naufragio dell’essere, poemetto inedito, con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, L’io non è più il soggetto attivo dell’esperienza, L’inautenticità è divenuta la condizione base dell’esistenza

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L’io non è più il soggetto attivo dell’esperienza. L’inautenticità è divenuta la condizione base dell’esistenza

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismoil romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G. Bonaviri; Le stanze della memoria (1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013) con prefazione di R. Utzeri; è del 2019 La morte di Empedocle.

Giorgio Linguaglossa Franco Di Carlo 5 ot 2017

da sx Franco Di Carlo e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2017

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Gianni Vattimo ha affermato a metà degli anni ottanta che il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo è la tendenza «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico». Oggi, nell’epoca che segue il post-moderno, la tecnologia è la diretta conseguenza del dispiegamento della metafisica, ecco spiegata la ragione del grande ruolo che la «tematica» svolge nella poesia di Franco Di Carlo. Il poeta diventa pescatore di perle e di stracci, di plastiche marine e di rottami di antichi velieri. Walter Benjamin ha intuito con grande acume che il filosofo e l’artista devono diventare dei «pescatori di perle», devono soffermarsi su oggetti apparentemente non degni di attenzione, sugli «stracci», su aspetti generalmente ritenuti trascurabili e negletti dallo sguardo ufficiale degli addetti alla narrazione culturale. Questi oggetti, questi luoghi privilegiati sono i frammenti che la megalopoli globale mette in mostra nelle sue vetrine e nei suoi passages capaci di investire i passanti con continui choc percettivi. Il mondo moderno è una archeologia di traumi e di miracoli, di frammenti impazziti che sostituiscono la contemplazione statica da un punto di vista esterno con la «fruizione distratta» di un punto di vista in movimento.

Per Walter Benjamin «l’immagine è dialettica nell’immobilità», e le immagini si danno soltanto in «costellazioni» tematiche o iconografiche. Ecco spiegata la struttura iconologica della poesia di Di Carlo, una poesia fitta di stratificazioni mentali, di anelli frastici concentrici.

Il pensiero poetico contemporaneo sta cercando di affrontare, affidandosi al linguaggio della poesia, gli spazi che la filosofia post-moderna e la filosofia «debole» di questi ultimi decenni hanno aperto all’orizzonte come possibilità di raccontare la vicenda umana. Il linguaggio poetico di Franco Di Carlo vuole tentare le colonne d’Ercole  dopo l’avvenuto «naufragio dell’essere», vuole andare «oltre la linea del fuoco… La linea della soglia…[dove c’è] un varco [di] ceneri e rovine. Detriti… valori morti… Lì ora dimora la parola. E la sua ombra». Il pensiero poetante vuole affacciarsi alle interrogazioni sulle condizioni dell’esilio dall’esistenza. L’io non è più il soggetto attivo dell’esperienza ma un io ripiegato su se stesso, che sa che «Si vede forse/ un nuovo orizzonte,/ L’ultimo./ L’inizio di un passo nel nulla…», ma è esausto per il lungo cammino intrapreso, ormai mancano le forze. La pasoliniana «libertà espressiva» è diventata «La libertà di scegliere la morte… Nel frammento./ O pure la morte del frammento. O il frammento/ della morte». È qui in questione la  stessa possibilità del pensiero poetante di pensare di andare oltre la «soglia». Ma intanto la storia procede, le domande sono sempre più numerose e il pensiero poetante non riesce ad abbozzare «una» risposta.

Nell’epoca del declino dell’Essere «Tutto è dileguato ormai. L parola noetica/ e quella intuitiva e poetica», «La patria è lontana e irraggiungibile», il cerchio si è concluso «Dal Mythos al Logos. Dal Logos al Mythos». L’inautenticità è divenuta la condizione base dell’esistenza umana, e il pensiero poetante non può che naufragare nel cincischiare del si inautentico. Per Heidegger il ricordo (“Erinnerung”) della verità dell’essere «costituisce […] la radice dell’esistenza autentica […], la dimenticanza della verità dell’essere (“das Vergessen der Wahrheit des Seins”) come ricordo ed elaborazione della verità dell’ente, è lo stesso costituirsi della metafisica tradizionale nella direzione ontica dell’ontologia».1

Per Di Carlo la caduta nella certezza del Nulla è, dopotutto, confortante, il poeta di Genzano prova un abbacinante godimento nel naufragio dell’ente, nel rilassamento (Gelassenheit) che interviene un attimo prima del compiersi del naufragio, essendo l’esistenza nient’altro che questo attimo che si prolunga in vista del naufragio.

Tutto il poemetto è venato da questa sorta di spossamento e di rilassamento, quasi una resa dinanzi alla constatazione del declino della civiltà occidentale, «possiamo solo ragionare sul linguaggio» scrive Di Carlo, sulle modalità di comporre in linguaggio la questione ben più scottante del «naufragio dell’essere», che non può non coinvolgere anche il naufragio del linguaggio quale suo epifenomeno. Di qui il tono da epicedio, quasi un salmodiante incespicare dei versi, e tra i versi, irregolari e acuminati, disposti senza alcun ordito o ordine apparente.

È tutta l’impalcatura del pensiero poetante che rischia in ogni istante di periclitare e soccombere sotto la pressione di soverchianti forze divergenti che tendono a portare a dissoluzione la struttura metrica e il lessico oscillante tra le parole della metafisica filosofica e quella poetica, in una commissione graffiata e adulterata che il linguaggio del pensiero poetante trascina con sé insieme alle rovine, ai relitti e ai detriti della storia.

1 M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, Adelphi, Milano 1995, p. 84

 

Franco Di Carlo

Il naufragio dell’essere

Oltre la linea del fuoco.
C’è un luogo.
Tragico e sacro. Qualcosa di scritto.
E anche di detto.
La linea della soglia. Un limite. Un confine. Forse
un varco bianco.
Ceneri e rovine.
Detriti sopra l’abisso e il deserto. Valori morti.
Lasciati e finiti.
Lì ora dimora la parola. E la sua ombra.
Al termine del viaggio e della caduta. Si vede forse
un nuovo orizzonte.
L’ultimo.
L’inizio di un passo nel nulla. Un passaggio.
Lucente.
La libertà espressiva.
La libertà di scegliere la morte. Lo spavento
notturno.
Nel frammento.
O pure la morte del frammento. O il frammento
della morte.
L’amore per l’arte e un eros dispiegato e amichevole.
L’enorme diviene normale.
E la regola l’abnorme.
Resistenza contiene le déréglement du néant.
E il suo avanzare.

Strappi. Residui.
Lacerazioni. Resti. Pezzi. Rottami. Rimanenze.
Discordie e Dissonanze.

La parola si muove in questa vicinanza nostalgica.
Ormai quasi distrutta.
Prossima alla fine.
Pensiero e poesia cercano diverse forme. Espressioni
nuove.
Nell’Epoché divisa.
Nel taglio del tempo che spezza e separa.
Vie diverse tra sentieri
ininterrotti o semplici segnali. Troia è ormai
bruciata. E Odisseo
e Enea non torneranno più
per fondare o ritrovare
città morte.
La patria è lontana e irraggiungibile.
Dal Mythos al Logos. Dal Logos al Mythos.
Tra scorie e scarti. Schegge.
E non nasceranno più
nuovi regni (dell’esilio). La mente non può
più rappresentare il nulla.
Né l’antico. Né il passato.
L’Essere è frantumato. Fatto a pezzi.
Incenerito.
Come l’io e il soggetto. Dimidiati. Spezzati.
Separati. Divisi.
Tutto è dileguato ormai. La parola noetica
e quella intuitiva e poetica.
Mitica.

 

La conoscenza immaginativa e la sua idea concettuale.
E il Mito inespresso (finché è vivente).
E l’ansia postuma del Post-moderno.
È necessario
un pensiero radicale che va al di là dell’idea
manieristica del nulla.
E dei modi e delle mode del Moderno ormai morto.
E della sua cadaverica copia post-moderna ormai annebbiata.
Del male e del Caos.
È inevitabile effettuare una sosta.
una riflessione. Una pausa. Un cammino lento.
Nel nulla.
Qualcosa di scritto. Un’orma. Una traccia.
Non si può più solo ricordare l’Essere.
Ma dimenticarlo.
E creare una forma diversa.
oltrepassare il recinto e il confine.
Attraversare il Nulla. E l’Essere
del Nulla.
Il passo e il passaggio oltre
il limite dell’essenza del linguaggio.
Il luogo (spaziale) dell’Essere e del suo Principio
ontologico. L’istante metafisico.
L’essere nichilistico. E quello positivo.
E il suo spazio temporale. Il taglio
teso. L’immagine temeraria.
Dell’Inizio.
Come intese Platone: l’Immagine mobile
dell’Eterno e del cielo. Continua a leggere

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Due poeti a confronto: La poesia-poema di Claudio Borghi e la poesia-frammento di Lucio Mayoor Tosi – Lettura di Mariella Colonna

Gif Shady Obese Albino-smallStrilli RagoMariella Colonna

La liturgia della parola di Claudio Borghi

 Claudio Borghi è un fenomeno singolare e isolato nel contesto culturale dei nostri tempi. E’ un fisico, e i suoi studi nelle discipline scientifiche sono la base culturale su cui costruisce un’opera poetica in cui il rigore del pensiero si fonde con l’adesione appassionata alla natura e al mondo in cui vive. Potrebbe sembrare un paradosso, in realtà è proprio da questo potenziale dissidio tra la prospettiva rigorosa delle scienze e l’amore per la poesia e la vita che nasce la suggestione e la singolarità delle sue opere. Segno espressivo emblematico di questo particolare sentire è il poemetto Rondini, tratto dalla prima sezione di Dentro la sfera (Effigie, 2014), il suo primo libro, di cui leggiamo le strofe iniziali:

Rondini cristalline in uno stupore di spazio
spargono linee in un’atmosfera senza vento,
lucide armonie, folate di idee, immagini increate.
Chiusa in un castello di musica la città di vetro,
la luce bagnata da un disegno di rami in fuga,
sempreverdi, di foglie fiorite
come giovani volti illuminati.

