
Antonio Ligabue Leopardo assalito da un serpente, circa 1955-1956 olio su faesite, cm 69,5×98
Guido Cavalli è nato nel 1974 a Parma. Coautore dei romanzi e dei racconti di Errico Malò (tra i quali Cielo di paese, Scaramuccia, La veglia, La neve ai cancelli) collabora con la rivista di filosofia Kasparhauser. È del 2005 la sua prima raccolta di versi, Piccolo canzoniere selvatico (Manni).
Dalla postfazione di Giovanni Ronchini, Cercando un altro inizio (o del bisogno di appartenere)
I dieci anni trascorsi tra la prima raccolta, Il piccolo canzoniere selvatico, e la seconda, la coerenza di temi e di accenti tra i due libri ‑ sebbene, in questo, sembri che quei temi e quegli accenti siano oggetto di un ulteriore scavo, una discesa per certi versi più profonda e dunque più smascherante ‑ inducono a domandarsi dove nasca la poesia di Guido Cavalli, quale sia la sua matrice, da dove essa venga generata.
Ci sono infatti un bisogno e una necessità a indurre Cavalli a scrivere versi: il bisogno di costruire una identità, un’appartenenza e dunque di contro la necessità di decifrare i contorni della propria inappartenenza; innanzitutto la mancanza del padre, la sua sparizione, ha reciso i rami dell’albero genealogico, rischia di escludere Guido dalla sua storia famigliare:
Ancora adesso io confondo il fruscio / delle foglie e il bisbiglio del sonno / in cui calavo come fossi già senza padre / e senza me stesso creato, non generato, / risvegliato alla coscienza ma non nato / da te o da corpo umano
e ne ha per lui resa più complicata la possibilità di accoglierne le eredità, di sentirsi riconosciuto ‑ più che di riconoscersi ‑ nelle proprie radici.
Sanare questa ferita, ricucirne i lembi sfrangiati, ricostruire la solidità di un vincolo di appartenenza (quello dei legami famigliari ‑ la condivisione di una stessa aria, di uno stesso linguaggio, di quella stessa “inguarita ferita” ‑ e del legame con la natura, vero e proprio punto di incontro con le proprie radici biologiche) e ingaggiare una lotta contro l’esclusione, questi appaiono i motori principali della poesia di Cavalli. Ciò può avvenire, sebbene non più in modo definitivo, per sempre consapevole della cacciata dal paradiso, attraverso una rigorosa ripetizione di riti sedimentati nel tempo e depositati in fondo alla memoria inconscia.
Quello della natura è forse il principale dei linguaggi necessari alla ricostruzione del vincolo, una sorta di lasciapassare, la chiave per ricostruire e comprendere il resto; non tanto, si badi, la natura come “libro”, ma proprio come insieme di segni, una specie di ventre semiotico, una disposizione di elementi che uniti significano (e che dunque vanno letti e interpretati), una Lingua madre di un paese ormai remoto, / cancellato dagli atlanti della storia, / verde casa dell’infanzia […], che per essere decifrata deve essere percorsa e tradotta (fare poesia, pertanto, è camminare tra i segni della natura, pre-sentire, cioè disciplinarsi all’ascolto, all’osservazione attenta, alla costruzione dei nessi di una vera e propria sintassi): così la ghiandaia che occhieggia tra i rami è sospesa come una parola scritta, le cime lontane in un giorno sereno sono come parole che sulla pagina ristanno / inaccessibili, e il ghiaccio delle cime è un “foglio bianco”, così, ancora, il castagneto è una comunità di parole, “che tutto possono compiere”:
Ora qui ci incontriamo. / Tra le parole, come in un bosco / dove i faggi salgono diritti / e le radure s’aprono cieche / e l’incuria ha cancellato le carraie / che dalle ultime case del paese / vengono su. / […] Immersa nel folto, questa pagina / sia il luogo convenuto / per il nostro appuntamento.