Di Borghi, in una lettera citata nella sezione finale di Dentro la sfera, Giorgio Barberi Squarotti ha scritto:

“Il suo discorso poetico è al tempo stesso concettuale e visionario, e il ritmo è un poco solenne e rigoroso, come compete al sacro a cui tende fortemente”.

Pur non avendo letto questo commento di Barberi Squarotti, percorrendo la difficile e coinvolgente strada della lettura di L’anima sinfonica, Dentro la sfera e, in parte, La trama vivente, ho colto immediatamente il carattere liturgico della parola poetica che si distende in lunghi percorsi, scorrendo e restando ferma ad un tempo come un silenzioso corso d’acqua dalle sorgenti dell’io all’oceano sconfinato dell’Uno. Come l’acqua che scorre, fluido titolo di un libro e racconto molto intensi della Yourcenar, le parole di Borghi si sciolgono l’una nell’altra facendo emergere dal profondo immagini della quotidianità che, nella vibrazione solenne dei versi, acquistano il senso di un religioso (dal latino re-ligare, nel senso di collegare stringendo rapporti) e continuo passaggio dalla realtà conosciuta a quella misteriosa in cui mondo e umanità sono immersi, e che il poeta cerca di esprimere con analogie, metafore e semplici evocazioni del proprio vissuto.

Giorgio Linguaglossa, commentando La vera luce (da La trama vivente, Effigie, 2016), vede nei versi di Borghi “movimenti o sequenze musicali”:

“Molte composizioni sono strutturate come movimenti o sequenze musicali: iniziano con un Cerimoniale lento e rigido che scollina in un Allegro moderato, per poi, subito dopo, alleggerire il tono mediante l’inserimento di un Lamentoso cantabile, molto legato; quindi, di nuovo, ecco un Allegro capriccioso che sfocia in un Vivace energico che si alterna con un Adagio mesto e un Allegro maestoso, fino a giungere ad un Andante misurato e tranquillo. Un pensiero poetico incastonato in una partitura musicale, suddivisa in più movimenti melodici e ritmici”.

La vera luce

Nel viaggio millenario si rinnova
l’onda dell’essere che sviluppa
una storia senza scrittura:
semplice dettato di emozione
il creato si imprime
sulle pareti della percezione,
sullo schermo degli occhi
o sulla volta risonante degli orecchi,
rimandando ogni cosa alle altre
e tutte intonando la forma del principio,
necessaria, presente,
viva eppure gratuita, assente,
quasi morta mentre su di sé
si richiude e ripiomba.

(…)

Strilli LeoneStrilli GiancasperoNon posso essere che d’accordo con Linguaglossa: il rapporto tra poesia e musica è originario e strutturale, ma occorre analizzare la differenza tra i linguaggi delle due forme d’arte per cogliere nello specifico la poesia di Borghi. Linguaglossa sottolinea il “movimento lineare”, il cui andamento non prevede spezzature improvvise, discontinuità e circolarità del tempo, irregolarità sintattiche e così via, che invece connotano le opere dei poeti della NOE. Credo che la quasi sacralità dei versi di Borghi esiga un andamento lineare; occorre inoltre rilevare che in essi le varianti esistono, ma sono da ricondurre alle immagini e ai messaggi e significati che non sempre sono lineari, anzi, molto spesso sono cadenzati dal ritmo stesso del cuore: sistole e diastole, come nella poesia La vera luce. Accade che mente e cuore del poeta si sollevino nella contemplazione, poi un’inspiegabile melancholia lo afferra e il fiore, che era sbocciato in tutto il suo splendore, si richiude, appassisce. I versi scorrono con il ritmo lento inarrestabile della stessa vita in quello che ha di più sacro: la contemplazione della natura, il mistero dell’esistere e il cosmo come espressione di un ordine supremo. C’è, tuttavia, qualcosa che rende difficile una lettura senza interruzioni: mentre, come ho già accennato, l’attrito interno tra le prospettive della scienza e quelle della poesia che ne caratterizzano il pensiero non intacca, anzi esalta la capacità che il poeta ha di abbracciare un vasto campo di argomenti e di individuarne gli invisibili legami, l’andamento dei versi, il loro ritmo, si svolge in modo uniforme e, come dice Linguaglossa, con un movimento rettilineo. Da una parte questo ritmo, che tende a livellare le differenze nell’esprimere il sentimento dominante dell’Uno a cui tutto – e prima di tutto l’anima del poeta – si rivolge, è percepito come un procedere senza scosse e inevitabilmente senza sovvertimenti, sorprese o colpi di scena e quindi prevedibile; dall’altra è proprio questa consustanzialità solenne del linguaggio nelle poesie e nell’insieme del poema a creare quel senso del sacro individuato da Barberi Squarotti e che io ho chiamato liturgia della parola.

Abbiamo visto come Linguaglossa, nel presentare La trama vivente, sia riuscito a sentire la profonda analogia tra la poesia di Borghi e la musica fino a trovare, nei versi del poeta, scansioni ritmiche equivalenti all’ “Allegro moderato” fino ad un “Andante misurato e tranquillo” passando per un “Allegro capriccioso” un “Vivace energico” e così via. E’ evidente che ad ogni lettore o critico arrivi il messaggio da cui la sua sensibilità si sente più attratta e coinvolta, e credo sia un ascolto rivolto soprattutto ai suoni che genera la sensazione di uniformità e moto rettilineo. Con sorpresa, procedendo nella lettura, mi sono convinta che la musicalità, o addirittura la musica dei versi di Borghi non vada letta come quella che si rinviene in uno spartito musicale, ma come un’armonia da cercare in profondità tra sinergie, sinestesie, contenuti, immagini, situazioni, colori e la forma in cui vengono espressi. E’ una musica che deve arrivare non tanto alle orecchie, quanto al centro profondo dell’anima di chi si dispone ad ascoltarla: una musica non di suoni, ma nata dal silenzio contemplativo e destinata al silenzio e alla contemplazione. A ben vedere nella grande musica il suono non è un fine, piuttosto un mezzo per raggiungere l’anima e l’intelletto; ma nella poesia l’ascolto va spinto ancora più in profondità, in estensione anche temporale e nel silenzio, se teniamo conto che il suono distrae dalle recondite armonie che l’anima riesce a captare, grazie ad un insieme di facoltà in cui si impegnano le infinite possibili varianti del linguaggio come significato e come significante, cioè come forma. Nella musica, quando non si risolve in superficiali effetti sonori o astratte armonie ma coinvolge il flusso profondo, quindi il movimento unico dell’Essere, i significati volano liberi da qualunque tentativo di imprigionarli in uno schema mentale o linguistico. Credo che, per comprendere il senso ultimo dell’opera di Borghi, sia necessaria un’apertura ai contenuti e valori a cui l’autore fa riferimento: e ciò richiede che almeno in parte si condividano tali valori. Ma anche chi non li condivide può, con un volo mentale e un tocco di immaginazione, superare il senso di smarrimento che si prova navigando nell’oceano di quest’opera e cercare in quelle profondità la poesia, le immagini, i colori. 

Cito, da Dentro la sfera, alcune strofe di Nel tempo solo senza musica:

Nel tempo solo senza musica, solo e senza musica
e luminoso il sole si corica sul letto viola
del lago, dove la conoscenza è evidenza
e indistinta la potenza diventa particolare
immedesimandosi in un movimento puro senza esistenza

le onde tutte della luce fasciano il pianeta
i corpi degli uccelli volano nell’atmosfera
la terra umida della notte
distesa si copre della grandezza manifestata del giorno
e non so come chiedere alle parole di piegarsi
sulle cose, come pensarle, come venire al bocciolo
dell’apparenza presente che si mostra
e si offre, del volto più puro che si alza

fino all’azzurro incontaminato
(…)

 

Qui non è facile parlare sostituendosi alle parole, bisogna invece far parlare le parole, sprofondare nei significati della poesia perché le parole perdano la durezza di significanti e si associno liberamente grazie alle loro sinergie, ai loro contrasti, al loro legare e sciogliere i misteriosi legami che le avvicinano e le allontanano, ai colori dal cui contrasto nascono segrete, appena percepibili analogie.

Da Visioni da una camera quadrata, in L’anima sinfonica: 

Uno scoiattolo si impadronisce del vuoto. 

Il bianco è un’assenza di suoni.

Rimane una fuga di pensieri tra le erbe alte.

In questi versi, di solo apparente semplicità, vedo tre frammenti assai ben organizzati e un linguaggio molto attuale: lo scoiattolo che si impadronisce del vuoto è un’immagine surreale assai suggestiva, una metafora ardita; il bianco è un’assenza di suoni è un’associazione coraggiosa tra il colore bianco e il silenzio; il terzo verso è il più facile da comprendere: la metafora dei pensieri che fuggono tra le erbe alte si valorizza per il contrasto tra la velocità del pensiero e la statica presenza delle erbe che non possono né vogliono in alcun modo frenarlo. Ho commentato questi ultimi versi per far notare quanto siano fuori luogo e ingombranti le parole quando cercano di spiegare l’inspiegabile. La poesia è mistero e le parole possono tendere verso il mistero, alludere ad esso, ma non potranno mai raggiungerlo. Se accettiamo questo limite, forse le parole silenziose ci diranno molte più cose di quante ne abbiamo capite e scoperte noi usandone troppe con lo scopo di interrogare la realtà: la poesia vera parla all’anima, in perfetto silenzio.

Da La trama vivente:

Lascia il microscopio, lascia il telescopio, deponi gli strumenti che ti prolungano nello spazio. Guarda solo con gli occhi. Lascia l’immaginazione, smetti di dipingere, di matematizzare la varietà. Il quadro è dato, chiuso e concluso. Riluce l’illusione del cosmo, soffia il fiato divino che tempera le forme e le pervade di tremori impercettibili, quando nasce il sole e tutta si sfoglia, tenera, la mattina.

Nel vuoto si perde il profumo dei sensi e il chiarore raggiante della mente, la cui essenza è contemplativa: non le è concesso creare, solo plasmare idee e raccoglierle nella memoria, che dentro si compone finché una lama anonima la separa dal corpo della visione. Dal centro al non confine della sfera inconcepibile non c’è storia. Solo una quiete esplosa, che annienta ogni immaginazione o volontà infantile di possederla.

Monadi solitarie vagano come particelle in sospensione in un fluido, atomi zigzaganti tracciano traiettorie browniane, incerti labirinti da cui la matematica fa emergere la traccia statistica di una regolarità, il senso precario di una soluzione.

Nel vuoto, reso a tratti magnifico dal fiorire imprevisto di novità, la poesia cerca animandosi di trovare l’ebbrezza della sua sopravvivenza, nella dinamica fine a se stessa di un ritmo che senza soluzione di continuità si rinnova di parola in parola, di verso in verso, inanellandosi, inviluppandosi, naufragando nel cerchio immobile della presenza del tempo.

Niente so della vita nelle cose, ma della vita posso disegnare i corpi che fuggendo sulla tela corrono come spinti da una forza michelangiolesca, soffiati da un turbine perenne, i corpi inquieti che si cercano per fondersi, si toccano e si amano per sentirsi l’un l’altro vivi.

Mariella Colonna, 20/08/2017

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I cromatismi e la poesia per frammenti di Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi è il caso più singolare di cui io sia stata diretta testimone da quando frequento il gruppo di poeti della NOE e la Rivista Internazionale L’Ombra delle Parole. Lucio Mayoor è “nato” pittore astratto e ha fatto una lunga sperimentazione con i pigmenti come in una Bottega rinascimentale, partendo da una ricerca sull’origine e composizione della materia, che è alla base del suo particolare astrattismo, e approdando ad una straordinaria capacità di usare il colore in modo assolutamente “semplice” ma altrettanto significativo.

Egli crea frammenti di forma regolare quadrata o rettangolare, ma del tutto singolari nell’abbinamento dei colori che si associano liberamente anche a superfici corrugate, con tocchi, effervescenze, sfinimenti, aggressioni, defezioni, brevi accenni al mistero, che sono l’espressione, in arte, dei movimenti delle particelle nel vuoto a cui Mayoor ha dedicato da sempre la propria attenzione. C’è da sottolineare che egli non lo considera analogo al nulla, ma come un brodo primordiale dove individuare i percorsi iniziali dei fenomeni studiati dalla ricerca scientifica  fino a quelli in continuo rinnovamento della cultura e del linguaggio poetico più attuali. La ricerca del “nuovo” in Tosi non è mai fine a se stessa, ma orientata a compensare per opposizione “la perpendicolarità delle linee pavimenti – pareti – soffitto”, connotazioni che caratterizzano la tendenza italiana al “classico”. I frammenti Di Lucio Mayoor nascono, come egli stesso dichiara, dall’osservazione remota del microcosmo, ma del tutto casualmente . Ognuno di essi è indipendente dall’altro o da realtà artistiche a loro esterne. L’autore dice: “E’ stato l’apporto critico di Giorgio Linguaglossa a dare una scossa alla mia ricerca pittorica.” Il rapporto con Linguaglossa è forte e incisivo nella storia dell’artista: hanno anche provato ad associare i versi di due loro poesie e l’effetto era di un insieme  straordinariamente unitario.

Lucio Mayoor Tosi Sponde 1

Lucio Mayoor Tosi, Sponde, composizione

Lucio Mayoor sottolinea molto incisivamente l’interattività, una delle chiavi interpretative della creazione di un’opera mai abbastanza approfondite e comprese sia  dagli uomini di cultura che dai fruitori dell’arte: un’opera infatti continua a nascere e “crescere” grazie al momento della fruizione che la arricchisce di contenuti psico percettivi e di valori che nascono grazie allo “scambio” tra l’oggetto d’arte e chi lo osserva aprendosi al messaggio trasmesso dall’artista. I frammenti di Lucio Mayoor possono essere disposti in maniera sempre diverse dalla persona che li possiede: il fruitore dell’opera  può così partecipare al momento creativo scegliendo di associarli e di comporli di volta in volta in modo differente, lasciandosi ispirare dalle proprie intuizioni in materia di forma e di colore. E’nella dimensione dell’interattività che il frammento pittorico si incrocia in modo organico e sinergico al frammento poetico. Cerchiamo di individuare lo specifico che esplode per novità e originalità nel percorso di ricerca di Mayoor: l’immagine pittorica contiene in sé, potenzialmente, la parola e viceversa la parola contiene in sé l’immagine: ma sarebbe troppo facile e superficiale pensare questo rapporto in senso figurativo e descrittivo. Il “contenere in sé” di Lucio Mayoor supera l’aspetto descrittivo, è il nascere della parola insieme all’immagine: è un processo organico e non di complementarietà. Questa è la novità di Lucio Mayoor come interprete della NOE in chiave artistica e poetica: le sue opere di pittura tendono alla parola, sembra che la cerchino per trovare un completamento: e , viceversa, le sue poesie non solo contengono elementi di un cromatismo analogico e organico, ma tendono a configurarsi in colori e forme rigorosamente astratti. Tutto ciò avviene senza che l’autore si ripieghi mai su se stesso, o si compiaccia nel processo della creazione delle proprie opere.

Lucio Mayoor Tosi Interpretazioni coloristiche.png

Mayoor Lucio Tosi, Interpretazioni coloristiche

Lucio Mayoor è un raffinatissimo autore “di strada” nel senso migliore dell’espressione: cultura, letture appassionate, impegno nelle tecnologie sono come tra parentesi o meglio sottintese alle sue opere, mai esibite. La grafica della Rivista “L’Ombra delle parole” ha fatto un salto di qualità da quando l’ha vigorosamente presa in mano Lucio Mayoor. I pigmenti allo stato puro hanno reso l’idea del nuovo che nasce: oltretutto il nostro ha creato una ritrattistica cromatica di grande effetto, interpretando in modo personale Andy Warhol, direi un Andy Warhol mitteleuropeo, raffigurando e presentando i volti dei poeti con macchie di colore che sfumano verso altri colori per analogia o risaltano per contrasto, oppure danno rilievo in modo unitario ai tratti del personaggio con tinte forti.

Lucio Mayoor Tosi toys composizione di tre doppi frammenti

Lucio Mayoor Tosi, Toys, Tre doppi frammenti

Colpisce come   sia approdato alla poesia della NOE senza soluzioni di continuità, con grande naturalezza: Lucio è poeta non “letterario” ma alimentato da molta lettura ed esperienza di scrittura e con l’evidente consapevole conoscenza di tutte le regole: è poeta e basta, sia nel “dipingere”, sia nella scrittura: e sta elaborando, nella poetica della Nuova Poesia, soluzioni nuove ed originali: non disdegnando le immagini del passato, le rende “dinamiche “ accostandole a situazioni estreme da astronauta e addirittura lanciandole nel vuoto, senza alcun appiglio.

Crea “per frammenti come se respirasse”. Questa semplicità è spesso raffinata come, ad esempio, nella lirica Frammenti per Sally: i primi tre versi realizzano una dialettica tra colore e significato molto efficace, che si appoggia su una visione mentale più che reale del colore:

Frammenti per Sally

Oltre le finestre della casa non c’è nulla.
Solo bianco dipinto su se stesso.
Qualcuno lentamente scompare. Resto
in silenzio. Oltre il grigio vetro smeriglio
il lembo di una camicia a quadri. Molti
pensieri sparsi nell’aria come lucciole.
Cielo di tanti palazzi. Nello specchio
un uomo curvo con il cappello in testa.
Pare gobbo. Cammina a lunghi passi,
sempre guardando a terra. Il pollice
infilato nella cintura, con l’altra mano
tiene sottobraccio il bastone da passeggio.
Mi pervade una dolcezza senza fine.
Le stelle si stanno allineando, finché
musica le scompone. Una donna nuda
porta l’anfora piena di latte.*

*Sally è mia nipote. Oggi compie gli anni. Ho preso dei frammenti alla rinfusa, qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo, li ho confezionati ed ecco pronto un regalo per lei. Che senso ha? Dire che ne ha uno soltanto sarebbe sbagliato, dire che ne ha molti altrettanto. Qui il senso va da ogni parte perché non è svolgimento. Il puro frammento è come neve, polvere, atomi che interagiscono in una danza senza musica.

(Lucio Mayoor Tosi)

Questo “bianco dipinto su se stesso” è indescrivibile con altre parole, richiede le parole del prossimo verso: è e scompare “in uno”, cioè contemporaneamente…infatti “qualcuno lentamente scompare”: chi scompare? il colore, perché bianco su bianco scompare. Ma c’è anche l’ospite misterioso, il Signor Nemo…anche lui, abitante del “Nulla”, scompare insieme all’invisibile colore che lo ospita.

In Lucio Mayoor si sentono echi: assai poco della poesia del ‘900, Transtromer ma, soprattutto Giorgio Linguaglossa Gino Rago e Mario M.Gabriele, maestri della NOE, con i quali c’è piena sintonia e stima reciproca, in piena autonomia di scelte e prospettive culturali.

Altra espressione nuova e in cerca di completamento cromatico, nel verso 7: “Cielo di tanti palazzi”…qui il poeta associa l’idea del cielo a quella dei palazzi, contrariamente a quanto accade di solito: i palazzi, in città soprattutto, sembra che ci rubino la vista del cielo, invece lo sguardo di Lucio va oltre il limite imposto dai palazzi, che qui sostituiscono “la siepe” famosa che far scattare in Leopardi il pensiero dell’infinito, per sconfinare e perdersi nell’azzurro.

S’apre una porta

 Un notturno di seta deve essere passato
davanti alla casa in Illinois. La persona che stava piangendo
ora si vede al centro dell’umanità

dove tutti son voltati di spalle. E nudi.

 «Nessuno sa del silenzio che c’è qui».

«Giuro su niente che ti sarò fedele e darò la vita
per ognuno che passi, anche sbadatamente, nel mio
corridoio».

 « Nei libri di scuola si parla di rondini meccaniche
che
a primavera. E di scritture distratte. Pomeriggi assolati».

Le figure, insieme ai versi, si rintanano
nell’ombra.