La condizione di poeta è perciò una condizione privilegiata: è il poeta il solo che può instaurare un rapporto confidenziale con la natura:
Erano i giorni in cui cambia l’autunno. / Durante un’escursione solitaria / ecco la risposta: “sarai tu / il mio confidente”. // Restai a vagare a lungo / sotto gli sguardi accigliati / di certi abeti bianchi, / finché un cenno di rami poi non venne / a indicarmi da dove discendere
È il poeta l’unico in grado di pre-sentire, cioè possedere quelle “virtù premonitrici”, quella sensibilità più spiccata, più vibrante, che gli consentono di esercitare un ruolo quasi sacrale, religioso, vedere, prima degli altri, con occhi diversi i segni della natura, disporli secondo una logica grammaticale e dare loro un significato, dunque interpretarli, capirne il senso.
Senza questa capacità e senza la volontà di farne uso, la natura rimarrebbe un insieme disorganico di fenomeni, una lingua morta; è il poeta a liberarla dallo stato di “idea”, secondo una visione che sembra discendere direttamente da Schopenhauer, e a individuare ciò che essa rappresenta: in questo modo il poeta è anche l’unico in grado di ricostruire quella catena di vincoli per ripristinare l’appartenenza e l’identità perdute.
La poesia, però, richiede un’abilità manuale, la capacità di disporre le parole, di indirizzarne il senso, di scoprirne i suoni e la musica, di allacciarle alle tradizioni. Nel castagneto, a differenza del Piccolo canzoniere selvatico, è un esercizio sull’endecasillabo, sulle sue virtù musicali; è, ancora, una sperimentazione delle infinite possibilità delle simmetrie, secondo una strategia che le adopera utilizzando una varietà di soluzioni. L’endecasillabo di Cavalli, specie strutturato in versi sciolti, il metro più frequentemente utilizzato in questa raccolta, è sinuoso, raramente franto da poche opportune cesure, modulato su una accentazione perlopiù canonica (sulla quarta o sulla sesta sede), e su un uso estremamente parco della rima (frequente, però, la rima al mezzo e talvolta le assonanze e le consonanze), variamente alternato a versi più brevi, soprattutto il novenario o il settenario: ecco allora presentarsi alcune forme della tradizione ‑funzionali al dialogo che il poeta vuole riaprire con il proprio albero genealogico, non solo pertanto quello famigliare, ma anche quello poetico ‑, a volte anche soltanto riecheggiate: la canzone, ad esempio, (che in certi casi sembra potersi sciogliere nel poemetto narrativo, come nel testo eponimo Nel castagneto), ma anche il madrigale e, almeno in un caso, la filastrocca di origine popolare (si veda Il sentiero risale il fianco lento, con quel particolare ricorso alla rima baciata).
I testi, poi, sono un reticolo di simmetrie e ripetizioni, ottenute attraverso l’insistenza su alcune figure come l’allitterazione, in pochi ma significativi casi la paronomasia, la ripresa di termini o sintagmi da una strofa all’altra (una specie di coblas capfinidas volutamente imperfette) e soprattutto, massicciamente, la similitudine (come, ad esempio, proprio Nel castagneto, dove le stanze del testo sono costruite in due sezioni ‑un’ombra, forse, di fronte e sirma ‑anticipate dalle due chiavi della similitudine, appunto: “come”/“così”).