 I primi tre versi: “il notturno di seta” è una metafora che evoca immagini d’ombra cangiante su questa casa magica nell’Illinois…Il seguito è invece drammatico e imprevedibile: La svolta improvvisa “al centro dell’umanità / dove tutti son voltati di spalle. E nudi.”: dal pianto la persona sofferente si trova all’improvviso nel cuore dell’umanità, in una posizione  importante, “centrale” e vede gli altri di spalle. “al centro dell’umanità / dove tutti son voltati di spalle. E nudi.”:  Sono tutti uguali, non c’è (più) differenza di persone e li vede nella loro nudità primordiale. C’è, nel cuore dell’essere, un silenzio che nessuno ascolta perché non ne ha consapevolezza. (Nuova Poesia Ontologica). Poi un altro salto di significati rafforzati dalla contraddizione: “Giuro su niente che ti sarò fedele…”. Non c’è commento che possa dire meglio con altre parole  ciò che è detto nei due versi che seguono: “Nei libri di scuola si parla di rondini meccaniche / a primavera. E di scritture distratte. Pomeriggi assolati”. Una primavera del futuro, cioè “utopica” perché la primavera, oggi, non esiste più, ma sui libri di scuola ai bambini la faranno immaginare annunciata da rondini meccaniche. Ci domandiamo: quale futuro?  Possiamo pensare a tutto quello che abbiamo appreso in materia…e i colori , chiari o tetri, passano veloci attraversando i nostri pensieri.

Lucio Mayoor Tosi Sponde

Lucio Mayoor Tosi, Composition per frammenti

La poetica di Lucio Mayoor Tosi è pittorica nel senso più completo e complesso della parola: egli fa poesia come dipinge, seguendo impulsi della mente e del cuore in contemporanea. La doppia componente artistica dà spessore alle immagini, come in

 Ballerine:

 Del pianista non si hanno notizie.
Vestiva sempre di nero, a volte una camicia bianca.
Aveva mani delicate.

 Qui il poeta fa un vero ritratto del pianista: lo vediamo, in bianco e nero come una rondine, le mani delicate sulla tastiera. Poi non lo vediamo più. Ma il pianista-rondine resta nella memoria e, pur non avendo lasciato notizie di sé, ci segue.

Presto il cielo azzurro farà da sfondo. Inizieranno
le parole il loro tour, di fianco a diapositive sorridenti.
Sul mare tranquillo vola bianca una breve storia.
Ora provo i cento modi per uscire di casa.
Senza le scarpe.

Nella poesia n. 3 di Ballerine gli ultimi cinque versi si impongono per l’originalità e freschezza delle immagini, per i ritmi espressivi che scivolano sulla riva del foglio e restano lì, intense di evocazione e di movimento appena accennato: il cielo e l’azzurro, il mare e l’azzurro percorso dal bianco…di quella breve storia che vola sulle onde: è un’idea nuova e di notevole fascino poetico parlare di una barca a vela come di una “breve storia” che scivola sul mare! Anche se l’estrema apertura poetica dell’immagine può far venire in mente altre interpretazioni. E poi l’apparente semplicità del finale che nasconde un modo di concepire la vita: si può uscire di casa in cento modi, ma Lucio sceglie di abbandonare la prigione delle scarpe. Sono questi tocchi di originalità assoluta che connotano la poesia di Lucio Mayoor, il suo affacciarsi all’universo delle parole con il desiderio di creare mondi alternativi e la gioia di esserci, di volta in volta, riuscito. La “poetica” su cui Lucio Mayoor fonda le sue opere è quella della NOE, ma l’artista ci aggiunge di suo questa immediatezza d’intuizione in cui si fondono e si esaltano a vicenda l’arte del colore-simbolo, sempre da intendere come qualcosa di diverso dal colore materiale e quella della parola.

Vorrei concludere con una poesia …d’amore. (già sento mormorii di disapprovazione: “in realtà è una poesia sul “nulla”…non tutto è come appare!” (…non è vero è d’amore!). Vediamo dunque la III poesia dell’insieme intitolato “Tre Chiese”:

Il bacio sa di te. L’ho imparato a memoria. Possiamo
guardarci i profili. Restare assorti, come fossimo in coda
davanti a due uffici diversi. Ma non c’è nessuno davanti,
nessuno oltre noi. Il palazzo celeste in fondo al viale
indica il sottosuolo, il pianeta che avvertiamo sotto le scarpe.
Hai belle gambe, rametto di salvia e capelli scuri.
Sssssh! Fai silenzio. Labbra sporte e borsetta sottobraccio.
Tra le nervature del marciapiede scorre acqua azzurrina.
Poi siamo soli. Volta pagina. La tua voce nei pensieri
canta.

 C’è il bacio, c’è il senso di solitudine incantata che due innamorati vivono anche in mezzo alla folla. C’è il mistero di quel celeste e azzurro che ogni tanto si affaccia: da “Il palazzo celeste…“indica il sottosuolo” a “tra le nervature del marciapiede scorre acqua azzurrina.”Qui il “colore” è nell’atmosfera surreale che avvolge la poesia e la salva dal sentimentalismo giustamente rifiutato e condannato dalla NOE: atmosfera surreale a cui, però, si affianca con grazia poetica qualche notazione realistica:

Lucio Mayoor Tosi Frammenti_1

Lucio Mayoor Tosi, Composition

Hai belle gambe, rametto di salvia e capelli scuri.”Labbra sporte e borsetta sottobraccio.” E, a conclusione, lo squillo della voce che canta nei pensieri del poeta.” L’idea è semplice e intensa e acquista rilievo dal “sistema solare” in cui sono inserite le parole, ognuna al suo posto e tutte insieme a creare suggestioni…a cui fa eco il mistero dei tocchi di azzurro.

Bravo Lucio, non è assolutamente facile scrivere poesie d’amore senza cadere in sentimentalismi retorici: e tu ci sei riuscito.

Lucio Mayoor Tosi ci ha dimostrato che, nei frammenti interpretati e rivissuti interiormente, in piena libertà espressiva è possibile sia tratteggiare un’immagine del futuro e parlare di astronavi e di costellazioni, sia evocare il passato con la tenerezza e il distacco della nostalgia, senza cadere in fratture o contraddizioni stilistiche: ormai superato il dramma della “cosa” irraggiungibile dalle parole, si guarda a quel centro misterioso intorno a cui le parole ruotano come altrettanti pianeti intorno al sole. Mi piace immaginare Lucio che le rincorre su una navicella spaziale…che, alla fine,

approda sulla luna per dedicarle un “romantico” frammento tra colore e scrittura.

Chi tra noi oserebbe sostenere che il “Romanticismo” di Leopardi e Foscolo è roba superata, e che Lucio Mayoor non deve, non può dedicare versi alla luna, pena la cancellazione dal gruppo della Nuova Ontologia Estetica?

E ora, in nome dell’interattività, vorrei che i lettori esprimessero il loro pensiero sul valore e significato del blu dell’azzurro del giallo e del rosso, o di altri colori dominanti nelle poesie di Lucio Mayoor Tosi. A voi la parola, dunque… invito i lettori a rivedere attentamente i frammenti pittorici e a rileggere quelli poetici del nostro autore. Egli sarà felice di scoprire quanto è arrivato a voi della sua arte e dei suoi messaggi.

Strilli Tranströmer1

Strilli Tranströmer2

Questa notte

È di notte che la metropoli
si addormenta e urla.
Quando i morti si spaventano
e vivono indisturbati animali
di carne notturna.
Migliaia di tramonti alle palpebre.
Quel dialogo incerto di noi due
all’angolo del soffitto.

E’ altro spazio,
giorno negativo e assordante.
Tra gli altissimi palazzi capovolti
si aggira il tempo nero
come un gendarme a controllare
le lenzuola delle larve.
Siamo nell’oscuro parallelo,
al cantico spettrale della Via lattea.
Nel tunnel.

Dentro i motori spenti della R.
nel “Vietato entrare”, all’ora più densa
quando la gravità dei passi
colpisce al suolo stormi di uccelli
caduti. E li addormenta.
Un colpo di tosse infrange le barriere.
Tutti i ritorni si spaventano.

Mi dicevi dell’appartamento,
che era luminoso
per via di quelle finestrelle al soffitto.
E colorato. Ma il resto della stanza,
nessuno lo ricorda.
Quando la sera è bella solitudine,
dicevi.

Mi baciavi come un uccellino.
Avevi le labbra piccole
per nulla seducenti.
E sempre ti aggiustavi le calze.

M.
Mayoor – set 2017

Onto Mario Gabriele_2

 

Lucio Mayoor Tosi
                  (a Giorgio Linguaglossa)

Si ritrovarono in piazza, non sotto i portici
ma nemmeno in strada. Dovunque andassero
erano sempre fuori posto, solo stando attenti
a che non si notasse. Poi erano trascorsi secoli.
Tante vite spezzettate. Senza memoria.
Due uomini e una donna.
Il primo mostrò quel che sapeva fare.
Sollevò la gamba destra e l’accavallò sull’altra.
Quindi restando in fragile equilibrio
sollevò la sinistra. Ohplà! eccolo sollevato
in aria nella posizione del loto.
– E tu che sai fare?
L’altro uomo lo guardò sorridendo
e senza muovere le labbra iniziò a parlargli
nella mente. I tre si misero a ridere.
Poi i due amici guardarono la donna.
Ma non la videro. Lei sapeva come fare
per non esser/ci.

Commento.

Sembra di stare davanti ad un quadro Zen. Ci sono dei personaggi tratteggiati con un tratto di penna, dietro di loro c’è il vuoto. La presenza del vuoto prende forma dai gesti dei personaggi, meccanici come l’atto di accavallare le gambe, o di ridere; si sta «non sotto i portici / ma nemmeno in strada», altro non è detto, non c’è bisogno di dire altro. Il tutto è appena accennato con pochi tratti essenziali e casuali. Sono «Due uomini e una donna», «senza memoria». Si sta in presenza. Ma noi sappiamo che la presenza è una figura dell’assenza, qualcosa è presente perché qualche altra cosa è assente, perché l’assenza è una figura della presenza, perché non potrebbe darsi una presenza sopra un’altra presenza, una sommatoria di presenze darebbe in ogni caso per risultato ancora una volta il nulla dell’assenza… Sotto e d’intorno c’è il vuoto. Ecco, in fin dei conti è questa la «nuova ontologia estetica», far aleggiare il «vuoto» e l’«assenza» intorno alle esistenze e alle presenze in modo del tutto normale…
(g.l.)

Lucio Mayoor Tosi
28 agosto 2017 alle 18:21

Grazie, ma l’ho postata poco sopra. Non so quanto sia riuscita ma era dovuta. Tra le tue domande filosofiche e l’ironico (si può dire così?) citazionismo di Gabriele, c’è molto spazio per sperimentare. Comunque era un vecchio sogno, che avevo conservato senza sapere per quale occasione; che è arrivata e ne sono contento

Translation
Lucio Mayoor Tosi

                              (for Giorgio Linguaglossa)

They met in the square, not under the porticos
but neither in the street. Where they went
they were always misplaced, only being aware
not to be noticed. Then centuries passed.
Many lives shattered. Without memory.
Two men and one woman.

The first showed what he could do.
He raised the right leg and crossed it on the other.
So staying in precarious equilibrium
he lifted the left. Ohplà! Here it’s lifted
in the air in the lotus position.
-And you what can you do?

The other man looked at him smiling
and without moving the lips started to speak
to his mind. The three started to laugh.
Then the two friends looked at the woman.
But didn’t see her. She knew what to do
not to be seen.

© 2017 American translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem by Lucio Mayoor Tosi All Rights Reserved for the orpginal poem and the translation.

 

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

Mayoor  Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri Zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili).
Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie.
Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombre delle parole, e su alcune antologie. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016).

Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016).  Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015).

 

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Per una ontologia relazionale – Poesie di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Mariella Colonna – Dialogo tra Franco Campegiani e Giorgio Linguaglossa – La verità ha valore posizionale, il nichilismo è la posizione delle posizioni della nostra epoca – La nuova poesia ontologica è riflessione sul nulla – La verità è diventata posizionale

Lucio Mayoor Tosi Composizione di immagini

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Mario M. Gabriele
2 agosto 2017 alle 12:23

Mi perfori l’anima.
Credevo appassiti i fiori di Corneile
come i pensieri di Leibniz, e I Cenci di Shelley
e quei maledetti giorni
in cui Romeo estrasse l’anima per Giulietta.
Deve essere accaduto qualcosa a Gelinda
se febbraio le ha ridotto giorni e ore.
Quale ferita mi porti Ornella?
Pasqua ti riabilita, mette in repertorio
Take Five di David Brubreck.
Questa notte non verrà nessuno
ad allinearci con i fantasmi,
prima che sia svanito il repairwear sul tuo viso.
Ci abbeveriamo alla fonte dei ricordi:
un belvedere sugli sterpi della giornata.
Quel barbuto di Whitman
ha curato con amore le Foglie d’erba.
Non passerà profumo che tu non voglia.
Eduard ha finito di scrivere Les ciffres du temps.
passando le bozze all’Harmattan.

Entra nel mio cuore e restaci come il gheriglio nella noce.
La stagione non è da amare, né da buttare.
E’ un ciclo che va e viene.
-Hai altro da dire, Signore, prima che faccia buio?-.
I niggers sdraiati sugli scalini
cantano le canzoni del Bronx.
Le frasi non hanno l’amo da pesca!.
Che vuoi che ti dica Eduard?
L’arte è come la natura dice Marina Cvetaeva.
Ne ho fatto una croce,
e sempre una stagione d’inferno con i cappellini sulla testa.
Ci siamo imbarcati sul Danubio
con una piccola barca senza Freud.
C’erano Dimitra, la zoppa,
Suares con il cane,
e Shultz, l’aguzzino di Erzegovina.
Una buccia di luna rischiara la tomba di Majakowsckij.
C’è più posto all’aperto ora che Blondi ha rimesso a nuovo
Via delle Dalie e dei Gelsomini,
e la medium ha finito di parlare di Metafisica
e di Berlin Alexanderplatz.
Kerouac ha finito di correre.
Ginsberg non ha più L’Urlo in gola.
Parlando con Beckett ci è sembrato
di avere lo stesso peso d’anima di chi
ha solo il Nulla tra le mani:
spento aperto vero rifugio senza uscita.
Le notizie che arrivano , e perché mai
dovrebbero essere liete?
non hanno mai risolto il problema di Laura Palmer.
La nuvola nera su Taiwan oscura il fiume Gaoping.
La quiete è impossibile.
Anche le formiche si sono allarmate.
Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani.
Ti stringerò lo stesso, Natalie. Vedi?
Tutto è cominciato cadendo dalle scale.

Lucio Mayoor Tosi
2 agosto 2017 alle 12:33

Be’, allora io ne metto una breve breve:
Caroline.
Io e te siamo specchi riflettenti emozioni diverse
e fuori sincrono.
Per un po’ saltiamo nello stomaco dell’altro.
L’altro che si sta genuflettendo.
Così trascorriamo il tempo nella stazione orbitale
Caroline.

Mariella Colonna

Carolyn è una creatura perfetta:

alta, mora, carnagione compatta, aria sognante.
Gli alberi si piegano al suo passare,
la sfiorano con i rami, lei, occhi profondi
guarda lontano il mare e il mare guarda lei…
i sospiri delle onde richiamano il vento.
Rintocca il mezzogiorno con il suono delle campane
a Beaulieu sur mer.
Carolyn non sa che nel lontano Afghanistan
un soldato americano sogna il suo corpo
le lunghe gambe, la vita sottile, gli ondosi capelli.
Il soldato non sa che, dentro quel corpo perfetto,
gravitano mondi e ampi spazi sono attraversati
da neutrini e microparticelle.
Neppure Carolyn lo sa. E ignora che il suo cuore
ha un numero molto molto grande ma limitato
di battiti e che un giorno, come tutti,
anche lei dovrà morire.
Per questo Carolyn è felice di esistere
e il soldato felice di sognarla
anche se non la conosce. L’ha immaginata
e non sa che esiste davvero…
Troppe cose si sanno, troppe non si sanno.
Chissà, forse le sa Marianita, la cubana
che fa le carte per 50 centesimi.

foto Birra

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Roberto Bertoldo:  Pensieri sul Nichilismo, Il Nullismo come nichilismo non assiologico – Donato Di Stasi: La poesia è senza destino? (Aforismi & Insolenze) – Letizia Leone, Due poesie in tema di Nichilismo

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Roberto Bertoldo

 

Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.
Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti.
Il guardare verso e attraverso finestre che non c’erano
ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle
con proprietà terapeutiche improbabili.
L’uomo deve quindi badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.
[…]
Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

(Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura, 2011)

 

Pensieri sul Nichilismo

«Il mio nichilismo ontologico è in sintonia con quello di Giacomo Leopardi, ovvero che la materia si annulli o non si annulli mai il suo scopo ultimo è comunque il nulla, essendo per Leopardi l’infinito uguale a nulla. (…) Tuttavia, a questo nichilismo non accodo un nichilismo assiologico, così come non fa Leopardi e chiamo “nullismo” questo nichilismo non assiologico (…)

Il nichilismo, ieri inconsistente, oggi è impraticabile. Il nichilismo è stato un errore ottico della cultura newtoniana, ossia moderna, ed è oggi, in più, un’ingenuità, peggio: un’evasione dall’epistemologia e dai risultati gnoseologici odierni. I nichilisti, oggi, non sono solo in errore, ma rifiutano il compromesso insito nella loro stessa apertura metodologica alla conoscenza, intesa come illuminazione dell’assurdo. I nichilisti di oggi non stanno al passo con i tempi, tempi di scienza indeterministica e di neomaterialismo. (…)

Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.» (Roberto Bertoldo, Nullismo e letteratura, Mimesis 2011, pp. 11, 23, 27)

«La metafisica è il nichilismo, sostiene Heidegger. Bene, ma che ce ne facciamo dell’Essere, che egli tenta di salvaguardare, se non per riqualificare l’Ente? Che ci importa di salvaguardare l’Essere se torniamo a mettere in secondo piano l’Ente? Certamente abbiamo dimenticato l’Essere, ma solo perché l’abbiamo portato nell’azione, di cui ci siamo fatti mallevadori. L’Essere, e la morte in esso dell’Ente, ovvero il Niente – l’Essere è giustamente per Heidegger il Ni-ente, il non Ente –, che però dà l’Ente, si dà in Enti, Forme o Essenti; l’Essere, la sua emersione, serve solo come memoria del nostro destino (…). L’Essere è tale come continua entificazione e il suo dinamismo rappresenta solo una compresente tendenza alla nientificazione per rientificare. (…)

Per Heidegger, il Nichilismo è l’oblio dell’Essere; per me è invece l’oblio dell’autenticità dell’Ente, l’oblio della singolarità. Il richiamo all’autenticità nella lotta titanica contro il nulla non ha un intento etico e non è neppure fatto a favore di quel disvelamento dell’Essere di cui parla Heidegger, ma è per mantenere spessore al fenomenico, per rafforzarlo.

Onto Bertoldo

Roberto Bertoldo, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Rafforzare l’Ente, la sua individualità, mediante la riattivazione della singolarità, ossia della sua totalità, è anche il progetto di Heidegger contro la “deiezione”, ma io non mi spingo fino a pormi “la questione della verità dell’Essere”, essa è esclusa dalla mia gnoseologia che ha possibilità ben più ridotte e si accontenta tutt’al più di ipotesi. È questa verità, o meglio la stessa gnoseologia, a essere metafisica – ripeto: niente di male, ma sono i filosofi oggi a criticarla quando basterebbe assumerla con riserva. (…)

Porre i fondamenti nell’io empirico e nella sua relazione/comprensione storico-sociale, come fa Dilthey, è corretto. Ed è pure corretto perché la stessa introspezione si fonda sulla storia, ma non sosterrei che “l’uomo si conosce soltanto nella storia, non mediante l’introspezione [cors. mio]”, in quanto si darebbe l’impressione di svalutare l’apporto della coscienza umana nella civilizzazione.