Antonio Ligabue (1899 1965) Ritorno ai campi con castello, 1950-1955, olio su faesite
Il risultato, anche alla luce di un lessico e di una sintassi sfrondate dalle ipoteche sia di oscurità ed espressionismi d’accatto, sia dal vizio della retorica:
Allora noi cercheremo un poeta, / uno che non ammali le parole, / uno che non le affami d’aria vuota, / che non rida a vederle zoppicare / come una bestia ferita, una ruota / piegata (Da una lettera di Karl Heinrich a Georg Trakl)
è un delicato ma acuto impressionismo, una poesia visiva, descrittiva non immemore di alcune eredità fondative del verso novecentesco, primo tra tutti Pascoli. Oppure, seppure in misura minore, Jahier (quello di Ragazzo, in particolare nei versi dedicati al mistero del suicidio del genitore, come in A colloquio con il padre, dove si può leggere un distico come questo: Non è per solitudine che si uccide / ma per un senso di giustizia). Ma più d’ogni altra cosa è riconoscibile il fitto reticolo di elementi riconducibili al luogo di origine (non a caso si parlava, prima, di tradizioni e non di tradizione): il patrimonio popolare delle fiabe, dei culti pagani e pre-cristiani, la Bibbia rimasticata dai vecchi, il côté lessicale e narrativo della montagna (per certi aspetti non dissimile da quello sintetizzato nella poetica di Rigoni Stern), il Bertolucci alpestre di Casarola (alcuni versi, come già nel Piccolo canzoniere selvatico, sembrano rubati al poeta di Viaggio d’inverno), il Bacchini poeta scienziato, il lirico delle pietre fossili (O l’eco dell’abisso, custodita / nell’incavo della conchiglia fossile […]) a cui ci pare Cavalli faccia esplicito riferimento invocando “la Musa selvatica, antico sgomento”, lo Zucchi di Tra le cose che aspettano (seppure con minore partecipazione, limitatamente alla presenza totemica e metaforica dei lupi). E soprattutto la prosa del narratore antropologo parmigiano Mario Ferraguti (penso soprattutto a due sue opere, Dove il vento si ferma a mangiare le pere, Diabasis 2010) e a Ti segno e ti incanto del 2012): con Ferraguti, Cavalli condivide la sensibile osservazione delle comunità dell’Appennino, quella umana – dei vecchi, dei racconti, delle fole, della mitologia della montagna, delle “antiche vergini silvane” “coronate di bacche selvatiche”, e dei loro riti magici – e quella naturale, la presenza discreta degli animali, dei vegetali, le loro tracce, la loro lingua, il messaggio che essi comunicano; con Ferraguti, infine, Cavalli condivide anche la stessa età, così che forse si può pensare a un carattere generazionale al quale i due scrittori stanno dando voce: la polverizzazione delle identità e delle appartenenze (sociali, culturali, politiche, religiose, famigliari) e il tentativo, da parte di chi ne avverte la mancanza, di un difficile restauro, una costruzione ex post, una vera e propria ricerca dell’identità perduta, un bisogno di appartenere:
Oggi che vivo in questo tempo incolto, / cammino insieme a tanti senza parte. / I vecchi sono morti e queste cose / le scrivo senza dover incontrare / il loro sguardo. (La discendenza)

Antonio Ligabue Autoritratto
Da: Guido Cavalli, Nel castagneto (2015)
I lupi tornano sull’Appennino settentrionale.
Piccoli branchi compaiono all’orlo
dei boschi. Scendono lenti tra i campi,
fiutano l’aria dei paesi vuoti.
Sentono che non c’è più odore d’uomini
e allora vengono senza paura.
Girano intorno alle fontane asciutte.
All’aperto dei sagrati si coricano
e immobili nell’ora della sera
somigliano a grigie statue romaniche.
Un uscio vecchio sbatte per due volte.
Un cesto vuoto rotola nell’orto.
Un secchio gocciola sotto la fonte.
Intanto noi dove siamo? Perché
abbiamo preso la sembianza d’ombre
impigliate ai vetri delle finestre,
d’orme nei letti di polvere e cenere?
*
In mezzo all’erba incolta del pometo
frutti maturi che la troppa attesa
ha reso ormai amari. Qui a marcire
ristanno e bruni scioglieranno in terra.
Dalla casa di pietra abbandonata
non viene più nessuno a raccogliere
le mele e sotto il castagno spezzato
il padre e il figlio non siedono più.
Solo un rumore di pioggia echeggia
nell’aria azzurra. Nemmeno le anime
sono rimaste di chi è vissuto qui.
«Sempre recente nasce la natura,
mentre il nostro segno è già trapassato.
Ma se curiosità avessi di cosa
andavamo l’un l’altro conversando
seduti sotto il castagno spezzato,
dimmi, a chi mai potrei domandare?»
Con la notte viene il primo gelo.
Spaccherà la lucida corteccia
del melo, giù fino alla radice.
*
La sera in cima ai borghi di montagna
quando rabbuia, odore di legna
e l’aria si fa scura e sulla pietra
che un tempo stava in fondo al mare appare
dolce il colore del lillà. Intorno
tutto è fermato e sembra presagire
un ritorno a quell’epoca archeana:
già inabissano i vecchi cippi, sparsi
lungo i bordi dei campi incoltivati.