Il fenomenismo di Dilthey tenta un’ascesi gnoseologica nell’ambito del relativismo; questo suo progetto necessita, a mio avviso, di ampliare l’a priori kantiano – e non di eliminarlo in quanto l’apporto categoriale è inevitabile – facendoci entrare l’inconsistenza, l’ipotetico, la volontà e l’affettività, e di abbandonare l’ambizione epistemologica di Husserl. Il risultato è il fallimento gnoseologico nell’ambito del determinismo, come infatti Dilthey prospettava nella sua “Conclusione sull’impossibilità dell’atteggiamento metafisico del conoscere”. La connessione tra natura e pensiero è un esito inevitabile del determinismo gnoseologico e della sua metafisicità, ma le difficoltà riscontratesi nella meccanica quantistica hanno prodotto un conoscere limitato dalla sua stessa ambizione sperimentale. Questo conoscere indeterministico esula dalla pura ragione e assorbe nei suoi fondamenti i procedimenti sintetici, vale a dire le ipotesi, accettando il fatto che la loro proiezione analitica non è in grado di superare “la relatività dell’ambito di esperienza”. (…)

laboratorio 8 marzo Donato di Stasi

Laboratorio di poesia Libreria L’Altracittà, Roma, 8 marzo 2017, Donato Di Stasi

Donato Di Stasi

La poesia è senza destino? (Aforismi & Insolenze)

 Apertis verbis. Un poeta con un conto in banca difficilmente troverà il tono giusto.

Ibis redibis ecc. Nell’attuale battaglia antiumanistica quale prezzo siamo disposti a pagare?

L’importanza di essere onesti. I poeti scrivono per i critici, al massimo per i loro sodali, mai per il pubblico, salvo poi elevare ipocriti e lamentevoli peana alla mancanza di lettori.

Portrait of a young poet. Non glossatore, ma lettore crudele. Non macchina da lettura, ma feroce custode del gusto. Non professore e catalogatore di idee e opinioni altrui, ma dispensatore di veleno e di fiele.

A communi observantia  recedendum est.  Scrivere versi è ancora un’emancipazione, o è disastrosamente inattuale, se non passatista?  Perché continuare a scrivere versi che non saranno letti da nessuno?

Tragicommedia dei neofiti. Non datevi alla poesia, se non avete l’ardire di sbriciolare il mondo.

Poetam secreto lauda, palam admone. Chi scartabella i testi poetici attuali, non può che riscontrare spreco di cultura, di carta e di pixel. L’economia delle parole è affidata all’estro e non a un rigoroso progetto linguistico-stilistico; la transitorietà rimanda a desueti ricordi umanistico-arcadici e non all’essenza perentoria del nostro vivere; la contraddizione, infine,  risente ancora dell’anacronistico e ottimistico schema hegeliano, come se la ventata gelida del pessimismo deleuziano, in termini di irrisolvibilità dei concetti, non fosse mai passata sulle nostre teste.

Abyssus abyssum invocat. Se potessero dannarsi l’anima e vendere qualche copia, i poeti si farebbero volentieri chiudere nella gabbia dorata della mercificazione, slegandosi da qualsiasi esigenza di progresso spirituale e materiale della società.

Arbore deiecta, quivis ligna colligit. I tre capisaldi della storia letteraria italiana: letargo, controriforma, arcadia. Per una serie di ragioni politiche e culturali (divisione della penisola per tredici secoli, arretratezza linguistica, elitarismo del ceto intellettuale), la letteratura del Bel Paese risulta, fra quelle europee, la più chiusa e la più povera di radici popolari. Ergo un pubblico della poesia non è mai esistito.

Ex plurimis. Il torto e la ragione non stanno in nessun caso da una parte sola. La poesia, no. La trovi solo dalla parte del torto, della mancata gentilezza, dell’antagonismo più furioso, della sincerità più disarmante.

Amantes amentes. Ciò che in poesia non è intenso, è privo di valore, non esiste.

Nihil gignit nihil. Il Nulla staziona dentro di noi. Da questa scoperta abissale ha inizio la poesia.

Cupio dissolvi. Come altre parole di moda adoriamo il nichilismo, nel quale, però, a forza di negazione e distruzione la società si dissolve e con essa il linguaggio.

La sezione aurea. Composizione o decomposizione. Qual è il nostro destino? Che accade quando lo spirito cede sotto i colpi ripetuti e ben assestati del materialismo più seducente, ovvero il ciclo infinito di produzione-riproduzione-consumo?

Osiamo ancora fidarci dei poeti?

Ipotesi a) Leggere Gottfried Benn è come sognare un funerale da un’altra vita a questa. Ipotesi b) Di fronte alle Illuminazioni di Rimbaud un pugnale luccica nelle nostre mani. Il pugnale di Abramo che ha ucciso Isacco. Ipotesi c) Amleto e Macbeth, due inesausti pensatori. Hanno detto nelle loro tragedie quanto ci sarebbe da attendersi da ogni testo poetico.

Exeunt. L’aspetto più lucido e spedito del pensiero poetico: togliere l’etichetta di schiavi e di gregge a una componente sociale.

(Nereidi, sotto la costellazione del cane)

Onto Letizia Leone

Letizia Leone, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Letizia Leone

Due poesie in tema “Nichilismo”

I

Non era terra. Era farina nera
dell’Impero scartata
allorché scavarono la galleria.
Qualche chicco calcareo strozzò la pinza.

Tutte le macchine del cantiere, allora,
si incepparono
nel dolore. Perché anche l’uva
rinvenuta ha un sottosuolo
di crateri e nodi.

Quel vino spento
lubrificò gli attrezzi
nel fianco chiuso dell’enorme sasso.

Polverizzata roccia
terra barbara
e denti d’oro
voltolarono
all’avviamento dei compressori.

II

Sacchi di sale.
Sacchi amari e calce bianca dirompente
Per costruire i solidi che credevamo
Monumenti.

Qualcuno o qualcosa ancora lavora
Alla salatura dei sassi. Ad allineare
I ciottoli bianchi asciutti
il suono raggelato di meteoriti marine.

Ma chi sfracella la pietra
(astrale inerte fisarmonica)
non sa che fu stata una cetra.

Werner Aspenström e Bertolt Brecht

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. 
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016

Donato di Stasi è nato a Genzano di Lucania, ha viaggiato a lungo in Europa Orientale e in America Latina prima di stabilirsi a Roma dove è Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico “Vincenzo Pallotti” dal 1999. Ha studiato Filosofia a Firenze, interessandosi in seguito di letteratura, antropologia e teologia. Giornalista diplomato presso l’Istituto Europeo del Design nel 1986, svolge un’intensa attività di critico letterario, organizzando e presiedendo convegni e conferenze a livello nazionale e internazionale.

Ha pubblicato articoli per il Dipartimento di Filologia dell’Università di Bari, per l’Università del Sacro Cuore di Milano e per l’Università Normale di Pisa. In ambito accademico ha insegnato “Storia della Chiesa” presso la Pontificia Università Lateranense. Attualmente collabora con la cattedra di Didattica Generale presso l’Università della Tuscia di Viterbo. È Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Piazzolla, è stato eletto nel Direttivo Nazionale del Sindacato Scrittori. Per la casa editrice Fermenti dirige la collana di scritture sperimentali Minima Verba.

Ha pubblicato «L’oscuro chiarore. Tre percorsi nella poesia di Amelia Rosselli», «II Teatro di Caino. Saggio sulla scrittura barocca di Dario Bellezza» (1996, Fermenti) e la raccolta di poesie «Nel monumento della fine» (1996, Fermenti).

Letizia Leone è nata a Roma. Si è laureata in Lettere all’università  “La Sapienza” con una tesi sulla memorialistica trecentesca e ha successivamente conseguito il perfezionamento in Linguistica con il prof. Raffaele Simone. Agli studi umanistici  ha affiancato lo studio musicale. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF organizzando corsi multidisciplinari di Educazione allo Sviluppo presso l’Università “La Sapienza”. Ha pubblicato: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011. Nel 2015 esce Rose e detriti testo teatrale (Fusibilialibri). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (Perrone 2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da camera (Versi erotici delle maggiori poetesse italiane), Perrone Editore, 2012. Collabora con numerose riviste letterarie e organizza  laboratori di lettura e scrittura poetica. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)

 

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LUCIO MAYOOR TOSI – POESIE INEDITE “Woody Allen”,  “Matrimonio”, “DNA”, “Buio e Bataclan”, “Una volta per sempre”, “Le parole nell’etere”, “Duemilaventicinque”, “L’amante mia”, “Avrei Potuto”, “Cinema”, “Un’immensa solitudine”, “Anatre” con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Jason Langer nightwalk_94

Jason Langer nightwalk_94

Mayoor  Lucio Tosi è nato a Gussago, vicino a Brescia, il 4 marzo dell’anno 1954. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera è entrato in pubblicità. Ne è uscito nel 1990, quando è diventato sannyasin, discepolo di Osho (da qui il nome Mayoor: per esteso sw. Anand Mayoor = bliss peacock). Ha trascorso più di vent’anni facendo meditazione e sottoponendosi a ogni sorta di terapia psicanalitica: sulla nascita e l’infanzia, sul potere, sulle dipendenze affettive ecc. Di particolare importanza, per la realizzazione di Satori, sono stati alcuni ritiri zen dove ha potuto lavorare sui Koan (quesiti irrisolvibili).
Vive a Candia Lomellina (PV), nel mezzo delle risaie, dove trascorre il tempo dipingendo e scrivendo poesie.
Sue poesie sono state pubblicate on line su Poliscritture, L’Ombre delle parole, e su alcune antologie. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Progetto Cultura, Roma, 2016).

foto Samuel Beckett

Samuel Beckett

Commento di Giorgio Linguaglossa

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Sarà poesia quel che diventerà voce e commento di molte immagini.
Esattamente come Omero tanti secoli fa».

Aboliti l’arbitrarietà del segno linguistico e i significanti, ciò che resta è la mera materialità delle icone linguistiche e l’impiego dei simboli iconici che si convertono nei loro correlativi materici. Come è noto, la messa in rilievo della forma del «messaggio» in facebook e in twitter, acquista caratteri fisici e ottici. Un fenomeno analogo avviene in queste composizioni di Lucio Mayoor Tosi. Il «messaggio» è, in primo luogo, la sua superficie, comunica la propria corporeità nella misura in cui scrivere non è più un atto di pensiero che soggiace nel soggetto ma diventa un gesto che conserva del proprio gesticolare una materialità extralinguistica, una corporeità extralinguistica. Tipico ad esempio è la candida ammissione di Lucio Mayoor Tosi di non sapere affatto quale che sia il «significato di quel che scrivo», appunto perché non c’è un significato ma tutti i significati possibili e immaginati dal lettore. Tutti i significati compossibili. È una scrittura eminentemente ottica e iconica, ma le icone sono come svuotate di contenuto e se ne stanno lì a denotare dei referenti che nel frattempo si sono spostati, si sono dis-locati. In questo modo, Lucio Mayoor Tosi attua la presentificazione ottica di ciò che sta al di là della icona linguistica con un uso spregiudicato di fraseologie disconnesse e lambiccate. Una scrittura eteroriflessiva, dunque, che ha rinunciato alla auto riflessività delle scritture elegiache incentrate sulla memoria; una scrittura che fa le bucce alla realtà extra segnica, alla matericità che sta oltre il segno linguistico. La cella dell’«io» è scomparsa, inghiottita dal vuoto della significazione. E con esso tutto il mondo oggettivo si dissolve in una miriade di appercezioni.

Scrive Lucio Mayoor Tosi: «Avrei potuto essere un altro». Eccellente ammissione di colpa: ormai l’«io» se ne è andato per i fatti suoi, ha preso congedo, ha dismesso l’abito di scena.

Scrive Lucio Mayoor Tosi:

«Da non so Quale ombra mi venne incontro
ier sera un verso perso: io sono l’amante mia».

Dove è chiaro che qui c’è una disconnessione e una duplicazione allo stesso tempo tra l’«io» e «l’amante mia», tra l’io e l’oggetto. Le tipiche disconnessioni della scrittura di Mayoor Tosi prototipiche di una frattura che sta a monte della significazione e che la scrittura però può non evocare se non in un laboratorio alchemico fitto di alambicchi e di liquidi fluorescenti che ribollono e zufolano.

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Milano Periferia_PortaVigentinaMilano 1952 Mario De Biasi

Lucio Mayoor Tosi

Woody Allen

– Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson.
– Ci vuole della cannella sul Lìsson?
– Sì, perché no.
Lo sai che sono innamorata di te.
Le tende del davanzale coprono le mie gambe.
Lampeggia il semaforo sul gommino della matita.
Gli studenti sul terrazzo della villa guardano
danzare le luci accese in giardino.
Scommetteresti che dietro quelle siepi ci sia il mare.
Voce del violoncello.

Matrimonio

Tu non lo vuoi un animale domestico. E nemmeno una sposa.
Oh, sarebbe bello invece: per tre giorni, un mese, due anni…
Sono la donna Uno, lei direbbe. E tu chi sei?
Scuoteresti il capo tra quel che sei, senza dire una parola.
C’è un triangolo tra lei e me. Qualcosa si sta muovendo tra le sue cosce.
Se è questo il nostro matrimonio, allora è senz’altro una trappola.
Tua madre è morta, Maylor, ma puoi sempre recuperare il prototipo.
Ho perso la visuale.
Però la cucina era in ordine. Ci penserei io. Sono a casa, direi.
Volevo ringraziarti. No, ti prego.
Ora cerca di dormire. La notte soffia nel grande tubo di gomma.
Un suono nero ma dolce, di terra.
Al mattino, servizio on line: sono io che ti chiamo dall’ingannatore elettronico.
Allora, come sto?
No, no no no no no.
No!
Vado nella camera adiacente. Ultima posizione.
Dieci 33, richiedo rinforzi immediati.
Papà…
Dobbiamo portarlo via da qui.
Non preoccuparti, non intendo morire.
Infatti papà è qui. Che succede? dice.
Come non lo sapesse.
Io scarabocchio.

(Candia Lomellina, settembre 2015)

DNA

Nella via percorsa da motorette, lui prese a destra. E subito entrò nel sistema di sicurezza delle Nazioni Unite con l’idea di sottrarre La moltiplica del tempo, un programma adattabile all’umano DNA.

Lo pose tra un caffè e l’ultimo articolo del giornale sportivo, messo a disposizione dal bar. Il programma agisce sulla percezione del tempo, così che, mentre pensi, l’ora indietreggia. Si ha più tempo per riflettere.
In un tempo diverso la moglie del gestore ripete i gesti della loro prima notte: si chiude in bagno, lo fa aspettare. Poi tocca a lui, che si lava i denti, rientra, spegne la luce, e si addormentano. Notte, notte.
Non c’è niente qui. Solo una tuta. Mi dispiace molto, Frank, so che avevi bisogno di soldi. Ci sono abituato, è da mesi che rinuncio anche al discount. Ricordo che l’ultimo aperitivo mi costò ben sei euro. Inoltre lo bevvi da solo.
La piazza sembrava l’uscita di una discoteca. Il neo di un piccione si staccò dalla bocca della chiesa. Là dentro il programma del tempo non serve. Giorno più, giorno meno, il bilancio dei peccati resta invariato.
Rischio vent’anni a San Quintino, si disse cercando di non vomitare. Ma il nuovo programma sembrava funzionare a meraviglia. Tra l’altro, grazie all’uso di parole dette “Proiettili giganti” poteva comporre intere frasi, anche se molto semplici. Provò con: ti andrebbe un tè?
“Che idea” disse la moglie del gestore, “Lo sai che il tè mi toglie il sonno”. “Da quando in qua mi vedi bere il tè?”. “Un tè a quest’ora? Che ore sono?”. “Non ti senti bene?”. “Grazie, con un velo di latte”.
Nel soggetto reale, il filo del programma garantisce una certa tenuta. Le formiche di fuoco… ma non ho tempo adesso per le spiegazioni. Il capitalismo è inquieto: vista la posta in gioco, i morti e tutto il resto.
Sta pensando a cosa sia meglio fare: come trasformare un problema in un vantaggio? L’importante è che tutto si svolga nell’arco di dieci anni, al massimo. Così ragiona il capitalismo.
Chiudi la porta. Bravissimo James, un tè è quel che ci voleva. Immettere un “Ti amo”, potrebbe funzionare? Scrisse: hai messo a repentaglio la missione. Ma ora non soffermiamoci sul passato. Ti amo.
“Che ti succede, stai per morire?” disse la moglie del gestore. E lui: “qualcuno dovrebbe raggiungere i bocchettoni dell’aria condizionata”. Lei approvò, le andava bene qualsiasi cosa lui decidesse. ” Sono contenta

che tu abbia deciso di portare a termine la missione”. La bambina non dorme ancora. L’importante è non dare nell’occhio, dicevano. Si sentiva della musica, probabilmente la grande nave stava uscendo dal sistema solare.
Papà!!!
Getta la pistola!
A tutto volume.

(Candia Lomellina, settembre 2015)

Milano 2

Milano Periferia, scorcio

Buio e Bataclan

Musica in scatola di bionda qualità
per la stagione grigia
si effonde azzurrina tra gli alberi
e nei capelli.
Non so quale sorriso perfetto
e femminile c’incanta e sovrasta.
Corpo e pensieri come pesci
se ne vanno controcorrente.
Tempo di pace che sopravvive
anche in questo interno chiaro
mentre fuori ci aspetta divertita
la notte.
Tempo di pace nel deserto.
Sulla sponda del fiume, un momento
di confidenza con l’incredibile
sotto l’immenso cielo d’amore.
Oppure a Conny Island
in una notte trafitta da insegne
sognando di ricevere un caldo
pompino dalla vicina di casa
se solo capisse
o ascoltando musica colta
da un 33 giri sorseggiando gin
e scrutando sul ghiaccio
l’espressione mansueta
di un orso bianco. Che non c’è.
A Parigi musica latina
tangueros e maracas, di tutto un po’
e sconsolate discese da Montmartre
nel rumore dei propri passi
che ci fa sentire soli
e vivi.

(Candia Lomellina, novembre 2015)

Una volta per sempre

Questa volta ce la puoi fare. Non dare retta ai corrotti della pace, a quelli
che fin qui ti hanno tenuta in vita
che dopo ogni combattimento, ogni volta ti han curata con dosi shocking
di naftalina e profumo francese.
Dolce formalina, spettro delle rovine, avrai bisogno anche tu, soprattutto tu
di farla finita con vinti e vincitori.

(Candia Lomellina, novembre 2015)

Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Le parole nell’etere

Il verso si distende roteando simile alla punta di un trapano
scavando.
Quel che era sopra ora è sotto, e poi nuovamente ma in altro
aspetto.
Le parole nell’etere non hanno accenti, a stento una metrica
quantistica.
Semplicemente connesse, le parole si sentono meccanicamente
perfette.

(Candia Lomellina, novembre 2015)

.
Duemilaventicinque

Sarà poesia quel che diventerà voce e commento di molte immagini.
Esattamente come Omero tanti secoli fa. E tutto verrà registrato
e moltiplicato.
Scrivete storie per l’epica rinnovata e misuratele con l’epopea del classicismo.
Come sarti tendete il nastro del centimetro. In fondo quelli, che ne sapevano del vivere una libertà sbilenca, e potersi buttare contro un muro, di notte.
E ogni tanto scrivete di voi stessi, così che non si sappiano altre notizie.
Quindi ditene bene, o come sapete fare, ché questo è compito vostro.

(Candia Lomellina, agosto 2015)

.
L’amante mia

Da non so Quale ombra mi venne incontro
ier sera un verso perso: io sono l’amante mia.

Voleva un Corpo Umano. Ci siamo addormentati.

Il gelo si sta ritirando lasciando trasparenze

che sembrano Luminosi germogli. Oggi usciamo
io col verso mio sottobraccio.