Poi in fondo alla notte della terra
si trasmuteranno in nuovi elementi,
parole rifulgenti come il sale.
*
Piove nel bosco. Rabbuia il cielo.
Tra i rami corre il lamento d’un vento
straniero. Forse è l’autunno che viene?
In alto le foglie bagnate specchiano
ancora l’ultima luce del giorno.
Forse qui intorno o già in fondo al sentiero
presto risuonerà un passo lieve.
*
Oltre l’ultima svolta del sentiero
finalmente appare ciò che precede
ogni attesa – io salivo distratto
per il bosco luminoso di maggio,
e c’era odore di foglie bagnate
e umidore di terre feconde.

Antonio Ligabue Falcone bianco
Piccole colonie di betulle bianche
sparse in alto lassù
lungo le dorsali dell’Appennino.
Giovani comunità cresciute
tra le valli mentre intorno
svettano faggeti e abetaie.
Le incontro appena dietro una falsa cima
e m’accorgo d’esserci dentro solo quando
la luce è familiare,
le foglie basse trattengono l’aria
e l’eco di certe confidenze
che avevo dimenticato tornano
alla mente suggerite dai rami.
Fuori, nel bosco dei sempreverdi,
l’occhio resinoso delle cortecce
osserva severo il viandante
seduto a riposare un momento
sotto le betulle bianche.
*
Si mostra di nascosto la natura
e ciò che resta più in alto.
Anche addomesticata la sua forza
e dedotta dal caso la sua grazia,
nella sua voce è un dire ch’è parola –
la incontri nel folto del bosco
se lasci alle spalle
la favola del mondo.
«Perché non sediamo tra i faggi
e gli abeti, io e te l’un l’altro accanto?»
*
Riprendo in mano il libro del filosofo,
il suo colloquio con le parole
camminando per sentieri di montagna.
La pagina si apre e lo sguardo
si alza verso il vero e verso il paesaggio
dov’è ancora visibile la lotta
tra ciò che rimane e ciò che rovina.
«Ma la parola è custode. Ascolta
e ti indica dove guardare».
Finalmente la pioggia viene
sulla terra, sulle foglie e dove
l’autunno distenderà a marcire.
Rincasando in fretta chiudo il libro.
Spegne l’eco del dire e presto la cenere
del detto. Per oggi è conclusa
la scuola del presentire.
*
Così vado attraverso la natura:
senza toccarla, senza trattenerla
seguo il sentiero che porta più in l’alto,
risoluto alla ripida salita
salgo fino alle cime, all’abbandono
del riparo, all’esporsi dell’aperto.
*
Ora qui ci rincontriamo.
Tra le parole, come in un bosco
dove i faggi salgono diritti
e le radure s’aprono cieche
e l’incuria ha cancellato le carraie
che dalle ultime case del paese
vengono su.
«Scrivi, Grisha. Credi alle parole,
che tutto possano compiere, tutto
accada nel loro presente».
Immersa nel folto, questa pagina
sia il luogo convenuto
per il nostro appuntamento.
*
In quella casa accanto alla fontana
passammo insieme un’estate tranquilla.
Le bimbe raccoglievano nei prati
certi rari fiori d’arnica bianca.
Nelle ore più calde scendevamo
nel greto calcinato del torrente.
Oppure in mezzo ai boschi di nocciole
cercavamo ramaglia da intagliare.
Quando veniva la sera, sul colle,
quel paese stretto al suo campanile
bruniva al ridiscendere del sole
oltre il profilo acuto del crinale.
La notte, al sonno poi ci accompagnava
il discorrere prossimo dell’acqua.
Una luna silenziosa svoltava
tra costellazioni ferme e serene.
*
In alto scuotono le foglie secche.
Domani, l’ultimo colpo di vento,
e poseranno altrove,
cose tra le cose.
Intorno, quasi addormentate, battono
parole minerali, antichi salmi
e anche noi ce ne andiamo per la via
mentre già risuonano canti
di radi profeti.
io ero il mio sosia,
sempre insieme per ogni avventura
avevamo provato ad essere una piazza,
una folla variopinta o dei pesci rossi
ma ci è solo riuscito di diventare
la curiosità che nuota dentro la boccia.
.
Giorgio Linguaglossa