(Candia Lomellina, aprile 2014)

Milano Periferia nord

Milano Periferia nord

Avrei Potuto

Avrei potuto essere un altro. Un indifferente seduto sul trono dell’arena
con in mano il cellulare mentre passano le Frecce tricolori.

Invece l’amore ha tratto dalla tasca una serie di fotografie piuttosto belle, alcune di un lontano passato e altre completamente inventate.

Il fiume ha esondato, le latrine della scuola si sono allagate proprio mentre stavano arrestando il colpevole in un telefilm. Non te ne ricordi perché eri piccola.

“Me(e)ey, smettila di dire stronzate! Ho il fango che mi arriva alla gola e tu non mi puoi salvare”

La piazza, un deserto pieno di fenicotteri.

“Se la poesia non è forma del linguaggio allora non fa differenza che si usi la prosa, quindi rilassati. Pensa a una scatola di cioccolatini. Ma uno due, non di più”

Sdraiàti guardando un muro. Non s’è mai visto spettacolo più divertente.

“Amore è tutto quel che gravita sul passaggio delle automobili nella statale. Praticamente l’intero universo”.

Appena fuori dal paese c’è una strada che porta diritta a Rio de Janeiro. In volo si farebbe presto ma in fondo tutte le strade son fatte di tempo infinito.

“Il tempo è la somma dei gesti compiuti. Solo i soprammobili non invecchiano”.

Per un po’ abbiamo dondolato sula barca toccando l’acqua con le mani.
“Ma è stato breve”.

(Candia Lomellina, maggio 2015)

.
Cinema

L’uomo esce sul ballatoio della casa a ringhiera.
Ha piovuto. Non sa dove sta andando, né se rientrerà.
Scende le scale: le sue scarpe, la rampa vista dall’alto.
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania.
“Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”.
La donna guarda attraverso le fessure della tapparella.
Ha sentito sbattere la portiera.
“Abbiamo fatto l’amore senza baciarci”.
In anticamera, le ombre hanno qualità marine.

(Candia Lomellina, agosto 2015)

Un’immensa solitudine

Gli occhi aperti sul bordo della custodia del proiettore, e poi la matita rossa col gommino davanti alla cucitrice gialla con l’occhietto rosso, uguale identica a una mantide religiosa.
Il campo sportivo è deserto, le magliette dei colori nei vasetti hanno i coperchi infangati dalle ditate del pittore: partita finita, sbiadita. Verde e rosso si guardano, le O con le C della marca.
La baraonda di un quadro scuro, Ombre sulla neve, sta rupestre sulla parete moderna. Non parla di quest’epoca, è un quadro del duemila millennio e lo sa benissimo.
L’avessi io la possibilità di compiere un simile viaggio, dal mese scorso al novemila senza muovermi, ché tutto è stato fatto per un buon tratto di eternità, luce più luce meno.
L’interlinea dei versi lascia tracce da sci di fondo. Non so come faccia la poesia a becchettare tutte queste lettere in una volta. Ma guarda! il manico dell’ombrello se la fa col bastone, dice.

(Candia Lomellina, giugno 2015)
Anatre

L’anatra del tabacco nasce in Scandinavia
OGNI anno, il 25 dicembre.
L’ombra delle cime di Scandinavia
decora i labirinti dello scaffale.

L’anatra del modem ha UN piumaggio di lucette
Che si accendono ancor di Più verso sera.
Nel pomeriggio senza numero riconosco Nei libri
Il Profumo del tabacco.
Di quella Che sembrava l’anatra
Più canterina dello stormo, riconosco
l’ombra Che si aggira sullo scaffale,
Tra i libri e UN fumetto di Walt Disney.
Si è persa NEL pomeriggio senza numero
per Troppa libertà, si direbbe, un’ombra in cerca.
Non s’allontana dalle cime più alte dei Volumi
che stanno poco al di sotto di Quelli inesplorati
dove raccolgo la lista dei Debiti
che ho da Pagare.

(Candia Lomellina, dicembre 2014)

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Annalisa Ciampalini POESIE SCELTE da “L’Assenza” (2014) “Lezione di fisica”, “Organizzazione del tempo futuro”, “In prossimità”, con un Commento di Flavio Almerighi

Ashraf Fayadh 4Annalisa Ciampalini nasce a Firenze, 15 giugno 1968 si laurea in Matematica presso l’Università degli studi di Pisa e svolge attività di docenza di matematica in un Istituto Tecnico di Empoli.  Nel 2008 ho pubblicato la raccolta di poesie L’istante Si Dilata (Ibiskos Editrice Risolo). Nel 2014 pubblica la raccolta di poesie L’assenza (Giuliano Ladolfi editore) e-mail agnabiba@libero.it

Commento di Flavio Almerighi

La poesia è uno strano soggetto, gode di extraterritorialità, va ovunque vi sia qualcuno disposto a incarnarla o a farla rivivere. Nello specifico, il lavoro di Annalisa Ciampalini è vera poesia. Sensibilissima, chiara, lineare, capace di trasformare spifferi in bufera. Già la conoscevo e apprezzavo, chiunque legga un minimo poesia non può non conoscerla, e la nuova silloge L’Assenza, edita nel 2014 per Giuliano Ladolfi Editore, è una grande conferma del talento di questa ottima autrice. Un libro che, sicuramente nasce da esperienze legate all’intimo dell’autrice, ma “sa” arrivare al lettore senza cedere al diario e diventando condivisione con chi ne legge. Non parlerei di poesia al femminile vera e propria, liquidarla non questa etichetta è una forma di ghettizzazione da riserva indiana. Poesia e basta, e alla vera poesia non si può chiedere di meglio. Quando ho accettato di parlare di questo libro, ho voluto contattare l’autrice, intervistarla per fornire al lettore un quadro esauriente sul “chi”, “come” e “quando” di un’autrice che merita diffusione e audience.

Ashraf Fayadh 3Annalisa Ciampalini da “L’Assenza” Ladolfi editore, 2014

A fatica
ho visto la fine dell’estate
dare senso a orizzonti di mare,
all’ultima luce inclinata
sull’immane rotondità della terra.
mi sfugge adesso
il susseguirsi di vetri
incupito da un cielo plumbeo,
non so come sistemare
il gelo che verrà.
Sempre più vertiginosa
la brevità dell’ansia.
È scaduto l’invito a partecipare
alla pomposa scansione di un tempo
che deve solo finire.

*

Tenere lo sguardo fermo,
chiodo alla parete a puntare
architravi svaniti nell’intonaco.
Non incontrare gli occhi di
nessuno, neanche
un’anima vacua
con cui ragionare la sera.
Impossibile riesumare saluti
che annichiliscono distanze,
la lucente complicità
dell’ora
che precede il vento dell’altro.
Soli,
con la testa stretta al cuscino,
singolo, indivisibile.
mezzo metro quadrato
sopra la coperta.

Annalisa Ciampalini 1

Annalisa Ciampalini

LEZIONE DI FISICA

Si parla di misteriosi neutrini.

Tepore nell’aria e unione di menti,
tra i banchi spira sorpresa
e in gioventù fremente si ferma.

Si parla di inavvertibili neutrini
di muoni sfuggenti, leggerissimi pioni
e ci inondano in sciami tranquilli.

Si frantuma l’aria e ci disorienta,
sfuggono le regole del consueto,
s’impone la mia volontà e sconfina
dettando le sue eretiche leggi.

Ed eccoti qui,
persona o sequenza d’atomi;
vivo e intatto,
vittorioso sulla tua tragica assenza.
Ancora mi è dato di vederti
in questa luce piegata.

*

Le scale mai ti conducono
a scenari inaspettati,
l’affanno si moltiplica.
Le mura hanno la tua forma.
Esci, chiedi ospitalità
a un pescatore della costa.
Oppure fingiti in un mattino diverso,
rabbrividisci per il mare
che giunge al tuo portone.
Nel buio
la montagna avvicina la luna:
per contenerla
il cielo allarga i margini.

Ora è tutto finito
bianco
nero
non importa.
Non più fiori
né una pizza in compagnia
in posti che piegano la luce.
Ora non attendo più
le parole
che credevo mi dovessi dire.
I tuoi silenzi
diventano perenni,
le varie tonalità collassano
in una sola.
Povertà di vita, il tuo volto tende all’astratto.
È ancora possibile ricordare,
inventare.
Sarà una storia struggente
e fragile,
una storia mai esistita.

.
ORGANIZZAZIONE DEL TEMPO FUTURO

Se sarò
più morta di adesso
accoglietemi nella vostra festa
della quale non ho mai capito niente.
So che sarete benevoli.
Accoglietemi
in una festa qualsiasi,

passerò una serata
a veder far baldoria,
ad impiantarmi
nelle schiene nude delle ragazze;

appoggiata contro una parete
ce la farò
a teorizzare una simulazione
di un amore di qualche minuto,
magari di un’ora.

Poi ripartirò,
e sarò ancora io, cascante e rigida,
ma con meno gradini davanti.
Prevedo di passare così
il mio tempo,
fino all’ora in cui
sarò chiamata a restituire il mio nome,

a deporre,
indistinti,
amore e simulazione.

Annalisa Ciampalini

Annalisa Ciampalini

IN PROSSIMITA’

Dal soffitto
lo scalpiccio intermittente di due anime
mute,
la testa di ognuno conficcata nel proprio
ventre.
Prima, una spirale
sul quel pianerottolo si annidava
chiamando i condomini a festa.
Proprio lì, a celebrare il futuro.
Di fronte
un uomo segna gli istanti verso il baratro.
Dai vetri traspare il trapasso imminente,
dietro a quello la fissità del volto.
Attorno
altri sorridono per amori vari o per posa.
Ogni sera, al ritorno,
punto lo sguardo su quattro piastrelle
e da lì sprofonda,
stretta in un gorgo,
la poca vita dei dintorni.
Ci sono sere in cui
nulla accade in quel metro quadrato.
L’esigua vita si è consumata prima,
oppure è fuggita per altre vie.
Nei paraggi solo fatti, cronaca minore.
Per ora nessuno attende un invito.

Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da prestigiose riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti)

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